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Anno XVII - n. 05 - Maggio 2025

  Giurisprudenza Amministrativa



Il Consiglio di Stato torna nuovamente sul profilo definitorio della condotta mobbizzante nel pubblico impiego e sui presupposti della stessa costituenti oggetto di prova e accertamento in sede giudiziale.

Di Davide Cerrato
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Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. II, 17 marzo 2025, n. 2159

Il Consiglio di Stato torna nuovamente sul profilo definitorio della condotta mobbizzante nel pubblico impiego e sui presupposti della stessa costituenti oggetto di prova e accertamento in sede giudiziale.

Di Davide Cerrato

 

 

Abstract
Il presente contributo ha ad oggetto una recentissima statuizione del Consiglio di Stato, datata 17 marzo 2025, nella quale i giudici di Palazzo Spada cristallizzano quella giurisprudenza amministrativa precedente formatasi in materia di mobbing nel pubblico impiego, soffermandosi nuovamente sul profilo definitorio della condotta mobbizzante e sui presupposti che devono costituire oggetto di prova ed accertamento in sede giudiziale. La pronuncia all’esame rappresenta anche l’occasione per mettere nuovamente in evidenza, mediante il recupero della più recente giurisprudenza civile di legittimità, le ipotesi in cui si abbia o meno duplicazione risarcitoria e in cui si possa addivenire ad un incremento del risarcimento standard del danno non patrimoniale.

 

This contribution deals with a very recent ruling of the Council of State, dated March 17, 2025, in which the Palazzo Spada judges crystallize the previous administrative jurisprudence formed in the matter of mobbing in public employment, focusing again on the defining profile of mobbing conduct and on the prerequisites that must be object of proof and verification. The ruling under examination also represents the opportunity to highlight again, through the recovery of the most recent civil legitimacy jurisprudence, the cases in which there may or may not be duplication of compensation and in which an increase in the standard compensation for non-pecuniary damage may be achieved.

 

Danno patrimoniale – danno non patrimoniale – mobbing – intento persecutorio – danno biologico – danno morale – danno esistenziale – tabelle di Milano

 

Massima

“[…] occorre ricordare che il mobbing riguarda «una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica» e per la sua configurazione occorre dunque accertare la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, quali la «molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio»”.

 

Il Fatto

L’appellante iniziava a prestare servizio presso la Guardia di Finanza dal 20 settembre 1991, ma con apposito verbale del 3 giugno 2014 la commessione medica ospedaliera gli diagnosticava una serie di patologie – tra cui bronchite cronica, asbestosi pleurica e opacità del domo pleurico bilaterale – tali da determinare sì l’inidoneità permanente al servizio militare presso la stessa Guardia di Finanza, ma comunque la possibilità (non tenuta in considerazione dall’appellante) di essere reimpiegato nelle corrispondenti aree funzionali del personale civile del Ministero dell’economia e

delle finanze. Il comitato di verifica per le cause di servizio, con verbale del 23 dicembre 2015, escludeva la dipendenza della bronchite cronica da causa di servizio, ascrivendo invece a fatti concernenti il rapporto di lavoro l’asbestosi pleurica. Il parere veniva confermato nel 2016 dallo stesso comitato, il quale riteneva in aggiunta non riconducibile a fatti inerenti il rapporto lavorativo l’opacità del domo pleurico bilaterale di lieve entità. Soltanto nel 2018 quest’ultima statuizione veniva rivista dal comitato, e nello stesso anno con apposito decreto del 12 giugno il Ministero dell’interno equiparava l’appellante a “vittima del dovere”, con concessione di una somma pari a 11350 euro a titolo di speciale elargizione.

Nel 2018 l’appellante presentava ricorso al Tribunale ordinario di Latina in funzione di giudice del lavoro, richiedendo l’accertamento della dipendenza da causa di servizio di tutte le patologie diagnosticategli dalla commissione medica ospedaliera nonché la condanna del Ministero dell’interno e dell’economia e delle finanze al pagamento di un maggiore indennizzo e alle prestazioni previdenziali e assistenziali conseguenti, con i ratei arretrati maturati nel tempo. Il giudice ordinario, all’esito della c.t.u. medico-legale da lui disposta, accoglieva parzialmente il ricorso con sentenza, condannando il Ministero dell’interno alla riliquidazione della speciale elargizione, in riferimento ad un’invalidità complessiva del 50%, e dello speciale assegno vitalizio mensile nelle misure di 1033 e 500 euro.

La decisione veniva poi impugnata tanto con appello principale dal Ministero quanto con appello incidentale dal privato innanzi alla Corte d’Appello di Roma, che peraltro ha respinto le impugnazioni confermando la statuizione di primo grado. L’interessato presentava così ricorso al T.A.R. Lazio al fine di conseguire la condanna del Ministero dell’economia e delle finanze – costituitosi per resistere in giudizio insieme al Comando generale della Guardia di Finanza – al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale connesso alle patologie diagnosticategli e derivanti dall’esposizione a polveri e fibre di amianto in corso di servizio. Con sentenza n. 1995/2022 il T.A.R. Lazio accoglieva parzialmente il ricorso, rifacendosi alla c.t.u. medico-legale già disposta dal Tribunale ordinario di Latina in funzione di giudice del lavoro e riconoscendo all’interessato il diritto al risarcimento del danno biologico, liquidato in una somma pari a 20671 euro (oltre ad interessi e rivalutazione monetaria) con applicazione delle note “tabelle di Milano” e in considerazione della percentuale di invalidità del 10% stimata dal consulente tecnico d’ufficio.
Respingeva poi la domanda volta all’accertamento del danno esistenziale ed escludeva che fosse stata fornita prova dei presupposti del mobbing pure denunciato dal ricorrente.
Nel 2022 la pronuncia del giudice amministrativo di primo grado veniva impugnata tanto dall’interessato con appello principale – essendo stato da lui reputato esiguo il quantum del risarcimento – quanto dal Ministero dell’economia e delle finanze con appello incidentale.
L’appellante principale eccepiva peraltro l’irricevibilità per tardività dell’impugnazione incidentale, contestandone anche l’ammissibilità per via dell’introduzione di questioni nuove, per produrre inoltre in giudizio in un momento successivo la sentenza n. 2621/2024 della Corte d’Appello di Roma che ha rigettato i gravami proposti contro la sentenza di primo grado del Tribunale di Latina.

La Decisione

Il Consiglio di Stato ha anzitutto ritenuto inammissibili e inutilizzabili i documenti depositati dall’appellante il 2 e l’8 gennaio 2025, essendo stata fissata udienza di discussione per l’11 febbraio 2025 ed essendo spirato il 31 dicembre 2024 il termine a ritroso di quaranta giorni liberi per il deposito di documenti ex art. 73, primo comma, c.p.a. e non potendosene neppure ammettere la produzione in via eccezionale in applicazione dell’art. 54, primo comma, c.p.a., non avendo la parte presentato apposita richiesta e non essendo risultata la produzione estremamente difficile.
L’inammissibilità è stata ritenuta sussistente anche con riferimento alle repliche scritte dell’appellante, non essendo stata depositata dal Ministero dell’economia e delle finanze alcuna memoria a cui replicare. Il giudice amministrativo ha poi proceduto a pronunciarsi rispetto all’eccezione di irricevibilità per tardività dell’appello incidentale formulata dall’appellante principale, ritenendola fondata. L’appello incidentale è stato proposto a seguito dello spirare del termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza (avutasi il 18 febbraio 2022) previsto dall’art. 92, terzo comma, c.p.a. (e in ogni caso, anche laddove non si fosse esclusa l’applicazione dell’art. 96, terzo comma, c.p.a., l’appello incidentale sarebbe stato comunque tardivo in quanto notificato oltre sessanta giorni dalla prima notificazione dell’appello principale nei confronti dell’amministrazione, avutasi il 10 marzo 2022) e, pure applicando l’art. 334 c.p.c. in materia di impugnazione tardiva, l’appello incidentale è stato in ogni caso notificato oltre il termine di sessanta giorni dalla data di perfezionamento della notificazione di quello principale (in particolar modo, il gravame incidentale è stato notificato via PEC il 19 settembre 2022). Ne deriva che costituiscono res iudicata i presupposti del risarcimento del danno (lesione alla salute, nesso eziologico con il contesto lavorativo, colpa della P.A. datoriale), che il T.A.R. Lazio ha ricondotto nell’ambito della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., snodandosi così la vicenda processuale d’appello soltanto sul quantum del risarcimento medesimo nei limiti dei tre motivi proposti dall’appellante principale.
Con il primo motivo l’appellante ha sostenuto che il T.A.R. Lazio abbia omesso di pronunciarsi su parte del ricorso e di valutare la documentazione prodotta nel giudizio di prime cure, non tenendo affatto conto del danno esistenziale e morale e del danno da mobbing conseguente ai comportamenti lesivi della P.A. datoriale. Con il secondo motivo l’interessato ha invece ritenuto che il danno biologico non possa essere limitato al 10%, essendo esso non inferiore al 50%, e che a tale danno sia necessario aggiungere anche il pregiudizio derivante da mobbing e dalle altre infermità, compreso il loro aggravamento. Infine, con il terzo motivo l’appellante principale ha sostanzialmente richiesto il risarcimento del danno “integrale”, comprensivo dunque del danno morale, esistenziale e di quello patrimoniale da diminuzione delle capacità lavorative. I giudici di Palazzo Spada hanno esaminato congiuntamente i tre motivi d’appello, ritenendoli infondati e cogliendo l’occasione per tornare ancora una volta sul profilo definitorio della condotta mobbizzante e sui suoi presupposti, i quali debbono costituire oggetto di prova da parte dell’interessato ex art. 2697 c.c. nonché di accertamento in sede giudiziale. Richiamando la propria precedente giurisprudenza del 2022, il Consiglio di Stato ha ribadito che il mobbing viene a sostanziarsi in una “condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica”. Affinchè di condotta mobbizzante possa in concreto discorrersi, è necessario accertare la sussistenza della “molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio”, dell’evento “lesivo della salute psicofisica del dipendente”, del nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore, e dell’elemento soggettivo, il quale si sostanzia nell’intento persecutorio. Nel caso di specie l’interessato non ha allegato né provato gli elementi indicati, non potendosi che confermare l’esclusione del danno da mobbing predicata dal giudice di prime cure. Relativamente alla lesione della salute, i giudici di Palazzo Spada hanno nuovamente precisato la necessità di non dar luogo a duplicazioni risarcitorie, essendo ormai da tempo consolidata in giurisprudenza l’idea per cui le varie voci di danno (biologico, morale, esistenziale) costituiscano “soltanto aspetti << descrittivi >> dell’unica voce di danno costituita dal danno non patrimoniale” (Cass. Civ., SS. UU., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975 e Cons. Stato, Sez. IV, 30 giugno 2022, n. 5413). In particolar modo, stando a quanto già delineato dalla Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513), “costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale)”. Inoltre, soltanto in presenza di “conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari”, ulteriori rispetto a quelle che “qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire” è consentito incrementare la misura standard del risarcimento “prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema cd. del punto variabile)”. Non rappresenta invece duplicazione risarcitoria “la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica […] (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione) e che devono formare oggetto di “separata valutazione e liquidazione”.
Peraltro, nell’ipotesi in cui si addivenga alla liquidazione del danno non patrimoniale da lesione della salute mediante il ricorso alle cd. “tabelle di Milano”, il danno morale risulta già incorporato nel valore di punto. Per quanto attiene invece al danno patrimoniale da diminuzione delle capacità lavorative, nel 2023 la giurisprudenza civile di legittimità – opportunamente richiamata dai giudici di Palazzo Spada nella pronuncia all’esame – ha ritenuto che esso richieda un giudizio di tipo prognostico “sulla compromissione delle aspettative di lavoro in relazione alle attitudini specifiche della persona”, e che vada indubbiamente distinto dal danno non patrimoniale da lesione della cenestesi lavorativa, il quale va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute in quanto sostanziantesi nella “maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente, neanche sotto il profilo delle opportunità, sul reddito della persona offesa, risolvendosi in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo”. Ancora argomentando dalla giurisprudenza civile di legittimità, il Consiglio di Stato ha evidenziato che, nell’ipotesi in cui il danneggiato fornisca la prova della perdita di un preesistente rapporto lavorativo a tempo indeterminato a causa delle lesioni derivanti da un illecito, il danno patrimoniale da lucro cessante va liquidato in considerazione di tutte le retribuzioni (compresi accessori e “probabili incrementi, anche pensionistici”) che “avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale e non in base alla sola percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica accertata come conseguente alle lesioni permanenti riportate”.
Viene eccettuata l’ipotesi in cui il responsabile alleghi e provi che il danneggiato abbia reperito una nuova occupazione o che abbia potuto farlo e non lo abbia colpevolmente fatto, in quanto in tale circostanza “il danno potrà essere liquidato esclusivamente nella differenza tra le retribuzioni perdute e quelle di fatto conseguite o conseguibili in virtù della nuova occupazione”.

Nell’applicare i principi in questione al caso di specie, il Consiglio di Stato ha operato diverse considerazioni sia sul versante probatorio che su quello sostanziale.

Per quanto attiene al piano probatorio non è possibile ritenere operativo il principio di non contestazione ex art. 64, secondo comma, c.p.a., il quale attiene ai fatti nella loro esistenza e non a valutazioni come quella della liquidazione del pregiudizio patito. Il giudice resta libero di valutare l’entità del danno e sulla parte attrice grava pur sempre l’onus probandi rispetto agli elementi che lo costituiscono.
Sul piano sostanziale invece il giudice di primo grado avrebbe applicato correttamente le “tabelle di Milano”, e condivisibile sarebbe la scelta di muovere dalla c.t.u. disposta dal giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, riguardando la stessa la lesione della salute dell’interessato e le sue conseguenze.
Della consulenza tecnica d’ufficio viene evidenziata in particolar modo l’attendibilità e, siccome dalla medesima risulta che il danno biologico va liquidato in considerazione del fatto che la menomazione complessiva dell’integrità psicofisica sia da quantificarsi nella misura dell’8-10%, la decisione del T.A.R. Lazio è immune da vizi. Non è poi possibile riconoscere una somma maggiore a titolo di danno non patrimoniale, in quanto non è stata correttamente dimostrata la sussistenza dei presupposti del mobbing, non sono stati impugnati né contestati in maniera specifica gli atti della P.A. datoriale che escludono la dipendenza del disturbo ansioso dalla causa di servizio e non sono state dimostrate quelle conseguenze anomale e peculiari, ulteriori rispetto a quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire, che consentirebbero di incrementare la misura standard del risarcimento. Non è neppure possibile accordare una somma specifica per il danno esistenziale e per quello morale, in quanto “le conseguenze sulle attività non remunerative dell’individuo che discendono dalla lesione del diritto alla salute e all’integrità fisica sono già incluse nell’ambito di quello che tradizionalmente veniva chiamato <<danno biologico>> e che la giurisprudenza più recente e le <<tabelle di Milano>> definiscono ora <<danno dinamico-relazionale>> […]”, mentre “le conseguenze di tale medesima lesione in termini di dolore e sofferenza soggettiva sono già contemplati dalle <<tabelle di Milano>> nell’ambito di un punto che esprime il complessivo pregiudizio non patrimoniale risarcibile”. Infine, rispetto al danno patrimoniale che l’appellante sostiene di aver subito, vanno considerate l’estrema frammentarietà e genericità degli elementi forniti per la sua quantificazione nonché il fatto che lo stesso soggetto abbia ottenuto il riconoscimento di due assegni mensili di 1033 e 500 euro ed abbia pure rinunciato al transito presso i ruoli civili, ciò che avrebbe consentito il mantenimento di un determinato livello di reddito funzionale al contenimento o all’eliminazione del pregiudizio economico. Pur sostenendo che quest’ultimo danno si sia in qualche modo prodotto, si avrebbe un concorso di colpa del danneggiato che ne precluderebbe il riconoscimento ex artt. 30, terzo comma c.p.a. e 1227 c.c.

Il Consiglio di Stato ha pertanto respinto l’appello principale, dichiarato l’irricevibilità per tardività di quello incidentale e compensato tra le parti le spese di lite del grado di giudizio.

 

Spunti di riflessione: non soltanto mobbing, ma anche straining e nuovissimo fenomeno dello “smaining”. Le condotte di tipo persecutorio-vessatorio come “oasi dottrinale e giurisprudenziale” in mezzo ad un “arido deserto normativo”

Nella recentissima pronuncia all’esame i giudici di Palazzo Spada, come osservato, sono tornati ad occuparsi delle condotte mobbizzanti, consolidando la propria giurisprudenza del 2022 richiamata[1] nonché quella più risalente. Già a partire dal 2015 infatti il Consiglio di Stato si è occupato significativamente del fenomeno del mobbing in materia di pubblico impiego, delineandolo in senso strutturalmente verticale[2] e individuandone gli elementi costitutivi nella “molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio”, nell’evento “lesivo della salute psicofisica dipendente”, nel nesso di causalità tra la condotta del datore (o del superiore gerarchico) e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore” e nell’elemento psicologico, sostanziantesi nell’intento persecutorio[3].Ai fini del riconoscimento del danno da mobbing in sede giudiziale, di tutti questi elementi va accertata la sussistenza, ed è inevitabilmente sul destinatario delle condotte ex art. 2697 c.c. che ricade l’onere probatorio. Il soggetto che ha subito mobbing non può inoltre genericamente lamentare di esser stato vittima di un illecito o allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve porre a fondamento della pretesa risarcitoria elementi concreti in base ai quali l’organo giudicante, anche eventualmente ex officio, possa verificare la sussistenza di un complessivo disegno di prevaricazione predisposto dal mobber. Si può pertanto ritenere esclusa la sussistenza del mobbing ogniqualvolta le circostanze addotte, considerate in toto e pur essendo in qualche modo singolarmente indicative di conflittualità lavorative, non permettano di individuare sulla base di un giudizio di verosimiglianza il carattere “unitariamente persecutorio e discriminante del complesso di condotte poste in essere”[4]. Significativo per i giudici di Palazzo Spada è indubbiamente l’elemento soggettivo, in quanto esso “consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito che è imprescindibile ai fini dell'enucleazione del mobbing[5]. Lo studio delle condotte mobbizzanti affonda le sue radici nella psicologia del lavoro: dagli studi dello psicologo e accademico svedese Heinz Leymann iniziati nel 1993 a quelli dello psicologo forense del lavoro Harald Ege proseguiti in Italia a partire dal 1996. Il contributo di Ege – fondatore di PRIMA, associazione italiana contro il mobbing e lo stress psicosociale nonché autore di diverse opere di rilievo concernenti il fenomeno[6] – ha fatto sì che la giurisprudenza italiana di merito prima e quella di legittimità poi, mediante un’operazione ermeneutica finalizzata a colmare le lacune normative in materia, favorisse il progressivo ingresso del mobbing nel mondo giuridico[7]. Le condotte perpetrate dal mobber ai danni del soggetto passivo sono state ora qualificate come fonte di responsabilità contrattuale ex artt. 1218 e 2087 c.c.[8], ora come fonte di responsabilità aquiliana ex artt. 2043 e 2087 c.c.[9], e se ne è costantemente evidenziato il profilo della sistematicità e della reiterazione. Per la verità, il mobbing non è l’unico fenomeno di tipo persecutorio-vessatorio di cui dottrina e giurisprudenza si sono occupate nella totale assenza di una normativa organica: sono nel tempo venuti in rilievo anche lo straining e il cd. “smaining”, che si estrinsecano in condotte che sono state analizzate e definite in prima battuta dallo stesso psicologo forense del lavoro Harald Ege[10].Dagli studi psicologici di Ege la giurisprudenza ha attinto quantomeno relativamente alle condotte “strainianti”[11], mentre la fenomenologia dello “smaining” resta ancora confinata nei soli meandri della psicologia del lavoro, senza aver ricevuto in maniera specifica un crisma di giuridicità.
Coniugando gli studi di Harald Ege con le acquisizioni giurisprudenziali, mentre il mobbing si configura come un insieme di plurime condotte di tipo persecutorio-vessatorio, reiterate e a carattere sistematico, perpetrate con una frequenza almeno mensile e generanti una situazione conflittuale capace di protrarsi per almeno sei mesi, poste in essere nei locali aziendali da un soggetto attivo nei confronti di un soggetto passivo (soggetti tra i quali deve esservi un vero e proprio dislivello antagonistico), appartenenti ad almeno due delle categorie del cd. “LIPT Ege Professional[12] e avvinte da uno specifico intento persecutorio di neutralizzazione o esclusione del soggetto dal contesto aziendale, lo straining difetta indubbiamente degli elementi della sistematicità e della reiterazione delle condotte. Esso si sostanzia segnatamente in una “situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che, oltre a essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining in persistente inferiorità”[13].
La singola azione stressogena deve appartenere ad almeno una (e non necessariamente a due) delle categorie del cd. “LIPT Ege Professional” e deve connotarsi per un’efficacia durevole (un esempio pratico è dato dal demansionamento). Con riferimento alle condotte “strainianti” ciò che assume rilevanza è dunque la ripercussione effettuale conseguenziale, dovendo essere gli effetti negativi – e non la condotta in sé – a connotarsi per frequenza e durata (il conflitto deve essere in atto da almeno sei mesi) e dovendosi avere, post condotta, un oggettivo mutamento stressogeno dello status quo ante.
Per quanto attiene invece all’elemento psicologico, l’intento persecutorio-vessatorio, più che limitarsi all’eliminazione o all’esclusione del soggetto passivo dal contesto aziendale, può anche essere di tipo punitivo: lo strainer potrebbe così generare stress a danno del soggetto passivo per vendicarsi o ammonire gli altri prestatori, in un’ottica che potrebbe definirsi di general-prevenzione distorta.
Lo “smaining” è invece fenomeno di recentissima emersione. Stando a quanto sostenuto da Harald Ege, il massiccio ricorso al paradigma del lavoro agile (o smart-working) nel periodo dell’emergenza pandemica da Covid-19 ha condotto alla proliferazione di condotte indubbiamente ricollegabili allo straining (il lemma “smaining” da lui coniato deriva proprio dall’unione di “straining” e “smart-working”), ma caratterizzate in ogni caso da tratti peculiari. Ad avviso di chi scrive, tra condotte “strainianti” e condotte “smainianti” esiste un singolare rapporto di sovra-species a sotto-species, rientrando entrambe nell’ampio genus delle condotte di tipo persecutorio-vessatorio, ma costituendo lo “smaining” tanto specificazione dello straining quanto fenomeno dall’autonoma concettualizzazione, sia in ragione del differente profilo spaziale sia per la maggiore portata dell’intento persecutorio-vessatorio. Come evidenziato da Ege, infatti, per quanto lo smainer, esattamente come lo strainer, ponga in essere una condotta (anche perpetrata uno actu) di tipo stressogeno ad efficacia durevole, non opera affatto nei locali aziendali, ma essenzialmente nel contesto dello smart-working (e dunque esternamente al contesto aziendale), tendendo ora alla desocializzazione e spersonalizzazione del soggetto passivo, ora al suo svilimento professionale, al suo demansionamento finalisticamente orientato, alla sua esclusione dal flusso informativo o alla negazione di chances, formazione e crescita professionale[14]. Per quanto la giurisprudenza non abbia tenuto ancora in considerazione questo tipo di fenomeno, è possibile rifarsi ai parametri accertativi e riconoscitivi dello straining elaborati da Ege e recepiti dalla Suprema Corte nella sentenza n. 3291/2016[15] nonché alle statuizioni della giurisprudenza civile in materia di condotte “strainianti” e porre in essere un’operazione di adattamento interpretativo alle condotte “smainianti”, così da pervenire ad un che di qualificazione giuridica dello “smaining” medesimo[16]. Ciò in un’ottica di ampliamento della tutela apprestabile in favore del prestatore di lavoro subordinato, il quale potrebbe subire da un comportamento “smainiante” effetti negativi di tipo stressogeno ancor più lesivi dell’integrità psicofisica di quelli derivanti dalle condotte poste in essere dallo strainer[17]. Può pertanto ritenersi, sempre ad avviso di chi scrive, che la condotta “smainiante” possa essere perpetrata anche mediante una singola azione stressogena (ciò che non ne esclude plurime, pure atomisticamente considerabili), concretizzantesi perlopiù in un isolamento sistematico o in un mutamento di mansioni, purchè essa sia produttiva di una effettualità frequente protraentesi per almeno un semestre. Come poc’anzi anticipato, il contesto spaziale nel quale l’atto di “smaining” viene posto in essere è necessariamente esterno ai locali aziendali: può trattarsi del domicilio o della residenza del lavoratore subordinato, ma anche di qualsiasi altro luogo che garantisca agilità e dal quale sia possibile connettersi mediante strumenti informatici o telematici per essere a contatto con i soggetti che operano nel complesso aziendale. Lo smainer (soggetto attivo) può essere unicamente il datore di lavoro, e ciò perché ai sensi dell’art. 19 della legge n. 81/2017 l’accordo inter partes regolativo dell’esecuzione della prestazione lavorativa in smart-working viene stipulato tra quest’ultimo soggetto e il prestatore di lavoro subordinato (ed è accordo necessario affinchè di smaining possa parlarsi). Il soggetto passivo è invece uno specifico lavoratore subordinato, e l’azione stressogena viene sempre posta in essere nell’ambito di una situazione di dislivello antagonistico.
Può inoltre parlarsi di vicenda di “smaining” soltanto laddove l’azione ostile abbia prodotto in concreto degli effetti negativi duraturi e si sia oggettivamente avuto un mutamento stressogeno dello status quo ante (ciò che in effetti accomuna condotte “strainianti” e “smainianti”, impedendo che si possa svincolare del tutto lo straining dallo “smaining”). Fondamentale è poi un elemento che consente di concettualizzare in maniera autonoma il fenomeno in considerazione: trattasi del cd. mascheramento di intenzioni. Dietro la benevolenza apparentemente incentivante alla stipula dell’accordo ex art. 19 della legge n. 81/2017 deve celarsi un’intenzionale volontà di desocializzazione, svilimento finalisticamente orientato, demansionamento professionale, esclusione dal flusso informativo o spersonalizzazione del soggetto passivo, oppure una volontà di negazione di chances o formazione e crescita professionale al prestatore che subisce la condotta con i suoi conseguenti effetti alienanti. Si potrebbe più sinteticamente sostenere che l’elemento psicologico della condotta sia rappresentato da un intento spersonalizzante coltivato mediante una fictio agevolativa: il datore incentiva il lavoratore subordinato, anche insistentemente, alla stipula dell’accordo regolativo dello smart-working sostenendo fittiziamente che l’incremento della produttività di chi esegue la prestazione sia direttamente proporzionale alla flessibilità di luogo e orari garantita. Ciò che però la parte datoriale nella sostanza fa è isolare il prestatore subordinato, negandogli possibilità fornite invece a coloro che operano nei locali aziendali e svilendolo con una certa gradualità sia umanamente che professionalmente. Il comportamento appena descritto integrerebbe tecnicamente – ed è forse questa la ricostruzione più adeguata alle caratteristiche strutturali del fenomeno dello “smaining” – una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. nel più ampio contesto dell’obbligo datoriale di sicurezza ex art 2087 c.c.: in sostanza, il soggetto attivo arriverebbe quasi sempre, con una condotta che abbia una struttura del tipo di quella indicata, a ledere in primis l’integrità psichica del prestatore subordinato in maniera dolosa, producendo un danno cagionato non iure. Non è da escludersi peraltro la possibilità che lo “smaining” integri un’ipotesi di inadempimento, con conseguente responsabilità contrattuale dovuta alla violazione del combinato disposto degli artt. 1175, 1375 e 2087 c.c. Il rapporto di lavoro è infatti pur sempre regolato da un contratto che impone alle parti di comportarsi secondo regole di correttezza e buona fede, e la violazione dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., estrinsecantesi nella mancata tutela delle condizioni di lavoro del prestatore determinata dal fatto (del datore) di non aver adottato misure idonee ad un’effettiva tutela della sua integrità psico-fisica, determinerebbe il conseguente venir meno di questi due fondamentali canoni codicistici, che impongono che la prestazione venga eseguita in un ambiente lavorativo che mantenga costantemente la sua salubrità.
Quest’ultima ricostruzione, per quanto forse più lineare e limpida della prima, non contempererebbe opportunamente i contrapposti interessi della tutela effettiva del prestatore subordinato e dell’accelerazione del sistema giustizia, generando un effetto paradossale di non poco momento.
Se è vero, infatti, che il fatto di non dover provare il mascheramento di intenzioni (il quale porta con sé l’intento deumanizzante) consente di accedere in maniera più agevole alla tutela giurisdizionale e di ampliarla in un’ottica di favor per il lavoratore subordinato, è altresì vero che nel contempo esso contribuisce a determinare, seppur solo in parte, un certo ingolfamento del sistema funzionale all’apprestamento di questo tipo di tutela. Inquadrati i principali fenomeni di tipo persecutorio-vessatorio[18], va sottolineato che essi, quantunque notevolmente diffusi, ad oggi non godono ancora di un inquadramento normativo effettivo. Per quanto ne si continui ad operare in via pretoria una riconduzione nell’alveo della tutela apprestata dagli artt. 1218, 2043 e 2087 c.c., il legislatore non ha predisposto una disciplina organica della consistente materia degli atti di persecuzione e vessazione nel contesto lavorativo lato sensu inteso – e quindi comprensivo anche dell’articolazione interna al rapporto di lavoro subordinato rappresentata dal lavoro agile. Se è vero che soprattutto intorno al 2022 nelle sedi parlamentari si sono impostate riflessioni concernenti i fenomeni descritti, è altresì vero che le proposte di legge presentate non hanno operato affatto un inquadramento normativo che potesse (e che possa) definirsi soddisfacente, dimostrando una rilevante carenza di analisi ed approfondimento della materia[19], ed è persino probabile che esse siano state accantonate definitivamente[20].
È in ogni caso doveroso precisare che per quanto operazioni di adattamento interpretativo o di interpretazione analogica di fattispecie normate siano “pane quotidiano” per ogni operatore giuridico, in un sistema di civil law come quello italiano è al solo legislatore che spetta la tipizzazione di condotte meritevoli di sanzione: ex art. 25, secondo comma, Cost., “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, e di conseguenza, argomentando dalla disposizione in questione al di là della materia prettamente penalistica e ricavandone un indiscutibile principio di civiltà, nessun individuo può essere chiamato a rispondere in giudizio per comportamenti per i quali nessun tipo di tutela sia azionabile. L’arrogazione di un diritto creazionistico di fattispecie da parte di dottrina e giurisprudenza non potrebbe che determinare un vulnus al sacrosanto principio della separazione dei poteri, che è pilastro portante della tradizione giuridica occidentale nonché ulteriore principio di civiltà.“Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo [...]. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore”[21], diceva Montesquieu già nella prima metà del XVIII secolo. L’attività effettuata nelle sedi dottrinali e giudiziali può pertanto semplicemente fungere da monito e incentivo per la predisposizione di più adeguati testi legislativi, anche alla luce delle concrete esigenze emergenti in determinati momenti storici o con riferimento a una serie di controversie, ma mai è possibile venir meno al rispetto delle prerogative di chi legifera. Le considerazioni effettuate consentono pertanto di ritenere che, ad oggi, una disciplina legislativa organica in materia di condotte di tipo persecutorio-vessatorio si riveli indispensabile, non potendosi sempre e comunque considerare risolutivo il ricorso a combinati disposti di norme che non si attagliano correttamente alla specificità dei fenomeni descritti. In presenza di questi ultimi, allo stato attuale delle cose può semplicemente trovarsi rifugio in una piccola “oasi dottrinale e giurisprudenziale”, debole “ancora di salvezza” in mezzo ad un “arido deserto normativo”.

 

 

 BIBLIOGRAFIA


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Cons. Stato, Sez. II, 19 dicembre 2022, n. 11050

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Trib. Torino, Sez. Lav., 30 dicembre 1999

Trib. Bergamo, Sez. Lav. 20 giugno 2005, n. 286

 

[1] Nella pronuncia commentata vengono infatti recuperate le statuizioni contenute in Cons. Stato, Sez. II, 19 dicembre 2022, n. 11050.

[2] Autorevole dottrina opera in effetti un distinguo tipologico all’interno dello stesso fenomeno, affermando che laddove la condotta di tipo persecutorio-vessatorio sia posta in essere da uno o più colleghi ubicati ad un diverso livello rispetto a quello della persona che ne è bersaglio, trattasi di mobbing verticale, il quale a sua volta è qualificabile come ascendente nell’ipotesi in cui sia il prestatore (o una coalizione di prestatori) a vessare il superiore gerarchico, oppure come discendente (altresì dicasi bossing) nella differente ipotesi – per la verità nettamente più comune, stando anche agli studi condotti dallo psicologo forense del lavoro Harald Ege (primo studioso del fenomeno in Italia) e alle sue consulenze tecniche – in cui siano i superiori gerarchici di cui si avvale il datore di lavoro o proprio quest’ultimo a vessare il prestatore subordinato.
Non è tuttavia infrequente l’ipotesi in cui la condotta di tipo persecutorio-vessatorio sia posta in essere da uno o più colleghi che si trovino, da un punto di vista della gerarchia, nella stessa posizione in cui si trova il destinatario della stessa. In tal caso si discorre di mobbing orizzontale. Si veda VALLEBONA A., “Breviario di diritto del lavoro”, XIII edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2021, pag. 286.

[3] Si veda Cons. Stato, Sez. III, 14 maggio 2015 n. 2412.

[4] Cit. testualmente da Cons. Stato, Sez. III, 14 maggio 2015 n. 2412.

[5] Cit. testualmente da Cons. Stato, Sez. III, 14 maggio 2015 n. 2412, in cui si precisa per l’appunto che “La sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie”.

[6] Tra le più significative si citano in questa sede EGE H., “Il mobbing in Italia. Introduzione al mobbing culturale”, Pitagora, Bologna, 1997; EGE H., “La valutazione peritale del danno da mobbing”, Giuffrè, Milano, 2002; EGE H., “Mobbing. Conoscerlo per vincerlo”, FrancoAngeli, Milano, 2002; EGE H., “Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro”, FrancoAngeli, Milano, 2005. Harald Ege è stato anche il teorico dei sette parametri riconoscitivi ed accertativi del fenomeno del mobbing, i quali sono stati recepiti in Cass. Civ., Sez. Lav., 15 maggio 2015, n. 10037. Per una puntuale disamina degli stessi, si consenta di rinviare ad EGE H., “La valutazione peritale del danno da mobbing, cit., nonché ad EGE H. “Oltre il mobbing. Straining, Stalking, Whistleblowing, Smaining e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro”, FrancoAngeli, Milano, 2024, pag. 24 e ss. Un’attenta analisi dei parametri in questione, come pure della giurisprudenza significativa in materia di mobbing , viene anche fornita in CERRATO D., “Qualificazione giuridica dello <<smaining>> e costruzione di un reticolo (o mosaico) di tutela <<ultra-reiterazione>>, Tesi di laurea, Università degli Studi di Salerno, 2024, pagg. 20 e ss.

[7] In una delle primissime storiche sentenze in materia di condotte mobbizzanti – trattasi di Trib. Torino, Sez. Lav., 30 dicembre 1999 – i giudici riconoscono che la vicenda prospettata nel ricorso è un fenomeno che è oggetto di studio a livello internazionale da parte di psicologi, psichiatri, medici del lavoro, sociologi e di tutti coloro che si occupano di delineare le caratteristiche del sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici ed i suoi riflessi sulla vita del lavoratore. Recuperando il lemma anglosassone “mob”, i giudici di Torino affermano che talvolta in azienda si verifica qualcosa di non dissimile da ciò che accade nel mondo animale “allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio”.

[8] Si veda Cass. Civ., Sez. Lav., 2 maggio 2000 n. 5491. I giudici di legittimità sostengono, in questa pronuncia, che la violazione dell’obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall'art. 2087 c.c. ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro è fonte di responsabilità contrattuale, e riconoscono che questa stessa violazione integra la risarcibilità del danno biologico, “inteso come danno all’integrità psicofisica della persona”. Ne deriva che, “con riferimento a fattispecie come quella in esame, deve affermarsi che grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del prestatore, mentre […] grava sul lavoratore l’onere di provare sia  la lesione dell’integrità psicofisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa”. Le Sezioni Unite del 2004 rinvigoriscono questo orientamento (Cass. Civ., SS.UU., 4 maggio 2004, n. 8438). Per un’analitica trattazione di quest’ultima pronuncia, si consenta di rinviare a CERRATO D., “Qualificazione giuridica dello <<smaining>> e costruzione di un reticolo (o mosaico) di tutela <<ultra-reiterazione>>”, op. cit., pagg. 28 e ss.

[9] Cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 27 gennaio 2017, n. 2142; Cass. Civ., Sez. Lav., 27 gennaio 2017, n. 2147. Si è parlato di rilevanza del principio del neminem laedere nel contesto dell’obbligo datoriale di sicurezza ex art. 2087 c.c.

[10] Per quanto attiene allo straining, le principali opere di Harald Ege sono EGE H., “Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro”, cit.; EGE H., “La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining”, Giuffrè Lefebvre, Milano, 2019; EGE H., “Oltre il mobbing. Straining, Stalking, Whistleblowing, Smaining e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro”, FrancoAngeli, Milano, 2024. Quest’ultima opera è quella in cui Ege si occupa poi anche dello “smaining”, fenomeno di recentissima emersione.

[11] Trib. Bergamo, Sez. Lav. 20 giugno 2005, n. 286 rappresenta la prima storica sentenza in tema di straining, la quale ha anche operato un significativo distinguo tra questo fenomeno e quello del mobbing. Si vedano anche Cass. Civ., Sez. Lav., 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. Civ., Sez. Lav., 19 febbraio 2018, n. 3977; Cass. Civ., Sez. Lav., 29 marzo 2018, n. 7844; Cass. Civ., Sez. Lav., 10 luglio 2018, n. 18164; Cass. Civ., Sez. Lav., 11 novembre 2022, n. 33428; Cass. Civ., Sez. Lav., 19 ottobre 2023, n. 29101. Per un’analitica trattazione di queste pronunce, si consenta ancora di rinviare a CERRATO D., “Qualificazione giuridica dello <<smaining>> e costruzione di un reticolo (o mosaico) di tutela <<ultra-reiterazione>>”, op. cit., pagg. 42 e ss.

[12] Il LIPT Ege Professional è un test – trattasi di un vero e proprio questionario - pubblicato nell’Appendice di EGE H., “La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining”, op. cit., oltre che presente in “EGE H., “Oltre il mobbing. Straining, Stalking, Whistleblowing, Smaining e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro”, op. cit., pag. 30 e ss. La sua utilizzazione professionale, così come l’utilizzazione professionale del “Metodo Ege 2002” ad esso correlato, viene autorizzata dall’autore solo a seguito del conferimento di un’apposita abilitazione da ottenersi all’esito di un percorso formativo in due livelli. Il test, similmente al “Leymann inventory of psychological terror”, indica una serie di azioni mobbizzanti incasellate in ben cinque categorie tematiche: “Attacchi ai contatti umani”, “Isolamento sistematico”, “Cambiamenti delle mansioni”, “Attacchi alla reputazione”, “Violenza e minacce di violenza”. Vi è poi una sesta categoria residuale (cd. categoria “cuscinetto”), che contiene una lista più dettagliata di azioni che è il perito a dover verificare ed eventualmente incasellare nelle cinque categorie indicate. Sul test è presente una domanda articolata, che reca l’elenco delle diverse azioni e richiede al soggetto passivo di indicare con una crocetta quelle che ha subito nel caso di specie. L’elencazione completa delle azioni la si ritrova in EGE H., “Oltre il mobbing”, op. cit. pagg. 30 e ss.

[13] Cit. testualmente da Trib. Bergamo, Sez. Lav., 20 giugno 2005, n. 286.

[14] Si veda EGE H., “Oltre il mobbing”, op. cit., 2024, pag. 145.

[15] Trattasi di Cass. Civ., Sez. Lav., 19 febbraio 2016, n. 3291.

[16] Questa è essenzialmente l’operazione portata avanti in CERRATO D., “Qualificazione giuridica dello <<smaining>> e costruzione di un reticolo (o mosaico) di tutela <<ultra-reiterazione>>”, op. cit., pagg. 75 e ss.

[17] Ad avviso di chi scrive, il prestatore di lavoro subordinato viene trasformato dallo smainer in una monade deumanizzata, visto anche il possibile ricorso agli strumenti tecnologici per l’esecuzione della prestazione da una postazione non rigidamente fissa, e di conseguenza privato prima delle sue competenze professionali e dei flussi informativi, poi della sua capacità di poter contribuire alla produttività aziendale e al perseguimento dell’interesse imprenditoriale, ed infine del suo desiderio di operare nel contesto aziendale, dal quale è ormai stato allontanato mediante la desocializzazione. Ecco che trattasi, dunque, senz’altro di un intento di allontanamento del soggetto passivo (sovra-species, straining), ma tale volontà di allontanare il destinatario della condotta di “smaining” viene estrinsecata nelle più disparate maniere e produce tendenzialmente una forte spersonalizzazione (sotto-species, “smaining”), ciò che invece non costituisce praticamente mai forza motrice degli atti che lo strainer pone in essere per stressare il prestatore subordinato.
A connotare in maniera così specifica l’intento persecutorio sono soprattutto gli strumenti tecnologici. Essi si rivelano certamente, di primo acchito, un vantaggio di non poco rilievo laddove impiegati per favorire la flessibilità esecutiva della prestazione; nel caso di specie, tuttavia, finiscono col trasformare gradualmente la comodità in stress e alienazione. Per considerazioni più approfondite sul fenomeno, si consenta di rinviare a CERRATO D., “Qualificazione giuridica dello <<smaining>> e costruzione di un reticolo (o mosaico) di tutela <<ultra-reiterazione>>”, op. cit., pagg. 73 e ss.

[18] Per la verità, l’analisi andrebbe completata con la disamina dello stalking di tipo occupazionale, pur tenuto ampiamente in considerazione dallo psicologo forense del lavoro Harald Ege. Non essendo possibile in questa sede trattare il fenomeno in maniera approfondita, si rinvia ad EGE H., “Oltre il mobbing”, op. cit., 2024, pagg. 95 e ss., nonché a CERRATO D., “Qualificazione giuridica dello <<smaining>> e costruzione di un reticolo (o mosaico) di tutela <<ultra-reiterazione>>”, op. cit., pagg. 48 e ss.

[19] Ci si sta qui riferendo al testo unificato recante “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto delle molestie morali e delle violenze psicologiche in ambito lavorativo”, elaborato l’11 maggio 2022 sulla scorta di quattro proposte di legge riunite, ovverosia gli atti Camera nn. 1722, 1741, 2311 e 3328. Si rinvia a CERRATO D., “Qualificazione giuridica dello <<smaining>> e costruzione di un reticolo (o mosaico) di tutela <<ultra-reiterazione>>”, op. cit., pagg. 151 e ss., per un’analitica trattazione delle disposizioni più rilevanti.

[20] In merito al testo unificato dell’11 maggio 2022 ad oggi non è stato infatti fornito nessun tipo di riscontro, essendo ancora oggetto di discussione ed esame innanzi alla XI Commissione permanente Lavoro Pubblico e Privato della Camera dei deputati.

[21] Cit. testualmente da MONTESQUIEU C., “Lo Spirito delle leggi (1748)”, ed. it. in COTTA S. (a cura di), UTET, Torino, 1973, vol. I, libro XI. La citazione in questione viene riportata anche in ABBAMONTE O., “Il potere dei conflitti. Testimonianze sulla storia della magistratura italiana”, II edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2017, pag. 97.