Studi
Mercato, regolazione e Private Antitrust Enforcement.
Giuseppe Maria Marsico
Mercato, regolazione e Private Antitrust Enforcement.
Giuseppe Maria Marsico
Abstract
La connessione fra regolazione, mercato e autorità indipendenti è molto stretta sia nell’esperienza giuridica, sia nella riflessione scientifica. Le autorità indipendenti nascono per regolare attività, o settori o, secondo la denominazione oggi corrente, mercati. In alcuni ordinamenti, la regolazione si caratterizza come un fenomeno di estensione della disciplina pubblica: comportamenti una volta lasciati alla libera autodeterminazione dei soggetti interessati o alla negoziazione vengono assoggettati a regole pubbliche, valide per tutti e volte tutelare non solo gli interessi regolati, ma anche interessi di terzi (gli utenti, i consumatori, più in generale gli stakeholders). In tale ottica, il ricorso alla armonizzazione massima come strumento in grado di aumentare considerevolmente la ‘certezza giuridica’ sia per i consumatori che per le imprese mediante l’adozione di un unico quadro normativo uniforme capace di eliminare gli ostacoli derivanti dalla frammentazione delle norme nel mercato interno, risulta ‘temperato’ dalla coesistenza all’interno dello stesso strumento normativo – accanto alle disposizioni inderogabili– di disposizioni che, viceversa, consentono agli Stati membri di introdurre un livello di tutela più elevato.
The connection between regulation, market and independent authorities is very close both in legal experience and in scientific reflection. Independent authorities are created to regulate activities, or sectors or, according to the current denomination today, markets. In some systems, regulation is characterized as a phenomenon of extension of public discipline: behaviors once left to the free self-determination of the interested parties or to negotiation are subjected to public rules, valid for everyone and aimed at protecting not only the regulated interests, but also interests of third parties (users, consumers, more generally stakeholders). From this perspective, the use of maximum harmonization as a tool capable of considerably increasing 'legal certainty' for both consumers and businesses through the adoption of a single uniform regulatory framework capable of eliminating the obstacles deriving from the fragmentation of the rules in the internal market, is 'tempered' by the coexistence within the same regulatory instrument - alongside the mandatory provisions - of provisions which, vice versa, allow Member States to introduce a higher level of protection.
Sommario: 1. Profili introduttivi sulla regolazione multilivello euro-unitaria del mercato e Private Antitrust Enforcement. - 1.1. Tra contratto e mercato efficiente. - 2. Il complesso e sfumato discrimen tra consumatore e investitore. - 3. Le clausole vessatorie: tra atipicità e tipicità (cenni). - 3.1. Il divieto di pratiche commerciali scorrette: tra mercato e regolazione. - 3.2. Tutele rimediali del contraente debole: tra asimmetria informativa e finanza. - 3.3. Sul perimetro applicativo dell’art 33 della legge n. 287/1990: sulla possibile coesistenza tra il rimedio della nullità e lo strumento del risarcimento del danno. - 3.4. La clausola di up front dei derivati sottoscritti dagli enti locali: natura giuridica e profili problematici. - 4. Conclusioni: tra private e public enforcement.
- Profili introduttivi sulla regolazione multilivello euro-unitaria del mercato e Private Antitrust Enforcement.
Il private antitrust enforcement rappresenta quel meccanismo che consente ad imprese o a privati cittadini la tutela rimediale di una situazione giuridica soggettiva che si ritiene lesa da un comportamento anticompetitivo[1]; esso permette, in particolare, di agire al fine di ottenere, da un lato, il risarcimento del danno (a scopo manutentivo-conservativo), dall’altro, misure cautelari (in un’ottica preventivo-sanzionatoria) nei confronti di quelle imprese che abbiano violato le regole antitrust di matrice euro-unitaria; esso è nato e si è sviluppato, precipuamente, nel solco della disciplina consumeristica e della concorrenza: a tal uopo, la dottrina ha evidenziato come esso non sia nato nell’alveo della disciplina del diritto privato dogmatico-tradizionalistico, con particolare riguardo al diritto dei contratti o responsabilità civile.
Ciò ha determinato una prima importante conseguenza per il nuovo istituto sottratto, di fatto, alla disciplina e alla evoluzione del diritto privato europeo.
Di esso, in effetti, non c’è traccia non solo nelle direttive di armonizzazione del diritto privato o nei regolamenti di uniformazione ma neppure nei grandi progetti di armonizzazione come, ad esempio, il Draft Common Frame of Reference (DCFR) oppure il Draft Principles of European Tort Law (PETL). L’istituto ha trovato invece la sua sede naturale – a livello sistematico - nell’ambito della disciplina della concorrenza e, in particolare, della disciplina antitrust.
Si evidenzia, a tal uopo, che la disciplina della concorrenza a livello euro-unitario appartiene alla categoria delle competenze “esclusive” dell’Unione europea: l’art. 3 del T.F.U.E., testualmente, sancisce la competenza esclusiva dell’Unione per quanto riguarda la «definizione di regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno». Qualche dubbio, invece, potrebbe riguardare proprio il c.d. private enforcement della concorrenza[2]. In quanto non strettamente correlato alla definizione di regole sulla concorrenza, bensì di regole sui criteri e modalità di tutela civilistica di un diritto soggettivo, la disciplina del private enforcement[3] dovrebbe appartenere alla categoria delle competenze concorrenti, elencate all’art. 4 T.F.U.E., elenco che comprende materie quali “mercato interno” e “protezione dei diritti dei consumatori” nelle quali si potrebbe collocare, così come avviene per la gran parte delle materie del diritto privato europeo, la disciplina del risarcimento del danno cagionato ad un privato da un’altra persona, fisica o giuridica, privata. Trattandosi di competenza non esclusiva dell’U.E., si deve allora applicare la regola, dettata dal c.d. “principio di sussidiarietà”, secondo la quale tali competenze concorrenti possono essere esercitate dall’Unione solo se «gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri (…) ma possono (…) essere conseguiti meglio a livello di Unione» (art. 5, comma 3, T.U.E.). Tale disciplina è funzionale al migliore coordinamento degli interventi degli Stati menbri e dell’U.E. Ciò significa che, in linea di principio, la competenza a disciplinare il private enforcement spetta agli Stati, salvo che l’U.E. non ritenga di intervenire direttamente, ma solo se dimostra che le sue misure possono avere una efficacia maggiore rispetto a quelle eventualmente adottate singolarmente dagli Stati membri.
L’intervento dell’U.E. è, dunque, recessivo rispetto a quello degli stati membri, essendo ammesso solo quando sia, in concreto, funzionale al migliore e più efficace raggiungimento degli obiettivi, in un’ottica di maggiore autonomia degli stati membri e di ottimale allocazione delle risorse. A rafforzare questa ricostruzione soccorre un’altra norma in base alla quale gli Stati membri sono tenuti a stabilire i «rimedi necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» (art. 19, comma 2, T.U.E.). Se apparentemente la norma sembra attribuire agli Stati membri la competenza ad assicurare tutela giurisdizionale nei settori disciplinati dall’Unione europea, in realtà, essa conferisce la piena legittimazione delle Istituzioni di Bruxelles ad agire in luogo degli Stati, esercitando quel potere che deriva dal principio di sussidiarietà che permette agli organi dell’Unione di giustificare l’adozione di un’azione unitaria in funzione del raggiungimento di quella «… tutela giurisdizionale effettiva» che molto difficilmente potrebbe essere raggiunta da tutti gli Stati senza un efficace coordinamento centralizzante. A quanto brevemente definito, fa da contraltare il divieto del c.d. gold plating, ossia di introduzione o mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee Come sarà analizzato funditus nel proseguo, tale disposizione è stata effettivamente utilizzata dalla Corte di giustizia per imporre agli Stati membri, in assenza di una disciplina positiva sul risarcimento del c.d. danno antitrust (nella sua caratteristica peculiare della potenzialità), regole minimali vincolanti.
Occorre rilevare che, mancando allo stato attuale una organica disciplina comunitaria, è compito degli Stati membri disciplinare la materia del risarcimento del danno da illecito antitrust[4], ovviamente nel quadro delle regole dei Trattati, delle disposizioni contenute in alcuni sporadici interventi comunitari, dei principi generali del diritto UE e, soprattutto, dei principi e regole sancite in questi ultimi anni dalla Corte di giustizia in materia. A dire il vero, il tema è assai complesso e foriero di difficoltà sul piano pratico-applicativo; assai spesso molti Stati preferiscono – in un’ottica di cooperazione e non interferenza - attendere indicazioni più precise e definite da parte degli organi competenti dell’Unione per evitare o di adottare soluzioni disallineate o scoordinate, per evitare di essere contestate da parte dei giudici di Lussemburgo, Tale difficoltà di ricostruzione del quadro normativo e interpretativo è confermato dalla ricorrente necessità degli stati membri dover rivedere una loro eventuale normativa alla luce di successive e, spesso, disarticolate disposizioni comunitarie, affidando nel frattempo alla giurisprudenza nazionale l’individuazione delle regole e delle soluzioni caso per caso. Il dato sulla competenza è estremamente importante per due motivi: a) la disciplina, attuale e futura, del private antitrust enforcement si colloca (e si dovrà sempre collocare) nel solco del diritto antitrust europeo, nel rispetto delle sue finalità, degli obiettivi, delle regole e dei principi comunitari; b) la giurisprudenza della Corte di giustizia costituisce e continuerà a costituire, anche in presenza di una eventuale espressa regolamentazione positiva europea e/o nazionale, il principale punto di riferimento sia per colmare i vuoti normativi, sia per creare nuove regole vincolanti, sia per valutare la conformità dei diritti nazionali e delle loro soluzioni giurisprudenziali al diritto dell’U.E.
Ai fini di una completa indagine sull’asimmetria informativa e contrattuale del cliente-investitore, occorre prendere le mosse dal rapporto o rectius dal contatto qualificato “relazionale” tra intermediario e investitore; tale peculiare indagine è funzionale alla ricostruzione dello sviluppo delle strutture relazionali del mercato e rapporti che caratterizzano la società odierna – contraddistinti in misura sempre maggiore da squilibri informativi[5]; nel corso del tempo, sul piano concreto, si è assistito in misura sempre minore all’instaurarsi fra parti di pari forza contrattuale. L’informazione asimmetrica è una diretta conseguenza del costo dell’informazione: accade che un lato del mercato, per valutare il tipo o la qualità di un prodotto, debba esprimere congetture basate sul comportamento osservabile della controparte, oppure possono verificarsi situazioni nelle quali una parte non può osservare le azioni dell’altra. Dunque, ricorrono due diverse forme di asimmetria informativa, l’adverse selection e il moral hazard: in questi casi l’efficienza delle allocazioni di mercato non è garantita. Notevole rilevanza, in tale ottica, rivestono i fallimenti del mercato, l’annoso problema del free riding e dei comportamenti opportunistici e del principio dell’affidamento[6].
L’incompletezza dei contratti richiede dunque che vengano predisposti dei mezzi esterni al contratto stesso che servano a completare il contratto durante la sua esecuzione, determinando i comportamenti nel caso in cui un evento imprevisto accada (c.d. strutture di governo). In tale ottica, i fattori legati alle caratteristiche delle transazioni, quali la specificità delle risorse, l’incertezza e la frequenza delle stesse, assurgono ad elementi fondamentali dell’analisi. Si verificherà come il fallimento del mercato dovuto all’asimmetria informativa e ai comportamenti opportunistici osti al raggiungimento dell’ottimo paretiano, ossia di una situazione di allocazione efficiente ed ottimale delle risorse. In un ottimo di Pareto non è possibile migliorare il benessere (c.d. utilità) di un soggetto, senza peggiorare il benessere degli altri soggetti (c.d. economia del benessere).
L'ottimo paretiano è funzionale alla valutazione dell’efficienza allocativa. Proprio tale valutazione in termini soggettivi pone il problema annoso del free riding e dei “giudizi di valore”. In una scatola di Edgeworth l’efficienza massima allocativa si verifica in un punto di contratto, ossia nel punto di tangenza tra le due famiglie di curve di indifferenza dei consumatori. ciò che fa da motore alla presente indagine è la riflessione, in chiave evolutiva, del ruolo della buona fede all’interno della materia contrattuale, in particolare nella fase di formazione del contratto, quale punto più alto di intersezione delle rispettive curve di indifferenza – intesa quale funzione di utilità - delle parti contraenti. Uno degli obiettivi della ricerca è quello di verificare, in sostanza, se una condotta di mala fede, posta in essere durante le trattative[7], possa invalidare il contratto oppure possa integrare una sola responsabilità risarcitoria.
In particolare, in riferimento agli obblighi di informazione in capo all’intermediario ci si soffermerà sulla ratio di protezione della nullità selettiva, alla luce dello squilibrio informativo[8] e della asimmetria informativa del cliente-consumatore rispetto all’investitore - inteso come titolare di un posizione di garanzia[9] . Imprescindibile, in tale prospettiva, sarà l’analisi dei costi[10] di transazione informativa[11], dei comportamenti opportunistici, nonchè dell’ottimo paretiano, inteso quale allocazione ottimale delle risorse[12]. L’informazione asimmetrica è una diretta conseguenza del costo dell’informazione: accade che un lato del mercato, per valutare il tipo o la qualità di un prodotto, debba esprimere congetture basate sul comportamento osservabile della controparte, oppure possono verificarsi situazioni nelle quali una parte non può osservare le azioni dell’altra.
- Tra contratto e mercato efficiente.
La regolazione del mercato è tema che si presta facilmente ad un approccio dicotomico, volto a marcare le differenze fra Stato e mercato, fra potere pubblico e libertà privata, fra diritto pubblico e diritto privato. Il vantaggio di questo tipo di approccio è la linearità dell’analisi e, soprattutto, delle prescrizioni, che assumono facilmente la forma di slogan. “Meno Stato e più mercato”, “più Stato e meno mercato”, sono parole d’ordine ricorrenti non solo nel dibattito politico, ma spesso anche nella letteratura economica e giuridica.
Dietro l’apparenza della linearità, l’approccio dicotomico sconta, però, troppo spesso una presunzione – nel senso etimologico del termine – ideologica e una tendenza a fondarsi più sulla prospettazione di schemi precettivi ed interpretativi che non sui risultati dell’esperienza reale e porta, anzi, spesso a leggere la realtà seguendo la deformazione propria della dicotomia, accentuando di volta in volta il peso dei fallimenti dello Stato o il peso dei fallimenti del mercato.
Strumento essenziale per la sistemazione degli interessi degli agenti del mercato, il contratto costituisce senz’altro il mezzo più efficace ed “efficiente”[13] per l’esercizio e lo sviluppo di un’attività economica organizzata, qual è l’impresa. In altri termini: il contratto è da sempre strettamente legato al concetto di impresa, intesa come la struttura giuridica connotata dal fatto che una delle parti contrattuali sia un imprenditore e dalla circostanza che il contratto funga da strumento per l’esercizio delle attività d’impresa specificatamente elencate nell’art. 2195 c.c. Secondo una notazione tanto abituale da essere divenuta ormai quasi un cliché argomentativo, l'imperante formalismo dei contratti del consumatore, tipico di fenomeni di asimmetria informativa - B2C (Business to Consumer) - e del professionista debole - B2B (Business to Business) - avrebbe prosciugato il tradizionale (e già claudicante) principio di libertà delle forme, scardinando l'ordito disciplinare codicistico su cui la nozione culta di forma si reggeva[14]. Nel nuovo diritto dei contratti, viene comunemente detto, impera la cosiddetta "forma contenuto": sintagma che sta ad indicare la rilevanza della forma “procedimentalizzata” come vestimentum vincolato del «corredo di dati ed elementi da inserire» espressamente nel contenuto dell'intesa sottoscritta dalle parti. Dal momento che l'omessa indicazione per iscritto di uno o più degli elementi prescritti, in luogo di una nullità testuale, si traduce talora in una parziale deficienza di contenuto (del contratto), provvista di rimedi ad hoc e neanche distinta dalla vicenda contigua di una «totale omissione» della prescrizione contenutistica, è venuto meno l'abituale nesso identificativo tra forma vincolata e requisito di struttura della fattispecie. ciò che fa da motore alla presente indagine è la riflessione, in chiave evolutiva, del ruolo della buona fede all’interno della materia contrattuale, in particolare nella fase di formazione del contratto, quale punto più alto di intersezione delle rispettive curve di indifferenza – intesa quale funzione di utilità - delle parti contraenti. Uno degli obiettivi della ricerca è quello di verificare, in sostanza, se una condotta di mala fede, posta in essere durante le trattative, possa invalidare il contratto oppure possa integrare una sola responsabilità risarcitoria. In particolare, in riferimento agli obblighi di informazione in capo all’intermediario ci si soffermerà sulla ratio di protezione della nullità selettiva[15], alla luce dello squilibrio informativo e della asimmetria informativa del cliente-consumatore rispetto all’investitore - inteso come titolare di un posizione di garanzia. Imprescindibile, in tale prospettiva, sarà l’analisi dei costi di transazione informativa[16], dei comportamenti opportunistici, nonchè dell’ottimo paretiano, inteso quale allocazione ottimale delle risorse.
Da tale assunto deriva l'eclissarsi, in una prospettiva che non è più quella di descrizione di un atto, della forma come onere bilaterale prevista «in funzione degli effetti dell'atto», visto che le nuove formalità, si osserva, sono da apprezzarsi tutte «in funzione dell'atto». Il filone dottrinale che afferma quanto supra immagina per lo più un dualismo di tipo oppositivo, i contratti di diritto comune da una parte, i contratti asimmetrici dall'altra, ove la regola di governo dei primi, ossia il principio di libertà di forma, si commuta hic et inde in eccezione nei secondi. E da ciò se ne ricava una frantumazione della disciplina codicistica generale, giudicata quanto alla forma irricevibile, ancillare alla quale è poi il prodursi di regole seconde autopoietiche ed interamente autosufficienti. Il tutto nel segno di una nuova forma, non più di struttura bensì multifunzionale, che oltrepassa la fattispecie e polivalente. L’unificazione della disciplina del diritto privato in un unico codice rappresenta l’esito di un processo che è iniziato dalla primordiale distinzione dei contratti “civili” da quelli “commerciali”[17] – che ha caratterizzato la storia del diritto sin dall’Ottocento, epoca alla quale risale la redazione delle prime codificazioni – e che è giunto all’abolizione – giustificata dalla volontà del legislatore di riunire la disciplina base dei contratti – del codice del commercio in quanto corpo normativo a sé stante.
Indubbiamente la qualifica di “imprenditore” – e, con questa, la distinzione dei contratti “delle imprese” – mantiene una sua specialità rispetto ai soggetti della disciplina comune anche in seguito all’unificazione del diritto privato all’interno del Codice civile, che invece prescinde dal richiedere questo status. La disciplina speciale relativa ai contratti d’impresa oggi riguarda essenzialmente due diversi piani: uno generale, in base al quale alcune regole del codice civile vengono derogate o integrate quando parte del contratto sia un imprenditore oppure quando l’accordo venga stipulato in merito ad un’impresa ed in questo caso si tratta della normativa relativa alla conclusione del contratto, alla sua interpretazione ed alla rappresentanza; e un piano speciale, che presuppone una disciplina dettata specificatamente per determinati tipi di contratti, per la cui applicazione è fondamentale la qualità d’imprenditore: non ultimi, tra questi, i contratti bancari e i contratti finanziari. A tal uopo, si rileva che parte della normativa riferibile ai rapporti da ultimo citati, si fonda su una ratio di tutela del contraente debole[18], il cliente, la quale si manifesta nelle norme a tutela di questo: in primo luogo nelle norme che impongono obblighi d’informazione a carico del professionista/intermediario; o in quelle che prevedono il diritto di recesso del contraente debole, il c.d. diritto al ripensamento; infine, come si avrà modo di vedere in seguito, tale ratio si esprime anche attraverso le norme che prevedono le nullità relative, c.d. di protezione, da un lato, e attraverso i molteplici nuovi vincoli di forma, rientranti nel fenomeno del c.d. neo-formalismo contrattuale, dall’altro. Sul secondo piano, si trovano poi anche quei contratti di derivazione spiccatamente euro-unitaria, la cui specialità è data dalla circostanza che una delle parti sia imprenditore e l’altra sia consumatore, oppure entrambe le parti siano imprenditori, ma caratterizzati da una diversa forza di mercato. Tale disciplina speciale, confluita nella maggior parte nel Codice del Consumo, tiene conto della differenza di ruoli che intercorre tra il consumatore e il professionista e s’impronta su un’ottica di protezione del primo. Contrariamente alla visione del Codice civile, che si mostra ignaro delle qualità delle parti e del contesto socioeconomico nel quale si verificano gli scambi presupponendo la totale simmetria delle loro posizioni, la nuova legislazione speciale si basa sul presupposto che si tratti di un contratto asimmetrico.
La straordinarietà di queste nuove figure è rappresentata dalla loro dinamicità e relatività: l’essere considerato consumatore[19] o professionista dipende esclusivamente dallo scopo oggettivo dell’atto che la persona fisica pone in essere nei suoi rapporti con gli altri agenti economici. Tali caratteri mal si conciliano, quindi, con le caratteristiche tipiche del soggetto attorno al quale ruota la disciplina del cod. civ., dal momento che quest’ultimo coincide con uno status, in sé caratterizzato da staticità, necessarietà e non cumulabilità. E se, come anticipato, tale tipo di tutela non è destinata a rimanere circoscritta nell’ambito dei rapporti business to consumer[20], si può definitivamente affermare che l’esigenza di tutelare la parte più debole nella contrattazione di specie si avverta anche in merito ai contratti business to business, dove la parte viene protetta in funzione della diversa forza di mercato[21] che le denota, com’è possibile denotare con la disciplina del contratto di subfornitura che vieta l’abuso di dipendenza economica. È indubbio il ruolo centrale che l’elemento dell’informazione (adeguata e proporzionata al grado di squilibrio tra le parti) ricopre nel sistema dei mercati; occorre, peraltro, rilevare che non è parimenti in discussione che su tale tema si è avuto un dibattito particolarmente intenso soprattutto nella realtà statunitense; com’è notissimo, infatti, il contesto nordamericano presenta da sempre i mercati finanziari più evoluti e ciò ha fatto in modo che si avesse, in quella realtà, lo sviluppo più rilevante degli studi dottrinali in materia. Innanzitutto, occorre evidenziare che l’esigenza di pubblico interesse più avvertita è ovviamente quella di avere un mercato efficiente, dovendosi intendere come tale quello che alloca le risorse in capo alle imprese virtuose, ossia a beneficio delle strutture produttive che meglio le valorizzano, in maniera efficiente. Il mercato è d’altronde tanto più efficiente quanto più consente – e alla maggiore velocità possibile – di pervenire alla formazione di un prezzo corretto per i titoli che in esso si contrattano, e tale risultato è conseguibile nel momento in cui gli investitori dispongono di tutte le informazioni sui prodotti offerti – atteso che solo tramite l’informazione si possono elaborare stime tendenzialmente accurate sul valore degli stessi – cosicché si può concludere che il prezzo generato dal mercato esprime, in definitiva, l’insieme delle informazioni in esso disponibili o, meglio, il complesso di opinioni e scelte formatesi sulla base di tali informazioni.
Più precisamente, le scelte in oggetto conseguono alla discrepanza rilevata tra il prezzo di mercato e il valore stimato dello strumento finanziario e, perciò, vengono perseguite fintantoché la suddetta discrepanza non viene meno. Si pongono però già a questo punto due problemi che sono sfociati in altrettante querelles: quello di assicurare la fruibilità di tutte le informazioni sul singolo titolo e quello di essere certi che tali informazioni vengano correttamente valutate. Il primo obiettivo è tuttavia palesemente un’utopia, in quanto di quasi impossibile realizzazione; già solo questo rende irrealistica la finalità di giungere al «prezzo corretto», con la conseguente necessità di «ripiegare» sul raggiungimento di un prezzo sufficientemente corretto. In altre parole, l’informazione di cui disporranno gli investitori, in relazione all’attività delle Autorità Indipendenti competenti, quali la CONSOB[22], non sarà mai per definizione completa e d’altronde, se così non fosse, ciò sarebbe persino più deleterio per due motivi. In primo luogo, infatti, bisogna considerare il fenomeno noto come overload, il quale può anche essere spiegato evidenziando che «more information is not per se better than less». Il secondo motivo di criticità derivante da un’ipotetica situazione di informazione completa consiste, invece, nel fatto che questo comporterebbe, per definizione, un’assenza di rischio, ed è inutile sottolineare come il rischio costituisca, in una certa misura, un elemento positivo per gli investitori, perché in sua assenza costoro dovrebbero a priori rinunciare ai vantaggi correlati all’investimento ossia, fuor di metafora, al profitto che si spera scaturisca dal prodotto acquistato. In particolare, l’investitore – parte debole tenta cioè di «battere il mercato» puntando, in via surrettizia e opportunistica, proprio sulle sue inefficienze, ma se tutti i prezzi fossero perfettamente corretti, sarebbe già in linea di principio impraticabile una qualsivoglia attività speculativa: com’è stato cioè ricordato, «when everyone knows the truth, no one can speculate on it», fermo restando che parrebbe anche sul punto indispensabile evitare ogni estremizzazione: il sistema, per funzionare, necessita comunque di un afflusso costante e significativo di informazioni, ed è quindi fisiologico che da tempo ci si interroghi se si debba intervenire o meno, a livello legislativo, al fine di soddisfare tale necessità.
Il tema evocato è insomma quello della mandatory disclosure, vale a dire in assoluto uno dei più conflittuali in materia di mercati finanziari, anche se più di un dato induce a domandarsi se questa tradizionale querelle abbia ancora, attualmente, motivo di sussistere, o se non vi siano viceversa i presupposti per ritenere il dibattito ormai esaurito o comunque privo di interesse. Il fulcro dell’annosa querelle è rinvenibile nella constatazione che legiferare in ambito finanziario significa imporre dei costi e che in particolare comportano una spesa vuoi la produzione vuoi la diffusione dell’informazione.
Muovendo, dunque, da tali premesse, numerose fonti dottrinali hanno da tempo negato l’utilità di una disciplina che obblighi le imprese a divulgare notizie su struttura e attività, sostenendo, innanzitutto, che tale normativa risulterebbe pleonastica, poiché le aziende produrrebbero comunque la necessaria informazione anche se non costrette a farlo. Più esattamente, nell’ipotetica assenza di un qualsivoglia precetto normativo, atteso che diffondere conoscenza su di sé sarebbe comunque funzionale all’attività delle realtà imprenditoriali virtuose e viceversa negativo per le società non efficientemente gestite, si avrebbe in ogni caso un mercato[23] edotto sulle prime ma altresì, al tempo stesso, avvertito delle disfunzioni delle seconde per via della carenza di dati su queste ultime; comunque, quindi, pur essendo un bene costoso, l’informazione non risulterebbe sottoprodotta.
A questa impostazione si contrappone però quella di chi recisamente sostiene che la mandatory disclosure sia irrinunciabile. Nonostante i costi sopportati per produrla, l’informazione è infatti, per sua natura, un public good, la cui utilità è suscettibile di scemare in modo estremamente veloce: chi ne sostiene le spese di produzione non riesce, insomma, a capitalizzarne pienamente il valore e ciò è paradossalmente tanto più vero quanto più il mercato è efficiente. In definitiva, quindi, taluni studiosi affermano che qualora non sussistesse una normativa imperativa, in considerazione del ricordato interesse degli emittenti a divulgare solo l’informazione positiva, verrebbe a concretizzarsi una situazione in cui le imprese diffonderebbero notizie solo fintantoché il beneficio in termini di minor costo del finanziamento non divenisse meno significativo delle negatività correlate alla lesione della propria posizione sul mercato, e ciò comporterebbe che in un regime volontaristico l’informazione in circolazione sarebbe in quantità subottimale. Sembrerebbe perciò giocoforza condividere la tesi di chi ritiene indispensabile, in materia, una disciplina di natura cogente e ciò ancor più se si assume come riferimento il sistema Italia, dove il mercato è notoriamente inefficiente, in quanto non consente l’ottimale allocazione delle risorse. D’altronde, se la finalità dell’ordinamento dei mercati finanziari è quella di rendere i mercati stessi il più possibile funzionali, si può constatare come tale obbiettivo sia proprio anche della stessa mandatory disclosure[24]: tramite quest’ultima, infatti, si mira alla divulgazione del maggior numero di informazioni, nella consapevolezza che ciò aumenta sia la liquidità dei titoli che l’attitudine dei prezzi a fungere da termine di riferimento.
Inoltre, l’imposizione della disclosure parrebbe soddisfare anche il criterio di Kaldor-Hicks, riducendo il costo globale dell’informazione, in quanto ne addossa l’onere della produzione alle imprese, ovverosia ai soggetti per i quali tale costo è minore, atteso che il reperimento del dato da divulgare è ovviamente più agevole per gli intranei che non per gli estranei. Infine, va considerato che se pure nulla impedisce di diffondere informazione su base volontaria in misura superiore a quanto preteso dal legislatore, in ogni caso questo non è avvenuto in occasione della recente crisi internazionale, cioè di un avvenimento collegato, nella sua genesi, ad un deficit d’informazione nei confronti degli investitori istituzionali. Si rileva che attraverso la disciplina legale ben difficilmente si approderà al quantitativo d’informazione auspicabile, essendo viceversa ben più probabile che se ne abbia un’iperproduzione o una sottoproduzione; ma come si è ricordato, tale sarebbe l’effetto anche di un regime informativo rimesso alla discrezionalità degli emittenti.
In altri termini, è assodato che un qualunque soggetto può processare solo una quantità finita di informazioni in un dato arco temporale; inoltre, l’acquisizione di un carico eccessivo di informazioni facilmente genera – e ciò pure negli investitori maggiormente esperti – overconfidence, vale a dire un’esagerata fiducia nei dati di cui si dispone, con il risultato che ad un aumento costante delle informazioni ottenute si accompagna, da un certo punto in poi, una progressiva decrescita della qualità delle decisioni assunte. Tradizionalmente, il ruolo delle imprese è quello di offrire sul mercato beni e servizi; quello dei consumatori di acquistare i beni e i servizi offerti sul mercato. Per la verità, la visione del mercato come il luogo in cui s’incontrano imprese e consumatori, che rappresentano rispettivamente il lato dell’offerta e quello della domanda, affonda le proprie radici in un’epoca che precede di circa un secolo l’entrata in vigore dei “contratti dell’impresa” così come previsti dal codice del commercio prima, dal Codice civile poi, e dalla rigogliosa legislazione speciale oggi[25]. Da sempre, quindi, l’esigenza di regolazione del mercato è stata avvertita dal legislatore e dagli esponenti della politica del diritto come necessaria, mantenendo costantemente presenti due obiettivi principali: da un lato, quello di giustizia; dall’altro, quello di efficienza[26]. Sicché, nell’ottica di realizzazione di questi due obiettivi, in cui la protezione accordata alla parte più debole del mercato da atti di potere dell’impresa è d’obbligo, il legislatore del 2005 ha riconosciuto il diritto ‹‹alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali›› e lo ha inserito tra i diritti fondamentali dei consumatori nell’art. 2 del Codice del consumo. Inoltre, un mercato che assicura la migliore efficienza nell’allocazione delle risorse conduce ad un meccanismo automatico di selezione fra le imprese più efficienti e quelle meno efficienti: difatti ‹‹impedire la prevaricazione dei contrenti forti sui deboli […] significa far prevalere sul mercato le imprese che per il loro successo puntano non sull’abuso di posizioni dominanti, ma sul miglioramento della qualità e sul contenimento dei prezzi resi possibili dall’innovazione tecnologica, dalla riduzione dei costi interni, dalla razionalizzazione dei processi produttivi e distributivi››.
- Il complesso e sfumato discrimen tra consumatore e investitore.
Come anticipato, il destinatario della normativa di protezione dettata dal T.U.F. non si indentifica con la definizione di consumatore concepita dal Codice del consumo. Nonostante sia il consumatore che l’investitore siano soggetti connotati da una minore forza contrattuale rispetto alla controparte professionista e si trovino in una connaturata condizione di disinformazione, la disciplina contenuta dai due differenti corpi normativi non è la medesima.
La principale differenza, come anticipato, consiste nella circostanza che il T.U.F. si rivolge ad un destinatario che si identifica non solo in una persona fisica, ma anche in una giuridica, contrariamente al Codice del consumo per il quale vi è una presunzione assoluta di debolezza del consumatore, in quanto persona fisica, ma mai giuridica. Tant’è vero che l’acquisizione delle informazioni relative al cliente, alla sua situazione finanziaria e alla propensione al rischio, consentono all’intermediario di regolare il proprio comportamento in base al profilo del cliente, avendo particolare riguardo alla sua qualità soggettiva – che sia persona fisica o giuridica[27]. Invece, al contrario di quanto avviene per lo svolgimento di operazioni finanziarie, l’indagine relativa alla qualità soggettiva del consumatore da parte del professionista non si verifica, dovendo essere quest’ultimo necessariamente una persona fisica, presupposto richiesto dall’art. 3, lett. a), cod. cons.
Non si dubita, al riguardo, che l’indiscutibile dominio dell’intermediario rispetto all’investitore si sostanzia nella circostanza che quest’ultimo acquista prodotti finanziari sulla base delle informazioni che il primo gli fornisce, proprio in conseguenza dell’analisi del profilo del cliente, contrariamente al consumatore che agisce per il soddisfacimento dei propri interessi e bisogni personali. V’è chi ha affermato che l’investitore può essere considerato un consumatore “anomalo”[28], in quanto il prodotto acquistato, a differenza che per il secondo dei due soggetti, non è destinato ad essere “consumato” determinando in tal modo il deperimento materiale del bene: difatti il prodotto finanziario è, per sua natura, intangibile e immateriale e destinato ad essere successivamente rivenduto. Nello specifico, alcuni studiosi hanno definito l’operazione dell’investitore uno scambio tra un bene presente e un bene futuro ‹‹la cui esistenza e consistenza sfugge in larga misura al controllo del soggetto che attende la futura prestazione››[29]. D’altra parte, nonostante le considerevoli differenze dinanzi rilevate, l’assimilazione della figura dell’investitore a quella del consumatore è resa evidente dalla formulazione dell’art. 32 bis contenuta nel T.U.F.[30], il quale consente agli investitori di tutelare i propri interessi collettivi mediante le associazioni dei consumatori – oltreché, come visto supra, dalla sezione IV bis, interamente dedicata alla commercializzazione a distanza dei servizi finanziari[31].
Diversamente da quanto accadeva sotto il vigore del Codice civile, nel quale la disciplina delle condizioni generali di contratto forniva una tutela piuttosto debole e solo formale all’aderente, il legislatore italiano, nell’applicare fedelmente la normativa euro-unitaria, ha dettato una forma di tutela “sostanziale” degli aderenti che ne beneficiano in qualità di consumatori, ossia di soggetti connotati da un’intrinseca debolezza. Invero, con la legge n. 52/1996 l’Italia ha recepito la direttiva CEE n. 13/1993 sulle clausole abusive inserite nei contratti stipulati con professionisti ed ha inserito gli art. 1469-bis ss. nel capo XIV-bis del Codice civile, rubricato ‹‹Dei contratti del consumatore››. Successivamente, con l’entrata in vigore del Codice del consumo, la disciplina è stata ivi trasposta e, in particolare, è stata inserita negli articoli 33-37 – come, d’altra parte, aveva suggerito il Consiglio di Stato nel parere reso sulla bozza di decreto, in occasione dell’Adunanza del 20 dicembre 2004.
La “sostanzialità” della tutela offerta dal Codice del consumo si concretizza nella “non vincolatività” – in termini di nullità – delle clausole per l’aderente nel caso in cui queste siano state unilateralmente predisposte dal professionista e comportino un notevole aggravamento della posizione del consumatore (sono dette “vessatorie” in quanto ‹‹determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio di diritti ed obblighi derivati dal contratto››), a prescindere dal ricorrere di qualsivoglia dato formale. Tale dato formale è viceversa fondamentale nella disciplina di tutela predisposta dal Codice civile: l’art. 1341, primo comma, stabilisce che le clausole sono ‹‹efficaci›› nei confronti dell’aderente solamente se quest’ultimo ‹‹le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle secondo l’ordinaria diligenza›› nel momento in cui ha concluso il contratto (anche se, di fatto, non le ha conosciute). Il secondo comma dell’art. 1341 detta una tutela più incisa di quella del primo comma, in quanto le clausole ‹‹onerose››, individuate tali dall’elenco ivi inserito, vincolano l’aderente/consumatore esclusivamente nel caso in cui questi le abbia ‹‹specificatamente approvate per iscritto›› mediante una doppia firma (la prima delle quali approva il contratto, mentre la seconda approva le clausole), non essendo sufficiente che siano da questi conosciute o conoscibili, usando l’ordinaria diligenza.
Dal punto di vista soggettivo, l’ambito di applicazione degli art. 33 ss. del Codice del consumo risulta più ristretto di quello preso in considerazione dagli art. 1341 ss. – in quanto dai primi è richiesta la qualifica di consumatore così come definita dall’art. 3, lett. a).
Diversamente, dal punto di vista oggettivo risulta più ampio, in quanto prende in considerazione non solo i contratti predisposti per regolare una serie indefinita di rapporti contrattuali, ma anche quelli predisposti per regolare un singolo affare (dunque, non solo i contratti standard, ma tutti quelli per adesione). Si tenterà di analizzare la tutela apprestata dal codice del consumo alla massa dei consumatori, individuando i profili di divergenza con la normativa di stampo tradizionale del Codice civile; si evidenzieranno gli interessi ad essi connessi, indicando i rimedi che il nostro ordinamento predispone per riequilibrare l’asimmetria[32] tra professionista e controparte debole ed analizzando tutto ciò alla luce dell’attenta riflessione della dottrina e della giurisprudenza.
3.1. Il divieto di pratiche commerciali scorrette: tra mercato e regolazione.
Alcuni dei profili fondamentali della normativa di tutela di matrice euro-unitaria sono rappresentati dall’obbligo di informazione ed educazione del singolo consumatore. Si tratta iniziative volte a consentire la piena e corretta consapevolezza delle caratteristiche e della qualità dei prodotti e dei servizi offerti sul mercato[33], nel tentativo di indurre il consumatore a compiere scelte razionali e ben ponderate, anche in virtù della conoscenza dei propri diritti.
In particolare, per quanto attiene al profilo delle informazioni indirizzate ai consumatori, ricopre un ruolo peculiare e fondamentale la disciplina delle pratiche commerciali scorrette, inserita all’interno degli articoli 18 ss. del Codice del consumo.
Storicamente, la disciplina contenuta negli articoli da 18 a 27 era funzionale a regolare, al contempo, l’utilizzo, da un lato, della pubblicità ingannevole e comparativa e, dall’altro, l’esercizio di pratiche commerciali scorrette, rivolgendosi ad una platea di destinatari comprendenti sia soggetti che esercitavano attività d’impresa, sia consumatori.
L’adozione della direttiva 29/2005/CE ha condotto, invece, ad una rigida separazione tra la disciplina delle pratiche commerciali scorrette, indirizzata a tutelare esclusivamente i consumatori persone fisiche – ed inserita nel Codice del consumo – e la disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa, rivolta a tutelare gli interessi dei professionisti – attualmente contenuta nel d. lgs. 145/2007126. L’ampia gamma di comportamenti che rientrano nella nozione di “pratica commerciale” è inserita all’interno dell’art. 18, comma 1, lett. d)[34], considerata tale a prescindere dal momento in cui questa viene posta essere – s’intende sia prima, che dopo, che durante la conclusione di un contratto, o persino a prescindere da qualsiasi relazione giuridica intercorrente tra il professionista e il consumatore[35].
Bisogna chiarire che la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette si estende fino a ricomprendere i contratti di cui siano parte le microimprese, definite dall’art. 18, comma 1, lett. d-bis) del codice come ‹‹entità, società o associazioni che, a prescindere dalla forma giuridica, esercitano un'attività economica, anche a titolo individuale o familiare, occupando meno di dieci persone e realizzando un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a due milioni di euro, ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 3, dell'allegato alla raccomandazione n. 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003››. Una pratica viene definita “scorretta” se ‹‹è contraria alla diligenza professionale[36], ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio[37] che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia direttaa un determinato gruppo di consumatori››[38]. Pertanto, una pratica commerciale esercitata dal professionista, la quale riveste i caratteri elencati dall’art. 20, comma 2, è vietata, ai sensi del comma 1 dello stesso articolo. Tale definizione ha, invero, carattere residuale, dal momento che all’interno di questo genere sono ricomprese due specie di pratiche commerciali scorrette: quelle considerate “ingannevoli”, ossia azioni od omissioni che inducono il consumatore ad assumere decisioni che altrimenti non avrebbe preso, essendo stato indotto in errore; e quelle considerate “aggressive”, in quanto idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore, mediante, tra le altre, il ricorso alla forza fisica, all’indebito condizionamento[39]. Sebbene il legislatore abbia previsto la possibilità, per il consumatore, di ricorrere alla tutela fornita in via amministrativa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha il compito di vigilare sul corretto andamento del mercato e, quindi, anche di inibire o sospendere le pratiche commerciali considerate scorrette, non ha, d’altra parte, fornito strumenti idonei a rimediare alla violazione del divieto di pratiche commerciali scorrette che abbia avuto ripercussioni sulla validità del contratto concluso. Si può leggere in nota dottrina che, nel risolvere la questione circa il rimedio contrattuale da adottare successivamente all’accertamento da parte dell’Antitrust, la riluttanza nel propendere per l’invalidità del contratto o per la responsabilità – contrattuale o extracontrattuale – deriva dalla circostanza che la verifica circa la scorrettezza della pratica è effettuata in relazione ad un consumatore medio.
3.2. Tutele rimediali del contraente debole: tra asimmetria informativa e finanza.
Nel dettare la disciplina del rapporto intercorrente tra consumatore e professionista, il legislatore del Codice del consumo ha previsto alcuni strumenti giuridici ad esclusivo vantaggio ed utilizzo del consumatore, mirando a rimediare alla condizione di asimmetria informativa attraverso la predisposizione, da un lato, di strumenti preventivi all’accordo – con l’imposizione dei vincoli di forma che si inseriscono nel più ampio fenomeno del c.d. “neo-formalismo negoziale” – e dall’altro, di strumenti successivi al perfezionamento del contratto, quali la nullità c.d. di protezione e il diritto al ripensamento. Il capitolo terzo, interamente dedicato alla nullità di protezione, mostrerà come l’esigenza di tutela dei soggetti più deboli ha condotto all’imposizione di vincoli di forma e alla previsione di nullità di protezione anche in altri contesti normativi del nostro ordinamento, di per sé caratterizzati dallo stesso squilibrio contrattuale che caratterizza il rapporto tra il consumatore e il professionista, tra cui si segnalano proprio l’art 23 del T.U.F e l’art. 127 del T.U.B.
In tale prospettiva, va rilevato che un dato fondamentale nella trattazione delle nullità di protezione è rappresentato dal fatto che le svariate discipline che le prevedono non sono perfettamente coincidenti; infatti, le nullità si adeguano allo specifico contesto nel quale sono inserite e alla specifica ratio di tutela per la quale sono predisposte142. Il caso paradigmatico della nullità di protezione è rappresentato dall’art. 36 del Codice del Consumo, i cui caratteri si discostano dalla nullità tradizionale prevista dal Codice civile, proprio perché protesa a riequilibrare le posizioni di due soggetti che si trovano su due diversi piani. Si tratta, invero, di uno strumento a legittimazione relativa ma, al contempo, rilevabile d’ufficio dal giudice nell’interesse di una sola delle parti, nell’ottica di realizzazione di interessi sovraindividuali, oltreché del singolo consumatore, tutelando in questo modo il corretto andamento del mercato[40]. Anche dal punto di vista degli obblighi informativi le discipline di settore impongono regole più incisive e rigose, a differenza del Codice civile che, regolando un rapporto perfettamente simmetrico, non impone particolari obblighi informativi a carico delle parti[41]. Nella stessa ottica di tutela del contraente debole, gli obblighi informativi sono previsti dal legislatore per fornire a quest’ultimo un grado di conoscenza funzionale ad una contrattazione leale e corretta, sia delle clausole stesse del contratto sia di fattori esterni che potrebbero eventualmente incidere sul regolamento contrattuale.
Inoltre, affinché il contrente debole sia effettivamente tutelato non è sufficiente che al professionista siano imposti obblighi formali; è piuttosto necessario che rispetti il carattere della chiarezza e della comprensibilità, nell’ottica del più ampio principio di trasparenza contrattuale, sia in relazione ai doveri informativi a questi imposti, sia in relazione alla redazione delle singole clausole contrattuali.
3.3. Sul perimetro applicativo dell’art 33 della legge n. 287/1990: sulla possibile coesistenza tra il rimedio della nullità e lo strumento del risarcimento del danno
Ulteriore profilo di interesse – connesso a quanto sopra delineato - è riconducibile alla definizione del perimetro applicativo dell’art 33 della legge n. 287/1990. Al centro della questione – assai dibattuta in dottrina e in giurisprudenza - è la possibilità di riconoscere anche all’operatore leso dall’intesa anticoncorrenziale la legittimazione a proporre le azioni previste dal comma secondo della menzionata disposizione, nonostante la sua estraneità all'intesa anticoncorrenziale.
Si discute, dunque, sulla astratta possibilità di ammettere il concorso tra la tutela risarcitoria e l'azione di nullità[42], ritenuta proponibile non solo nei confronti dell'intesa, ma anche nei confronti dei contratti c.d. a valle. La Suprema Corte sembra porsi all’interno di un filone giurisprudenziale volto ad affermare la legittimazione in capo al contraente sia dell’azione risarcitoria, sia di quella di nullità. La legittimazione sussiste, dunque, anche nel caso in cui sia stata proposta un’azione restitutoria, ai sensi dell’art. 2033 c.c., poiché il soggetto che chiede la restituzione di ciò che asserisce di aver pagato, per effetto di un’intesa nulla, allega l’intesa anticoncorrenziale medesima, inidonea a produrre effetti, poiché nulla.
La Corte, in più arresti, ha ripercorso – seppur brevemente - taluni arresti giurisprudenziali quali manifestazioni di una lettura estensiva e teleologica dell’art. 33 della L. 287/1990. Prendendo le mosse da un orientamento giurisprudenziale maggioritario, la Corte, in particolare, definisce la L. Antitrust come “legge dei soggetti del mercato”, ovvero di chiunque abbia interesse processualmente rilevante. Tale norma fu al centro di un annoso dibattito al termine del quale fu rilevato che il contratto a valle costituisce lo sbocco dell’intesa[43], essenziale a realizzarne gli effetti, in quanto attuativo della stessa.
In tal modo, si rileva come ab absurdo negare la legittimazione del consumatore per ottenere la nullità dei contratti “a valle” e delle intese sarebbe come svilire la ratio stessa della L. 287/1990, ossia quella di assicurare il libero gioco della concorrenza, in ottica protettiva.
Si ritiene assolutamente non condivisibile una interpretazione restrittiva e letterale della disposizione citata, poichè non rispondente alla voluntas legis. In altri termini, non pare condivisibile l’orientamento per cui la tutela prevista dall’art. 33, c. 2, deve ritenersi preclusa all’operatore del mercato leso dall’intesa. In tale ottica, il ruolo della norma sarebbe destinato ad esaurirsi nella mera sollecitazione dell’esercizio dei poteri riconosciuti agli organi individuati dalla medesima legge, ossia all’Autorità Garante. Diversamente si “spoglierebbe” l’operatore del mercato di una tutela adeguata ai propri interessi, ingenerando un palese squilibrio tra interessi, diritti e obblighi in capo alle imprese e al contraente, a svantaggio di quest’ultimo.
Si ritiene, dunque, che non possa aderirsi all’indirizzo restrittivo e letterale risalente della Suprema Corte per cui la citata norma sarebbe riferita solo alle intese anticoncorrenziali, e non anche i contratti a valle, i quali mantengono la loro validità, anche a fronte della dichiarazione di nullità dell’intesa, e potevano quindi dar luogo soltanto ad azione di risarcimento del danno da parte degli utenti. Le incertezze dell’elaborazione giurisprudenziale, evidenziate già nell’ordinanza interlocutoria, sono state rilevate anche dalla dottrina che, pur mostrando di estendere. in analogia alla disciplina consumeristica – all’operatore del mercato la legittimazione ad avvalersi dei rimedi dalla disciplina antitrust, anche alla stregua delle indicazioni emergenti dagli artt. 3 e 101 e ss. T.F.U.E., si è a sua volta divisa sull’individuazione dei relativi strumenti. Alcuni, infatti, insistono sull’inammissibilità dell’azione di nullità, anche in virtù del richiamo all’art. 1, c. 1, del D.Lgs. n. 3/2017 il quale, nel dare attuazione alla Dir. 2014/104/UE, volta a disciplinare l’azione di risarcimento del danno[44] per violazione delle disposizioni in materia di diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’UE, non ha fatto alcun cenno alla tutela reale del consumatore finale pregiudicato da un’intesa restrittiva. Tale tesi assume che quando il legislatore ha previsto tale tutela lo ha fatto espressamente. Tale conclusione – condivisa dal predetto indirizzo – pare verosimilmente illogica. Non si vede quale tutela concreta e attuale possa ottenere la parte lesa dall’intesa facendo dichiarare la nullità della stessa anticoncorrenziale, ove siano tenuti “in piedi” i contratti a valle. Essa sarebbe una “tutela fallace” e “fittizia”, dal punto di vista concreto.
Tale assunto sembra non porre la giusta attenzione sulle conseguenze pratico-applicative della nullità de qua. Pare verosimile che la nullità dell’intesa debba provocare – in un’ottica di tutela concreta ed attuale della parte - la nullità derivata dei contratti “a valle” causalmente e funzionalmente connessi con essa. Tale indirizzo letterale sembra prima facie, maggiormente compatibile con l’indirizzo dottrinale che identifica gli stessi come veri e propri contratti.
Una simile ricostruzione, come accennato, non sembra, tuttavia, compatibile con la ratio di tutela della libera concorrenza della Legge Antitrust. Si ritiene condivisibile l’assunto per cui la L. 287/1990 non è e non può essere soltanto la legge del consumatore, degli imprenditori e dell’impresa, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo. Peraltro, non è possibile negare che il contratto a valle assurga a sbocco e risultato vietato dell’intesa. Esso è essenziale alla realizzazione degli effetti della stessa. E’ tale il contratto attuativo che raggiunge e esplica il risultato vietato dalla L. Antitrust: esso – in concreto - limita o elude la possibilità di libera scelta da parte del consumatore.
La previsione del solo risarcimento del danno sarebbe meramente retorica. Non comminare la nullità dell’intesa significherebbe, considerare il contratto a valle come una circostanza negoziale distinta dalla “cospirazione anticompetitiva”, estranea al carattere illecito di questa. L’illiceità dell’intesa, invece, si ripercuote irrimediabilmente sul contraente, cagionando un presunto aumento dei costi per l’acquisto del bene o del servizio; la possibilità di scelta del cliente –operatore nel mercato - concorrenziale, libero e aperto - è un “interesse pubblico rilevante” concreto e attuale per l’ordinamento giuridico.
La dottrina prevalente è, peraltro, concorde con l’interpretazione della Corte di cassazione, che ha qualificato il diritto alla concorrenza come un diritto soggettivo, anche se vi sono orientamenti che si discostano da questa impostazione. Si ritiene tuttavia che la tutela concreta – in analogia ai contratti consumeristici - non può che consistere nel far dichiarare nullo il contratto ex art. 1343 c.c., a fini protettivi.
In particolare, gli studiosi che affrontano la problematica da un punto di vista di “divieto di risultato”, tipico dell'analisi economica del diritto, hanno sostenuto – nonostante numerosissime critiche -che il meccanismo rimediale più efficiente, a fronte delle violazioni delle regole di comportamento gravanti sugli intermediari finanziari, sarebbe quello della nullità e della conseguente tutela restitutoria. Pertanto, in tale ottica, la ripetizione dell'indebito (che può – verosimilmente - identificarsi nei sovra-costi dovuti all’intesa), allocherebbe il rischio economico e giuridico in capo alla banca, che ha, in concreto, causato il pregiudizio all’operatore contraente. Una siffatta ricostruzione, secondo illustre dottrina, sarebbe il corollario della funzione compensativa e deterrente contro fenomeni anticoncorrenziali idonei, sia a pregiudicare il singolo risparmiatore, sia a turbare la corretta funzionalità del mercato. Tale teoria basata sull’analisi economica del diritto è, tuttavia, assai criticata in dottrina. Secondo una opposta ricostruzione, essa prenderebbe le mosse da un assunto del tutto erroneo, secondo il quale il perseguimento dell'obiettivo dell'efficienza economica e dell’ottimo paretiano sarebbe un valore intrinseco e fatto proprio dall'ordinamento sistematicamente. Ulteriore critica mossa è quella per cui il rimedio della nullità[45] sarebbe anelastico e, pertanto, inidoneo a compensare le distinte situazioni giuridiche soggettive che – in concreto – vengono in gioco. Ben più compatibile a livello di efficienza del sistema del diritto civile, sarebbe proprio lo strumentario dell’azione risarcitoria: in tale ottica, si rifuggirebbe dall’automatismo dell'effetto restitutorio, inteso come mera conseguenza della declaratoria di nullità del contratto.
I sostenitori della teoria che nega la configurabilità del rimedio della nullità, inoltre, affermano che la funzione risarcitoria, consente di commisurare al meglio – rispetto alla situazione concreta - la tutela della parte stipulante l’intesa. La tutela risarcitoria – dunque – diverrebbe l’unico strumento per evitare l’automatismo restitutorio della nullità, effetto considerato deleterio anche in altre branche del diritto. Diversamente opinando, ad esempio, si porrebbe nel nulla la rilevanza della valutazione – in concreto - del comportamento colposo del danneggiato (ex art. 1227, 1 comma), della evitabilità del pregiudizio o, ancora, dell’eventuale compensatio lucri cum damno occorsa in occasione del rapporto contrattuale (art. 1223 c.c.). Tanto premesso in punto di ricostruzione dei diversi orientamenti, si ritiene maggiormente condivisibile la tesi per cui la posizione della parte lesa dall’intesa è assimilabile – in via analogica - a quella del consumatore. La parte contraente, pertanto, sarebbe legittimata a proporre le azioni previste dal comma secondo dell’art 33 della L. 287/1990, nonostante la sua estraneità all'intesa anticoncorrenziale. Nondimeno, ciò è desumibile sulla scorta di una interpretazione teleologica della menzionata norma. (c.d. ratio di tutela e di protezione), che è immanente in tutto il sistema delle disposizioni della L. Antitrust, assieme alla finalità di assicurare il libero gioco della concorrenza.
Tali finalità, invero, devono considerarsi come due volti della stessa medaglia. Non può assicurarsi l’una senza promuovere la seconda. Sulla scorta di quanto suesposto, le Sezioni Unite affermano – anche sulla base di una lettura sistematica e combinata del codice civile e della L. 287/1990 - il concorso tra la tutela risarcitoria e l'azione di nullità in capo alla parte lesa. Essa, pertanto, sarà ritenuta proponibile non soltanto nei confronti dell'intesa, ma anche nei confronti dei contratti c.d. a valle. Pare fondamentale, a parere di chi scrive, tuttavia, ribadire che lo strumentario rimediale applicabile ai contratti “a valle” non riguarda solo i contratti dei consumatori. Esso, al contrario, è applicabile a qualunque soggetto che operi sul mercato, purchè il rapporto contrattuale – da cui scaturiscono e di cui sono espressione i contratti a valle – sia espressivo, in concreto, di una violazione delle norme di matrice pubblicistica e inderogabile della concorrenza. Solo in tal modo – secondo l’opinione di chi scrive - potrà essere assicurata al fideiussore una tutela concreta e attuale[46], non già “fallace”.
3.4. La clausola di up front dei derivati sottoscritti dagli enti locali: natura giuridica e profili problematici.
Come noto, la presunta complementarietà del rimedio della nullità di protezione e la tutela risarcitoria ha interessato anche i contratti derivati stipulati dagli enti locali; essi interessano molteplici discipline, cioè quelle afferenti ai mercati finanziari, all’ordinamento civile e al coordinamento della finanza pubblica; con l’inevitabile effetto che il contenzioso relativo a tale tipologia contrattuale ha investito diverse autorità giudiziarie: civile, amministrativa e contabile, le cui pronunce hanno dato luogo ad orientamenti contrastanti, rendendo ancor più complessa la questione[47]. Tanto premesso in via generale, occorre premettere brevi cenni sui contratti derivati. Gli swaps, come i futures e le options sono contratti derivati. I contratti derivati, sono contratti il cui valore “deriva” dall’andamento del valore di un’attività sottostante (cd. underlying asset) ovvero dal verificarsi nel futuro di un evento osservabile oggettivamente. I derivati sono contratti che insistono su elementi di altri schemi negoziali, quali titoli, valute, tassi di interesse, tassi di cambio, indici di borsa ecc. Il loro valore, dunque, varia in connessione all’andamento degli elementi sottostanti.
Sono strumenti utilizzati, principalmente, per finalità di copertura o anche di hedging: i derivati possono assolvere una funzione protettiva da uno specifico rischio di mercato; o per finalità speculativa: consiste nell’“acquisto” di un rischio al fine di trarne un profitto; o, ancora, finalità di arbitraggio: consiste nell’operazione diretta al conseguimento di un profitto tramite l’acquisto dei prodotti su un mercato e la rivendita su un altro.
Il legislatore italiano, sebbene abbia predisposto una disciplina dettagliata per i valori mobiliari (art. 1 comma 1-bis T.U.F.) e per gli strumenti finanziari (art. 1, comma 2, T.U.F.), non offre una definizione di contratti derivati ma si limita ad elencare determinati contratti, lasciando all’interprete il compito della reductio ad unum, laddove possibile.
Per quanto riguarda gli swaps, nel silenzio di una definizione normativa, occorre partire dal dato semantico. Il temine “swap“, dal punto di vista etimologico, deriva dal verbo inglese “to swap” che letteralmente si traduce “scambiare qualcosa con qualcos’altro”. Lo swap è infatti un contratto con il quale due controparti (A e B) si accordano per scambiarsi somme di denaro (più comunemente la differenza tra queste ultime) a date certe. I pagamenti possono essere espressi nella stessa valuta o in valute differenti ed il loro ammontare è determinato in relazione ad un sottostante. Gli swaps, inoltre, sono contratti OTC (over-the-counter) ovvero prodotti non negoziati sui mercati regolamentati: <<come per molti derivati, soprattutto quelli OTC, lo swap, non ha le caratteristiche intrinseche degli strumenti finanziari, e particolarmente non ha la cd. negoziabilità, cioè quella capacità di rappresentare una posizione contrattuale in forme idonee alla circolazione, in quanto esso tende a non divenire autonomo rispetto al negozio che lo ha generato. Inoltre, benché siano stipulati nell’ambito della prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio, ex art. 23, comma 5, T.u.f., nei derivati OTC l’intermediario stipula un contratto (con il cliente) ponendosi quale sua controparte>>.
Anche la Suprema Corte, nella pronuncia n. 8770/2020 – risolvendo positivamente la prima delle questioni sottoposte al suo vaglio - perviene alle medesime conclusioni affermando espressamente che “gli importi ricevuti a titolo di up front[48] costituiscono indebitamento ai fini della normativa di contabilità pubblica e dell’art. 119 Cost”. Infatti, aggiungono le Sezioni Unite, “La normativa del 2008 ha (…) preso atto della natura di indebitamento di quanto conseguito con l’up front senza innovare l’ordinamento La decisione cui pervengono gli Ermellini è, di certo, quella maggiormente auspicabile, conferendo un riconoscimento giurisprudenziale a una tesi dottrinale[49] largamente condivisa già da tempo, secondo la quale quando un derivato è sottoscritto da un ente locale “l’espresso vincolo finalistico previsto dalla normativa di settore non può che condizionare tanto nella fase genetica quanto in quella funzionale lo stesso elemento causale, inficiando la validità del negozio laddove siano perseguite finalità diverse da quelle di mera copertura”. Siffatta decisione, peraltro, è anche quella più prevedibile, alla luce della normativa intervenuta successivamente rispetto ai fatti di causa, che, in prima battuta, ha qualificato l’up front come indebitamento, ai sensi dell’art. 119 Cost. e, successivamente, ha precluso in via definitiva agli enti locali l’accesso ai derivati. Infatti tale quadro normativo – come acutamente osservato dalle Sezioni Unite – costituisce “un valido punto di equilibrio”, che inevitabilmente influenza anche le pronunce afferenti i casi pregressi. Ed anzi, meglio sarebbe stato se tali interventi legislativi fossero stati precedenti: ciò, contrariamente a quanto accaduto nella prassi, avrebbe evitato a numerosi Comuni la commissione di un duplice errore.
Il primo è quello di aver destinato erroneamente l’up front alla copertura di spese correnti. Infatti, tale flusso monetario – avendo la funzione di riequilibrare la posizione dei due contraenti – “configura un finanziamento dell’ente che, sia nell’utilizzo che nella iscrizione in bilancio, deve tenere conto di quanto sancito dall’art. 119 Cost., nel senso che può essere destinato alle sole spese di investimento”. Dall’errata qualificazione del predetto flusso, discende l’ulteriore distorsione ad opera dei Comuni, i quali hanno stipulato lo swap con il solo fine di disporre delle somme derivanti dall’up front, ovvero con il mero scopo di “fare cassa”, senza considerare che le medesime non costituiscono un’erogazione definitiva ma un’anticipazione di somme di denaro. Così agendo, i Comuni hanno di fatto trasformato la funzione tipica del derivato e della sua rinegoziazione in una mera modalità di dilazione del proprio debito nel corso di più esercizi.
Ed invero, l’utilizzo improprio di tali strumenti è ancor più evidente ove si consideri che un ente pubblico territoriale tutto dovrebbe fare tranne che rischiare in borsa risorse pubbliche. Non è un caso, infatti, che, al fine precipuo di evitare tale utilizzo improprio, il legislatore statale sia intervenuto in senso esclusivamente protettivo, poiché dalle operazioni finanziarie poste in essere dagli enti locali è emersa, in concreto, una marcata attitudine a produrre debito, senza l’automatica creazione di un risparmio corrispettivo. Ciò con l’effetto di determinare un depauperamento dell’ente e, conseguentemente, un’incidenza negativa sulla capacità di espletare le funzioni che gli sono proprie, obiettivamente non perseguibili con risorse finanziarie divenute inadeguate.
“Questi rilievi evidenziano l’opportunità che sia mantenuto, in capo al legislatore statale, non solo il potere di regolamentare i relativi rapporti, ma anche di farlo con previsioni che incidano sulla validità degli strumenti contrattuali[50] che ne hanno dato origine”. Infatti, la protezione dell’integrità delle risorse finanziarie locali, attraverso adeguati strumenti di salvaguardia, rappresenta sì una forma di controllo della spesa pubblica, ma anche, soprattutto, la tutela di interessi della collettività. Ciò a conferma del fatto che il principio di legalità - che imprime un essenziale vincolo di scopo e di mezzi all’attività della Pubblica Amministrazione - pervade necessariamente l’intero raggio di azione della medesima, sia che emani un provvedimento sia che concluda un contratto. Detto principio di legalità emerge chiaramente dall’intero iter motivazionale seguito dalla Suprema Corte, la quale afferma che lo stesso debba operare anche quando, in assenza di una disciplina ad hoc, sia necessario ricavare dal sistema, in via interpretativa, un criterio guida che possa indirizzare l’azione amministrativa. Nel caso di specie, tale criterio viene desunto dall’art. 41 della legge n. 448 del 2001, il quale - si rammenta - consentiva agli enti locali l’accesso diretto al mercato dei capitali, e quindi il ricorso ai derivati, allo scopo di ridurre il costo del debito o di assicurare adeguate garanzie alla sua evoluzione. Sulla scorta di tale assunto le Sezioni Unite, compiendo un’operazione ermeneutica volta a ricondurre ad unità l’ordinamento - a prescindere dalla provenienza pubblica o privata delle fonti normative - pervengono all’individuazione del vincolo di scopo che il derivato[51] sottoscritto dall’ente locale deve inderogabilmente rispettare, vale a dire una finalità di sola copertura e non già speculativa. Nella pronuncia de qua, quindi, è evidente la scelta della Suprema Corte di valorizzare tale vincolo di scopo, riconoscendone la natura essenziale ed imprescindibile nell’attività contrattuale[52] dell’ente locale, al punto da incidere sulla legittimazione negoziale del medesimo.
- Conclusioni: tra private e public enforcement.
La giurisprudenza recente dimostra dunque – o in parte conferma – l’esistenza di un certo grado di “contaminazione” tra diversi sistemi di enforcement. La circolazione dei principi tra i vari ambiti è, da un lato, certamente fisiologico e deriva dall’incidenza di altri principi più generali (ad es., effettività ed equivalenza come limite all’autonomia procedurale/processuale nel contesto del private enforcement); o dalla necessità di convergenza di concetti (come la nozione di impresa e di unità economica nel caso Skanska). Tuttavia, non sempre è possibile una “trasmigrazione” di principi tra un settore e l’altro.
Non lo è ad esempio, come emerge dal caso Air Lingus, quando l’applicazione di talune norme o principi – estrapolate da altri settori contigui – minerebbe elementi di un altro sistema, ritenuti strutturalmente intoccabili e inderogabili. Nel settore del public enforcement degli aiuti di Stato, il recupero integrale di un aiuto illegale e incompatibile non ammette infatti eccezioni. E va peraltro ricordato che il recupero di un aiuto non risponde né a una finalità sanzionatoria e né risarcitoria, bensì trova la sua ragione nella necessità del ripristino dello status quo ante del mercato.
Solo gli interessi – da corrispondere per tutto il periodo dell’illegalità – possono invece dare la misura dell’entità del danno concorrenziale al mercato anche in caso di aiuti (illegali e) compatibili, corrispondente al vantaggio ottenuto anzi tempo dal beneficiario (es. un prestito a condizioni più favorevoli) – come ricordato dal noto caso CELF.
In tale ambito è perciò possibile ragionare su una possibile estensione – in un contesto risarcitorio (antitrust) – di principi estrapolati dal public enforcement degli aiuti di Stato. Quel che è comunque appare certo è una visibile predisposizione da parte della Corte di giustizia ad accogliere con favore i suggerimenti o richieste da parte dei giudici nazionali (i) ad un’armonizzazione dei principi applicabili nel private enforcement tra i due diversi ambiti, antitrust e aiuti di Stato, e (ii) per quanto riguarda il settore antitrust, ad un’estensione di concetti oramai collaudati nel public enforcement anche nel caso di azioni risarcitorie. L’effettività del diritto dell’Unione europea e in particolare delle norme sulla concorrenza richiede dunque – anche al di là della direttiva 104/2014 – un alto grado di coerenza del sistema di enforcement unitariamente considerato e la necessità che le azioni dinanzi ai giudici nazionali non abbiano esiti diversi a seconda della disciplina nazionale applicabile. C’è però sicuramente da chiedersi se la tendenza ad esportare principi dal public al private enforcement non porti a snaturare la finalità di quest’ultimo sistema (che è la tutela dei diritti dei soggetti privati). Il concetto di unità economica, ad esempio, applicato anche nel contesto di un’azione risarcitoria implica di fatto che i due sistemi di enforcement perseguono entrambi una finalità di deterrenza delle condotte anticoncorrenziali. Lo riafferma chiaramente la Corte nel caso Skanska: «il diritto riconosciuto a chiunque di chiedere il risarcimento del danno […] è tale da scoraggiare gli accordi o le pratiche, spesso dissimulati, idonei a restringere o falsare il gioco della concorrenza, contribuendo quindi al mantenimento di un’effettiva concorrenza nell’Unione». Va infine osservato che alla circolarità di nozioni e concetti all’interno del settore della concorrenza si assiste inoltre anche ad una più estesa “contaminazione” di principi – con riferimento alle garanzie procedurali – anche tra l’area del diritto della concorrenza ed altri ambiti.
La circolarità virtuosa di principi tra ordinamenti – a parere di chi scrive - ha dunque consentito di rafforzare un diritto della persona già presente nella nostra Costituzione attraverso una lettura coerente di principi applicabili nel procedimento antitrust e a loro volta tratti da diritti tutelati a livello internazionale e da principi generali operanti a livello interno. A conclusione di tale excursus vale solo la pena di osservare che la coerenza tra i sistemi di public e private enforcement così come tra altri settori e quello del diritto della concorrenza globalmente considerato, non passa dalla Commissione, o non solo, ma si fonda principalmente sul dialogo con la Corte di giustizia.
Quest’ultima è, infatti allo stesso tempo il giudice che controlla le legittimità delle decisioni adottate dalla Commissione, perimetrandone la sua discrezionalità, e il giudice che interviene, nell’ambito del rinvio pregiudiziale, per assicurare l’interpretazione conforme (e coerente) delle regole sia di public che di private enforcement, garantendo al contempo una più elevata tutela dei diritti fatti valere in sede nazionale. La circolarità di principi, tra sistemi, tra settori, tra ordinamenti nazionali degli Stati membri e tra questi e l’Unione europea, è comunque un processo costante e proficuo.
Anche la partecipazione sempre più assidua delle Corti costituzionali al dialogo con la Corte di giustizia lo dimostra e va salutata con enorme favore.
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[1] A. Tucci, “Servizio” e “contratto” nel rapporto tra intermediario e cliente, in I contratti del mercato finanziario, a cura di E. Gabrielli- R. Lener, in Trattato dei contratti, diretto da Rescigno - Gabrielli, Torino, 2011, p. 185; G. Salatino, Contratti swap. Dall’“operatore qualificato” al “cliente professionale”: il trattamento delle dichiarazioni autoreferenziali, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, I, p. 201 ss.; C. Motti, L’attestazione della qualità di operatore qualificato nelle operazioni in strumenti derivati fra banche e società non quotate, in Giur. it., 2008, p. 1172. Favorevole, invece, al riconoscimento della piena efficacia alla dichiarazione rilasciata dal legale rappresentante G. Bruno, Derivati OTC e incomprensibile svalutazione dell’autocertificazione del legale rappresentante della società acquirente, in Corr. merito, 2008, p. 1263; G. Bruno.- E. Ruozzi, Il destino dell’operatore qualificato alla luce della MiFID, in Società, 2007, 277. Negli orientamenti di merito, invece, nel senso della rilevanza della dichiarazione autoreferenziale di essere operatore qualificato, cfr. Trib. Vicenza, 12 febbraio 2008, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, p. 203, con nota di C. Tatozzi, La nozione di «operatore qualificato» tra vecchie incertezze e nuovi assetti normativi.
[2] Sul piano storico, l'idea del freno all'antitrust nei periodi di crisi è avvalorata dall'esperienza traumatica che toccò la politica della concorrenza negli Stati Uniti nei primi anni della Grande Depressione e del New Deal. Nel marzo del 1933, la Corte Suprema decideva il caso Appalachian Coal, riconoscendo la compatibilità con lo Sherman Act - in applicazione della rule of reason - di un tipico cartello difensivo tra produttori di carbone. Nel giugno dello stesso anno, era approvato il National Industrial Recovery Act, che disponeva una generale esenzione dalle norme antitrust per tutti gli accordi economici di settore approvati da un'apposita autorità indipendente e volti a stabilire codici di condotta interessanti tutti gli operatori del settore medesimo (imprese, grandi e piccole, e lavoratori: il modello - a parte le debite differenze del quadro politico generale - non era molto diverso da quello che, nello stesso tempo, si affermava nel diritto corporativo italiano). Nei due anni successivi furono sottoscritti ed approvati più di 1.000 codici di condotta.
La dottrina, successivamente, approfondì la disciplina sui cartelli, si spingeva a presentare la legge antitrust americana, in un quadro comparatistico, come un'esperienza estremistica di repressione dei cartelli, che però la saggia politica del presidente Roosevelt stava opportunamente correggendo, riportando anche il diritto americano alla più "moderna" visione, tendenzialmente favorevole ai cartelli, che in quel momento dominava in Europa.
[3] La duplice valenza dell’istituto del private enforcement che dovrebbe, in definitiva, fungere anche da deterrente nei confronti delle imprese che non rispettino le regole antitrust, ritorna in quasi tutti i documenti della Commissione, tra i quali il Libro bianco del 2008. Si tratta del documento forse più importante tra quelli elaborati dalla Commissione perché, dopo avere ribadito il principio che «il risarcimento del danno è garantito dal diritto comunitario» e avere stigmatizzato la situazione europea (presenza di diversi «ostacoli di natura giuridica e procedurale»; sostanziale «inefficacia attuale delle azioni di risarcimento del danno antitrust»), dopo avere esaltato gli effetti benefici del private enforcement (effetto deterrente e una concorrenza più effettiva), nonché i problemi che potrebbero derivare da una non corretta disciplina nazionale o eccessivamente diversificata da Stato a Stato (quali, in primis, l’incertezza del diritto), si dedica quasi esclusivamente a formulare proposte per la soluzione dei principali problemi che si pongono nell’attuazione del diritto al risarcimento del danno. Tali proposte tengono conto dei diversi modelli giuridici degli Stati membri e delle diverse tradizioni giuridiche presenti. Esse suggeriscono una o più soluzioni alternative per ciascuno dei principali problemi individuati e rappresentano un interessantissimo studio comparatistico su quelli che sono, oggi, i diversi modelli giuridici nazionali. L’obiettivo dalla Commissione è quello di indirizzare, in assenza di una normativa europea, legislatori e giudici nazionali ad adottare soluzioni che permettano una più ampia convergenza possibile, in modo da giungere se non ad un modello unico, quanto meno ad un insieme di modelli sia pure diversificati, ma il più possibile armonizzati, allo scopo di evitare eccessive disparità di trattamento, di garantire una più efficace tutela del danneggiato e, soprattutto, di assicurare una concorrenza effettiva all’interno del mercato unico.
[4] In assenza di una normativa UE, il legislatore, in primis, ma anche i giudici nazionali, dovranno rispettivamente dettare ed applicare regole che siano conformi alle regole e ai principi dell’UE e, in particolare, alle regole e ai principi elaborati dalla Corte di giustizia. In effetti la Corte di giustizia, invocata in questi ultimi anni dai giudici nazionali in procedimenti di rinvio pregiudiziale, è intervenuta in più occasioni per porre un rimedio all’assenza di una disciplina comunitaria e alla grave carenza di quella nazionale. Già abbiamo ricordato i due importanti principi elaborati in materia dalla sentenza Courage e che possiamo così sintetizzare: a) chiunque abbia subito un danno in conseguenza di una violazione delle regole comunitarie sulla concorrenza ha diritto ad ottenerne il risarcimento; b) anche chi è parte di un contratto stipulato in violazione delle regole antitrust può agire per chiedere il risarcimento del danno. Ma il ruolo della Corte comunitaria non si è esaurito con la formulazione di questi due principi. È nota la posizione dei giudici di Lussemburgo quando, in assenza di una specifica disciplina sia nazionale che europea, si trovano a dover valutare la compatibilità con il diritto comunitario di norme nazionali che il giudice del rinvio dovrebbe applicare a fattispecie che, come quelle in materia antitrust, sono di interesse comunitario. Come più volte affermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, in assenza di una specifica normativa comunitaria spetta al giudice nazionale scegliere le regole procedurali e sostanziali da applicare al caso concreto a condizione, però, che le modalità interne di applicazione delle regole comunitarie non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (“principio di equivalenza”) né tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (“principio di effettività”). Tali due principi di creazione giurisprudenziale si sono rilevati di grandissima importanza, come vedremo meglio in seguito. Infatti, proprio in assenza di una disciplina comunitaria, essi costituiscono gli unici strumenti per evitare che gli Stati possano frapporre ostacoli di diversa natura al fine di scoraggiare l’utilizzo dell’arma del risarcimento del danno e favorire il public enforcement, vale a dire il controllo e l’intervento amministrativo a tutela delle regole antitrust.
[5] Cfr. in senso contrario P. Sirena, L’integrazione del diritto dei consumatori nella disciplina generale del contratto, in Riv. dir. civ., 2004, p. 808, secondo cui le discipline di tutela del consumatore non possono essere ascritti al diritto commerciale in senso stretto, in quanto la loro ragione giustificativa non sarebbe ravvisabile nell’esigenza di introdurre norme derogatorie per facilitare l’attività imprenditoriale. E’ invece si tratta, proprio come tante norme del diritto commerciale, di norme derogatorie rispetto ad alcuni principi di diritto civile (come l’autonomia negoziale) che però non costituiscono eccezione, ma, come si è accennato vengano a loro volta a costituire anch’essi principi di carattere generale e si integrano perfettamente nel sistema giuridico generale. Al contempo non può negarsi che con tali norme venga facilitata l’attività imprenditoriale, perché favorendo la concorrenza vengono facilitate tutte le imprese che attualmente o potenzialmente vogliono accedere o giocare un ruolo nel mercato dove viene compiuto l’abuso. Sarei dunque dell’opinione che lo studio dei contratti del consumatore non possa essere disgiunto da quello dei contratti che intercorrono tra imprenditore debole e forte e che appartenga al diritto commerciale, perché si tratta di contratti che hanno come una delle parti un imprenditore, perché la loro ratio è quella di prevenire possibili abusi da parte dell’imprenditore, perché il valore costituzionale a cui si fa riferimento è la tutela della concorrenza e perché e utile non separare lo studio della tutela dell’imprenditore “debole” da quella del consumatore, avendo entrambe le discipline uno scopo in comune, quello appunto di prevenire possibili abusi dell’imprenditore della propria posizione di forza. E’ peraltro evidente che la disciplina del consumatore è talmente estesa e pervasiva che finisce per entrare a far parte anche nel cuore del diritto civile: si ritiene pertanto che l’importanza e la complessità della materia può solo giovarsi di uno studio della stessa sia da parte di “commercialisti” sia da parte di “civilisti”. Peraltro, occorre segnalare che nel codice civile tedesco (BGB, nei §§ 13 e 14) è inserita la definizione di consumatore e di imprenditore così collocandosi nel codice civile (e non nel codice di commercio (Handelsgesetzbuch) tutta la disciplina dei contratti con i consumatori. Cfr. sull’argomento M. Cian, Contratti civili, contratti commerciali e contratti d’impresa: valore sistematico ermeneutico della classificazione, in Riv. dir. comm., 2004, p. 852.
[6] In tal senso v. F. Greco, Informazione precontrattuale e rimedi nella disciplina dell’intermediazione finanziaria, Milano, 2010, p. 27; F. Galgano, L’inadempimento dell’intermediario non è dunque causa di nullità virtuale, in Contr. e impr., 2008, p. 584; V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, diretto da Iudica e Zatti, Milano, 2001, p. 326; B. Inzitari, Profili del diritto delle obbligazioni, Padova, 2000, p. 546; E. Gabrielli, R. Lener, Mercati, strumenti finanziari e contratti di investimento, in I contratti del mercato finanziario, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, E. Gabrielli, Torino, 2004, pp. 28 e ss
[7] In tal senso, viene delineato il concetto di «trasparenza contrattuale, in cui la forma assurge a strumento di controllo che consente, da un lato, di verificare l’assolvimento degli obblighi di contenuto posti a carico del predisponente e, dall’altro, di confrontare il contenuto del contratto con l’oggetto dell’informazione precontrattuale
[8] R. Pardolesi, Luci ed ombre nell’analisi economica del diritto (appunti in margine ad un libro recente, in Riv. dir. civ. 1982, p. 721 ss.
[9] In tal senso v. F. Greco, Informazione precontrattuale e rimedi nella disciplina dell’intermediazione finanziaria, Milano, 2010, p. 27; F. Galgano, L’inadempimento dell’intermediario non è dunque causa di nullità virtuale, in Contr. e impr., 2008, p. 584; V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, diretto da G. Iiudica e P. Zatti, Milano, 2001, p. 326; B. Inzitari, Profili del diritto delle obbligazioni, Padova, 2000, p. 546; E. Gabrielli, R. Lener, Mercati, strumenti finanziari e contratti di investimento, in I contratti del mercato finanziario, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, E. Gabrielli, Torino, 2004, pp. 28 e ss
[10] L’aspetto risarcitorio secondario in quanto può essere più efficientemente perseguito per altre vie: l’intuizione ha trovato la sua formalizzazione successivamente, nei contributi, tra gli altri, di Shavell e Kaplow, che hanno dimostrato come per soddisfare un obiettivo risarcitorio sarebbe molto meno costoso assumere un sistema di assicurazione sociale che gestirne uno di responsabilità. J. Kaplow, S. Shavell, Economic Analysis of Law, NBER Working Paper, 1999, 6. Il risarcimento ha aspetti redistributivi, rispetto ai quali, per l’analisi di Calabresi, già dal 1961, si distingue da quella di Shavell e Kaplow.
[11] P. Chiassoni, Law and Economics. L’analisi economica del diritto negli Stati Uniti, 1992, p. 115
[12] A. Arcuri, R. Pardolesi, Analisi economica del diritto, in Encicl. dir., VI, Milano, Giuffré, 2002, 7; U. Mattei, Tutela inibitoria e tutela risarcitoria, Milano, Giuffré, 1987, p. 83; A.C. Pigou, The economics of welfare,, London, Mcmillan, 1932.
[13] Richard A. Posner è stato il principale esponente della c.d. analisi economica del diritto, sviluppatasi negli Stati Uniti intorno alla fine del ventesimo secolo. L’analisi si basa sul criterio dell’efficienza del mercato, in termini di ottima allocazione delle risorse disponibili, e punta essenzialmente alla massimizzazione delle utilità ricavabili dalle risorse stesse e, quindi, anche alla maggiore soddisfazione possibile. Inoltre, un altro degli assiomi fondamentali su cui si basa la teoria è quello del calcolo dei coti negoziali. Infatti, l’approvazione delle regole da introdurre in un ordinamento dipende in definitiva dalla capacità della norma di orientare comportamenti più efficienti o meno rispetto ad un'altra e dalla valutazione dei costi che la stessa implica. Tra gli altri, uno dei campi in cui si esercita maggiormente l’analisi economica è quella dei contratti stipulati da parti fra le quali intercorre una condizione di ‹‹asimmetria informativa››, che abbiamo analizzato all’interno del capitolo primo.
[14] G. De Nova, op Contratto: per una voce, in Scritti in memoria di Giovanni Cattaneo, I, Milano, 2002, p. 469 ss., e R. Pardolesi, Prefazione a Colangelo, L'abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti. Un'analisi economica e comparata, Torino, 2004, XIII. V., per tutti, V. Scalisi, Contratto e regolamento nel piano d'azione delle nullità di protezione, in Id., Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al post moderno, Milano, 2005. V., diffusamente, in luogo di tanti, per un'articolata trattazione del problema, L. Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto, Milano, 2008, p. 63 ss. e p. 251 ss.
[15] Cfr. F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli 1997, p. 247. Analogamente R. Tommasini, Nullità (dir. priv.), in Enc. dir., XXVIII, Milano 1978, p. 870, e L. Cariota Ferrara, Il Negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d., p. 344: «Grave controversia è in dottrina se possa ammettersi in linea logica e sistematica e se, in ogni caso, esista nel nostro ordinamento la nullità relativa, intesa come sottospecie della nullità vera e propria, e quindi da non confondere con l’annullabilità (a torto da taluni denominata, con evidente improprietà, nullità relativa). Tale sottospecie della nullità, per potersi raffigurare appunto come nullità, senza che si scivoli nell’annullabilità, deve distinguersi dall’altra sottospecie della nullità (la nullità assoluta) sol perché le manca il requisito della esperibilità dell’azione da parte di chiunque vi abbia interesse, in quanto in essa l’azione è esperibile unicamente da persone determinate. Gli altri requisiti devono concorrere: mancanza di effetti del negozio; impossibilità di convalescenza. In altri termini, nullità relativa è quella nullità che può farsi valere solo da determinati soggetti e non da altri: solo alcune persone sono attivamente legittimate a far valere la nullità. Grave errore è confondere con tale situazione quella, del tutto diversa, che sta nel non potersi la nullità (o invalidità in genere) far valere contro determinati soggetti: nella prima si ha la limitazione alla legittimazione attiva a far valere la nullità, nella seconda si ha limitazione dal punto di vista passivo. Si può ammettere che si è nella prima situazione quando si parla di una nullità che esiste solo rispetto a date persone, purché si intenda nel senso che solo queste possono invocarla. Così chiarita la nullità relativa, avvertiamo che essa è, comunque, una figura eccezionale: normale è la nullità assoluta. Perciò noi, nel riferirci a questa, abbiamo parlato semplicemente di nullità. Esaminiamo ora la nullità relativa, indagando se può concepirsi ed ammettersi. A nostro avviso no, e ciò sia che si guardi alla nullità in sé, sia che si guardino gli effetti del negozio relativamente nullo; una nullità che esiste per l’uno e non per l’altro è concetto falso o assurdo; l’essere e il non essere sono termini contrapposti; il negozio non può produrre effetti, ed invece questi devono valere come prodotti per tutti, se la parte che sola ha diritto alla pronunzia di nullità non crede di chiederla, ossia vale come avvenuto ciò che non è avvenuto». Cfr. anche F. Carresi, Il contratto, Giuffrè Editore, 1987, p. 627-632, ove si nega in modo assoluto l’opportunità di configurare la categoria della nullità relativa, data l’intima contraddittorietà che è connaturale a questo concetto. In senso ugualmente critico di fronte alla figura della nullità relativa v. anche. F. Peccenini, Sub art. 1421 c.c. in Simulazione. Nullità. Annullabilità del contratto in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a cura di Galgano, 1998, il quale afferma che: «Quanto più ci si sforza di connotare come autonoma la categoria astratta e, per così dire, sfumata, della nullità relativa, tanto più ci si avvicina a quella dell’annullabilità - relativa per espressa previsione normativa – cui talvolta è possibile ricondurre, superando l’improprio linguaggio di alcune decisioni giurisprudenziali, i casi presi in considerazione e risolti sotto l’egida della nullità relativa».
[16] P. Chiassoni, Law and Economics. L’analisi economica del diritto negli Stati Uniti, 1992, p. 115
[17] L’ambito di applicazione oggettivo del codice del commercio era rappresentato da atti “di commercio”, ossia “di natura non essenzialmente civile”; invece l’ambito soggettivo era costituito dai commercianti e dalle società commerciali.
[18] E, sia detto per inciso, in una prospettiva rivolta semmai ad evidenziare l'esistenza di una körperliche Verbindung tra il contratto e le modalità formali della sua stipula, ha maggior pregio, anche a fini classificatori, provare evidentemente a raccoglierle intorno al concetto di Vertragsanbahnung, ossia di avviamento al contratto, in vista di una decisione informata e consapevole. È un particolare ben presente a chi evidenzia come la maggior parte delle prescrizioni comunitarie di forma scritta «hat ein spezifische Funktion in der Absicherung»: e che questa funzione, «welche vor allem die Informationspflichten, befasst sich eigentlich nicht mit der Form eines Rechtsgeschäftes». Il che, verrebbe da aggiungere, ben si comprende: se sono formalità volte a preservare l'integrità del consenso di una delle parti, bisogna ragionare di una loro rilevanza nei termini di una funzione preventiva, doppiante la logica ablativa dell'azione di annullamento, consustanziale alla quale può semmai essere, nel caso dovessero difettare, un'inversione dell'onere quanto alla prova che il consumatore abbia davvero prestato il consenso alla stipula del contratto. Si pensi, nel caso di contratto mancante di una conferma scritta, a quanto prescritto per il professionista dall'art. 67 vicies semel comma 1 lett. b c. cons., norma espressiva di una regola tipica della contrattazione a distanza se non, stante la presunzione di abusività di tutte le clausole aventi per effetto l'inversione o la modifica dell'onere della prova (art. 33 comma 2 lett. t), di ogni atto di consumo. Del resto, il cliente che abbia sottoscritto un modulo ha senz'altro provveduto a che degli specifici «vincoli formali» venissero soddisfatti: epperò, «non per questo ha creato un contratto in forma scritta». Insomma, se è vero che il contratto stipulato tra un consumatore ed un professionista, giacché veicolo di informazioni, non è un contratto come gli altri, neppure si può omettere di rilevare che sarebbe riduttivo condensare questo viluppo di informazioni in un semplice requisito di forma. Altrove questo insieme, variamente denominato, di forme modulo ha un nomen iuris specifico: Textform, secondo la rubrica del § 126b BGB. Corredo documentale, degli obblighi informativi standard facenti da corona all'atto di consumo o ad un contratto asimmetrico, può altrettanto efficacemente sintetizzare i casi nei quali un supporto cartaceo (o elettronico) diviene lo strumento atto a compensare un'asimmetria cognitiva destinata a tradursi per contro in scelte (di mercato) più o meno smaccatamente inefficienti. Volendo può pure parlarsi di una modalità perequativa, volta a sterilizzare situazioni di abuso della libertà contrattuale, che si mostra sia ancillare alla stipula del contratto (Vertragsschluß) ed all'illustrazione del suo contenuto (Vertragsinhalt) sia funzionale al governo delle vicende di adeguamento e cessazione (Anpassung e Beendigung) del vincolo contrattuale. Ma non, è bene insistere sul distinguo, un terzo tipo di forma solenne, dai tratti spuri, che rompe col modello di vestimentum del codice vigente. Vero, infatti, che il sintagma «forma di protezione» ben illustra il sovrappiù assiologico connotante, nei rapporti asimmetrici, la funzione dello scritto informativo: salvo però non si voglia riconoscere al lemma un valore meramente descrittivo, dovrà convenirsi sulla circostanza ch'esso rileva alla stregua di un appellativo pregnante se lo si riserva ai casi nei quali la documentalità è requisito, prescritto ad substantiam (art. 125-bis comma 2 t.u. bancario) o ad probationem (art. 2 comma 1 d. lg. 21 maggio 2004, n. 170, sui contratti di garanzia finanziaria), dell'intero contratto o di talune sue parti.
[19] A. Catricalà, M. P. Pignalosa, Manuale del diritto dei consumatori, op. cit., p. 3, in cui si sottolinea che la dottrina ha da sempre criticato la riconduzione del consumatore al concetto di status ‹‹in quanto la sua staticità mal si concilierebbe con una posizione dinamica come quella del consumatore suscettibile, piuttosto, di essere descritta come una qualità contingente, momentanea e relativa. I caratteri tipici dello status: necessarietà, indisponibilità, non cumulabilità, non appartengono alla figura del consumatore che è invece una condizione sociale, economica e giuridica fungibile, volontariamente assunta e cumulabile››.
[20] L’espressione indica che l’iniziativa volta alla stipulazione di un contratto provenga dal professionista, il quale offre sul mercato i beni e i servizi che produce, escludendo categoricamente i casi in cui l’iniziativa provenga dal consumatore.
[21] Proprio sotto questo profilo, già F. Santoro Passarelli , Dottrine generali del diritto civile, Jovene, Napoli, 1964, p. 247, criticava la figura della nullità relativa, definendola «intrinsecamente contraddittoria» e richiamava il brocardo quod nullum est nullum producit effectum per dedurne che la nullità «non può che dirimere il negozio privandolo della sua efficacia interamente e rispetto ad entrambe le parti»; e anche F. Messineo, Il contratto in generale, in Cicu e Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, Giuffrè, Milano 1972, p. 180, sosteneva che nei rapporti tra i contraenti la nullità relativa ha i medesimi effetti di quella assoluta, differenziandosi da questa soltanto «per la minore cerchia di esperibilità dell’azione». In dottrina è presente un annoso dibattito sulla natura del contratto quadro e, in particolare, sulla qualificazione del rapporto esistente con i successivi atti negoziali. Sull’accostamento al contratto normativo v. F. Sartori, La (ri)vincita dei rimedi risarcitori nell’intermediazione finanziaria: note critiche, in Il dir. fall. e soc. comm., 2008, p. 20; A. Albanese, Il contratto normativo, in I rapporti giuridici preparatori, a cura di Realmonte, Milano, 1996, pp. 173 ss.
[22] In verità, l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva sui provvedimenti delle autorità che operano nel diritto pubblico dell’economia è una scelta opportuna per varie ragioni: a) è conforme al modello comunitario di sindacato giurisdizionale su tali provvedimenti; b) deriva dalla difficoltà di distinguere i diritti soggettivi dagli interessi legittimi in una materia così composita in cui si intrecciano valutazioni economiche, discrezionalità tecnica, potestà sanzionatorie e diritto di impresa; c) la scelta del giudice amministrativo trova la sua ragion d’essere nel fatto che esso è il giudice naturale della funzione amministrativa e del pubblico interesse e che i provvedimenti di vigilanza e regolazione sono atti soggettivamente ed oggettivamente amministrativi con cui si persegue il pubblico interesse ad un mercato concorrenziale; d) nel nostro ordinamento il sindacato di merito sugli atti amministrativi è storicamente recessivo, tassativo ed eccezionale ed appare ancor più incompatibile con lo status delle autorità indipendenti pertanto la tesi di chi rivendica la giurisdizione del giudice ordinario appare in netta controtendenza soprattutto se la si confronta con alcune iniziative legislative degli ultimi anni non andate a buon fine – e di dubbia compatibilità con l’art. 113, comma 2, Cost. – con cui ci si è mossi in senso diametralmente opposto tentando di circoscrivere ulteriormente il sindacato di legittimità sui provvedimenti delle autorità indipendenti limitandolo ad alcune figure sintomatiche dell’eccesso di potere (ci si riferisce al disegno di legge sulla giustizia amministrativa, divenuto legge n. 205 del 2000, che nella sua originaria formulazione, all’art. 5, limitava il controllo del giudice al “palese errore di apprezzamento” e alla “manifesta illogicità del provvedimento”). «Essendo possibile che vi siano soggetti “controinteressati”, in relazione ai procedimenti e provvedimenti antitrust, legittimati ad impugnare i “provvedimenti assolutori”, ne deriva anche, quale logico corollario, che: a) in caso di provvedimenti sanzionatori, i controinteressati, ove agevolmente individuabili, vanno evocati nel giudizio di impugnazione del provvedimento sanzionatorio; b) i controinteressati non evocati in giudizio possono intervenirvi ad opponendum; c) nel caso in cui il giudice di primo grado annulli un provvedimento sanzionatorio, il controinteressato si trova nella medesima posizione in cui si sarebbe trovato a fronte di un provvedimento ab origine assolutorio, e come ha la legittimazione e l’interesse a impugnare il provvedimento assolutorio, ha anche la legittimazione e l’interesse a proporre appello avverso la sentenza che annulla un provvedimento sanzionatorio». (Cons. St., sez.VI, 20 maggio 2011, n. 3013). Tale mutamento giurisprudenziale ci pone di fronte a due nuovi problemi: a) è caduto il muro della carenza di legittimazione del terzo, che effettivamente era troppo alto, ma non ne è stato costruito un altro più basso, per cui oggi ci troviamo nell’eccesso opposto in quanto le funzioni regolatorie e di vigilanza possono avere effetti lesivi su intere categorie di consumatori, pertanto la legittimazione a ricorrere rischia di diventare così ampia da avvicinarsi ad una vera e propria azione popolare; b) si è sviluppato un nuovo contenzioso, in cui si discute della legittimità dell’accettazione o del rifiuto degli impegni, nel quale si pongono nuovi problemi anche sull’intensità del sindacato del giudice che è chiamato a giudicare sulla scelta delle autorità di vigilanza tra due diversi strumenti di tutela: l’accertamento dell’illecito accompagnato dal relativo provvedimento inibitorio e sanzionatorio oppure l’accoglimento degli impegni proposti dalle imprese.
[23] L. Cariota Ferrara, Il Negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 2011, p. 344: «Grave controversia è in dottrina se possa ammettersi in linea logica e sistematica e se, in ogni caso, esista nel nostro ordinamento la nullità relativa, intesa come sottospecie della nullità vera e propria, e quindi da non confondere con l’annullabilità (a torto da taluni denominata, con evidente improprietà, nullità relativa). Tale sottospecie della nullità, per potersi raffigurare appunto come nullità, senza che si scivoli nell’annullabilità, deve distinguersi dall’altra sottospecie della nullità (la nullità assoluta) sol perché le manca il requisito della esperibilità dell’azione da parte di chiunque vi abbia interesse, in quanto in essa l’azione è esperibile unicamente da persone determinate. Gli altri requisiti devono concorrere: mancanza di effetti del negozio; impossibilità di convalescenza. In altri termini, nullità relativa è quella nullità che può farsi valere solo da determinati soggetti e non da altri: solo alcune persone sono attivamente legittimate a far valere la nullità. Grave errore è confondere con tale situazione quella, del tutto diversa, che sta nel non potersi la nullità (o invalidità in genere) far valere contro determinati soggetti: nella prima si ha la limitazione alla legittimazione attiva a far valere la nullità, nella seconda si ha limitazione dal punto di vista passivo. Si può ammettere che si è nella prima situazione quando si parla di una nullità che esiste solo rispetto a date persone, purché si intenda nel senso che solo queste possono invocarla. Così chiarita la nullità relativa, avvertiamo che essa è, comunque, una figura eccezionale: normale è la nullità assoluta. Perciò noi, nel riferirci a questa, abbiamo parlato semplicemente di nullità. Esaminiamo ora la nullità relativa, indagando se può concepirsi ed ammettersi. A nostro avviso no, e ciò sia che si guardi alla nullità in sé, sia che si guardino gli effetti del negozio relativamente nullo; una nullità che esiste per l’uno e non per l’altro è concetto falso o assurdo; l’essere e il non essere sono termini contrapposti; il negozio non può produrre effetti, ed invece questi devono valere come prodotti per tutti, se la parte che sola ha diritto alla pronunzia di nullità non crede di chiederla, ossia vale come avvenuto ciò che non è avvenuto».
[24] La loro violazione determina responsabilità contrattuale ed è superfluo rammentare che, quantunque sia da riconoscere che non esistono criteri assoluti per distinguere la ricorrenza della responsabilità contrattuale o aquiliana e sia «anche da mettere in conto che le due forme di responsabilità tendono ad avvicinarsi» (A. Di Majo, Profili della responsabilità civile, Torino, 2010, p. 83), resta ferma «una chiara linea distintiva tra la responsabilità in cui incorre il contraente per l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) delle obbligazioni derivanti da contratto e quella del quisque de populo ossia del soggetto, non obbligato né debitore, per il danno arrecato a soggetti con i quali non intercorre rapporto alcuno» (Id., Discorso generale sulla responsabilità civile, in La responsabilità e il danno, diretto da Lipari-Rescigno e coordinato da Zoppini, IV, t. 3, Milano, 2009, ora in Id., Profili della responsabilità civile, cit., 10). p. 6 Si possono valorizzare, in funzione del raggiungimento di questo esito, le considerazioni espresse da C. Castronovo, Ritorno all’obbligazione senza prestazione, in Eur. dir. priv., 2009, p. 694.
[25] Nel diciannovesimo secolo Adam Smith aveva sviluppato un modello di mercato, basato sul concetto di “mano invisibile dello Stato”, il quale si basa su una serie di ipotesi: in un mercato vi sono molteplici compratori e venditori; tutti sono perfettamente informati; nessuno ha dimensioni tali da poter influenzare il prezzo di mercato, i beni sono omogenei; tutti gli agenti del mercato agiscono indipendentemente e nel prendere le decisioni perseguono esclusivamente il loro interesse, prendendo in considerazione costi e benefici delle loro scelte. Smith riteneva che se le ipotesi a base del modello fossero confermate, l’allocazione delle risorse che ne scaturiva sarebbe stata efficiente. Tutte le risorse scarse, quindi, devono essere allocate tra i vari utilizzi possibili; domanda e offerta cioè consumatori e imprese – determinano i prezzi, i quali fungono da segnali indirizzando l’allocazione delle risorse.
[26] Dalla teoria di Adam Smith della mano invisibile deriva proprio il c.d. equilibrio generale, ovverosia la teoria secondo la quale gli agenti economici prendono scelte e decisioni in modo coordinato in tutti i mercati e portano a risultati efficienti: in questo caso i consumatori massimizzano l’utilità e i produttori massimizzano il profitto.
[27] A. Piazza, La responsabilità della banca per acquisizione e collocamento di prodotti finanziari “inadeguati” al profilo del risparmiatore, in Corr. Giur., 2005, p. 1028. L’Autore precisa che, in caso di errori di valutazione da parte del professionista ‹‹non si tratta di subire ingiusti squilibri contrattuali, come nel caso del semplice consumatore, bensì di subire la perdita di tutto o buona parte del proprio patrimonio e quindi compromettere la stessa complessiva qualità della vita››.
[28] M. F. Carriero, MiFID, attività assicurativa, autorità di vigilanza, in Diritto della Banca e del merc. fin., 2008, p. 431.
[29] R. Costi, Informazione e contratto nel mercato nel mercato finanziario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 720
[30] ‹‹Le associazioni dei consumatori inserite nell'elenco di cui all'articolo 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo››
[31] Lo stesso Consiglio di Stato nel parere reso in merito alla ripartizione delle competenze, tra AGCM e CONSOB, sulla disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa nel settore finanziario (nell’Adunanza della Prima Sezione del 3 dicembre 2008, n. 399939), ha affermato che l’investitore non professionale può essere considerato un consumatore di servizi finanziari per il quale dovrà valere la disciplina del T.U.F., anziché quella del Codice del Consumo; quindi, può parlarsi di una species del genus consumatore.
[32] Cfr., in tema di fideiussione per gli immobili da costruire, l’art. 2 del D.Lgs. 20 giugno 2005, n. 122 in cui, in caso di inadempimento ad un obbligo “esterno al contratto” è prevista la nullità del contratto; altro esempio di nullità del contratto per esigenze pubblicistiche e dunque per vizi estrinseci e non genetici del contratto è offerta dall’art. 46 del D.P.R. 6/6/2001 n. 380, in tema di immobili abusivi, che risponde alle esigenze costituzionali di porre limiti alla proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale (art. 42, co. 2 Cost.); ancora, in tema di immobili venduti senza posteggio l’art. 41-sexies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, cosiddetta legge urbanistica, prevede, nella sua interpretazione giurisprudenziale, la nullità del contratto di locazione di un immobile senza che venga dato in locazione anche il relativo posteggio (Cass. 19308 del 2005). Sul concetto di “potere contrattuale” cfr. G. Villa, Contratti asimmetrici tra imprese: profili generali di disciplina, in AA.VV., Il terzo contratto, l’abuso di potere contrattuale nei rapporti tra imprese (a cura di G. Gitti, G. Villa), Bologna, 2008, p. 89, il quale osserva che il contratto asimmetrico considera primariamente, ma non solo, il contratto del consumatore e quello tra imprenditori in differente posizione ma si estende ad una serie di ipotesi di settore (es. portabilità del mutuo, divieto degli agenti di assicurazione di agire come monomandatari) assai ampia e difficile da unificare: cfr. ad esempio; G. Colangelo, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti, Torino, 2004, p. 10; F. Denozza, Antitrust, Bologna, 1988, p. 57.
[33] Funzione essenziale del mercato è la crescita della ricchezza attraverso una rapida circolazione dei beni, in ragione del fatto che il bene scambiato riveste un’utilità maggiore per chi lo compra rispetto a chi lo vende. Ma attraverso il mercato viene spesso direttamente permessa la realizzazione e il conseguimento di diritti fondamentali (ad esempio attraverso il mercato televisivo il diritto ad essere informati; attraverso la vendita di beni alimentari il diritto alla salute). La nascita del mercato viene tradizionalmente indicato come un passaggio fondamentale della storia dell’uomo, il punto di passaggio dal medio evo all’età moderna e la nascita della borghesia; è il momento in cui gli abitanti del feudo lasciano i propri feudatari per incontrarsi e scambiare i propri beni prodotti in eccedenza: vengono fondate nuove città ed inizia a circolare il denaro. In economia si intende per mercato il luogo deputato allo svolgimento degli scambi; secondo un'altra definizione il mercato è il punto di incontro della domanda e dell'offerta, cioè degli acquirenti e dei venditori. Ma il mercato è più di un luogo di scambio, anche e soprattutto perché vi sono delle persone umane che possono recarvisi, incontrarsi, scambiarsi delle idee, informarsi, più o meno bene, e non comprare o vendere nulla. In effetti, secondo il giurista inglese Goode, se il mercato si basasse solo su una serie di contratti bilaterali non collegati tra loro rimarrebbe un bambino gracile. Ciò che gli ha dato forza è stato il mercato organizzato, il luogo fisico di incontro – e in tempi più recenti la rete di comunicazione elettronica – con le sue regole associative, le sue occasioni per far conoscere i venditori agli acquirenti ed i finanziatori a chi prende a prestito il denaro, il clima di fiducia o meno che vi si respira al suo interno.
[34] L’art. 18 intende per ‹‹“pratiche commerciali tra professionisti e consumatori” (di seguito denominate: “pratiche commerciali”): qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori››.
[35] Difatti, il considerando 13 della direttiva 29/2005/CE stabilisce che ‹‹il divieto unico generale comune istituito dalla presente direttiva si applica pertanto alle pratiche commerciali sleali che falsano il comportamento economico dei consumatori. Per sostenere la fiducia da parte dei consumatori il divieto generale dovrebbe applicarsi parimenti a pratiche commerciali sleali che si verificano all'esterno di un eventuale rapporto contrattuale tra un professionista ed un consumatore o in seguito alla conclusione di un contratto e durante la sua esecuzione››.
[36] L’art. 18, comma 1, lett. h) cod. cons. definisce “diligenza professionale” come ‹‹il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista››.
[37] Il considerando 18 della direttiva 29/2005/CE identifica il consumatore medio nel soggetto
‹‹normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici››.
[38] Le pratiche commerciali che la direttiva 29/2005/CE vieta non sono definite “scorrette”, bensì “sleali”. La slealtà è individuata sia in base alla ricorrenza di requisiti come la contrarietà alla diligenza professionale e l’idoneità a falsare il comportamento economico del consumatore; ma anche in base alla riconduzione delle pratiche a due distinte categorie (ingannevoli o aggressive); oppure, infine, in base ad una elencazione di pratiche da considerare in ogni caso sleali (ricompreso nell’Allegato I della direttiva).
[39] La direttiva 29/2005/CE, art. 2, lett. f.) e l’art. 18, lett. l), cod. cons., definiscono indebito condizionamento lo ‹‹sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia››.
[40] In tal senso v. F. Greco, Informazione precontrattuale e rimedi nella disciplina dell’intermediazione finanziaria, Milano, 2010, p. 27; F. Galgano, L’inadempimento dell’intermediario non è dunque causa di nullità virtuale, in Contr. e impr., 2008, p. 584; V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, diretto da G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2001, p. 326; B. INZITARI, Profili del diritto delle obbligazioni, Padova, 2000, p. 546; E. Gabrielli, R. Lener, Mercati, strumenti finanziari e contratti di investimento, in I contratti del mercato finanziario, in Trattato dei contratti, diretto da Rescigno, Gabrielli, Torino, 2004, pp. 28 e ss
[41] Un’eccezione in tal senso è prevista dagli artt. 1337 e 1338, i quali impongono rispettivamente un generale comportamento improntato a buona fede, nel quale rientra il dovere stesso di informare la controparte, e gli obblighi di informazione in merito ad una causa di invalidità del contratto.
[42] La nullità riguarda le clausole seguenti: La clausola di reviviscenza secondo cui il fideiussore deve “rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo” (art. 2); La clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 c.c a mente della quale “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall'art. 1957 c.c., che si intende derogato” (art. 6); La clausola di sopravvivenza secondo la quale “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l'obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate” (art. 8).
[43] Cfr M. Libertini, Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti “a valle”. Un commento sullo stato della giurisprudenza in Italia, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 2, p. 378, nonché E. Camilleri, Validità della fideiussione omnibus conforme a schema-tipo dell’ABI e invocabilità della sola tutela riparatoria in chiave correttiva, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 2, p. 397. Vedasi anche G. Villa, L’attuazione della direttiva sul risarcimento del danno per violazione delle norme sulla concorrenza, in Nuova Giur. Civ. Comm, 2017, 4, p. 441, e V. Meli, Introduzione al d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, di attuazione della dir. 2014/104/UE sul risarcimento dei danni per violazione della normativa antitrust, in Nuove leggi civ., 2018, 1, p. 119.
[44] L’orientamento ultimo, che prevede il riconoscimento della sola tutela risarcitoria, ritiene applicabile l’art. 2, co. 2, lett. a), L. n. 287/1990, alle sole “intese”, escludendo, pertanto, l’applicabilità ai contratti a valle (quindi alle fideiussioni) della nullità. I contratti di fideiussione a valle, pertanto, non toccati dalla nullità, manterrebbero la loro efficacia e validità e darebbero diritto al solo risarcimento del danno. L’intesa restrittiva dovrà aver, in quest’ottica, cagionato un danno consistente nella impossibilità di scegliere tra prodotti differenti, e potenzialmente più vantaggiosi per il consumatore, e di questo danno il contraente/consumatore potrà chiedere ristoro.
Nel caso, invece, di declaratoria di nullità assoluta del contratto a valle, si è ancora distinto tra una “invalidità derivata” del contratto a valle dall’invalidità delle intese e “invalidità diretta” del contratto a valle per vizi propri. Nel primo caso, infatti, l’invalidità della fideiussione deriverebbe dall’invalidità delle intese anticoncorrenziali a monte, per “propagazione”, essendo i negozi collegati (simul stabunt simul cadent). Nel secondo caso, invece, superata l’idea del collegamento negoziale, si insiste sull’autonomia dei negozi e sulla esistenza di vizi propri del contratto a valle, che ne giustificano in sé la nullità. Da ultimo, l’orientamento da tempo prevalente, fatto proprio e ribadito dalle Sezioni Unite, che ritiene affette da nullità le fideiussioni a valle di intese anticoncorrenziali, ma viziate di una sola nullità parziale, che riguarda unicamente le clausole viziate e non si propaga invece al resto del contratto, qualora, tuttavia, permanga l’interesse delle parti alla conservazione del negozio ed il loro interesse allo stesso.
Questo il rimedio che le Sezioni Unite, dunque, ritengono più efficace e maggiormente in linea con quelle che risultano essere le finalità che la legge antitrust si propone di perseguire, tenendo comunque presente e precisando che si ottiene in tale modo un corretto bilanciamento degli interessi in gioco, da un canto quello del garante, che vede comunque erogato il credito ma con una propria posizione maggiormente garantita, dall’altro quello degli istituti di credito, che hanno interesse a mantenere comunque una garanzia del credito erogato, seppure con un contenuto ridotto e depurato delle clausole in contrato con la normativa antitrust. Accanto a questi interessi, tuttavia, persiste un interesse generale, di natura pubblicistica, che è appunto riconosciuto nell’interesse che la stessa normativa antitrust intende tutelare, ovvero l’interesse del mercato, che assume rilievo sotto il profilo dell’ordine pubblico economico, che si sposa all’ulteriore principio di carattere generale, che può essere ravvisato nell’interesse alla conservazione degli atti e dei negozi di cui all’art. 1419 cod. civ. Né può sfuggire il fatto che tale interesse più generale è financo costituzionalmente protetto all’art. 41 Cost. Le intese a monte sono, pertanto, viziate in quanto lesive della concorrenza e del mercato e tale vizio ne importa la nullità, ma, posto il “collegamento funzionale” con le fideiussioni a valle, la nullità non potrà che coinvolgere anche queste ultime. La forma di invalidità che, pertanto, affligge il contratto di fideiussione, ovvero la nullità parziale delle sole clausole considerate in violazione della normativa antitrust, si atteggia quale forma di tutela reale, che appare essere, tuttavia, “atipica” a giudizio di una parte della dottrina, ovvero differente e di portata più ampia rispetto alle forme di nullità previste dall’ordinamento e, in particolare, da quelle di classico impianto codicistico, di cui all’art. 1418, co. 1., anche in ragione di una lettura costituzionalmente orientata della disciplina antitrust.
La atipicità verterebbe sulla natura pubblica dell’interesse protetto – la libertà di concorrenza ed il mercato, e l’ordine pubblico economico – che, in verità, non sembrano tuttavia dissimili da altre ipotesi in cui la nullità di un contratto o di parte di esso possa essere dichiarata per contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume, quindi a norme imperative di legge, come il primo comma dell’art. 1418 del cod. civ. prevede.
[45] Il tipo di rimedio che le Sezioni Unite decidono di riconoscere appare a pieno titolo inserirsi in un più ampio fenomeno di “decodificazione”, portata avanti dalle corti, dell’art. 1419, co. 1, che in particolar modo si evidenzia, poi, in relazione a quella che è la speciale categoria delle “nullità di protezione”, derivata dalla oramai numerosissima legislazione speciale “di protezione”, che è andata acquisendo sempre più spazio e rilievo all’interno del nostro ordinamento. Quello che possiamo senz’altro dire in tema di nullità parziali “necessarie”, ovvero le nullità derivate dall’applicazione dell’art. 1419, comma II, e le nullità di protezione, invece derivate da diverse fonti di legislazione speciale, è che in entrambe i casi il loro operare comporta una forma di integrazione del contratto, che assurge a fattor comune derivato dall’esistenza di un interesse superiore che supera la volontà stessa delle parti. Orbene nella cosiddetta rincorsa della giurisprudenza alla identificazione di nuove nullità parziali volte a ridisegnare il contenuto del contratto alla luce della tutela di interessi superiori si ascrive oggi anche la decisione in esame proveniente dalle Sezioni Unite, che non può, in tutta evidenza farsi, però, rientrare nella scia delle nullità di protezione, o almeno non in senso stretto.
[46] Un altro filone interpretativo, pur condividendo il rimedio della nullità, precisa che la stessa non sia totale ma parziale, in quanto, dalla lettura dell’art. 1419 c.c., emerge che il giudice non deve dichiarare la nullità del contratto qualora le clausole viziate non siano idonee a far venire meno l’interesse che ha mosso le parti alla stipulazione. In tal senso, si veda E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Utet, 1955, p. 486; L. Nivarra, V. Ricciuto, C. Scognamiglio, Diritto privato, Giappichelli, 2019, p. 380]. Pertanto, il giudice, in virtù del principio «utile per inutile non vitiatur» dovrà optare per la conservazione del contratto tutte le volte in cui il mancato inserimento di alcune clausole non pregiudichi l’interesse concreto perseguito dalle parti. Ciò posto, parte della giurisprudenza ha affermato che, essendo le clausole anticoncorrenziali elaborate dall’ABI funzionali all’interesse della banca ad ottenere una maggiore tutela a fronte di eventuali invalidità del rapporto principale – avendo, in concreto, lo scopo di addossare al fideiussore le conseguenze sfavorevoli derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca o dall’invalidità dell’obbligazione – della loro espunzione non possono dolersi i garanti, la cui posizione, a seguito di tale operazione, risulterebbe meglio tutelata [così, Trib. Napoli, 5 maggio 2021, n. 4214, cit. da G. Fauceglia, L’orientamento del Tribunale delle imprese di Napoli in tema di fideiussioni omnibus conformi allo schema ABI. Nullità (parziale) o integrazione dei contratti?, in Contratti, 2021, 5, p. 585. Parimenti, secondo i fautori del presente orientamento, l’espunzione di tali clausole non fa venire meno neanche l’interesse dell’istituto bancario al mantenimento della garanzia, atteso che l'alternativa sarebbe quella dell'assenza completa della fideiussione, con minore garanzia per i propri crediti. Di conseguenza, i sostenitori del presente indirizzo ritengono che la nullità delle clausole restrittive della concorrenza non faccia venire meno l’intera fideiussione bancaria, in quanto i contraenti avrebbero interesse a mantenerla, anche in assenza delle predette clausole.
[47] Soluzioni divergenti si registrano nella giurisprudenza ordinaria, tanto contabile quanto amministrativa. In particolare, un primo orientamento - qualificando lo swap come ‘‘come strumento di gestione del debito’’ - esclude che possa determinare una forma di indebitamento. Esso, infatti, avrebbe non già lo scopo di ‘‘produrre debito’’, ma di ottenere un ‘‘guadagno’’ con cui ‘‘pagare i debiti altrimenti contratti e coprirne così il rischio”. Parimenti, la previsione di un up front non altererebbe tale scopo, costituendo una mera anticipazione di denaro e non già di credito e rileverebbe, dunque, come una entrata straordinaria idonea ad esser impiegata per spese correnti (in tal senso cfr. Trib. Bologna, 14 dicembre 2009, n. 5244, in Giur. Comm., 2011, 189 con nota adesiva di F. Caputo Nassetti, Contratto swap con ente pubblico territoriale con pagamento up front; Corte Conti, Sez. giur. reg. Sicilia, 7 agosto 2006, n. 2376, in Finanza Loc., 2007, p. 107, con nota di A. Lupi, Il Contratto di Swap nella sentenza n. 2376 del 7 agosto 2006 della sezione regionale Sicilia, la quale ha escluso che la percezione delle somme a titolo di up front da parte dell’Ente locale integri indebitamento, rilevando come con lo swap si provveda alla sostituzione di un tasso variabile ad uno fisso. Ed ancora v. Cons. St., Sez. V, 30 giugno 2017, n. 3174, in www.lagazzettadeglientilocali.it, secondo cui lo swap si colloca al di fuori dello schema del bilancio annuale e pluriennale.
[48] Le Sezioni Unite affermano la regola iuris secondo la quale “l’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei Comuni italiani, specie se del tipo con finanziamento upfront, ma anche in tutti quei casi in cui la sua negoziazione si traduce comunque nell’estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti ovvero anche nel loro mantenimento in vita, ma con rilevanti modificazioni, deve essere data, a pena di nullità, dal Consiglio comunale ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett. i), t.u.e.l. di cui al d.lgs. n. 267 del 2000 [laddove stabilisce che «Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (...) spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi (...)»]; non potendosi assimilare ad un semplice atto di gestione dell'indebitamento dell'ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, adottabile dalla giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria ex art. 48, comma 2, dello stesso testo unico”: così Cass. Civ., Sez. Un., 12 maggio 2020, n. 8770, cit., (punto 10.8)
[49] Le Sezioni Unite affermano la regola iuris secondo la quale “l’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei Comuni italiani, specie se del tipo con finanziamento upfront, ma anche in tutti quei casi in cui la sua negoziazione si traduce comunque nell’estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti ovvero anche nel loro mantenimento in vita, ma con rilevanti modificazioni, deve essere data, a pena di nullità, dal Consiglio comunale ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett. i), t.u.e.l. di cui al d.lgs. n. 267 del 2000 [laddove stabilisce che «Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (...) spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi (...)»]; non potendosi assimilare ad un semplice atto di gestione dell'indebitamento dell'ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, adottabile dalla giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria ex art. 48, comma 2, dello stesso testo unico”: così Cass. Civ., Sez. Un., 12 maggio 2020, n. 8770, cit., (punto 10.8)
[50] A. V. Guccione, Intese vietate e contratti individuali a valle: alcune considerazioni sulla invalidità derivata, in Giur. comm., 1999, II, p. 449. L’autore rileva che le clausole trasfuse nei contratti stipulati a valle “costituiscono una violazione del principio di libertà di concorrenza che, in linea di principio, si configura come una delle caratteristiche della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. In tal modo risulta violato il cosiddetto ordine pubblico economico e la clausola contrattuale è nulla per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1343 cod. civ.”. Anche secondo L. Delli Priscoli, La dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, in Giur. comm., 1999, II, p. 237, i downstream contracts sono “nulli, ex art. 1418, comma 2, c.c. per illiceità della causa perché conclusi in violazione della norma imperativa rappresentata dal comma 2 dell’art. 2 che vieta la fissazione concordata dei prezzi di vendita”. In tal senso già Cass. Civ., 1 febbraio1999, n. 827, in Danno resp., 2000, 1, p. 57 con nota di L. Nivarra, “Interesse pubblico” e antitrust: qualche osservazione; in Giur. it., 1999, 1223 ss., con nota di B. Libonati, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione; ivi, 2000, p. 939 ss., con nota di G. Afferni, Le intese restrittive della concorrenza anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale?.
[51] Nell’ambito del vasto dibattito civilistico in materia, v. D. Maffeis, Costi impliciti nell’interest rate swap, in Giur. comm., 2013, p. 648: M. Indolfi, Recenti evoluzioni dell’aleatorietà convenzionale: i contratti derivati OTC come scommesse razionali, in Contratti, 2014, p. 213; M. Barcellona, I derivati e la circolazione della ricchezza: tra ragione sistemica e realismo interpretativo, in Eur. dir. priv., 2018, p. 4097.
[52] E. Scoditti, Il consumatore e l’Antitrust, in Foro it., 2003, I, p. 1129. Lo stesso autore afferma, dunque, che «la legittimazione del consumatore all’impugnativa per nullità ai sensi dell’art. 2 della previsione contrattuale è la logica conseguenza della qualificazione della clausola non quale negozio separato dall’intesa vietata, ma quale comportamento anticoncorrenziale, e dunque ancora intesa vietata, essa stessa […] e che la clausola così fissata è nulla per violazione diretta del precetto di cui all’art. 2». Esclude che si possa parlare di nullità derivata, M. Negri, op. ult. cit., 754. Cfr., inoltre, M. Onorato, Nullità dei contratti nell’intesa competitiva, Milano, 2012;. C. Ubertazzi, Concorrenza e norme bancarie uniformi, Milano, 1986.