Giurisprudenza Amministrativa

La Consulta torna a pronunciarsi in materia di aiuto al suicidio: non è costituzionalmente illegittimo subordinare la punibilità ex art. 580 c.p. all’assenza della necessità, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale.
Di Davide Cerrato
Nota a sentenza Corte cost., 20 maggio 2025, n. 66
La Consulta torna a pronunciarsi in materia di aiuto al suicidio: non è costituzionalmente illegittimo subordinare la punibilità ex art. 580 c.p. all’assenza della necessità, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale.
Di Davide Cerrato
Abstract
Il contributo ha ad oggetto una recentissima statuizione della Corte costituzionale – datata 20 maggio 2025 – intervenuta in materia di suicidio assistito nel caso Elena e Romano.
Il Giudice delle leggi ha ritenuto non costituzionalmente illegittima la subordinazione della punibilità ex art. 580 c.p. all’assenza della necessità, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale, riprendendo molte delle considerazioni già svolte nella sentenza n. 135/2024 e rivolgendo nuovamente un monito al legislatore e al Servizio sanitario nazionale ai fini dell’attuazione dei principi contenuti nella sentenza n. 242/2019.
The contribution concerns a very recent ruling of the Constitutional Court – dated 20 May 2025 – which intervened on assisted suicide in the Elena and Romano case. The Court stated that the subordination of punishability pursuant to art. 580 of the Criminal Code to the absence of the need, according to medical evaluation, for life-sustaining treatment does not conflict with the Constitutional principles, reiterating many of the considerations already made in sentence no. 135/2024 and once again issuing a warning to the legislator and the National Health Service for the purposes of implementing the principles contained in sentence no. 242/2019.
Art. 2 Cost. – art. 3 Cost. – art. 13 Cost. – art. 32 Cost. – art. 580 c.p. – aiuto al suicidio
Massima[1]
Non può ritenersi sussistente alcuna disparità di disciplina – e dunque non può ritenersi violato l’art. 3 Cost. – tra paziente che abbia accesso alle pratiche di suicidio medicalmente assistito, essendo già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, e paziente che tali trattamenti abbia rifiutato nonostante un’indicazione medica in tal senso, ritenendoli futili o espressivi di accanimento terapeutico. Anche nella seconda ipotesi il paziente ben può rifiutare il trattamento clinicamente indicato come necessario per l’espletamento delle sue funzioni vitali, trovandosi comunque nella condizione di avere accesso al suicidio assistito. Laddove invece il paziente decida di rifiutare trattamenti non vitali, non è irragionevole la diversità di disciplina rispetto ai pazienti che hanno accesso alle pratiche di suicidio assistito. In assenza di un trattamento di sostegno vitale in atto o di un’indicazione medica di necessità di attivazione di un simile trattamento, il paziente non si trova ancora infatti nella condizione di poter porre fine alla propria esistenza sulla base della legge n. 219/2017, rifiutando la prosecuzione o l’attivazione di un tale trattamento. Non sussiste neppure una lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, non essendo necessario, ai fini dell’accesso al suicidio assistito, che il paziente inizi il trattamento di sostegno vitale giudicato clinicamente necessario per poi richiederne l’interruzione. In assenza di un’apposita indicazione medica, va riconosciuto al legislatore un certo margine di discrezionalità per quanto attiene alla possibilità di consentire l’accesso alle pratiche di suicidio medicalmente assistito anche a pazienti che, pur non dipendendo da trattamenti di sostegno vitale, siano in ogni caso affetti da patologie irreversibili cagionanti sofferenze intollerabili e capaci di assumere decisioni libere e responsabili. Si rivela in ogni caso opportuno un ragionevole bilanciamento tra dovere di tutela dell’umana esistenza e autonomia del paziente nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo – quest’ultima espressiva del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona – con l’apprestamento di necessarie garanzie contro rischi di abuso ed abbandono del malato.
Il fatto in sintesi[2]: il rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale futili o espressivi di accanimento terapeutico
La recentissima pronuncia della Consulta all’esame è intervenuta rispetto al caso concernente l’imputazione mossa ancora a carico di Marco Cappato ex art. 580 c.p. per aver accompagnato in Svizzera nel 2022 Elena Altamira e Romano Noli, affetti rispettivamente da microcitoma polmonare e parkinsonismo atipico. Essi scelsero di ricorrere all’extrema ratio del suicidio nel pieno delle loro facoltà intellettive.
In particolar modo il microcitoma polmonare diagnosticato ad Elena Altamira nel mese di giugno 2021 progrediva – nonostante l’assunzione di farmaci immunoterapici – mediante nuove formazioni nell’area addominale e l’estensione di quelle precedenti a carico del polmone, cagionando alla donna significative complicanze respiratorie e renali che avevano condotto i sanitari alla prospettazione dell’introduzione di supporti vitali specifici.
Il 1 giugno 2022 la donna rifiutava un ulteriore ciclo chemioterapico, ravvisatane l’inutilità terapeutica, e il mese successivo presentava delle DAT con le quali espressamente rifiutava i trattamenti salvavita, mentre già nel mese di febbraio dello stesso anno aveva individuato la struttura svizzera «Pegasos», prendendo accordi con essa e corrispondendole la somma di 10.000 euro.
Marco Cappato, offertale disponibilità, la accompagnava in auto presso tale struttura, dove il decesso avveniva a seguito di autosomministrazione di un farmaco letale.
Il parkinsonismo atipico di Romano Noli invece determinava la veloce e progressiva perdita dell’autonomia in tutte le attività quotidiane, senza peraltro incidere sulla capacità cognitiva.
Dal mese di aprile del 2021, a seguito della frattura del femore destro dovuta ad una caduta accidentale, l’uomo non camminava più e, nello stesso periodo, la gravità della disfagia gli impediva l’assunzione di liquidi.
Il neurologo indicava la necessità della nutrizione mediante gastrostomia percutanea endoscopica, ma questo trattamento veniva rifiutato da Romano Noli nonché rinviato grazie alla sostituzione dei liquidi con l’acquagel e alla somministrazione, da parte della moglie, di alimenti omogenizzati.
Visto il fatto che dalla documentazione clinica relativa al periodo ottobre-novembre 2022 risultavano disfagia, incontinenza urinaria e fecale, totale dipendenza nelle attività quotidiane, dolori da allettamento, ulcere cutanee e frequente necessità di trattazione di secrezioni bronchiali, l’uomo aveva consapevolmente manifestato l’intenzione di porre fine alla sua esistenza nella primavera dello stesso anno, richiedendo esplicitamente alla moglie di contattare l’associazione Luca Coscioni per poter incontrare Marco Cappato.
Quest’ultimo accompagnava così Romano Noli alla struttura svizzera «Dignitas», dove ugualmente il decesso avveniva per auto assunzione di un farmaco letale.
La relativa vicenda giudiziaria condivide con quella concernente il noto caso Salas l’insussistenza della condizione della dipendenza dei due pazienti da trattamenti di sostegno vitale.
La Procura della Repubblica di Milano richiedeva però in tal caso l’archiviazione o, in subordine, di sollevare questione di legittimità costituzionale, ritenendo che la condotta di Marco Cappato rientrasse nell’area di esclusione della punibilità dell’art. 580 c.p. così come interpretato dalla più recente giurisprudenza costituzionale, dovendosi ricomprendere così nell’ambito applicativo della norma penale incriminatrice anche le ipotesi in cui, come quella all’esame, il paziente non sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale in quanto lui stesso li avrebbe rifiutati per la loro futilità o inutilità perché espressivi di accanimento terapeutico secondo la scienza medica, non dignitosi secondo la percezione del malato e forieri di ulteriori sofferenze per coloro che lo accudiscono.
La lettura della Procura della Repubblica di Milano[3] non veniva peraltro condivisa dal G.I.P., il quale evidenziava la differenza sussistente tra rifiuto di un trattamento di sostegno vitale in atto del quale si richieda l’interruzione e rifiuto di un trattamento sanitario futile o espressivo di accanimento terapeutico mai iniziato. Con ordinanza di rimessione del 21 giugno 2024 veniva sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. all’incirca negli stessi termini in cui veniva prospettata nel mese di gennaio 2024 dal G.I.P. di Firenze[4]. Il G.I.P. del Tribunale ordinario di Milano lamentava il fatto che l’area di non punibilità individuata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242/2019 non fosse stata estesa alla situazione in cui il paziente avesse rifiutato l’attivazione di un trattamento di sostegno vitale – pur in presenza di un’indicazione medica in tal senso – in quanto da lui ritenuto “futile” o “espressivo di accanimento terapeutico”, ritenendo così l’art. 580 c.p. contrastante con gli artt. 2,3, 13 e 32, secondo comma, Cost. nonché con l’art. 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU. Il 26 marzo 2025 si è tenuta l’udienza pubblica nella quale la Consulta è stata chiamata a discutere la questione di legittimità costituzionale, e per la verità il giudice Francesco Viganò ha precisato, nel corso della stessa, che la sentenza n. 135/2024 della Corte costituzionale rappresenta statuizione della quale non può che tenersi conto anche con riferimento al caso Elena e Romano, facendo già verosimilmente presumere in che senso potesse orientarsi il pronunciamento del Giudice delle leggi[5].
La Decisione: verso una tutela preventiva del bene “vita”
Con sentenza n. 66/2025 depositata il 20 maggio la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con ordinanza dal G.I.P. del Tribunale ordinario di Milano, riconfermando sostanzialmente quanto da essa statuito nella sentenza n. 135/2024. L’allora rimettente sosteneva che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale condizionasse “in modo perverso” l’esercizio del diritto all’autodeterminazione del paziente, inducendolo a sottoporsi anche a trattamenti fortemente invasivi al solo scopo di creare le effettive condizioni per l’accesso alle pratiche di suicidio medicalmente assistito. La Consulta ha così evidenziato come già allora fosse giunta a sostenere che il diritto all’autodeterminazione ex artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost. comprenda non semplicemente il diritto all’interruzione di trattamenti sanitari in corso, benchè necessari alla sopravvivenza, ma pure quello al rifiuto ab origine dell’attivazione degli stessi. Sia nel caso in cui il paziente sia già sottoposto a trattamenti sanitari (che può interrompere), sia nel caso in cui, in base a valutazione medica, necessiti dell’attivazione di simili trattamenti per sopravvivere (trattamenti che può rifiutare), la Costituzione riconosce al malato il diritto di scegliere di congedarsi dall’esistenza con effetti vincolanti nei confronti dei terzi. I principi sanciti nella sentenza n. 242/2019 valgono per entrambe le ipotesi e vanno riconfermati. Conseguentemente, nella misura in cui sussista un’indicazione medica di necessità di attivazione di un trattamento di sostegno vitale, il paziente può rifiutarlo ed accedere alle pratiche di suicidio medicalmente assistito laddove sussistano tutti gli altri requisiti sostanziali e procedurali indicati dalla stessa sentenza n. 242/2019[6].Come poi opportunamente precisato nella sentenza n. 135/2024 – il Giudice delle leggi richiama l’ottavo punto di diritto della pronuncia – rientra nella nozione di trattamento di sostegno vitale ogni trattamento sanitario praticato sul corpo del paziente indipendentemente dal suo grado di invasività e complessità tecnica. Sono così incluse nella nozione in questione tutte quelle procedure “normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o <<caregivers>> che si facciano carico dell’assistenza del paziente”[7], e che “si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”[8]. Queste procedure “possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto. In tal caso, il paziente si trova nella situazione contemplata dalla sentenza n. 242 del 2019, risultando pertanto irragionevole che il divieto penalmente sanzionato di assistenza al suicidio nei suoi confronti possa continuare ad operare”[9].
Non è da ritenersi così sussistente la lamentata disparità di disciplina – e dunque la violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. – tra paziente che abbia accesso alle pratiche di suicidio medicalmente assistito, essendo già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, e paziente che tali trattamenti abbia rifiutato nonostante un’indicazione medica in tal senso, ritenendoli futili o espressivi di accanimento terapeutico. Ciò in quanto “anche nella seconda situazione il paziente ben può rifiutare il trattamento indicato quale clinicamente necessario per l’espletamento delle sue funzioni vitali, trovandosi così anch’egli nella condizione di avere accesso al suicidio assistito”[10]. Laddove invece il paziente decida di rifiutare trattamenti non vitali, non è irragionevole la diversità di disciplina rispetto ai pazienti che hanno accesso alle pratiche di suicidio assistito. In assenza di un trattamento di sostegno vitale in atto o di un’indicazione medica di necessità di attivazione di un simile trattamento, il paziente non si trova ancora infatti nella condizione di poter porre fine alla propria esistenza sulla base della legge n. 219/2017, rifiutando la prosecuzione o l’attivazione di un tale trattamento. La Consulta ritiene insussistente anche la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, non essendo necessario, ai fini dell’accesso al suicidio medicalmente assistito, che il paziente inizi il trattamento di sostegno vitale giudicato clinicamente necessario per poi richiederne l’interruzione.
Certo è che, in assenza di un’apposita indicazione medica, va comunque riconosciuto al legislatore un certo margine di discrezionalità per quanto attiene alla possibilità di consentire l’accesso alle pratiche di suicidio assistito anche a pazienti che, pur non dipendendo da trattamenti di sostegno vitale, siano in ogni caso affetti da patologie irreversibili cagionanti sofferenze intollerabili e pur sempre capaci di assumere decisioni libere e responsabili. Si rivela in ogni caso opportuno un ragionevole bilanciamento – ex art. 3 Cost. – tra dovere di tutela dell’umana esistenza e autonomia del paziente nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo – quest’ultima espressiva del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona – con l’apprestamento di necessarie garanzie contro rischi di abuso ed abbandono del malato. La Corte ha poi precisato che, in assenza di una normativa in materia, i requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio da essa elaborate sono funzionali alla creazione di una “cintura di protezione” finalizzata a scongiurare il pericolo che coloro che decidano di attuare il gesto estremo subiscano interferenze di ogni genere. Se l’autodeterminazione è costretta o condizionata dalle circostanze, allora non è più tale, e per poterla tutelare si rivela necessario un bilanciamento della stessa con il bene giuridico “vita”, collocato al vertice della scala gerarchica dei beni costituzionalmente meritevoli di protezione.
In particolar modo, a dover essere bilanciato con l’autodeterminazione è il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, che rappresenta la nuova ratio ispiratrice della tutela apprestata dall’art. 580 c.p.[11] nonché vero e proprio dovere ricavabile dal principio personalista ex art. 2 Cost. In tale prospettiva, la giurisprudenza costituzionale ha sviluppato su un duplice livello le condizioni per l’accesso al suicidio medicalmente assistito. Il primo livello attiene alla necessità di prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone più deboli e vulnerabili, le quali potrebbero essere indotte a porre fine alla propria vita da parte di soggetti terzi proprio in ragione della loro più accentuata fragilità. In presenza di patologie neurodegenerative, ad esempio, la scelta del paziente potrebbe non essere sufficientemente meditata. Proprio le esigenze di tutela dei soggetti maggiormente vulnerabili danno rilievo alle condizioni procedurali per l’accesso alle pratiche di suicidio assistito. La procedura medicalizzata di cui all’art. 1 della legge n. 219/2017 fa sì che l’accesso al suicidio assistito avvenga nell’ambito di una seria ed attenta assistenza medica volta ad inquadrare adeguatamente la patologia che affligge il paziente. Significativa è allora la concreta messa a disposizione di terapie palliative (prima condizione procedurale), che può garantire il diritto dei pazienti a ricevere informazioni complete sul loro percorso di cura e di confrontarsi con la malattia in maniera dignitosa e libera da sofferenze. Rilevanti poi il necessario coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale (seconda condizione procedurale), a garanzia di un disinteressato accertamento della sussistenza dei requisiti di liceità dell’accesso al suicidio assistito, e il necessario parere del comitato etico territorialmente competente (terza condizione procedurale), funzionale all’ottenimento di un parere terzo in relazione alla domanda di accesso alle pratiche in discorso. Il secondo livello attiene invece all’esigenza di “contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso”[12]. In effetti, una legislazione troppo permissiva potrebbe generare una “ <<pressione sociale indiretta>> su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte”[13] – che è anche quanto osservato dalla Corte suprema del Regno Unito. Ciò determinerebbe indubbiamente un abbassamento del livello della sensibilità morale collettiva, con conseguente insensibilità nei confronti delle persone più fragili. Un esito, questo, assolutamente in contrasto con il principio personalista, da cui deriva invece il dovere della Repubblica di rispondere all’appello sgorgante dalla fragilità, di modo che una persona malata possa percepire intorno a sé solidarietà in via continuativa mediante un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale. Per la Consulta “diventa quindi cruciale garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte. È inoltre rilevante mettere a disposizione delle persone con malattie inguaribili tutti gli strumenti tecnologici e informatici che permettono loro di superare l’isolamento e ampliare la possibilità di comunicazione e interazione con gli altri. Al tempo stesso non può essere trascurato il <<prendersi cura>> anche di coloro che, nelle famiglie o all’interno delle relazioni affettive, assistono i pazienti in situazioni particolarmente difficili e per lunghi periodi”[14]. Il Giudice delle leggi evidenzia peraltro che in Italia, ad oggi, non solo non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri, ma spesso vi sono anche lunghe liste d’attesa, si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata (lo ha constatato il Comitato nazionale per la bioetica nel parere “Cure Palliative”, approvato il 14 dicembre 2023), e la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è talvolta insufficiente. In ragione di ciò, la Corte costituzionale non ha potuto far altro che “rinnovare, con decisione, lo <<stringente appello>> al legislatore […] affinchè dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito”[15]. Viene poi ribadito l’auspicio che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale intervengano prontamente a dare attuazione a quanto statuito nella sentenza n. 242/2019, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze ancora una volta richiamate nella sentenza n. 66/2025. Si sarebbe portati a ritenere che “nihil sub sole novum” – ciò che effettivamente in parte è – ma in ogni caso di particolare interesse risulta la sottolineatura del nesso intercorrente tra principio personalista ex art. 2 Cost. e dovere dello Stato italiano di farsi carico della fragilità. L’adempimento del dovere di solidarietà sociale deve proprio sostanziarsi nel concreto investimento di risorse pubbliche in forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, in quanto trascurare un approccio di tipo preventivo significa non tutelare adeguatamente ed efficacemente un bene giuridico, qual è quello della vita umana, gerarchicamente superiore ad ogni altro. Laddove un soggetto vulnerabile, in assenza di forme assistenziali adeguate, iniziasse (erroneamente) a percepirsi come un peso per coloro che lo circondano, il proposito suicida potrebbe farsi più forte ed essere facilmente rafforzato dall’influenza di soggetti terzi, i quali con la loro condotta determinerebbero la distruzione di una vita che invece poteva, in via preventiva, essere salvata. Le riflessioni operate dal Giudice delle leggi con riferimento alla fattispecie di istigazione o aiuto al suicidio ex art. 580 c.p. sono in qualche maniera spendibili, ad avviso di chi scrive – seppur con la necessità di qualche adattamento in quanto, pur trattandosi della tutela del medesimo bene giuridico, si è in ogni caso in presenza di fattispecie dai presupposti differenti – all’omicidio doloso ex art. 575 c.p. In ragione del crescente allarme sociale rappresentato dai femminicidi, più che far leva sul solo strumento penalistico e, segnatamente con riferimento a quest’ultimo, sull’inasprimento del regime sanzionatorio o sull’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, sarebbe più opportuno ricorrere a forme di tutela preventiva extra-penalistiche del bene “vita” rappresentate dalla sensibilizzazione culturale e da una più forte educazione genitoriale e sessuale. In un contesto sociale che è stato significativamente provato, in tempi recenti, dall’assenza di contatti imposta dall’emergenza pandemica – i cui effetti negativi sembrano ancora avere una qualche incidenza sulla psiche di determinate categorie di soggetti – particolarmente utile sia in tema di prevenzione avverso condotte omicidiarie che di suicidio assistito – in quest’ultimo caso quantomeno rispetto a soggetti particolarmente fragili o anziani – può essere la maggiore incentivazione del supporto psicologico e dei relativi percorsi di terapia. Così come l’ascolto continuo del soggetto che manifesti un qualche segno di squilibrio emotivo può far sì che non si giunga neppure alla commissione di atti idonei e diretti in modo inequivoco a cagionare la morte di un uomo – i quali integrerebbero certamente un tentativo di omicidio doloso reprimibile in sede penale ex artt. 59, primo comma e 575 c.p. – alla stessa maniera l’attenzione psicologica verso categorie vulnerabili di individui può consentire loro di non avvertirsi come un peso e di non coltivare l’idea di poter ricorrere a pratiche con le quali porre fine alla loro esistenza. L’idea che sembra più corretto veicolare è quella, pure sostenuta da autorevole dottrina con riferimento alla diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti ex art. 612-ter c.p., per cui il diritto penale, pur dovendo fare la sua parte, “non può essere ritenuto la panacea; in particolare, gli strumenti penalistici ben poco possono rispetto alla fagocitante desertificazione culturale”[16]. In presenza di beni di significativo rilievo come quello della vita umana, di maggiore efficacia risulta una tutela multifattoriale e multisettoriale che non si arresti al solo strumento penalistico, dovendosi pur sempre rammentare che la sanzione penale è rimedio operante sempre e comunque in via di extrema ratio ed ex post nonché produttivo di un’efficacia general-preventiva che va coadiuvata anche da un armamentario extra-penalistico di tipo preventivo.
BIBLIOGRAFIA
CERRATO D., 23 aprile 2025, “La complessa configurazione di un <<diritto a morire>> nel panorama giuridico italiano. Dalle soluzioni del caso Pretty contro Regno Unito del 2002 sino alla legge della Regione Toscana 14 marzo 2025, n. 16 in materia di assistenza al suicidio”, in www.ildirittoamministrativo.it,
LO MONTE E., “L’art. 612-ter c.p. Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, Giappichelli Editore, Torino, 2021
MACIOCCHI P., 27 marzo 2025, “Attesa per la decisione della Consulta sul fine vita. Da stabilire la punibilità dell’aiuto al suicidio assistito in assenza di sostegni vitali. Per il relatore Viganò non si può ignorare la sentenza 135/2024 della Corte costituzionale”, in www.ilsole24ore.com, https://www.ilsole24ore.com/art/attesa-la-decisione-consulta-fine-vita-AG6P50kD
Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242
Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135Corte cost., 20 maggio 2025, n. 66
[1] La massima è il frutto della personale rielaborazione dell’autore.
[2] Si argomenta qui non soltanto da Corte cost., 20 maggio 2025, n. 66, ma pure da CERRATO D., 23 aprile 2025, “La complessa configurazione di un <<diritto a morire>> nel panorama giuridico italiano. Dalle soluzioni del caso Pretty contro Regno Unito del 2002 sino alla legge della Regione Toscana 14 marzo 2025, n. 16 in materia di assistenza al suicidio”, in www.ildirittoamministrativo.it, https://www.ildirittoamministrativo.it/La-complessa-configurazione-di-un-diritto-a-morire-nel-panorama-giuridico-italiano-Dalle-soluzioni-del-caso-Pretty-contro-Regno-Unito-2002-sino-legge-Regione-Toscana-14-marzo-2025-16-in-materia-di-assistenza-suicidio/ted1103, contributo al quale si rinvia per una disamina più approfondita delle sentenze nn. 242/2019 e 135/2024 della Corte costituzionale, e dunque degli altri casi in cui la Consulta stessa è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.
[3] Richiamata tra l’altro anche dal G.I.P. di Firenze nell’ordinanza del 17 gennaio 2024 e ritenuta non condivisibile.
[4] Per una più attenta disamina delle questioni già sostanzialmente prospettate dal G.I.P. di Firenze, si consenta di rinviare ancora una volta a CERRATO D., 23 aprile 2025, “La complessa configurazione di un <<diritto a morire>> nel panorama giuridico italiano”, cit.
[5] Si consiglia la lettura di MACIOCCHI P., 27 marzo 2025, “Attesa per la decisione della Consulta sul fine vita. Da stabilire la punibilità dell’aiuto al suicidio assistito in assenza di sostegni vitali. Per il relatore Viganò non si può ignorare la sentenza 135/2024 della Corte costituzionale”, in www.ilsole24ore.com, https://www.ilsole24ore.com/art/attesa-la-decisione-consulta-fine-vita-AG6P50kD.
[6] Si rammenta in questa sede che con tale pronuncia la Consulta dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non escludeva la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti –, agevolasse l’esecuzione del proposito suicida, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputasse intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
In quella sede fu precisato che tali condizioni e modalità esecutive debbano sempre essere verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Per una disamina più approfondita della statuizione, si consenta di rinviare ancora una volta a CERRATO D., 23 aprile 2025, “La complessa configurazione di un <<diritto a morire>> nel panorama giuridico italiano”, cit.
[7] Cit. testualmente da Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135.
[8] Idem. Gli esempi riportati dal Giudice delle leggi sono rappresentati dall’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, dall’inserimento di cateteri urinari e dall’aspirazione del muco dalle vie bronchiali
[9] Idem.
[10] Cit. testualmente da Corte cost., 20 maggio 2025, n. 66.
[11] La ratio originaria dell’art. 580 c.p. era invece, come precisato dalla stessa Corte costituzionale, quella di tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile. Ne derivava la configurazione di un vero e proprio “dovere di vivere”.
[12] Cit. testualmente da Corte cost., 20 maggio 2025, n. 66.
[13] Cit. testualmente da Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135. La citazione viene richiamata nella sentenza n. 66/2025 all’esame.
[14] Cit. testualmente da Corte cost., 20 maggio 2025, n. 66.
[15] Idem.
[16] Cit. testualmente da LO MONTE E., “L’art. 612-ter c.p. Diffusione illecita di immagini o video
sessualmente espliciti”, Giappichelli Editore, Torino, 2021, pag. 23.