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Anno XVI - n. 07 - Luglio 2024

  Studi



Il diritto dell’immigrazione nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato: un viaggio tra i principi fondamentali del diritto amministrativo.

Di Federica Valentini
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Il diritto dell’immigrazione nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato: un viaggio tra i principi fondamentali del diritto amministrativo 

 

Di Federica Valentini

 

Abstract

 

La recente giurisprudenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato sulla posizione giuridica del cittadino straniero all’interno dell’ordinamento giuridico offre una chiave di lettura di sistema del diritto amministrativo che spazia dai principi dell’azione fino alla tutela giurisdizionale, passando attraverso le fonti, i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale e, più in generale, il procedimento.

Questo contributo si pone l’obiettivo di valorizzare il percorso compiuto dalla giurisprudenza, riordinando le sentenze rese dalla Terza Sezione e inserendole in un percorso argomentativo che legge i temi tradizionali che governano la materia con la lente d’ingrandimento dei diritti fondamentali della persona umana.

The recent case law led by the Third Chamber of the Italian administrative final istance tribunal, Consiglio di Stato, on the foreign citizens status within the italian legal system provides a key to understand the administrative law ranging from the principles of action to the judicial protection, through legal sources, the relationship between domestic, european and international law, and, more generally, the administrative procedure.

This paper aims to highlight the path taken by jurisprudence, organizing the most significant judgments rendered by the Third Chamber and placing them in an argumentative framework that interprets the traditional themes governing the subject through the magnifying glass of the fundamental human rights.

 

 

Sommario: 1. I principi dell’azione amministrativa tra il diritto interno e il diritto sovranazionale: principio di proporzionalità, principio di ragionevolezza, principio di buona fede. 1.1 Revoca delle misure di accoglienza. 1.1.1 Revoca per comportamenti violenti 1.1.2 Revoca per disponibilità ovvero occultamento delle risorse finanziarie. 1.2 Reati ostativi e automatismo: la pronuncia della Corte Costituzionale sull’art. 474 c.p. e sull’art. 73 comma 5 DPR 309/90. 1.3 Principio di buona fede: le ricerche al domicilio. 1.4 Procedimento e tempo, il principio del tempus regit actum: la

 

rilevanza delle sopravvenienze procedurali e processuali- 2. Le fonti del diritto amministrativo: la qualificazione giuridica delle circolari 3. Il procedimento amministrativo: come cambia la fase istruttoria nel diritto dell’immigrazione. 3.1 Diritto al contraddittorio e preavviso di rigetto 3.2 Sulla soglia del reddito rilevante ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro 3.3 Sulla residenza nella via “fittizia”, o via delle persone senza dimora. 4 Conclusioni.

 

1.     I principi dell’azione amministrativa tra il diritto interno e il diritto sovranazionale: principio di proporzionalità, principio di ragionevolezza, principio di buona fede.

Terreno di elezione del diritto del nuovo, meglio, rinnovato percorso giurisprudenziale sono i principi generali.

Una premessa di carattere storico è d’obbligo. Il testo unico sull’immigrazione, d.lgs. n. 286 del 1998, rappresenta la risposta del legislatore all’emergenza dell’ingresso illegale di cittadini stranieri nel territorio italiano. Di tale esigenza ha risentito tutto l’impianto normativo che si caratterizza tuttora - dopo una serie affastellata di modifiche - per un atteggiamento prudenziale finalizzato alla tutela della pubblica sicurezza.

La materia del diritto all’immigrazione chiama, invero, il legislatore ad una delicata missione di equilibrio tra la sfera collettiva e, quindi, la protezione della pubblica sicurezza e la sfera individuale, il diritto al soggiorno del cittadino straniero di cui al comma 2 dell’art. 10 della Costituzione1. È necessario, in altri termini, che il sacrificio (legittimo) imposto al privato – in questo caso, limiti al diritto di soggiorno – possa considerarsi sostenibile per il destinatario dell’azione amministrativa. Questo punto di equilibrio deve, poi, trovare riscontro nella scelta compiuta dall’Amministrazione che rappresenta la funzione di gestione amministrativa la cui determinazione, sebbene discrezionale, non può essere non deducibile dalla legge.

Della prima scelta, soluzione di equilibrio trovata dal legislatore, si occupa la Corte Costituzionale; della seconda, la determinazione del caso concreto, il giudice ordinario ovvero amministrativo secondo i tradizionali criteri di riparto della giurisdizione.

Il vaglio della Corte Costituzionale sulla scelta del legislatore si àncora al principio di proporzionalità e al principio di ragionevolezza che, come chiarito dalla giurisprudenza sia nazionale che sovranazionale, devono essere distinti tra loro.

Può dirsi proporzionato solo ciò che sia anzitutto idoneo a perseguire un determinato fine, che sia strettamente necessario e che rappresenti il minor sacrificio possibile o comunque sopportabile per la sfera giuridica del destinatario dell’azione amministrativa. Tale definizione compendia i tre elementi costitutivi del principio di proporzionalità: idoneità, necessità e “proporzionalità in senso stretto”.

Diverso dal principio di proporzionalità è il principio di ragionevolezza. Al fine di evitare disuguaglianze, non basta che la scelta sia proporzionale, occorre che sia anche ragionevole. La ragionevolezza, come chiarito anche dalla giurisprudenza amministrativa oltre che da quella costituzionale che ne è la principale fonte, “costituisce un criterio al cui interno convergono altri principi generali dell’azione amministrativa (imparzialità, uguaglianza, buon andamento): l’amministrazione, in forza di tale principio, deve rispettare una direttiva di razionalità operativa al fine di evitare decisione arbitrarie od irrazionali. In virtù di tale principio, l’azione di pubblici poteri non deve essere censurabile, sotto il profilo della logicità e dell’aderenza ai dati di fatto risultanti dal caso concreto”2.

Di tale esigenza si è fatta carico la giurisprudenza amministrativa dubitando, dapprima, della compatibilità del diritto interno con il diritto dell’Unione Europea in materia di revoca di misure di accoglienza; poi, con riguardo all’automatismo previsto dall’art. 4 comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, la Terza Sezione ha sollevato, in via officiosa, una duplice questione di legittimità costituzionale con riferimento ai parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 117 Cost, quest’ultimo come norma interposta rispetto all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

1.1  Revoca delle misure di accoglienza

 

1.1.1. Revoca per comportamenti violenti

L’analisi del tema sulla revoca delle misure di accoglienza non può che partire dalla direttiva 2013/33/UE e, in particolar modo, dal concetto di “dignità” della persona umana. Si legge, infatti, al paragrafo 35 che “La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti segnatamente dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, la presente direttiva intende assicurare il pieno rispetto della dignità umana nonché promuovere l’applicazione 

degli articoli 1, 4, 6, 7, 18, 21, 24 e 47 della Carta [dei diritti fondamentali] e deve essere attuata di conseguenza”.

L’art. 17 della direttiva 2013/33/UE, al comma 2, stabilisce, inoltre, che “gli Stati membri provvedono a che le condizioni materiali di accoglienza assicurino un’adeguata qualità di vita che garantisca il sostentamento dei richiedenti e ne tuteli la salute fisica e mentale. Gli Stati membri provvedono a che la qualità di vita sia adeguata alla specifica situazione delle persone vulnerabili, ai sensi dell’articolo 21, nonché alla situazione delle persone che si trovano in stato di trattenimento.

Il sistema di accoglienza “materiale”, vale a dire l’insieme delle condizioni di accoglienza che includono alloggio, vitto e vestiario, forniti in natura o in forma di sussidi economici o buoni, o una combinazione delle tre possibilità, nonché un sussidio per le spese giornaliere, è un diritto garantito ma non assoluto. Il diritto dell’Unione Europea prevede che possa essere revocato in presenza di determinate circostanze, individuate dalla direttiva stessa al paragrafo n. 20.

È previsto, infatti, che «1. Gli Stati membri possono ridurre o, in casi eccezionali debitamente motivati, revocare le condizioni materiali di accoglienza qualora il richiedente:

  1. lasci il luogo di residenza determinato dall’autorità competente senza informare tali autorità, oppure, ove richiesto, senza permesso; o
  2. contravvenga all’obbligo di presentarsi alle autorità o alla richiesta di fornire informazioni o di comparire per un colloquio personale concernente la procedura d’asilo durante un periodo di tempo ragionevole stabilito dal diritto nazionale; o
  3. abbia presentato una domanda reiterata quale definita all’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32/UE [del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, 60)].

La Corte di Giustizia si è espressa una prima volta, nella causa C- 233/2018, su una questione attinente la compatibilità del diritto belga sull’accoglienza delle persone richiedenti asilo rispetto alla normativa eurounitaria. La questione riguardava un minore non accompagnato, arrestato perché ritenuto responsabile di una rissa all’interno della struttura di accoglienza. Al cittadino straniero, in conseguenza dell’arresto e della detenzione di una sola notte, era stata applicata la sanzione della sospensione del regime di accoglienza materiale per la durata di quindici giorni, periodo durante il quale lo stesso aveva dormito in un parco di Bruxelles, appoggiandosi talvolta da amici e conoscenti.

Il Giudice belga ha sottoposto, nel proprio rinvio pregiudiziale, tre questioni3 che possono essere sintetizzate in questo modo: anzitutto se il potere di revoca possa essere esercitato nei confronti di un minore, categoria vulnerabile e fragile (in realtà si tratta del terzo quesito ma deve essere inteso come prioritario nell’analisi); se tale potere, benché esercitabile secondo la Direttiva, rappresenti una sanzione (e quindi debba essere sottoposto al regime previsto dal diritto eurounitario per le sanzioni); se presupponga la necessità che l’autorità procedente verifichi le condizioni in cui versa lo straniero in caso di privazione delle misure di accoglienza e si adoperi per garantire un livello di assistenza che soddisfi il carattere della dignità.

Dopo aver qualificato la riduzione ovvero la revoca del sistema di accoglienza come “sanzione”, la Corte ha precisato che la stessa deve essere “obiettiva, imparziale, motivata e proporzionata alla particolare situazione del richiedente e deve, in ogni caso, salvaguardare il suo accesso all’assistenza sanitaria e un tenore di vita dignitoso”.

A tal fine, è necessario, secondo la Corte, che il cittadino straniero destinatario della sanzione sia nelle condizioni di fare fronte ai suoi bisogni primari quali: nutrirsi, lavarsi, vestirsi. Nel caso sottoposto alla Corte, un tale livello minimo di garanzia di dignità non è stato raggiunto, non essendo sufficiente, da parte della struttura di accoglienza, l’aver fornito al minore un elenco con le strutture che si occupano di persone senza dimora. Si legge nella sentenza, infatti, che “Per quanto concerne più specificamente il requisito relativo alla salvaguardia della dignità del tenore di vita, dal considerando 35 della direttiva 2013/33 risulta che quest’ultima mira a garantire il pieno rispetto della dignità umana nonché a promuovere l’applicazione, in particolare, dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali e deve essere attuata di conseguenza. A detto riguardo, il rispetto della dignità umana, ai sensi dell’articolo in parola, richiede che l’interessato non si trovi in una situazione di estrema deprivazione materiale che non gli consenta di far fronte ai suoi bisogni più elementari, quali nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio, e che pregiudichi quindi la sua salute fisica o psichica 

o che lo ponga in uno stato di degrado incompatibile con tale dignità. (..) Una simile considerazione non è rimessa in discussione dalla circostanza, menzionata dal giudice del rinvio, che al richiedente escluso a titolo di sanzione da un centro di accoglienza in Belgio sarebbe stata fornita, al momento dell’imposizione di tale sanzione, un elenco di centri privati per i senzatetto che avrebbero potuto accoglierlo. Difatti, le autorità competenti di uno Stato membro non possono limitarsi a fornire a un richiedente, escluso da un centro di accoglienza a seguito di una sanzione inflittagli, un elenco di strutture di accoglienza a cui potrebbe rivolgersi per ivi beneficiare di condizioni materiali di accoglienza equivalenti a quelle che gli sono state revocate”.

La soluzione, secondo la Corte, è da rinvenirsi nel principio di proporzionalità. In caso di condotta illecita, l’autorità competente (nel caso della legge belga, il gestore della struttura) ha la facoltà di scegliere la sanzione più adeguata che non può corrispondere automaticamente e direttamente alla revoca. Nell’ambito della sua discrezionalità, prima di applicare la revoca, deve individuare, misure che, sebbene abbiano carattere sanzionatorio, non espungano completamente il cittadino straniero dal sistema di accoglienza: collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, unitamente ad un divieto di contatto con taluni residenti del centro o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio.

Dopo questo arresto giurisprudenziale, la Corte è tornata nuovamente sull’argomento4, sollecitata da un’ordinanza di rimessione della Terza Sezione del Consiglio di Stato5 che si è occupata di un caso di revoca delle misure di accoglienza nei confronti di un cittadino straniero maggiorenne, deferito all’autorità giudiziaria per un episodio di resistenza ad un pubblico ufficiale commesso fuori dalla struttura di accoglienza (segnatamente, al cittadino straniero sarebbe stato imputato di aver riacceso un alterco tra un suo amico e il capotreno che chiedeva a quest’ultimo di mostrare il proprio titolo di viaggio). Questo caso aveva, quindi, due elementi di specificità rispetto al precedente del 2019. Non vi era una presunzione legislativa di vulnerabilità - trattandosi di soggetto adulto - e la causa che aveva determinato la revoca si era consumata in luogo diverso dalla struttura.

Il Tribunale amministrativo regionale aveva, infatti, disapplicato, secondo il noto meccanismo del “sindacato diffuso”, la norma interna - art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015- per contrasto con il diritto europeo sul sistema di accoglienza, proprio alla luce dell’interpretazione che la Corte aveva dato nella sentenza summenzionata. Avverso la sentenza del Tar aveva fatto appello il 

Ministero dell’Interno sostenendo che la revoca non fosse illegittima (perché comunque contemplata come applicabile) e che il caso di specie fosse ontologicamente diverso da quello oggetto del caso belga trattandosi di soggetto maggiorenne. La revoca, nella prospettazione dell’appellante, ha soddisfatto il principio di proporzionalità, rivelandosi sanzione necessaria.

Il Collegio, dopo aver ripercorso gli indirizzi giurisprudenziali raccolti in tema di misure di accoglienza6 - in particolar modo con riferimento al luogo in cui il cittadino straniero avrebbe posto in essere la condotta illecita (sul punto si era creato un contrasto giurisprudenziale: da un parte, c’era chi riteneva che fossero rilevanti solo le condotte tenute all’interno dei centri di accoglienza; per altro indirizzo, invece, la legge non giustificava una simile differenziazione) – e richiamato il concetto di automatismo ostativo al rilascio del permesso di soggiorno previsto dall’art. 4, comma 3, TU in materia di immigrazione secondo la formulazione ratione temporis vigente, ha sollevato questione di pregiudizialità dinanzi alla Corte di Giustizia formulando il seguente quesito: “se l’art. 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, osti ad una normativa nazionale che preveda la revoca delle misure di accoglienza a carico del richiedente maggiore di età e non rientrante nella categoria delle “persone vulnerabili”, nel caso in cui il richiedente stesso sia ritenuto autore di un comportamento particolarmente violento, posto in essere al di fuori del centro di accoglienza, che si sia tradotto nell’uso della violenza fisica ai danni di pubblici ufficiali e/o incaricati di pubblico servizio, cagionando alle vittime lesioni tali da rendere per le stesse necessario il ricorso alle cure del Pronto Soccorso locale”.

Secondo il Giudice del rinvio, una corretta applicazione dei principi e delle regole del procedimento amministrativo sarebbero in grado di evitare la compromissione dei diritti dell’interessato e, in particolare, il rispetto della sua dignità.

La Corte di Giustizia, richiamando i principi del precedente del 2018 e rilevando la mancanza di indicazioni legislative sulla necessità che il comportamento violento sia commesso in un preciso luogo, ha affermato il principio secondo cui è anzitutto indifferente che il comportamento sia 

commesso fuori dal centro di accoglienza. È, però, contrario al principio di proporzionalità privare il richiedente, ancorché non appartenente alla categoria giuridica delle persone “vulnerabili” in senso stretto, della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari. Esporre il cittadino straniero ad una condizione di privazione equivale a renderlo vulnerabile. Le garanzie procedurali del procedimento amministrativo, sebbene utili, non sono da sole idonee a scongiurare il rischio di esporre il richiedente al rischio di trattamenti potenzialmente lesivi della sua dignità7.

Il legislatore italiano, preso atto della pronuncia, ha provveduto alla modifica dell’art. 23 d.lgs. 18 agosto 2015, n. 1428, nella parte in cui non prevedeva la gradazione delle misure sanzionatorie in un’ottica di principio di proporzionalità. All’esito di tale sopravvenienza normativa, nei casi di gravi violazioni ovvero di violazioni ripetute, al Prefetto è richiesta la valutazione, da effettuarsi caso per caso della sanzione più appropriata tra le seguenti:

  1. esclusione temporanea dalla partecipazione ad attività organizzate dal gestore del centro;
  2. esclusione temporanea dall'accesso a uno o più dei servizi di cui all'articolo 10, comma 1, secondo periodo, ad eccezione dell'accoglienza materiale;
  3. sospensione, per un periodo non inferiore a trenta giorni e non superiore a sei mesi, o revoca dei benefici economici accessori previsti nel capitolato di gara d'appalto di cui all'articolo

 

Nonostante la modifica tenga conto delle prescrizioni della Corte di Giustizia, manca il riferimento specifico al concetto di “dignità”, probabilmente, tradotto con l’avverbio “individualmente”. Non vi è l’obbligo, normativamente previsto, in capo all’amministrazione procedente di assicurarsi che l’interessato non si trovi in una situazione di estrema deprivazione materiale che non gli consenta di far fronte ai suoi bisogni più elementari, quali nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio, e che pregiudichi quindi la sua salute fisica o psichica o che lo ponga in uno stato di degrado incompatibile con tale dignità.

1.1.2 Revoca per disponibilità ovvero occultamento delle risorse finanziarie.

Il senso delle pronunce rese dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea appena richiamate, può essere apprezzato anche alla luce dell’ipotesi, prevista dalla direttiva 2013/33/UE, precisamente all’art. 26, di revoca in caso di disponibilità di risorse finanziarie per fare fronte ai bisogni primari. Ai sensi del paragrafo 5 della suddetta norma, infatti, "Gli Stati membri possono esigere un rimborso integrale o parziale delle spese sostenute, allorché vi sia stato un considerevole miglioramento delle condizioni finanziarie del richiedente o se la decisione di accordare tali prestazioni è stata adottata in base a informazioni false fornite dal richiedente". Il principio è stato ribadito, dalla legislazione nazionale, all’art. 23 lett. d) d.lgs. n. 142 del 2015.

La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza 7 marzo 2023, n. 2386, i cui principi sono stati ribaditi anche recentemente9, si è occupata del caso di un cittadino straniero che aveva percepito somme a titolo di corrispettivo per contratto di lavoro. Di tale circostanza aveva, tuttavia, costantemente informato l’amministrazione procedente per il tramite della Cooperativa che gestiva il centro. Si trattava, quindi, di un’ipotesi di disponibilità di risorse oltre il limite dell’assegno sociale, non di occultamento.

Così ricostruito il quadro in punto di fatto, il giudice amministrativo di appello, previa disapplicazione dell’art. 23 d.lgs. n. 142 del 2015 perché in contrasto con la normativa europea, ha ribadito che la richiesta di rimborso, per dirsi legittima, deve essere circoscritta ad un perimetro ben preciso. Secondo il Collegio: “Dal tenore letterale delle predette norme si evince che per giustificare la revoca i "mezzi sufficienti" pari o superiori "all'importo annuo dell'assegno sociale" (il quale costituisce il parametro legislativamente stabilito per valutare l'adeguatezza delle risorse al proprio sostentamento), devono essere di carattere stabile e/o duraturo e, comunque, devono riferirsi ad un arco temporale minimo di 1 anno ed alle attuali condizioni dello straniero richiedente la protezione internazionale. Ciò è indubbiamente in linea con quanto stabilito anche a livello comunitario dall'art. 17, par. 4, ove si fa riferimento all'occupazione per un "ragionevole lasso di tempo" (..)È sì vero, infatti, che lo Stato può ottenere un rimborso parziale o integrale delle spese sostenute per l'erogazione della misura di accoglienza ma ciò può avvenire nel rispetto del principio di proporzionalità e, segnatamente, tenendo conto, a seconda del tipo di revoca, di una serie di fattori come il discostamento dal parametro legislativo dell'assegno sociale; ciò al fine di verificare se vi è stato un radicale 

miglioramento delle condizioni di vita dello straniero e il comportamento del richiedente al fine di verificare l'occultamento di risorse o le eventuali dichiarazioni false poste alla base dell'istanza10.

 

1.2   Reati ostativi e automatismo: la pronuncia della Corte Costituzionale sull’art. 474 c.p. e sull’art. 73 comma 5 DPR 309/90.

Il principio di proporzionalità è stato chiamato in causa anche nell’analisi di compatibilità costituzionale dell’assolutezza nell’automatismo imposto dall’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 199811.

Con due distinte ordinanze12, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha interrogato il Giudice delle leggi sulla tenuta costituzionale della disciplina contenuta all’interno del Testo unico in materia di immigrazione in tema di automatismo ostativo al riconoscimento del diritto alla permanenza sul territorio italiano in caso di condanne per reati – rispettivamente lintroduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi di cui all’art. 474 c.p. e l’ipotesi attenuata della produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui all’art. 73 comma 5 DPR 309/90 – che, per le modalità dell’azione, l’esiguità del danno e un livello contenuto di allarme sociale erano parificati, dal legislatore, ad altre fattispecie criminose più gravi.

Il Collegio della Terza Sezione ha qualificato la norma – art. 4 comma 3 TU immigrazione – come “punto di equilibrio” tra la protezione di due contrapposti interessi, la sicurezza dello Stato e il diritto alla permanenza dello straniero, bene giuridico quest’ultimo comunque tutelato dalla Costituzione, all’art. 10 e all’art. 3. Il legislatore, nella formulazione originaria, aveva posto una presunzione di pericolosità sociale del cittadino straniero che si fosse reso responsabile dei reati previsti dall'art. 380, commi 1 e 2, c.p.p. ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impediva e impedisce tuttora l'ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, l. 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli artt. 473 e 474 c.p. nonché dall'art. 1, d.lgs. 22 gennaio 1948, n. 66, e dall'art. 24, r.d. 18 giugno 1931, n. 773.

Sul tema, era già intervenuta la Corte Costituzionale, nel 201313. In quella occasione, la Corte aveva precisato che l’automatismo ostativo creasse un vulnus di tutela nei riguardi del diritto all’unità familiare. In quella occasione, la Corte Costituzionale aveva avuto modo di precisare che “la tutela della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione implica che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondarsi su una attenta ponderazione della pericolosità concreta e attuale dello straniero condannato, senza che il 

permesso di soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del solo rilievo della subita condanna per determinati reati. Nell’ambito delle relazioni interpersonali, infatti, ogni decisione che colpisce uno dei soggetti finisce per ripercuotersi anche sugli altri componenti della famiglia e il distacco dal nucleo familiare, specie in presenza di figli minori, è decisione troppo grave perché sia rimessa in forma generalizzata e automatica a presunzioni di pericolosità assolute, stabilite con legge, e ad automatismi procedurali, senza lasciare spazio ad un circostanziato esame della situazione particolare dello straniero interessato e dei suoi familiari”.

Tale pronuncia ha significato un cambio di passo rivoluzionario anche nel modo di intendere l’istruttoria del procedimento amministrativo. L’amministrazione, nei casi in cui il cittadino straniero richiedente condannato anche in via non definitiva per uno dei reati previsti dalla norma, abbia legami familiari, deve tenere in debito conto tale circostanza, dandone atto nel provvedimento.

La giurisprudenza amministrativa14 ha perimetrato il dovere di analisi dell’amministrazione e il grado di approfondimento istruttorio che può ritenersi adeguato. Quindi, se da un lato la presenza dei legami familiari non è idonea a spostare l’asse verso un nuovo automatismo a favore della posizione del cittadino straniero (si è detto che i legami familiari non possono rappresentare uno “scudo” nei confronti del potere dell’amministrazione di emanare un provvedimento di diniego), dall’altro si è precisato che la sola menzione della presenza di legami familiari all’interno del provvedimento non è di per sé idonea a soddisfare il livello di approfondimento istruttorio di cui è onerata l’amministrazione procedente.

L’unità familiare è, infatti, un diritto fondamentale della persona umana riconosciuto e tutelato non soltanto dall’ordinamento interno, tra l’altro all’art. 29 della Costituzione, ma anche sul piano sovranazionale e internazionale. La Dichiarazione universale dei diritti umani, al comma 3 dell’art. 16, recita infatti “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”. È altresì tutelata dall’art. 23 del Patto sui diritti civili e politici.

Specifica attenzione al tema dell’unità familiare è dedicata poi dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia. Ai sensi dell’art. 3, infatti, “Gli Stati parti s'impegnano ad assicurare al minore la protezione e le cure necessarie al suo benessere, tenuto conto dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei tutori legali o di qualsiasi altra persona legalmente responsabile di esso, e, a tal fine, prenderanno ogni misura appropriata di carattere legislativo e amministrativo”. L’art. 5 della medesima Convenzione si occupa, in una prospettiva simmetrica, delle responsabilità dei genitori o delle persone che, in assenza, ne fanno le veci e impone agli Stati uno sforzo verso la tutela dell’integrità familiare, integrità che passa attraverso la responsabilità, i diritti e i doveri15.

Dopo la sentenza resa dalla Corte Costituzionale nel 2013, nonostante il summenzionato quadro normativo, l’amministrazione, nell’ambito dei suoi poteri di valutazione e il giudice, nelle sue competenze di controllo, in caso di assenza di legami familiari rilevanti sul territorio italiano e condanna anche non definitiva per uno dei reati richiamati dall’art. 4 comma 3 TU immigrazione, non avrebbero potuto fare altro che respingere la richiesta del cittadino straniero. La legge, infatti, non chiamava l’amministrazione ad un bilanciamento “in concreto”; vi era una presunzione legale di pericolosità sociale.

Il Giudice amministrativo16 si è fatto carico di questo vulnus di sistema manifestando le proprie perplessità dinanzi alla Corte Costituzionale, partendo proprio dal principio di proporzionalità. Dopo aver ricostruito il principio sotto il profilo della sua struttura e differenza con il principio di ragionevolezza17, il Collegio ha ritenuto che, parificare fattispecie criminose disomogenee tra loro in 

termini di condotta, di bene giuridico protetto, di limiti edittali di trattamento sanzionatorio e di allarme sociale, fosse contrario alla ratio della normativa in materia e rappresentasse un potenziale sacrificio non proporzionato per la sfera giuridica del cittadino straniero e ciò secondo quella che è una logica ormai recepita da tempo dalla stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale. In presenza di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti, secondo la Corte, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del cosiddetto “test di proporzionalità”, che richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi18.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 8 maggio 2023, n. 88, ha accolto la prospettazione del Giudice a quo, dichiarando l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 519, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui ricomprendeva, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, 

anche quelle, pur non definitive, per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e quelle definitive per il reato di cui all’art. 474, secondo comma, del codice penale, senza prevedere che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente.

All’esito dell’incidente costituzionale, quindi, all’amministrazione è chiesto un giudizio in concreto che risponda, tra l’altro, alle garanzie previste dall’art. 3 della Costituzione e dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, al pari di quanto avviene per il permesso di soggiorno di lungo periodo norma dell’art. 9, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998.

1.3  Principio di buona fede: le ricerche al domicilio

Il quadro sui principi non sarebbe completo se non si facesse menzione al principio di buona fede. Benché quella che si sta per affrontare è una tematica specificatamente afferente alle regole del procedimento amministrativo, vale la pena segnalarla in questa sede per valorizzare la portata della pronuncia.

La buona fede, intesa in senso oggettivo, come principio di collaborazione, di reciprocità nelle relazioni, come divieto di perseguire la soddisfazione egoistica dei propri interessi, ha avuto una larga, attuale e trasversale applicazione all’interno dell’ordinamento giuridico: dal diritto civile delle obbligazioni, al nuovo codice dei contratti pubblici, passando attraverso la materia dell’urbanistica fino ad arrivare proprio all’immigrazione. Espressione del dovere generale di comportarsi correttamente, il principio di buona fede è stato posto a guardiano della legge sul procedimento amministrativo, L. 241/90, all’art. 1 comma 2 bis ed è ormai utilizzato dalla giurisprudenza come parametro di riferimento per valutare l’operato dell’amministrazione.

Sul tema, si era espressa l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, tra l’altro, con le sentenze 29 novembre 2021, nn. 19-20-21, sancendo quale principio di diritto che “nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti all’esercizio del pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi”21.

D’altro canto, anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione22 ha chiarito, recentemente, che: “Il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta, infatti, una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale, che trova il suo principale fondamento nell'art. 2 Cost. e grava reciprocamente su tutti i membri della collettività. Tale dovere si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano momenti relazionali socialmente o giuridicamente qualificati, tali da generare, unilateralmente o, talvolta, anche reciprocamente, ragionevoli affidamenti sull'altrui condotta corretta e protettiva. Deve quindi riconoscersi l'esistenza di una proporzionalità diretta tra l'ambito e il contenuto dei doveri di protezione e correttezza, da un lato, e il grado di intensità del momento relazionale e del conseguente affidamento da questo ingenerato, dall'altro; cosicché, come persuasivamente affermato dal Consiglio di Stato nella più volte citata sentenza n. 5 del 2018, "da chi esercita, ad esempio, un'attività professionale "protetta" (ancor di più se essa costituisce anche un servizio pubblico o un servizio di pubblica necessità) e, a maggior ragione, da chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell'affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo”.

La vicenda all’attenzione della Terza Sezione del Consiglio di Stato è utile a ricostruire l’approccio giurisprudenziale al principio di buona fede, nella materia dell’immigrazione. Un cittadino straniero presentava domanda di rinnovo del proprio permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato. L’amministrazione tentava la notifica del preavviso di rigetto al domicilio dichiarato. La notifica, tuttavia, non si perfezionava per irreperibilità e l’amministrazione si determinava immediatamente in senso sfavorevole. Secondo il Collegio, è proprio nel dialogo procedimentale tra cittadino e pubblica amministrazione che meglio si apprezza la profondità e la portata della buona fede che è un principio duttile, cangiante, mutevole che si adatta alla singola situazione e che meglio permette di raggiungere il punto di equilibrio tra l’interesse pubblico e il minor sacrificio alla situazione giuridica del soggetto interessato. Secondo il Collegio, “i doveri di correttezza e buona fede risultano ancor più pregnanti se si considera la delicatezza dell’istanza di rinnovo del titolo di soggiorno, in relazione alla quale vengono coinvolti interessi di rilievo costituzionale e internazionale attinenti ai diritti fondamentali della persona. A fronte di interessi così delicati, a giudizio del Collegio, appare tollerabile – in un’ottica di bilanciamento – l’onere dell’Amministrazione di procedere, quantomeno, a una seconda notifica”. 

Il principio di buona fede, come nella materia civilistica, diventa quindi fonte di un autonomo obbligo di protezione che si accosta agli obblighi imposti dalla legge. Esso si sostanzia nello sforzo di solerzia e operosità richiesto all’amministrazione. In questo modo, la buona fede diventa, da un lato veicolo del buon andamento dell’amministrazione perché lo favorisce, dall’altro, parametro di valutazione dell’efficienza e della correttezza dell’operato.

1.4  Procedimento e tempo, il principio del tempus regit actum: la rilevanza delle sopravvenienze procedurali e processuali

Il procedimento amministrativo è, come noto, un’attività di durata. Tra l’avvio e la conclusione dello stesso, intercorre un lasso temporale durante il quale la realtà giuridica e quella materiale potrebbero subire delle modificazioni. Per gestire le sopravvenienze, la dottrina e la giurisprudenza hanno sempre utilizzato un unico criterio: il principio del tempus regit actum.

In questo modo, i singoli atti endoprocedimentali (che corrispondono ad altrettante sub-fasi) che si susseguono nel tempo sono pensati come momenti indipendenti, meglio, autonomi. A ciascun momento, a ciascuna sub-fase del procedimento corrisponde la disciplina vigente in quel preciso momento. La ratio di tale soluzione è da rinvenirsi nel principio di certezza del diritto. Il principio del tempus regit actum vuole evitare il rischio di rendere inutilizzabile l’avanzamento del procedimento e quindi, in un certo modo, è posto a tutela anche del buon andamento della pubblica amministrazione. Questo vuol dire che sono ininfluenti modifiche normative intervenute dopo la chiusura di ogni singola fase autonoma.

Lo stesso principio vale anche laddove lo ius superveniens non incida specificatamente sulla disciplina del procedimento amministrativo ma sui requisiti e sulla forma del provvedimento finale. La regola utilizzata finora era la stessa del caso precedente, ininfluenza delle modifiche sulla validità del provvedimento amministrativo impugnato23. Anche l’abrogatio legis, nella tradizionale 

ricostruzione del sistema, è inidonea ad incidere sul provvedimento amministrativo che riflette la ponderazione di interessi resa nella vigenza della norma abrogata; con una sola eccezione: legge che ha efficacia retroattiva e declaratoria di illegittimità costituzionale che ha come effetto il venir meno, in via retroattiva, della norma oggetto dell’incidente costituzionale24.

Di ciò aveva dato già conto l’Adunanza Plenaria, con la sentenza 11 maggio 2011 n. 7. Il caso oggetto della rimessione dinanzi all’Adunanza Plenaria riguardava un cittadino straniero che aveva presentato domanda di emersione dal lavoro irregolare, ai sensi dell'art. 1-ter, comma 13, della legge n. 102 del 2009. L’Amministrazione aveva rigettato l’istanza in ragione della condanna riportata dal ricorrente ai sensi dell’art. 14, comma 5-ter del T.U. delle disposizioni sull’immigrazione, per essersi lo stesso trattenuto illegalmente nel territorio dello Stato, in violazione dell’ordine impartito dal Questore, ai sensi del comma 5-bis dello stesso decreto. Tale disposizione era poi stata disapplicata in forza di una sopravvenienza normativa del diritto dell’Unione Europea - Direttiva 2008/115 - avente efficacia diretta e vincolante. Era intervenuta, a tal proposito, anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea25: “la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo.

Partendo da queste premesse, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha sancito un importante principio di diritto: “l’entrata in vigore della normativa comunitaria ha prodotto l’abolizione del reato previsto dalla disposizione sopra citata, e ciò, a norma dell’art. 2 del codice penale, ha effetto retroattivo, facendo cessare l’esecuzione della condanna e i relativi effetti penali. Tale retroattività non può non riverberare i propri effetti sui provvedimenti amministrativi negativi dell’emersione del lavoro irregolare, adottati sul presupposto della condanna per un fatto che non è più previsto come reato. 5.3. La conclusione cui il Collegio perviene non è ostacolata in modo persuasivo dalla tesi, 

prospettata dall’ordinanza di rimessione, secondo cui, per il principio tempus regit actum, sarebbero da ritenere comunque legittimi gli atti amministrativi adottati antecedentemente al mutamento della normativa. Il principio tempus regit actum esplica la propria efficacia allorché il rapporto cui l’atto inerisce sia irretrattabilmente definito, e, conseguentemente, diventi insensibile ai successivi mutamenti della normativa di riferimento. Tale la circostanza, evidentemente, non si verifica ove, come nella specie, siano stati esperiti gli idonei rimedi giudiziari volti a contestare l’assetto prodotto dall’atto impugnato. Non diversamente da quanto accade a seguito dell’accoglimento della questione incidentale di legittimità costituzionale, benché sulla base di una differente ricostruzione dei rapporti tra le diverse fonti coinvolte, è da ritenere che le disposizioni espunte dall’ordinamento per effetto della diretta applicabilità di norme comunitarie non possano più essere oggetto di applicazione, anche indiretta, nella definizione di rapporti ancora sub judice26.

Con due importanti sentenze27, confermate da un costante orientamento giurisprudenziale, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha affrontato il tema della rilevanza delle sopravvenienze nella particolare materia dell’immigrazione sotto un duplice profilo, quello procedurale e quello processuale.

La Sezione, pur mostrandosi aderente all’orientamento tradizionale e quindi affermando la validità della scelta amministrativa da valutarsi hic et nunc al momento della sua formulazione, ha aperto ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’irretrattabilità della situazione giuridica che prenda in considerazione gli elementi sopravvenuti, quando ciò sia l’unica possibilità per garantire l’effettività della tutela.

Ha affermato la Sezione, infatti, che, nella particolare materia del diritto dell’immigrazione ove vengono in rilievo diritti fondamentali della persona umana, il tradizionale impianto processualistico basato sul giudizio meramente impugnatorio non è idoneo a disvelare adeguatamente il necessario bilanciamento tra contrapposti interessi, quali la posizione giuridica del cittadino straniero con i valori, altrettanto essenziali, della sicurezza e della sostenibilità dei flussi migratori.

Questa posizione trova, anzitutto, conforto nella rinnovata visione del processo amministrativo inteso come giudizio dinamico e non statico. È in questa ottica, d’altra parte, che vanno letti ed interpretati 

gli ultimi approdi della giurisprudenza di legittimità sull’inesauribilità del potere amministrativo e la specifica funzione riconosciuta al giudicato amministrativo e al giudizio di ottemperanza, le ordinanze propulsive a mezzo delle quali il giudice amministrativo, in sede cautelare, ricorre chiedendo l’amministrazione competente di riesaminare la situazione giuridica del ricorrente28.

Ha affermato la Terza Sezione sul punto che “nella specifica materia dell’immigrazione, il giudizio amministrativo come giudizio sulla situazione giuridica soggettiva e non solo sull’atto impugnato, impone dunque la valutazione degli elementi che si sono effettivamente concretizzati nelle more tra l’istanza presentata, il suo esame da parte dell’amministrazione e il giudizio dinanzi al Giudice, specie quando ci sono gli elementi per il riconoscimento di altro titolo di soggiorno perché, se è vero che questi non potevano incidere sull’atto, incidono sulla situazione giuridica dell’appellante e la loro mancata valutazione può comprometterla irrimediabilmente, arrecando un pregiudizio a diritti fondamentali della persona umana”.

Il ragionamento alla base di questa posizione è evitare che una errata (perché fondata su presupposti non considerati) ponderazione degli interessi possa creare discriminazioni che sono incompatibili tra l’altro con il diritto eurounitario e internazionale. Una volta esaurito il potere dell’amministrazione, il cittadino straniero potrebbe trovarsi nella condizione di non poter richiedere un nuovo titolo di soggiorno. Del resto, il Testo unico in materia di immigrazione prende in considerazione la situazione del cittadino straniero che, nelle more di vigenza di un contratto di lavoro, venga a trovarsi in situazione di disoccupazione ma non prevede la possibilità di richiedere il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro ad un cittadino straniero che si trovi nella condizione di inoccupabilità lavorativa nel territorio italiano dopo il diniego del permesso di soggiorno per lavoro. 

2.     Le fonti del diritto amministrativo: la qualificazione giuridica delle circolari

Con riferimento al tema delle fonti del diritto amministrativo, merita rilievo la sentenza 23 giugno 2023, n. 7471 che ha trattato specificatamente delle circolari emanate dalla pubblica amministrazione29.

L’occasione è stato l’appello del Ministero dell’Interno su una questione attinente alla procedura di emersione dal lavoro irregolare30, prevista dall’ art. 103 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 e più precisamente, la legittimità di un provvedimento di rigetto motivato sulla circostanza che il cittadino straniero non aveva rinunciato alla richiesta di riconoscimento della protezione internazionale oggetto di giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione.

Dopo aver ricostruito il quadro normativo e la ratio della disciplina31 che si sostanziava nella necessità di garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria da Covid-19, il Collegio è passato alla disamina della posizione del richiedente asilo nell’accesso alla procedura di emersione, aspetto questo non affrontato dall’art. 103 sopra richiamato ma da fonti di soft law.

Come ha rilevato il Collegio, infatti, “in data 24 luglio 2020, il Ministero dell’Interno, di concerto con il Ministero del Lavoro e il Ministero delle Politiche Sociali, ha emanato una circolare avente ad oggetto la procedura di emersione che, tra gli altri aspetti, era dedicata alla compatibilità della procedura di emersione con la richiesta di protezione internazionale. Secondo tale circolare, “la procedura prevista dal comma 1 dell’art. 103 DL 34/2020, può essere avviata anche in favore di un cittadino straniero titolare di un permesso di soggiorno per richiesta asilo che abbia in corso un rapporto irregolare o che debba essere assunto dal datore di lavoro”.

Nelle frequently asked question, pubblicate sul sito del Ministero dell’Interno il 13 giugno 2020, è stato specificato che “rientrano perciò in tali categorie anche i richiedenti protezione internazionale (a prescindere da quando hanno presentato istanza), i denegati ricorrenti, gli irregolari, i possessori di permesso di soggiorno valido, gli stranieri oggetto di provvedimento di espulsione per violazione delle norme sull’ingresso ed il soggiorno (eccetto quelli previsti dal comma 10, lettera a) dell’art.103), i titolari di permesso di soggiorno non convertibile in permesso di lavoro (a titolo 

esemplificativo e non esaustivo studio, turismo, cure mediche, motivi religiosi, protezione speciale….)”.

La Sezione è giunta alla conclusione che la procedura di emersione di cui al secondo comma dell’art. 10332 si applica comunque ai richiedenti asilo perché non vi sono ragioni interpretative di carattere letterale, sistematico e teleologico che giustifichino una simile disparità di trattamento rispetto al comma 1.

Escludere i cittadini stranieri richiedenti asilo dall’ambito di applicazione della norma equivale a violare “principi di rango europeo quali il principio di parità di trattamento e non discriminazione e, in particolare, il principio di proporzionalità. Escludere il cittadino richiedente asilo non è né necessario per la finalità del legislatore né proporzionato in quanto provoca un sacrificio ingiustificato sulla posizione giuridica del destinatario.

Sarebbe frustrata indebitamente invero la stessa ratio della norma che era quella di “garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da COVID-19 e favorire l'emersione di rapporti di lavoro irregolari”33.

A tale conclusione, il Collegio arriva però partendo da una considerazione di carattere generale: la qualificazione delle circolari come atti interni destinati ad indirizzare e disciplinare l’attività amministrativa e non come fonti del diritto34.

Rileva la Sezione che “le circolari non costituiscono fonti del diritto. Pur trattandosi di atti che si indirizzano ad una generalità di destinatari, aventi un contenuto omogeneo, difettano del requisito della capacità di innovare l’ordinamento giuridico. Trattasi di atti amministrativi, a rilevanza interna alla pubblica amministrazione che li ha emanati e neppure vincolanti per i destinatari. In tale veste, quindi, non possono contenere disposizioni che derogano alla legge né essere considerate alla stregua dei regolamenti. La circolare summenzionata, in particolare, afferisce alla species delle circolari “interpretative”, quella particolare categoria di circolari che interpreta il dato normativo per evitare una applicazione difforme, dando, se necessario, indicazioni su singoli ma frequenti casi concreti. Anche a tale tipologia di circolare non può in alcun modo assegnarsi efficacia vincolante. Da ciò discende che il provvedimento amministrativo che non tenga conto della stessa e venga adottato sulla base di una interpretazione da parte dell’amministrazione non può dirsi illegittimo. Da tali premesse di sistema emerge chiaramente che, non trattandosi di fonti normative, il giudice non solo non è tenuto a conoscerle ma non ne è vincolato. Il Giudice è tenuto unicamente ad interpretare il dato normativo”.

3.     Il procedimento amministrativo: come cambia la fase istruttoria nel diritto dell’immigrazione.

Secondo una tradizionale definizione, il procedimento amministrativo è una “nozione di teoria generale collegata alle modalità di produzione di un effetto giuridico35”. Esso assolve a delle precise funzioni che possono essere sintetizzate come garanzia del contraddittorio, democraticità dell’azione amministrativa e possibilità di controllo sull’esercizio del potere da parte del giudice. Tali funzioni sono espressioni di beni giuridici che l’ordinamento intende proteggere in via rafforzata.

La giurisprudenza della Terza Sezione in materia di immigrazione ha approfondito anche taluni aspetti relativi alla procedimentalizzazione dell’attività della pubblica amministrazione proprio con 

riferimento alle funzioni del procedimento: la necessità che l’azione amministrativa si concluda in un tempo ragionevole36, il dialogo tra contrapposti interessi, l’adeguato approfondimento dell’istruttoria.

Meritano segnalazione, con riferimento all’adeguatezza dell’approfondimento istruttorio, tre recenti pronunce sul preavviso di rigetto, sulla residenza nella vita “fittizia” e sulla soglia del reddito.

2.1  Diritto al contraddittorio e preavviso di rigetto

Quando si è affrontato il tema delle sopravvenienze procedurali37, si è avuto modo di sottolineare quanto la corretta instaurazione del contraddittorio nell’ambito del procedimento amministrativo sia fondamentale ad individuare correttamente il punto di equilibrio tra i contrapposti interessi e a dare concretezza e attuazione ai principi di buon andamento e imparzialità previsti dalla Costituzione. È necessario che l’amministrazione abbia il quadro completo della situazione per ponderare al meglio le proprie decisioni. Uno degli strumenti individuati dal legislatore a tal fine è il preavviso di rigetto, previsto dall’art. 10 bis L. 7 agosto 1990, n. 24138. Come sottolineato dalla giurisprudenza della Terza Sezione, infatti, lo scopo del preavviso di rigetto è quello di far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti dell’istruttoria espletata, quelle ragioni – fattuali e giuridiche- dell’interessato, che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti39.

Con la sentenza 16 giugno 2022, n. 7267, la Terza Sezione ha affermato che “Nel procedimento amministrativo il contraddittorio con le parti rappresenta una pietra angolare del provvedimento che non è più espressione unicamente dell’interesse pubblico bensì della relazione, dell’intersezione dei diversi interessi pubblici e privati coinvolti. Ciò rileva non solo nella fase di avvio del procedimento ma tanto più nelle ipotesi in cui l’amministrazione intende rigettare un’istanza avanzata dall’interessato”. 

L’art. 10 bis deve tuttavia essere letto unitamente all’art. 21 octies, l. n. 241 del 1990 secondo cui, nella versione antecedente alla riforma di cui all’art. 12, comma 1, lett. i), d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, “è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.”

Per costante orientamento, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che il secondo capoverso della norma – quello relativo all’avvio del procedimento- si applicasse anche al preavviso di rigetto. Tuttavia, la norma ha subito una novella per opera dell’art. 12, comma 1, lett. i), d.l. n. 76 del 2020 e, nella sua configurazione attuale, “la disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell'articolo 10-bis”.

Pertanto, si poneva il problema di stabilire se la novella legislativa potesse applicarsi a provvedimenti amministrativi pendenti sub iudice ma resi in un momento temporale antecedente alla sua entrata in vigore e ciò proprio in considerazione della particolare configurazione del diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo e dei beni giuridici protetti dagli istituti di partecipazione.

Il Collegio ha ritenuto che fosse applicabile per due ordini di ragione: anzitutto la qualificazione dell’art. 21 octies comma 2 seconda parte come norma processuale e pertanto soggetta al regime del tempus regit actum40. Sotto un secondo e diverso profilo, sempre considerando il giudizio in materia di immigrazione nella sua peculiarità, la Terza Sezione ha ritenuto necessario il preavviso di rigetto per la peculiarità della materia oggetto di esame che coinvolge interessi delicati.

3.2  Sulla soglia del reddito rilevante ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro

In tema di istruttoria procedimentale e di perimetrazione della discrezionalità della pubblica amministrazione, merita anzitutto analisi la sentenza 19 maggio 2022, n. 447141, nell’ambito della quale la Terza Sezione ha affrontato tra l’altro la tematica della soglia del reddito che deve dirsi sufficiente ed idonea a sostenere il soggiorno dei cittadini stranieri sul territorio nazionale. In questo caso, il cittadino straniero si era visto revocare il permesso di soggiorno per motivi di lavoro per mancanza di mezzi di sussistenza; la sua soglia di reddito era inferiore a quella dell’assegno sociale che, per costante giurisprudenza amministrativa e prassi dell’amministrazione, è stata presa a parametro per la valutazione della sostenibilità del soggiorno sul territorio italiano.

Ebbene, in tale contesto, premesso che la capacità reddituale è un indicatore, secondo il legislatore, di inserimento nella società, del positivo risultato del percorso di integrazione con le leggi dello Stato e che tale requisito presenta il carattere dell’ineludibilità come chiarito da costante giurisprudenza amministrativa42, questo requisito deve essere meglio declinato, specie alla luce dell’art. 3 della Costituzione.

La Sezione, come ampiamente dedotto dalla sentenza richiamata, aveva già avuto modo di precisare che “il possesso di un reddito minimo corrispondente all'assegno sociale (al di fuori delle ipotesi in cui sia richiesto espressamente dalla legge, e cioè i casi del permesso di soggiorno CE e i casi di ricongiungimento familiare) rappresenta un criterio orientativo di valutazione e non un parametro rigido la cui mancanza sia automaticamente ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, dovendosi tener conto delle varie circostanze che di fatto concorrono a consentire il sostentamento dell'immigrato”(Consiglio di Stato, Sez. Terza, 18/10/2016, n. 4352).

Per orientare l’amministrazione nelle proprie valutazioni, il Giudice amministrativo ha riempito di contenuto questo precedente perimetrando – senza tuttavia creare un sistema chiuso – gli elementi che possono essere valorizzati in sede di istruttoria, anche in ossequio agli indirizzi giurisprudenziali resi dalla Corte di Giustizia sul principio di proporzionalità.

La circostanza che il reddito denunciato dal cittadino straniero richiedente non soddisfi “matematicamente” la soglia dell’assegno sociale non è di per sé automaticamente escludente. In caso di scostamenti non significativi da tale soglia, l’amministrazione dovrà valutare la presenza di altre 

circostanze di fatto che integrano il reddito da lavoro e permettano la liceità e la sostenibilità del soggiorno. Secondo il Collegio, “le circostanze che di fatto concorrono a consentire la sostenibilità del soggiorno dello straniero nello Stato possono essere di varia natura e possono collocarsi accanto al reddito da lavoro prodotto, senza sostituirlo. È possibile, infatti, che lo straniero entri nel circuito dell’assistenza sociale territoriale, sia inserito in percorsi di integrazione lavorativa promossi da enti pubblici territoriali, riceva aiuto dalle associazioni del Terzo Settore che collaborano con le stesse amministrazioni ovvero supporto da parte delle comunità stabili di connazionali. Si pensi ai percorsi di integrazione socio-lavorativa, cosiddetti “borse lavoro”, coordinati in collaborazione tra le stesse associazioni e gli enti locali, alle attività di distribuzione di beni di prima necessità, di assistenza legale e psicologica delle associazioni del terzo settore che operano a favore delle categorie fragili”.

L’esigenza di sicurezza è assicurata dall’individuazione dei presupposti che devono corredare tali circostanze di fatto al fine della loro rilevanza. Tali fonti di sostentamento devono essere certe, solide, periodiche e, soprattutto, documentate o documentabili. Il Collegio ha riconosciuto, in capo all’appellante, l’onere probatorio di allegare ogni elemento che possa provare la sussistenza di tali circostanze (ad esempio, l’allegazione di una relazione di presa in carico da parte degli enti o delle associazioni riconosciute43). Non è invece sufficiente un contributo sporadico, di provenienza incerta, inidoneo ad essere sottoposto alla valutazione dell’amministrazione ai fini della dimostrazione di sufficiente capacità economica. Per tali ragioni, il Collegio ha escluso la rilevanza degli aiuti di terzi che non soddisfino un adeguato livello di sicurezza, solidità e tracciabilità idonei a dimostrare la sostenibilità del soggiorno (e quindi la mera allegazione di “aiuti di amici o parenti”). 

3.3. Sulla residenza nella via “fittizia”, o via delle persone senza dimora.

Nella sentenza 10 novembre 2022, n. 11044, la Terza Sezione affronta per la prima volta la questione sulla rilevanza della residenza nella “via fittizia” o altrimenti chiamata “via delle persone senza dimora”.

Per comprendere adeguatamente la portata di questa pronuncia, occorre fare una premessa di carattere sistematico sul diritto a risiedere.

Il diritto a risiedere è anzitutto un diritto umano, protetto da fonti di diritto internazionale mentre è disciplinato, come chiarito dalla pronuncia, sotto il profilo del diritto interno, dall’art. 43 del codice civile che lo definisce “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale”.

La residenza è uno dei criteri di collegamento tra persone e luoghi insieme al domicilio e alla dimora. Essere residente in un luogo, quindi, essere iscritto anagraficamente ad uno specifico indirizzo, determina e instaura una serie di relazioni le quali sono espressioni di diritti e di doveri.

La residenza è anzitutto uno strumento di governo del territorio e di tutela della pubblica sicurezza. Permette alle autorità di pubblica sicurezza di individuare, rintracciare i soggetti iscritti anagraficamente ai fini di legge. Contemporaneamente, è uno strumento di garanzia per l’accesso del soggetto ai servizi che sono espressione di diritti fondamentali. Rientrano tra questi, per esempio, l’iscrizione al servizio sanitario e assistenziale territoriale, l’iscrizione nelle liste elettorali, l’accesso al gratuito patrocinio, l’iscrizione nelle liste di collocamento.

In termini più pratici, le persone non iscritte nelle liste anagrafiche diventano “invisibili” e questa invisibilità preclude l’accesso a diritti fondamentali della persona umana quali la salute, il lavoro e la previdenza sociale, la difesa in giudizio e, non in ultimo (anche se non viene in rilievo in caso di permesso di soggiorno) il diritto all’elettorato attivo e passivo.

Solo a titolo di esempio, senza l’iscrizione anagrafica, non ci si può iscrivere ad un centro per l’impiego, non si può aprire una partita IVA, non si può accedere al beneficio del gratuito patrocinio, non è possibile iscriversi al servizio sanitario nazionale44 (fatto salvo l’accesso al pronto soccorso), non si può percepire una pensione sociale o di invalidità, non si può chiedere il rilascio di un documento di riconoscimento munito di validità ed efficacia. Senza la residenza non è possibile accedere alle misure alternative alla detenzione e, ricorrendone i presupposti di legge, alle misure cautelari coercitive diverse dalla custodia cautelare in carcere.

Tale considerazione assume maggiore drammaticità se si legge attraverso le lenti dell’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani secondo cui “ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha 

diritto alla sicurezza in casi di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.

La situazione si complica ancor più quando è il cittadino straniero ad essere senza dimora.

Con riguardo all’iscrizione anagrafica per i cittadini stranieri, la Sezione ha richiamato anche l’art. 43 della Convenzione Internazionale per i Diritti dei migranti lavoratori e delle loro famiglie che, benché non ancora ratificata dall’Italia, mantiene una efficacia di principio45.

Significativo, a tal proposito, è il comma 2 dell’art. 43 che pone, in capo agli Stati firmatari, l’obbligo di non discriminazione, tra l’altro sotto il profilo dell’accesso alla casa (da intendersi, per sineddoche, come diritto a risiedere) nei confronti dei migranti lavoratori.

Ha poi sottolineato la Sezione che, sotto il profilo di diritto interno, “il diritto a risiedere in un determinato luogo è stato qualificato dalla dottrina e dalla giurisprudenza come diritto soggettivo pieno. Esso si configura alla presenza di due elementi: uno oggettivo e uno soggettivo. Sotto il primo profilo, rileva l’effettiva permanenza fisica del soggetto in un determinato luogo, dal punto di vista soggettivo, invece, dirimente è la volontà di permanenza, desumibile anche da fatti concludenti”.

Senza entrare nel merito della ricostruzione di tutta la disciplina sulla iscrizione anagrafica, con riferimento alla posizione del cittadino straniero46, il TU immigrazione ha previsto una clausola di equiparazione tra i cittadini italiani e i cittadini stranieri si inserisce l’art. 6 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 

286, e più specificatamente i commi 7 e 8 a mente dei quali: “Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione. In ogni caso la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza. Dell'avvenuta iscrizione o variazione l'ufficio dà comunicazione alla questura territorialmente competente.

  1. Fuori dei casi di cui al comma 7, gli stranieri che soggiornano nel territorio dello Stato devono comunicare al questore competente per territorio, entro i quindici giorni successivi, le eventuali variazioni del proprio domicilio abituale”.

Dato questo quadro, per fare fronte a questo vulnus di tutela, alcuni Comuni italiani hanno creato liste anagrafiche particolari, provvedendo ad iscrivere come residenti persone sprovviste di una dimora fisica al fine di garantire loro l’accesso a diritti fondamentali sopra elencati da cui altrimenti verrebbero esclusi.

La via “fittizia” o “via delle persone senza dimora” è una strada che non esiste fisicamente nella toponomastica della città ma che permette di iscrivere anagraficamente coloro i quali siano sprovvisti di una dimora stabile. Per salvaguardare l’esigenza di controllo del territorio, al fine di procedere all’iscrizione, i Comuni richiedono in genere la dichiarazione di volontà di rimanere sul territorio e quanto viene definito, nelle parole della Corte EDU47the existence of sufficient and continuous links with a specific place, vale a dire documenti che comprovino il legame “fisico” e assistenziale del soggetto richiedente con il territorio stesso (ad esempio, una relazione rilasciata dai servizi sociali o dagli enti del terzo settore che provvedono a fornire aiuti attraverso il cibo, l’assistenza medica, l’assistenza legale gratuita per coloro che non possono accedere al gratuito patrocinio).

Nel caso all’attenzione della Terza Sezione, ove il diniego si era fondato proprio sull’asserita invalidità dell’ iscrizione anagrafica – l’ appellante era iscritto anagraficamente nella Via Alfredo Renzi, via fittizia istituita presso il Comune di Napoli48 – è stato dimostrato che proprio tale iscrizione 

anagrafica gli aveva permesso di ricevere la convocazione per la visita per il riconoscimento dell’invalidità civile nonché il provvedimento della Commissione di riconoscimento della suddetta condizione a riprova che l’esigenza di controllo sul territorio può essere soddisfatta anche attraverso questo strumento.

L’obiezione che l’amministrazione muoveva al riconoscimento della validità della via fittizia era sostanzialmente l’esigenza di controllo. Se la residenza ha come obiettivo il controllo del territorio, è impossibile individuare qualcuno che non è rintracciabile in un luogo fisico. Di tale obiezione si è fatto carico il Collegio, individuando proprio nella funzione dell’istruttoria procedimentale l’antidoto per la risoluzione del problema e per la migliore tutela della sicurezza pubblica. È infatti compito dell’amministrazione, conclude la sentenza, “verificare accuratamente e caso per caso se lo strumento dell’iscrizione anagrafica nella “via fittizia”, di per sé lecito, ottenuto secondo i presupposti di legge e in osservanza dei regolamenti dei singoli Comuni, sia stato utilizzato dall’istante come strumento per eludere leggi e costituisca pertanto un rischio per la sicurezza pubblica e per le norme poste a tutela di specifici settori. Di tale verifica, l’Amministrazione deve dare compiutamente atto nel provvedimento”. 

4. Conclusioni

La lettura di queste pronunce ci consegna un dato. Il giudice amministrativo, nell’ambito del perimetro della propria giurisdizione sul potere secondo il tradizionale paradigma “norma- potere- effetto”, non si occupa più soltanto della pubblica amministrazione. Il giudice amministrativo si occupa finalmente delle persone, dei loro diritti fondamentali.

Ha cambiato prospettiva, ha allargato la visuale per dare risposta all’esigenza di giustizia segnalata dalle Corti sovranazionali e dal Giudice delle leggi, partecipando ad una sfida tutta moderna che vede il cittadino al centro dell’azione amministrativa.

All’amministrazione si chiede uno sforzo in più, una tensione verso l’approfondimento, l’ascolto, la verifica fattuale e contro fattuale, in un’ottica di più ampio respiro dominata dal principio della buona fede che esige il rispetto non soltanto del diritto interno ma anche e a maggior ragione degli obblighi internazionali.

 

NOTE:

1 Richiamato dallo stesso legislatore, nell’art. 1 del d.lgs. 286 del 1998 secondo cui: “Il presente testo unico, in attuazione dell'articolo 10, secondo comma, della Costituzione, si applica, salvo che sia diversamente disposto, ai cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea e agli apolidi, di seguito indicati come stranieri.

2 Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26 febbraio 2015, n. 965.

3 «1) Se l’articolo 20, paragrafi da 1 a 3, della direttiva [2013/33] debba essere interpretato nel senso che esso stabilisce in modo tassativo i casi nei quali le condizioni materiali di accoglienza possono essere ridotte o revocate, o se dall’articolo 20, paragrafi 4 e 5, [di tale direttiva] discenda che la revoca del diritto alle condizioni materiali di accoglienza può avere luogo anche a titolo di sanzione applicabile alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché ai comportamenti gravemente violenti.

  • Se l’articolo 20, paragrafi 5 e 6, [di tale direttiva], debba essere interpretato nel senso che, prima di adottare una decisione relativa alla riduzione o alla revoca delle condizioni materiali di accoglienza o a sanzioni, gli Stati membri devono adottare le misure necessarie che garantiscono il diritto a un tenore di vita dignitoso durante il periodo di esclusione, o se tali disposizioni possano essere rispettate mediante un sistema in cui, dopo la decisione di riduzione o di revoca della condizione materiale di accoglienza, si verifica se la persona che forma l’oggetto della decisione goda di un tenore di vita dignitoso ed eventualmente si adottano in quel momento misure correttive.
  • Se l’articolo 20, paragrafi 4, 5 e 6, [della direttiva 2013/33], in combinato disposto con [i suoi] articoli 14 e da 21 a 24 (...) e con gli articoli da 1, 3, 4 e 24 della [Carta], debba essere interpretato nel senso che una misura o sanzione

di esclusione provvisoria (o definitiva) dal diritto a condizioni materiali di accoglienza è possibile, o non è possibile, nei confronti di un minore, segnatamente nei confronti di un minore non accompagnato».

4 Si tratta della Causa pregiudiziale C-422/2021, sentenza 1 agosto 2022, disponibile, in italiano, sul sito ufficiale https://curia.europa.eu/jcms/jcms/j_6/it/

5 Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 15 dicembre 2020, n. 8540.

6 Sotto il profilo del potere di revoca, il Collegio ha richiamato l’indirizzo secondo cui “postula una valutazione in concreto della singola fattispecie e della particolare situazione della persona interessata, anche sotto il profilo della proporzionalità del provvedimento rispetto alla gravità delle condotte accertate. Deve in particolare accertarsi con sufficiente certezza la specifica condotta imputabile allo straniero, la cui gravità va valutata in rapporto alle esigenze di ordinato funzionamento delle strutture d’accoglienza, dovendosi dare conto attraverso un’idonea motivazione degli elementi di fatto considerati e del percorso logico seguito per approdare alla determinazione assunta. L’obbligo istruttorio e motivazionale che grava sull’amministrazione è tanto più pregnante laddove si consideri che l’esercizio del potere di revoca di cui si tratta va a incidere su esigenze primarie di persone in stato di bisogno, deprivandole di quel minimo d’assistenza che costituisce il primo e fondamentale livello per un percorso d’integrazione nel territorio, altrimenti messo a rischio, con pregiudizio non solo circoscritto al soggetto colpito dal provvedimento, ma esteso all’intero contesto sociale in cui lo straniero, in seguito all’allontanamento dal centro d’accoglienza, è costretto a vivere nell’assenza di punti di riferimento” (cfr., ex plurimis, T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 16 marzo 2018, n. 100; T.R.G.A. Bolzano, Sez. I, 19 giugno 2017, n. 191).

7 La Corte ha quindi stabilito che: l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33 deve essere interpretato nel senso che esso osta all’irrogazione, a un richiedente protezione internazionale che abbia posto in essere comportamenti gravemente violenti nei confronti di funzionari pubblici, di una sanzione consistente nel revocare le condizioni materiali di accoglienza, ai sensi dell’articolo 2, lettere f) e g), di tale direttiva, riguardanti l’alloggio, il vitto o il vestiario, qualora ciò abbia l’effetto di privare detto richiedente della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. L’irrogazione di altre sanzioni ai sensi del citato articolo 20, paragrafo 4, deve, in qualsiasi circostanza, rispettare le condizioni di cui al paragrafo 5 di tale articolo, in particolare quelle relative al rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana.

8 L’art. 5 quater DL. 10 marzo 2023, n. 20 convertito con modifiche dalla Legge 5 maggio 2023, n. 50.

9 Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 14 settembre 2023, n. 8351.

10 In tema di disapplicazione della normativa interna sulle misure di accoglienza, v. anche Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 10 novembre 2022, n. 10999 secondo cui: “ai fini della decisione del caso in esame, si deve ricordare che per costante giurisprudenza le pronunce della Corte di Giustizia dell’Ue hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati membri, al pari dei regolamenti e delle direttive, vincolando sia le Amministrazioni che i giudici nazionali alla disapplicazione delle norme interne con esse confliggenti (v. Corte Cost. sentenze n. 113 del 1985 e 389 del 1989; ordinanze n. 274 del 1986 e 132 del 1990). Da ciò discende che la regula che disciplina il caso in esame deve rinvenirsi non solo nella normativa di cui alla direttiva 2013/33/Ue e al d.lgs. n. 142/2015, ma anche nella sentenza della Corte di Giustizia del 1° agosto 2022 (resa nella causa C-422/2021). Applicando le sopra riportate coordinate ermeneutiche alla fattispecie concreta dedotta in giudizio, deve essere disapplicata nel caso di specie la disposizione di cui alla lettera a) dell’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, siccome contraria al diritto dell’Unione europea, e dichiararsi dunque l’illegittimità del provvedimento di revoca delle misure di accoglienza gravato in primo grado, in quanto avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari, in primis il diritto all’alloggio e tutti i diritti che da esso derivano. Il Collegio è consapevole che la declaratoria di illegittimità europea e la conseguente disapplicazione della normativa nazionale in contrasto con il diritto euro-unitario creano un vuoto normativo, in quanto l’ordinamento non prevede alcuna sanzione alternativa alla revoca a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale che si siano resi responsabili di comportamenti gravemente violenti. Né, allo stato, risulta alcun intervento del Legislatore atto a colmare il vuoto normativo venutosi a creare già per effetto della richiamata sentenza Corte di Giustizia dell’Ue – Grande Sezione del 12 novembre 2019 (resa nella causa C233/2018). Rimane tuttavia riservato al Legislatore, nel rispetto del principio costituzionale della separazione dei poteri, il compito di apprestare una disciplina che adegui il regime delle sanzioni sia alle esigenze di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, sia al particolare status dei richiedenti protezione internazionale, intervento divenuto ormai indifferibile, non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto europeo come fornita dalla Corte di Giustizia dell’Ue. In conclusione, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza deve essere accolto il ricorso di primo grado e annullato il provvedimento in quella sede avversato”.

11 Nella formulazione ratione temporis vigente al momento della rimessione alla Corte Costituzionale: “(…)Non è ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi tali requisiti o che sia considerato una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone o che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall'articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impedisce l'ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale ((, nonché dall'articolo 1 del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, e dall'articolo 24 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773.)). Lo straniero per il quale è richiesto il ricongiungimento familiare, ai sensi dell'articolo 29, non è ammesso in Italia quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”

12 Si tratta, precisamente, dei seguenti provvedimenti: Consiglio di Stato, Sezione Terza, ordinanza 19 maggio 2022, pubblicata il 23 giugno 2023, n. 5171 (reato di cui all’art. 474 c.p. rubricato “introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi”); Consiglio di Stato, Sezione Terza, ordinanza 16 giugno 2022, pubblicata l’1 luglio 2022, n. 5492 (reato di cui all’art. 73 comma 5, DPR 309/90, rubricato “Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope”).

13 Corte Costituzionale, sentenza 18 luglio 2013, n. 202.

14 Sul punto, la sentenza Consiglio di Stato, Sezione Terza, 13 aprile 2023, n. 4758, ricostruisce puntualmente il quadro: “al fine della dovuta considerazione, in subiecta materia, dei vincoli familiari esistenti, cui fa riferimento l’art. 5, comma 5, dlgs 286/1998, si richiede che gli stessi siano effettivi, escludendo che questi assumano di per sé carattere preminente. La presenza di una famiglia sul territorio italiano non può costituire “scudo o garanzia assoluta di immunità dal rischio di revoca o diniego di rinnovo del permesso di soggiorno” (cfr. ex multis la citata sentenza del Cons. Sato, Sez. III, n. 5950 del 13 luglio 2022). Tuttavia, è necessario che l’amministrazione operi il corretto e proporzionato bilanciamento tra i valori, tutti costituzionalmente protetti, che vengono in rilievo nelle fattispecie di che trattasi. Di tale valutazione, l’amministrazione deve dare compiutamente e specificatamente conto nelle motivazioni dei provvedimenti. È solo in questo modo che si scongiura il rischio dell’automatismo che pregiudica non soltanto in via diretta il bene costituzionale dell’unità familiare ma, più in generale, il principio di uguaglianza, anch’esso protetto dalla Carta costituzionale (...). La Questura non ha dato conto, in alcun modo, dei pregnanti legami familiari dell’odierna appellante sul territorio nazionale e, nello specifico, dell’esistenza delle due figlie minorenni, una delle quali nata prima che fosse adottato il provvedimento. Tale circostanza, anche unitamente agli altri elementi che comprovino il radicamento dell’interessata sul territorio nazionale, deve essere necessariamente valutata dalla competente Questura nel bilanciamento con gli elementi di pericolosità tratti dalle pur gravi condotte penalmente rilevanti di cui la cittadina straniera si è resa responsabile.

15 L’articolo 5 recita infatti “Gli Stati parti rispettano le responsabilità, i diritti ed i doveri dei genitori o, all'occorrenza, dei membri della famiglia allargata o della comunità, secondo quanto previsto dalle usanze locali, dei tutori o delle altre persone legalmente responsabili del bambino/a, di impartire a quest'ultimo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l'orientamento ed i consigli necessari all'esercizio dei diritti che gli riconosce la presente Convenzione.

16 Così al paragrafo 1.6 sulla non infondatezza di entrambe le ordinanze in commento: “Il principio di proporzionalità ha anzitutto radici nel diritto eurounitario. Da canone ermeneutico utilizzato dalla Corte di Giustizia (ex plurimis, C-8/1955 Fédération Charbonnière, C- 5-11-13-15/1962 Società acciaierie San Michele) ha assunto sempre una maggiore preminenza nel panorama dei principi fondamentali del diritto europeo, sino a trovare positivizzazione nel Trattato dell’Unione Europea, all’art. 5. Il principio di proporzionalità, inteso quale limite all’azione delle istituzioni dell’Unione a quanto è strettamente necessario per il conseguimento degli obiettivi del Trattato, è al tempo stesso criterio di predisposizione degli atti normativi e amministrativi e parametro di valutazione degli stessi.

Tale principio è stato declinato secondo due modelli, un modello trifasico e un modello bifasico.

Secondo il primo, la proporzionalità si compone di tre elementi: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. È idonea la misura che permette il raggiungimento del fine, il conseguimento del risultato prefissato. La misura deve essere poi necessaria, vale a dire l’unica possibile per il raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalità in senso stretto richiede, invece, che la scelta amministrativa ovvero legislativa non rappresenti un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato”.

17 Sulla differenza tra principio di proporzionalità e principio di ragionevolezza, cfr. anche Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26 febbraio 2015, n., 965 secondo cui “il principio di proporzionalità, di derivazione europea, impone 

19 Ai sensi dell’art. 5 comma 5 TU immigrazione, “Il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 22, comma 9, e sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili. Nell'adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi dell'articolo 29, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d'origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale”.

20 Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 19 maggio 2022, pubblicata l’11 luglio 2022, n. 5801.

21 Da ultimo, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18 dicembre 2023, n. 10976.

22 Corte di Cassazione, SU, sentenza 19 gennaio 2023, n.1567.

23 Sulla incidenza delle sopravvenienze nel giudizio di ottemperanza cfr. Adunanza Plenaria, 9 giugno 2016, n. 11 secondo cui: “nella contrapposizione fra naturale dinamicità dell’azione amministrativa nel tempo ed effettività della tutela, un punto di equilibrio è stato tradizionalmente rinvenuto nel principio generale per cui l’esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle sopravvenienze di fatto e diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile; sicché la www.ildirittoamministrativo.it 10 sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica medesima”.

Vedi, da ultimo, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, sentenza 27 novembre 2023, pubblicata il 16 novembre 2023, n. 10143, secondo cui: “alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza di questo Consiglio, nel processo amministrativo, in sede di esecuzione del giudicato, assumono rilievo anche le sopravvenienze normative o di fatto alle quali si attribuisce la capacità di limitare o escludere gli effetti ulteriori del giudicato, imponendo al giudice, in sede di esecuzione dello stesso, di integrare e, talora, addirittura di variare le statuizioni della decisione da eseguire; perciò, al momento dell'ottemperanza alla decisione si deve indagare se il ripristino della posizione soggettiva (illegittimamente) sacrificata risulti compatibile con lo stato di fatto e di diritto medio tempore prodottosi (cfr., fra le tante, Cons. Stato, IV, 22 luglio 2022, n. 6429; V, 21 novembre 2018, n. 6582, IV, 22 marzo 2017, n. 1300)”.

24 Ad esempio, la Terza Sezione, dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale 8 maggio 2023, n. 88 ha accolto gli appelli ritualmente riassunti dalle parti che avevano ad oggetto provvedimenti amministrativi di diniego al rilascio ovvero al rinnovo del permesso di soggiorno motivati sulla sussistenza di condanne per reati di cui agli artt. 474 c.p. e art. 73 comma 5 DPR 309/90 (ex plurimis, Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenza 21 settembre 2023, n. 9225. 

25 Corte di Giustizia, sentenza 28 aprile 2011, C-61/11.

26 Cfr. par. 5.2 e 5.3 l’Adunanza Plenaria, con la sentenza 11 maggio 2011 n. 7.

27 Cfr. Consiglio di Stato, III Sezione, sentenza 19 maggio 2022, n. 4467; Consiglio di Stato, III Sezione, sentenza 19 maggio 2022, n. 4471.Tale orientamento è stato ripetutamente ribadito dalla Sezione in una giurisprudenza che conta ormai centinaia di sentenze. Si segnalano, a solo titolo di esempio, le sentenze: 11 novembre 2023, n. 10245; 5 giugno 2023, n. 5498; 3 aprile 2023, n. 3421.

28 Di questo dinamismo ne è prova anche l’atteggiamento della giurisprudenza, specie di primo grado, in caso di giudizi avverso il silenzio. In taluni casi, il giudice amministrativo ha respinto i ricorsi avverso il silenzio serbato dall’amministrazione dopo che la stessa ha risposto, nelle more del giudizio, ad adempimento istruttori aventi ad oggetto lo stato del procedimento amministrativo (cfr. tra tutte, Tar Firenze, sentenza 14 novembre 2023, n. 1042).

29 Per una ricostruzione sulla natura, classificazione delle circolari cfr. M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Quinta Edizione, pp. 89-93. anche, Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 23 dicembre 2022, n. 11281.

30 La procedura di emersione, pur attinta da numerose pronunce della Terza Sezione del Consiglio di Stato, non sarà oggetto del presente contributo perché, al momento in cui si scrive, è pendente la questione di legittimità costituzionale rimessa dal Tribunale amministrativo per il Piemonte con ordinanza collegiale 25 gennaio 2023, n. 156. Il giudice a quo ha dubitato della tenuta costituzionale dell’art. 103, comma 10, lett. c) del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 per violazione dell’art. 3 Cost. e dell’art. 117, primo comma Cost. in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali “nella parte in cui fa derivare automaticamente il rigetto della istanza di regolarizzazione del lavoratore straniero dalla pronuncia nei suoi confronti di una sentenza di condanna per il reato previsto dall’art. 73, comma 5 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, senza prevedere che la pubblica amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato”.

31 Cfr. paragrafo n. 1 sentenza 23 giugno 2023, n. 7471.

32 La procedura di emersione prevista dall’art. 103 d.lgs. decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 prevedeva due canali di emersione.

Il primo, previsto dal comma 1, riguardava la possibilità per i datori di lavoro – operanti negli specifici settori di lavoro quali agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse, assistenza alla persona per sé stessi o per componenti della propria famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza e lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare - di concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero di dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri che siano già stati sottoposti a rilievi fotodattiloscopici prima dell’8 marzo 2020 ovvero che abbiano soggiornato in Italia prima dell’8 marzo 2020. Tale circostanza sarebbe dovuta emergere da una dichiarazione di presenza ovvero da attestazioni costituite da documentazioni di data certa proveniente da organismi pubblici (certificati medici, multe, etc.).

Il secondo aveva come presupposti l’essere stato titolare di un permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, la presenza sul territorio nazionale prima dell’8 marzo 2020 e aver svolto attività di lavoro nei settori richiamati al comma 1 antecedentemente al 31 ottobre 2019.

 

33 La sentenza affronta anche l’altrettanto centrale tema della rinuncia che, nella prospettazione del Ministero appellante, era elemento necessario per accedere alla procedura. La Terza Sezione, enunciando un principio di diritto a carattere generale, specifica che “Neppure si può chiedere al cittadino straniero di “rinunciare” al proprio diritto.

Senza entrare nel merito della qualificazione giuridica della “rinuncia”, basti qui ricordare che il titolare di una posizione giuridica può rinunciarvi in caso di diritti disponibili ma tale rinuncia non può mai essere eterodiretta. L’atto di rinuncia deve essere consapevole e libero. È possibile che il cittadino straniero sia entrato in Italia come richiedente asilo e, dal momento che l’attività lavorativa non è incompatibile con questa posizione giuridica, abbia lavorato in uno dei settori previsti dalla procedura di emersione e poi abbia ricevuto una risposta negativa dalla competente commissione. Il riconoscimento della protezione umanitaria o di altro titolo non è legato unicamente alle condizioni del cittadino straniero ma dipende da una serie di elementi, per lo più probatori, che non sempre riescono ad emergere in giudizio per diverse cause, tra cui rientra anche la difficoltà di reperire documenti nel Paese di origine.

Precludere la possibilità di accedere ad un diverso canale, se non rinunciando all’altro, risulta, a parere del Collegio discriminatorio della posizione giuridica del cittadino straniero.”

34 Sulla qualificazione giuridica delle circolari cfr. Cassazione civile, ordinanza 10 agosto 2015, n. 16644; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 28 gennaio 2016, n. 310, entrambe richiamate nel volume “I Leading case del diritto amministrativa: guida ragionata alle decisioni delle Corti superiori”, M. Corradino, E. M. Lanza, Cacucci Editore, 2023.

35 M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Quinta Edizione, pp. 226.

36 Cfr., Consiglio di Stato, Sezione Terza, sentenza 7 novembre 2022, n. 9742, secondo cui: “la Sezione ritiene che, pur in assenza di una puntuale indicazione normativa, sia possibile rinvenire nelle maglie della normativa un implicito termine residuale applicabile ai procedimenti in oggetto e che il termine possa ricavarsi in via interpretativa proprio dalle disposizioni di legge innanzi richiamate. 12.1 - Le stesse, infatti, nel fissare come ordinariamente superabile, nella materia degli stranieri, il limite temporale dei 180 giorni, lasciano intendere che è proprio questo il parametro ordinario di durata al quale rapportare il loro svolgimento. Se il punto di “tolleranza” si situa intorno alla soglia “critica” dei 180 giorni, è ragionevole fissare su tale standard il limite di durata “ordinario”, oltre il quale può ravvisarsi il superamento del termine da parte dell’amministrazione”.

37 Cfr. supra paragrafo 1.4

38 Per una disamina sulle pronunce in tema di preavviso di rigetto v. “I Leading case del diritto amministrativa: guida ragionata alle decisioni delle Corti superiori”, M. Corradino, E. M. Lanza, Cacucci Editore, 2023, pp. 72 e 73.

39 Idem, cita Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 1 agosto 2014, n. 4127.

40 Sul punto si era espressa anche Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14 marzo 2022, n. 1790 secondo cui: “la nuova disposizione è [sia] applicabile anche ai procedimenti in corso, in quanto la consolidata giurisprudenza ha attribuito all’ art. 21 octies comma 2 seconda parte la natura di norma di carattere processuale, come tale applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (Cons. St., sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800; id. 9 gennaio 2020, n. 165; id., sez. V, 15 luglio 2019, n. 4964; id., sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 359), con la conseguenza che si deve ritenere immediatamente applicabile alle fattispecie oggetto di giudizi pendenti, per i quali in caso di omissione del preavviso di rigetto resta inibita all’Amministrazione la possibilità di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. Cons. St., sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378). Pertanto, la norma si deve applicare nel testo vigente al momento del giudizio e non può dunque, allo stato, farsi alcun riferimento alla circostanza che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, circostanze, peraltro, neppure risultanti dagli atti di causa né dalla costituzione - meramente di stile - dell’Amministrazione.”

41 Cfr. supra, in tema di sopravvenienze. V. anche, Consiglio di Stato, Sez. III sentenza 10 maggio 2023, n. 4722; sentenza 28 novembre 2023, n. 10218.

42 Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 2 novembre 2017, n. 5082 e sentenza 28 aprile 2017, n. 1971.

43 Il Collegio si è mostrato sensibile al riconoscimento dell’apporto che le organizzazioni del Terzo Settore forniscono alle esigenze della collettività tra l’altro nelle iniziative di lotta alla povertà. Un esempio di aiuto che soddisfi i requisiti può essere individuato negli empori solidali organizzati dalle associazioni di volontariato: gli Empori solidali della Caritas, tra i più conosciuti, si servono di “Centri di Ascolto che individuano le famiglie che possono accedere agli Empori della solidarietà; gli operatori degli Empori assegnano una tessera e e i relativi punti in base alla composizione del nucleo famigliare ed alle condizioni socioeconomiche. Le famiglie accedono agli Empori della Solidarietà per fare la spesa: possono trovare anche prodotti per l’igiene personale e della casa. Il patrimonio di punti va gestito dalla famiglia e quindi diventa uno strumento educativo e di responsabilizzazione. L'aiuto è a tempo determinato per evitare assistenzialismo e accompagnare le persone all'autonomia. Gli operatori e i volontari degli Empori della Solidarietà analizzano gli acquisti e aiutano a "spendere" i punti al meglio” (così sul sito https://empori.caritasambrosiana.it/).

44 Sono cinque attualmente le Regioni in Italia - Emilia Romagna, Puglia, Abruzzo e Liguria e da ultimo le Marche con la legge 7 novembre 2023, n. 18- che prevedono l’iscrizione dei cittadini italiani senza dimora negli elenchi dell'anagrafe sanitaria regionale.

45Secondo l’art. 43 della richiamata Convenzione:

  1. Migrant workers shall enjoy equality of treatment with nationals of the State of employment in relation to:
  • Access to educational institutions and services subject to the admission requirements and other regulations of the institutions and services concerned;
  • Access to vocational guidance and placement services;
  • Access to vocational training and retraining facilities and institutions;
  • Access to housing, including social housing schemes, and protection against exploitation in respect of rents;
  • Access to social and health services, provided that the requirements for participation in the respective schemes are met;
  • Access to co-operatives and self-managed enterprises, which shall not imply a change of their migration status and shall be subject to the rules and regulations of the bodies concerned;
  • Access to and participation in cultural
  1. States Parties shall promote conditions to ensure effective equality of treatment to enable migrant workers to enjoy the rights mentioned in paragraph 1 of the present article whenever the terms of their stay, as authorized by the State of employment, meet the appropriate requirements.
  2. States of employment shall not prevent an employer of migrant workers from establishing housing or social or cultural facilities for them. Subject to article 70 of the present Convention, a State of employment may make the establishment of such facilities subject to the requirements generally applied in that State concerningtheir installation;

46 Centrale, in tale ricostruzione, è la sentenza della Corte Costituzionale 8 luglio 2020, n. 180 cha ha dichiarato incostituzionale dell’art. art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015 e, in via consequenziale, dell’art. 13 d.l. 4 ottobre 2018, n. 113. In tale arresto, si legge, tra l’altro, che “negando l’iscrizione anagrafica a coloro che hanno la dimora abituale nel territorio italiano, tuttavia, la norma censurata riserva un trattamento differenziato e indubbiamente peggiorativo a una particolare categoria di stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione: se infatti la registrazione anagrafica è semplicemente la conseguenza del fatto oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo, la circostanza che si tratti di un cittadino o di uno straniero, o di uno straniero richiedente asilo, comunque regolarmente insediato, non può presentare alcun rilievo ai suoi fini.”

47 Cfr. Corte Europea dei diritti dell’Uomo, sentenza Winterstein e altri c. Francia, § 141.

48 Le vie “fittizie” traggono generalmente il nome da persone senza dimora che hanno perso la vita in condizioni di vulnerabilità, ghettizzazione, anonimia, disagio, violenza.

A Roma la via fittizia è “via Modesta Valenti”, dal nome di Modesta Valenti, morta dopo quattro ore di agonia in strada. Il suo nome è inciso su una targa che si trova presso il binario 1 della stazione Termini, sul lato di Via Marsala. Sul marmo è scritto: «in memoria di Modesta Valenti. Anziana senza dimora simbolo delle persone che vivono per strada. Morta in questo luogo il 31 gennaio 1983. La città di Roma la ricorda perché nessuno muoia più abbandonato».

A Bologna: via Mariano Tuccella, morto il 30 settembre del 2007, in seguito a una violenta aggressione;

A Firenze la via è dedicata a Libero Leandro Lastrucci, assistente sociale e direttore dell’Albergo Popolare che ha dedicato la sua vita alle persone senza dimora;

A Napoli si trova Via Alfredo Renzi, una persona senza dimora morta al freddo, di freddo; A Brindisi, via Francesco Fersini, brutalmente ucciso nel 1994.

Per una disamina completa e la mappatura delle “vie fittizie” cfr. https://www.fiopsd.org/elenco-vie-fittizie/