Studi

Atto politico e atto di alta amministrazione: il rigetto della domanda di protezione internazionale in base al decreto ministeriale di individuazione dei paesi d’origine sicuri. Riparto di giurisdizione e sindacato del giudice
Di Francesco Vincelli
Atto politico e atto di alta amministrazione: il rigetto della domanda di protezione internazionale in base al decreto ministeriale di individuazione dei paesi d’origine sicuri. Riparto di giurisdizione e sindacato del giudice
Di Francesco Vincelli
Abstract
L’articolo analizza la distinzione tra atto politico e atto di alta amministrazione, evidenziandone le implicazioni sul riparto di giurisdizione e sul sindacato giurisdizionale. Particolare attenzione è dedicata al decreto ministeriale di designazione dei paesi di origine sicuri, atto che incide sulla posizione giuridica dei richiedenti protezione internazionale, determinando una presunzione di infondatezza della loro domanda. Dopo aver chiarito la natura giuridica di tale decreto e il suo inquadramento nel sistema degli atti amministrativi, il contributo esamina il potere del giudice ordinario di disapplicarlo nel giudizio di merito. Si analizzano le implicazioni del principio di separazione dei poteri e del principio di effettività della tutela giurisdizionale, ponendo in evidenza il ruolo del diritto dell’Unione europea e della giurisprudenza della Corte di Giustizia. L’analisi si conclude con una riflessione sul bilanciamento tra esigenze di controllo politico-amministrativo dei flussi migratori e garanzia dei diritti fondamentali, sottolineando come la possibilità di sindacare il decreto ministeriale costituisca uno strumento essenziale per la tutela del diritto d’asilo.
The article examines the distinction between political acts and high administration acts in Italian administrative law, highlighting their implications for jurisdictional allocation and judicial review. Special attention is given to the ministerial decree designating safe countries of origin, an act that affects the legal position of asylum seekers by establishing a presumption of the unfounded nature of their applications. After clarifying the legal nature of this decree and its classification within the system of administrative acts, the paper analyzes the power of ordinary judges to disapply it in merit proceedings. The implications of the principle of separation of powers and the principle of effective judicial protection are explored, emphasizing the role of European Union law and the case law of the Court of Justice. The analysis concludes with a reflection on the balance between the need for political-administrative control of migration flows and the protection of fundamental rights, highlighting how the ability to challenge the ministerial decree represents an essential tool for safeguarding the right to asylum.
Sommario: 1. Introduzione; 2. La nozione di atto politico nel sistema italiano; 2.1. L’atto politico come riflesso del principio di separazione dei poteri; 2.2 Libertà dei fini e assenza di un paradigma normativo; 2.3 La rilevanza non è lesiva dell’atto politico; 2.4 Criticità e carattere eccezionale della categoria; 2.5 Esempi di atti politici; 3. La distinzione tra atto politico e atto di alta amministrazione; 3.1 L’atto di alta amministrazione come ponte tra indirizzo politico e attività amministrativa; 3.2 Esempi di atti di alta amministrazione; 3.3 L’ampia discrezionalità e il sindacato giurisdizionale attenuato; 3.4 Tensioni tra separazione dei poteri ed effettività della tutela; 4. Il decreto ministeriale di designazione dei paesi di origine sicuri; 4.1. L’inquadramento normativo: dall’UE alla legislazione italiana; 4.2. Il decreto ministeriale è un atto politico?; 4.3. Le diverse teorie sulla natura del decreto ministeriale; 5. Il riparto di giurisdizione in materia di protezione internazionale; 5.1. La natura del diritto all’asilo e il fondamento costituzionale; 5.2. Il ruolo del legislatore e l’incidenza del potere amministrativo; 6. Il potere del giudice ordinario di conoscere (e disapplicare) il decreto ministeriale; 6.1. Il meccanismo della disapplicazione: radici storiche e fondamento giuridico; 6.2. Disapplicazione del decreto ministeriale di designazione dei paesi d’origine sicuri; 7. Conclusioni.
- Introduzione
Nel panorama del diritto amministrativo, la distinzione tra atti politici e atti di alta amministrazione riveste un ruolo di primaria importanza, in quanto mette in luce i confini tra la funzione di Governo (o “indirizzo politico”) e l’attività amministrativa vera e propria, con tutte le relative implicazioni sul piano della giustiziabilità. Il presente contributo si propone di offrire un’analisi approfondita di tali categorie, evidenziando, in particolare, la loro rilevanza in relazione al fenomeno della protezione internazionale dei richiedenti asilo.
Un aspetto specifico che merita particolare attenzione concerne il decreto ministeriale che designa i cd. “paesi di origine sicuri”. Tale decreto, disciplinato dalla normativa europea (segnatamente dalla direttiva 2013/32/UE e, in precedenza, dalla direttiva 2005/85/CE) e recepito nell’ordinamento interno dal D.Lgs. n. 25 del 2008, influisce profondamente sulle sorti delle domande di protezione internazionale presentate dai cittadini provenienti da determinati Stati ritenuti “sicuri”. Infatti, l’inserimento di un Paese in questa lista genera una presunzione di infondatezza della domanda di asilo del soggetto proveniente da quel territorio.
Le questioni interpretative sorte riguardano diverse problematiche: anzitutto, ci si interroga sulla natura giuridica di tali decreti ministeriali, chiedendosi se essi costituiscano atti politici (e, in quanto tali, sottratti al sindacato del giudice) oppure se siano atti di alta amministrazione. L’attrito sorge in considerazione del fatto che la designazione dei paesi di origine sicuri incide, in modo rilevante, sulla posizione giuridica del singolo richiedente asilo, un diritto che gode di solida tutela costituzionale.
Il richiamo ai principi di separazione dei poteri e di effettività della tutela giurisdizionale spiega l’importanza di questa riflessione. Da un lato, si intende garantire la sfera di azione del Governo, che può compiere scelte di indirizzo politico (specie in ambito di relazioni internazionali e sicurezza dello Stato); dall’altro, però, si deve assicurare al singolo un rimedio giudiziario effettivo contro l’eventuale lesione di un proprio diritto soggettivo. È fondamentale, pertanto, comprendere se il giudice ordinario, chiamato a decidere sul ricorso proposto dal richiedente asilo avverso il provvedimento di diniego della Commissione territoriale e del Ministero dell’interno, possa anche “disapplicare” il decreto ministeriale, ove lo ritenga affetto da vizi di legittimità incidenter tantum.
Lo scopo del presente elaborato è duplice: da un lato, tracciare una linea di demarcazione teorica e pratica tra atti politici e atti di alta amministrazione; dall’altro, analizzare la portata giuridica del decreto ministeriale di designazione dei paesi di origine sicuri, verificando, alla luce del diritto interno, del diritto dell’Unione europea e delle pronunce giurisprudenziali, quale sindacato il giudice (ordinario o amministrativo) possa esercitare su tale atto nel corso di un giudizio di protezione internazionale.
- La nozione di atto politico nel sistema italiano
2.1. L’atto politico come riflesso del principio di separazione dei poteri
La dottrina[1] e la giurisprudenza[2] hanno identificato come “atto politico” l’atto con cui l’organo di Governo esercita la funzione di indirizzo politico, cioè quella funzione che esprime le linee fondamentali di gestione della cosa pubblica[3] in ordine alle scelte di fondo della collettività nazionale. La connotazione di “politicità” ha come premessa il riconoscimento del ruolo costituzionale che il Governo svolge, secondo l’art. 95 della Costituzione, nel determinare la politica generale del Paese e nel mantenerne l’unità politico-amministrativa.
Gli atti politici sono, dunque, provvedimenti adottati da un organo costituzionale nell’esercizio della funzione di governo, finalizzati all’attuazione dell’indirizzo politico, sia esso costituzionale o di maggioranza. Essi non rientrano nella funzione amministrativa[4].
Taluni prospettavano una distinzione degli atti politici in due categorie. Da un lato, gli atti riguardanti il funzionamento degli organi costituzionali dello Stato e le relazioni internazionali, anche quando privi della forma di atti amministrativi. Dall’altro, gli atti che, pur assumendo generalmente la forma di provvedimenti amministrativi, vengono adottati per ragioni di sicurezza interna dello Stato in situazioni di eccezionale e urgente necessità per la tutela della pubblica incolumità, come le misure straordinarie di alta polizia adottate in contesti di guerra o gravi disordini interni. Quest’ultima categoria, nel tempo, ha conosciuto un’espansione sempre più ampia[5].
Tradizionalmente, l’atto politico non è sottoposto a sindacato giurisdizionale[6] (art. 7 c.p.a.), giacché il principio di separazione dei poteri e l’autonomia costituzionale dell’esecutivo impedirebbero di sottoporre a verifica di conformità a diritto un atto che si colloca su un piano squisitamente politico. Qualora ne sussistano i presupposti, è possibile solo promuovere un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale. In altre parole, si afferma che la funzione politica risponda unicamente alla volontà popolare mediata dagli organi politici elettivi, mentre la giurisdizione sarebbe chiamata a intervenire solo su questioni di legalità riferibili a poteri amministrativi.
2.2. Libertà dei fini e assenza di un paradigma normativo
Un elemento distintivo dell’atto politico è la cosiddetta “libertà dei fini”. Con questa espressione si intende evidenziare che, essendo un atto di indirizzo, non è strettamente vincolato a un preciso paradigma legislativo che stabilisca gli obiettivi da raggiungere o i modi per conseguirli[7]. Per fare un esempio, la decisione di far parte o meno di un determinato accordo internazionale, sebbene abbia una traduzione giuridica (trattati, convenzioni e così via)[8], è sostanzialmente una scelta di merito politico, radicata nell’esigenza di definire la direzione di politica estera dello Stato[9].
Questa libertà dei fini si accompagna, sul piano dogmatico, all’assenza di uno schema normativo di riferimento che fissi requisiti o vincoli specifici. Di conseguenza, i poteri di controllo del giudice si riducono sino a scomparire, poiché non vi è una regola positiva da applicare e non si ravvisa un interesse che possa ritenersi “protetto” dal diritto.
2.3. La rilevanza “non lesiva” dell’atto politico
Un altro profilo della teoria classica[10] sottolinea che l’atto politico sarebbe, per sua natura, privo di una diretta incidenza lesiva su posizioni soggettive di tipo giuridico[11]. Questo è il tratto più controverso della categoria. Se infatti l’atto politico non implica l’esercizio di un potere autoritativo (con l’imposizione di obblighi o divieti a carico di soggetti determinati), non può provocare un pregiudizio concreto. Esso si limiterebbe a “indirizzare” la funzione di Governo, restando esterno alla sfera dei rapporti giuridici dei cittadini. Ecco che la soluzione della sottrazione al sindacato giurisdizionale risiede nell’assenza di diritti e interessi tutelabili rispetto a determinati atti della pubblica amministrazione, considerata l’ampia discrezionalità che li connota, trattandosi di atti liberi unicamente nella determinazione dei fini[12]. In verità, in tempi più recenti, la dottrina e la giurisprudenza hanno iniziato a problematizzare tale affermazione, poiché molte scelte di Governo – definite “politiche” – hanno ricadute significative su soggetti o categorie di soggetti, così da generare conflitti di tipo giustiziabile.
Ecco che secondo il Consiglio di Stato, dal punto di vista strettamente processuale, è impugnabile l’atto emanato dall’autorità amministrativa titolare della funzione di indirizzo politico e di direzione ai massimi livelli della cosa pubblica, purché la relativa fonte normativa riconosca l’esistenza di una situazione giuridica attiva, tutelata dall’ordinamento, e riferita a un bene della vita oggetto della funzione esercitata dall’Amministrazione[13].
Dunque, se un atto di indirizzo politico è in grado di ledere una situazione giuridica soggettiva, di per sé non può essere definito atto politico e non può essere sottratto al sindacato giurisdizionale[14].
2.4. Criticità e carattere eccezionale della categoria
La nozione di atto politico, secondo un orientamento consolidato, va ritenuta di stretta interpretazione e carattere eccezionale[15]. Nel nostro ordinamento, infatti, vige il principio generale di giustiziabilità degli atti del potere pubblico. Un sistema costituzionale fondato sul principio di legalità (artt. 24, 113, 97 Cost.) ammette che qualunque atto dell’amministrazione possa essere soggetto al controllo del giudice, se è potenzialmente lesivo di diritti o interessi legittimi. Nel parere reso il 9 luglio 1946, il Consiglio di Stato aveva espresso perplessità sul tema della non giustiziabilità dell’atto politico, evidenziando che «nessun atto del potere esecutivo, in un sistema giuridico pienamente garantista, dovrebbe in alcun caso sottrarsi a un controllo giurisdizionale permanente». Inoltre, si sottolineava come la legislazione italiana presentasse due carenze oggettive, sanabili solo attraverso una riforma costituzionale. La prima, di carattere generale, risiedeva nella possibilità – purtroppo frequentemente concretizzatasi – che il Governo esercitasse poteri legislativi anche in assenza di una delega parlamentare. La seconda riguardava l’esclusione di qualsiasi sindacato giurisdizionale, sancita dalla stessa legge sul Consiglio di Stato in linea con la tradizione legislativa, nei confronti degli atti emanati nell’esercizio del cosiddetto “potere politico” o degli atti “di Governo”. Alla luce dei principi generali, taluni avevano addirittura proposto l’abolizione dell’art. 7 c.p.a. in quanto contraddittorio ed eccentrico rispetto al sistema generale dei valori del codice e della Costituzione[16].
Ecco allora che “l’eccezione” è rappresentata da quegli atti che, per la loro natura politica, si collocano in una sfera costituzionale riservata al libero esercizio della funzione di Governo: l’interpretazione dell’art. 7 c.p.a. (già art. 31 R.D. 1054/1924) deve essere rigorosa per evitare che scelte amministrative, seppur ampiamente discrezionali, possano essere impropriamente sottratte al controllo del giudice[17].
2.5. Esempi di atti politici
La giurisprudenza individua alcuni esempi di atti politici: la decisione del Governo di proporre alle Camere un determinato disegno di legge finanziaria, in cui viene definito l’indirizzo economico generale[18]; l’elenco delle grandi opere, ove si tratti di un elenco-programma di valenza esclusivamente politica; la richiesta di autorizzazione di un aiuto di Stato alla Commissione europea, se rappresenta una scelta di politica economica; la decisione di non negoziare con un gruppo sociale o con una confessione religiosa una determinata intesa[19]. Tali atti evidenziano come l’atto politico si situi in una zona “alta” della funzione di Governo, non direttamente configurabile come esercizio del potere amministrativo in senso stretto.
- La distinzione tra atto politico e atto di alta amministrazione
3.1. L’atto di alta amministrazione come “ponte” tra indirizzo politico e attività amministrativa
L’atto di alta amministrazione costituisce una tipologia peculiare di atto dell’esecutivo. Lo si potrebbe definire come uno snodo di passaggio tra la fase di indirizzo politico – attinente alla determinazione degli obiettivi generali – e la fase strettamente amministrativa, in cui l’amministrazione dà concreta attuazione alla legge o al programma politico. La giurisprudenza ha chiarito che l’atto di alta amministrazione non rappresenta un’espressione della libertà politica attribuita dalla Costituzione agli organi supremi dello Stato per il perseguimento di esigenze unitarie e indivisibili ad esso inerenti. Esso non gode di una libertà assoluta nei fini, ma è invece soggetto alle prescrizioni stabilite dalla legge, nonché, se applicabili, alle disposizioni contenute in statuti e regolamenti[20].
In sostanza, l’atto di alta amministrazione presenta elementi sia di carattere politico, in quanto fissato dall’organo di Governo o da un organo di vertice, sia di carattere amministrativo, in quanto inserito in un contesto normativo che ne definisce, almeno in parte, i contenuti e gli effetti. Si tratta, dunque, di un’attività intermedia di natura amministrativa e non politica, ma caratterizzata da elementi propri dell’indirizzo politico, che intervengono nella formazione dell’atto[21].
3.2. Esempi di atti di alta amministrazione
Tra i classici esempi di atto di alta amministrazione figurano: il decreto con cui il Ministro della Giustizia concede l’estradizione, ove siano presenti profili di valutazione di ordine pubblico internazionale e di conformità agli impegni internazionali, ma vi sia comunque un fondamento normativo (nel codice di procedura penale e nelle convenzioni internazionali)[22]; il decreto del Ministro dell’Interno che dispone l’espulsione dello straniero “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” (art. 13 T.U. Immigrazione), decisione che implica un’ampia discrezionalità politica-amministrativa, ma resta inquadrata in un contesto legislativo ben preciso; la revoca di assessori comunali, atto che presenta un elevato tasso di discrezionalità nel Governo locale, ma che soggiace comunque ai principi di buona amministrazione e ai limiti fissati dalle leggi sugli enti locali[23]; i DPCM di gestione dell’emergenza sanitaria COVID, emanati dal Presidente del Consiglio dei Ministri su delega legislativa, dotati di un margine di discrezionalità molto ampio, ma pur sempre riconducibili a una base normativa (i decreti-legge emergenziali e le relative conversioni); gli atti di esercizio dei cd. “golden powers” (d.l. 21/2012) in materia di difesa e sicurezza nazionale o in settori di rilevanza strategica, che combinano valutazioni di opportunità politico-strategica e un meccanismo procedurale normativamente disciplinato.
3.3. L’ampia discrezionalità e il sindacato giurisdizionale attenuato
Gli atti di alta amministrazione, pur collocandosi in un’area di alta discrezionalità, non sono sottratti al controllo del giudice. Costituiscono infatti una species del genere “atto amministrativo” e, come tali, devono rispettare la legge e i principi costituzionali. Tuttavia, è riconosciuto che l’ampia discrezionalità di questi atti impone al giudice un controllo per lo più limitato alla verifica di manifesta illogicità, irragionevolezza, difetto di istruttoria o di motivazione, nonché eccesso di potere sotto le sue figure sintomatiche più evidenti[24].
Si tratta, in altre parole, di un sindacato “debole” o “attenuato”[25]. Il giudice non può sostituirsi all’amministrazione nella scelta di merito: deve limitarsi a verificare la correttezza procedurale e l’esistenza di un substrato logico adeguato, in modo che la discrezionalità non si tramuti in arbitrio.
Il sindacato giurisdizionale ha carattere estrinseco e formale, limitandosi alla verifica dell’eccesso di potere nelle sue specifiche manifestazioni sintomatiche, quali l’inadeguatezza del procedimento istruttorio, l’illogicità, la contraddittorietà, l’ingiustizia manifesta, l’arbitrarietà, l’irragionevolezza della decisione adottata o il difetto di motivazione. Esso non si estende, invece, a un esame diretto né a una valutazione autonoma del materiale volto a dimostrare la sussistenza dei presupposti dell’atto[26].
Questo è il punto cruciale: a differenza dell’atto politico, l’atto di alta amministrazione ha un contatto significativo con la norma positiva, e perciò è sindacabile.
3.4. Tensioni tra separazione dei poteri ed effettività della tutela
La distinzione tra atto politico e atto di alta amministrazione nasce dall’esigenza di contemperare due principi cardine[27] del sistema democratico: il principio di separazione dei poteri[28], che preclude al giudice di entrare nelle scelte squisitamente politiche di Governo[29], e il principio di effettività della tutela, scolpito negli artt. 24 e 113 Cost., secondo cui la giurisdizione deve garantire la legalità dell’azione amministrativa e la difesa delle posizioni giuridiche soggettive dei cittadini[30]. La costruzione teorica degli atti di alta amministrazione serve dunque a riconoscere l’esistenza di un’area di discrezionalità particolarmente ampia, ma non sottratta in toto al sindacato, seppure con un controllo giurisdizionale circoscritto.
- Il decreto ministeriale di designazione dei paesi di origine sicuri
4.1. L’inquadramento normativo: dall’UE alla legislazione italiana
Nel settore del diritto dell’immigrazione e, in particolare, del diritto d’asilo, l’Unione europea ha introdotto, da tempo, il concetto di “paese di origine sicuro” (direttiva 2005/85/CE, successivamente sostituita o integrata dalla direttiva 2013/32/UE). L’idea di fondo è di consentire una gestione più agile delle domande di protezione internazionale, prescindendo da un esame approfondito per quei paesi che, secondo parametri oggettivi, garantiscono ai propri cittadini una tutela adeguata dei diritti fondamentali.
L’Italia ha recepito tale impostazione con il D.Lgs. n. 25/2008, che agli artt. 2-bis, 36 e 37 definisce i criteri per stabilire quali paesi possono essere qualificati “sicuri” e incarica il Ministro competente (attualmente il Ministro dell’Interno, di concerto con altri dicasteri) di emanare un apposito decreto che contenga l’elenco dei paesi considerati sicuri. Nel predisporre tale decreto, l’amministrazione deve valutare, sulla base di una serie di indicatori (rispetto dei diritti umani, stabilità politica, assenza di conflitti interni generalizzati, ecc.), se i cittadini di quello Stato dispongano di una protezione effettiva contro i rischi di persecuzione o di danni gravi.
L’elenco dei Paesi designati come sicuri è stato inizialmente introdotto con il decreto interministeriale del 4 ottobre 2019 e successivamente sostituito da una versione ampliata con il decreto del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) del 17 marzo 2023.
La finalità dichiarata di questo istituto, come si evince dall’analisi delle sue conseguenze, è quella di ridurre il carico di lavoro legato alla valutazione delle domande di protezione internazionale. A tal fine, il legislatore ha previsto procedure semplificate e accelerate per le richieste presentate da persone provenienti da Paesi ritenuti sicuri. Tali procedure si basano su una presunzione di infondatezza della domanda, poiché si assume che il Paese d’origine non presenti criticità in termini di rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. Tuttavia, questa presunzione è relativa e può essere superata solo se il richiedente dimostra l’esistenza di gravi motivi per ritenere che, nella sua specifica situazione, il Paese designato non sia sicuro (cfr. comma 5 dell’articolo 2-bis cit.).
La normativa nazionale che recepisce tale istituto prevede inoltre la possibilità di designare un Paese come sicuro con eccezioni relative a specifiche aree del territorio o a determinate categorie di persone. Il procedimento di designazione deve basarsi su una serie di criteri, tra cui, ai sensi del comma 3, il livello di protezione contro persecuzioni e maltrattamenti garantito nel Paese in questione. A tal fine, si tiene conto: delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti e della loro effettiva applicazione, del rispetto dei diritti e delle libertà sanciti dagli strumenti internazionali in materia di diritti umani, del principio di non-refoulement sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, nonché dell’esistenza di sistemi di ricorso efficaci contro eventuali violazioni di tali diritti e libertà.
4.2. Il decreto ministeriale è un atto politico?
Una questione centrale è se questa designazione, di palese incidenza sugli esiti di molte domande di asilo, possa definirsi “atto politico” e, in quanto tale, sottratta al sindacato del giudice.
Una parte della dottrina ha rilevato che vi sarebbero indubbi profili di indirizzo politico in questa operazione, poiché la scelta di qualificare un paese come sicuro potrebbe intrecciarsi con ragioni di relazioni internazionali, di politica estera e di sicurezza interna (ad esempio, ridurre i flussi migratori da determinate aree). Tuttavia, la tesi dominante nega che si tratti di un atto politico in senso stretto[31].
L’argomento principale è che l’atto di designazione è espressamente previsto e disciplinato da una normativa di derivazione europea e nazionale, che fissa criteri oggettivi e specifici parametri di riferimento (la presenza di un sistema giudiziario indipendente, l’assenza di persecuzioni sistematiche, la tutela dei diritti civili e politici, ecc.).
L’inserimento di un Paese nella lista di quelli sicuri non costituisce un atto politico poiché deriva dall’applicazione di criteri normativi stabiliti dagli articoli 36 e 37 e dall’allegato I della direttiva 2023/32/UE, nonché dall’articolo 2-bis del d.lgs. n. 25 del 2008. In questa direzione si colloca anche l’art. 113 della Costituzione, in connessione con l’art. 24, espressione del principio di legalità e giustiziabilità. Ne consegue che le posizioni giuridiche soggettive devono essere tutelate e che nessun atto riconducibile alla funzione amministrativa, se produttivo di effetti lesivi, può essere sottratto al sindacato giurisdizionale.
La giurisprudenza afferma che non si può escludere che la designazione di un Paese sicuro implichi valutazioni connesse all’attuazione delle politiche generali di Governo, in particolare in materia di sicurezza e relazioni internazionali. Tuttavia, l’aspetto politico rileva solo nella fase iniziale, ovvero nel conferimento al Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, di concerto con il Ministero dell’Interno e il Ministro della Giustizia, del potere di stilare l’elenco dei Paesi di origine sicuri per i richiedenti protezione internazionale, nonché nella scelta di inserire un determinato Paese che soddisfi i requisiti previsti dalla legge. Quando, invece, si tratta di accertare la concreta sussistenza dei criteri normativamente predefiniti per la designazione di un Paese come sicuro, la presenza di elementi politici non può giustificare l’esclusione del controllo giurisdizionale. La qualifica di “Paese di origine sicuro” ha una natura giuridica, essendo fondata su requisiti e criteri stabiliti dalla normativa europea e recepiti dall’ordinamento nazionale. Tale valutazione deve basarsi sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo e da altre fonti qualificate, quali Stati membri dell’Unione Europea, EASO, UNHCR, Consiglio d’Europa e altre organizzazioni internazionali competenti. L’esistenza di una disciplina dettagliata, sia sotto il profilo procedurale che sostanziale, applicabile a questo potere amministrativo, implica che il rispetto dei relativi criteri e requisiti sia soggetto a verifica giurisdizionale. In assenza di parametri giuridici, il sindacato del giudice non potrebbe estendersi alla valutazione della legittimità dell’atto. Tuttavia, laddove sussista un preciso riferimento normativo, il controllo giurisdizionale diviene doveroso, poiché la giustiziabilità dell’atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere esercitato.
Non si riscontra, dunque, quella “assenza di un paradigma normativo” che caratterizza l’atto politico. Al contrario, vi è una ben precisa cornice legale cui l’autorità competente deve attenersi.
A ben vedere, un atto idoneo a incidere in maniera così tangibile su un diritto fondamentale, costituzionalmente ed internazionalmente tutelato (il diritto d’asilo è riconosciuto dall’art. 10, c. 3 Cost. e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE), non può essere escluso, in linea di principio, dalla giurisdizione. Ciò contrasterebbe con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, cardine dell’ordinamento sia interno sia europeo. Il combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost. sancisce che contro tutti gli atti dell’amministrazione che incidono su diritti o interessi legittimi deve essere possibile ricorrere al giudice. La giurisprudenza ha più volte ribadito che un atto che incida sullo status del singolo non possa essere sottratto a tale controllo[32]. Pertanto, se il decreto ministeriale svolge una rilevante funzione presuntiva, occorre che il richiedente asilo abbia la possibilità di contestare l’inserimento del proprio Stato di provenienza tra i paesi sicuri e, quindi, di disconoscere la rilevanza giuridica del decreto in sede di giudizio.
4.3. Le diverse teorie sulla natura del decreto ministeriale
I più recenti orientamenti della Corte di Cassazione, dunque, sostengono che il decreto di designazione sia un atto amministrativo generale[33], in quanto incide su una generalità di destinatari astrattamente indeterminati (tutti i cittadini dello Stato designato). Alcune voci propendono per la qualifica di atto amministrativo generale a contenuto “normativo” – un atto regolamentare sui generis – perché predefinisce situazioni rilevanti nei singoli procedimenti di asilo.
In ogni caso, pressoché tutti gli orientamenti, anche i più inclini a sottolinearne il profilo “politico”, ammettono che non si tratti di atto politico vero e proprio: non si colloca fuori dal perimetro del diritto, ma risponde a un criterio di merito tecnico-giuridico. Ne discende la sottoposizione al sindacato giurisdizionale.
- Il riparto di giurisdizione in materia di protezione internazionale
5.1. La natura del diritto all’asilo e il fondamento costituzionale
La questione del riparto di giurisdizione in materia di protezione internazionale ruota intorno alla qualificazione della situazione soggettiva del richiedente asilo. In Italia, il diritto all’asilo è riconosciuto a livello costituzionale dall’art. 10, c. 3 Cost., oltre a trovare tutela nelle fonti internazionali (Convenzione di Ginevra del 1951, Protocollo di New York del 1967, Carta dei diritti fondamentali dell’UE, CEDU e altri strumenti).
Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione[34], il richiedente asilo vanta un vero e proprio diritto soggettivo a vedersi riconosciuta la protezione qualora sussistano i presupposti di legge (persecuzione personale, rischio di danno grave, ecc.). In ciò si distingue la posizione giuridica del migrante da altre fattispecie, come le autorizzazioni all’ingresso per motivi economici (lavoro subordinato o autonomo), che sono più facilmente qualificate come interessi legittimi.
La giurisprudenza di legittimità ha, dunque, ribadito che il potere dell’amministrazione è di tipo accertativo, cioè volto a riscontrare se il richiedente possieda o meno i requisiti stabiliti dalla legge (rifugiato, protezione sussidiaria, protezione speciale). Non vi è una vera “discrezionalità” nell’accoglimento o nel diniego, bensì un potere di verifica di fatti e circostanze, sebbene possano esistere margini di apprezzamento in situazioni borderline. Di conseguenza, la situazione soggettiva del richiedente si configura come diritto soggettivo, in quanto la legge (nazionale ed europea) contempla puntualmente le condizioni alle quali la protezione deve essere riconosciuta.
5.2. Il ruolo del legislatore e l’incidenza del potere amministrativo
In questo quadro, il bilanciamento tra l’interesse dello Stato a controllare i flussi migratori e la sicurezza collettiva e i diritti fondamentali del richiedente asilo è operato “a monte” dal legislatore, che detta i criteri per la concessione o il rifiuto della protezione. L’amministrazione, quindi, non definisce i criteri, ma si limita ad applicarli, seppur con ampi margini di valutazione nella fase istruttoria (ad esempio, acquisendo informazioni sul paese di origine, valutando la credibilità del racconto, verificando la documentazione, e così via).
Da ciò discende che, ove si controverta sul diniego della protezione, si discute di un diritto soggettivo e la controversia è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, come stabilito espressamente dal D.Lgs. n. 25/2008 e ancor prima dalla L. n. 39/1990.
- Il potere del giudice ordinario di conoscere (e disapplicare) il decreto ministeriale
6.1. Il meccanismo della disapplicazione: radici storiche e fondamento giuridico
Nel sistema giuridico, il potere del giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi risale allo Statuto Albertino e poi è stato confluito nell’ordinamento repubblicano, in particolare attraverso l’elaborazione della giurisprudenza e la legislazione di settore.
L’art. 5 della Legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865, n. 2248, all. E), attribuiva ai giudici ordinari il potere di non applicare l’atto amministrativo illegittimo, quando fosse pregiudizievole ai diritti dei cittadini. Il giudice, dunque, chiamato a decidere su un diritto soggettivo, può incidentalmente sindacare la legittimità di un atto amministrativo e, se lo ritiene viziato, può disapplicarlo, senza però avere il potere di annullarlo con effetti erga omnes.
La giurisprudenza[35] ha precisato che il potere di disapplicare un atto amministrativo può essere esercitato anche nelle controversie in cui è parte la pubblica amministrazione, e non soltanto in quelle tra privati. Ciò significa che, ai sensi della legge n. 2248 del 1865, allegato E, la circostanza che il giudizio coinvolga un privato e una P.A. non impedisce al giudice ordinario di esaminare incidentalmente il provvedimento amministrativo per valutarne la possibile disapplicazione. Nello stesso senso, la Cassazione[36] ha ribadito che il giudizio tra un privato e una pubblica amministrazione non preclude al giudice ordinario il potere di esaminare incidentalmente il provvedimento amministrativo ai fini della sua eventuale non applicazione. Tale potere può essere esercitato a condizione che sussistano due requisiti oggettivi: il provvedimento amministrativo non deve costituire il fondamento del diritto dedotto in giudizio, ma configurarsi come mero antecedente, rendendo la questione della sua legittimità pregiudiziale in senso tecnico; il provvedimento deve essere affetto da vizi di legittimità lesivi di diritti soggettivi. Il sindacato giurisdizionale è invece escluso quando si tratta di valutazioni di merito inerenti all’esercizio del potere discrezionale della P.A.
Il giudice ordinario non ha il potere di annullare l’atto, nemmeno parzialmente. La differenza tra disapplicazione e annullamento è sostanziale: l’annullamento, di competenza del giudice amministrativo, ha effetto generale ed erga omnes, determinando l’espunzione dell’atto dall’ordinamento, che diventa tamquam non esset per tutti; la disapplicazione, di competenza del giudice ordinario, ha effetti limitati al caso di specie, poiché il giudice, se ritiene l’atto illegittimo, non lo applica alla controversia, considerandolo inesistente, ma la pronuncia non produce effetti al di fuori del giudizio in corso.
Il giudice ordinario, quando esercita il potere di disapplicare l’atto amministrativo, può rilevare qualsiasi vizio di legittimità, dalla violazione di legge all’eccesso di potere, dal difetto di competenza fino alla violazione di norme UE. Si tratta di un sindacato completo, sebbene il giudice ordinario non possa spingersi fino a sostituire la propria discrezionalità a quella dell’amministrazione, in quanto il suo è un esame incidentale, limitato al bisogno di decidere sulla pretesa del privato.
6.2. Disapplicazione del decreto ministeriale di designazione dei paesi d’origine sicuri
Nel caso del decreto ministeriale che individua i paesi di origine sicuri, il giudice ordinario, adito dal richiedente asilo che si veda respingere la domanda per effetto della presunzione di infondatezza, può dunque verificare incidentalmente la legittimità del decreto stesso. Si evidenzia inoltre che, anche se il ricorrente nel procedimento principale non ha espressamente sollevato la violazione delle norme della direttiva 2013/32/UE in materia di designazione, un’eventuale violazione costituisce comunque un aspetto giuridico che il giudice d’ufficio deve considerare nell’ambito del suo esame completo ed ex nunc[37].
Se ritiene, pertanto, che la designazione sia stata effettuata in modo manifestamente illogico, in palese contraddizione con i dati oggettivi sulla sicurezza del paese o in violazione dei criteri fissati dalla direttiva 2013/32/UE e dal D.Lgs. n. 25/2008, potrà disapplicare il decreto, non considerandolo vincolante per il caso concreto.
Ne deriva che, se il richiedente fornisce elementi attendibili per dimostrare che il paese in questione non è affatto “sicuro” per lui (anche al di là di un’analisi generica sullo Stato), il giudice potrà accogliere il ricorso e riconoscere la protezione internazionale, nonostante il decreto ministeriale.
Merita menzione una pronuncia della Corte di Giustizia dell’UE, Grande Sezione, del 4 ottobre 2024, la quale ha ribadito che, in tema di asilo, l’effettività del ricorso giurisdizionale (art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’UE) richiede che il richiedente possa contestare, anche indirettamente, la corretta qualificazione del paese come sicuro, se da ciò dipendono l’ampiezza o l’esito del suo diritto a ottenere protezione. La Corte ha sottolineato l’esigenza di un esame completo ed ex nunc: il giudice deve considerare la situazione del paese nel momento attuale (e non solo alla data del decreto) e valutare se la presunzione di sicurezza sia tuttora valida[38].
Il diritto UE, dunque, esige che il controllo del giudice non si fermi alla constatazione della regolarità formale del decreto ministeriale, ma includa la possibilità di confutare il contenuto sostanziale, ove risultino sussistere circostanze sopravvenute o ignorate dall’amministrazione al momento della designazione. Non a caso, la direttiva 2013/32/UE contempla espressamente la necessità di aggiornare periodicamente la lista dei paesi sicuri in base all’evoluzione delle condizioni sul campo.
In questa prospettiva, il giudice nazionale è tenuto a garantire il rispetto dell’art. 46 della stessa direttiva 2013/32/UE, che prevede il diritto a un ricorso effettivo avverso le decisioni di diniego della protezione. Sarebbe contrario al diritto dell’Unione europea impedire al richiedente di contestare l’errata o superata designazione di un paese come sicuro.
Ne consegue che il decreto ministeriale, nella parte in cui identifica un determinato Paese come sicuro, non rappresenta una valutazione governativa vincolante per il giudice ordinario. Poiché la questione coinvolge un diritto di rilevanza costituzionale – il diritto all’asilo e alla protezione, come disciplinato dalla normativa europea, nazionale e dalle convenzioni internazionali – resta ferma la competenza dell’autorità giurisdizionale di riesaminare l’inserimento di un Paese nell’elenco di quelli sicuri. Tale potere sussiste qualora la designazione risulti in contrasto con i criteri normativi previsti per l’inserimento, determinando un sacrificio della tutela internazionale in favore di interessi pubblici diversi e comportando, di conseguenza, un concreto rischio di compromissione, nel Paese d’origine, del nucleo essenziale dei diritti inviolabili connessi alla dignità della persona umana.
- Conclusioni
In conclusione, la problematica relativa alla qualificazione giuridica del decreto ministeriale di designazione dei paesi di origine sicuri, nonché alla possibilità per il giudice ordinario di sottoporre tale decreto al proprio vaglio, conferma la centralità del principio di legalità e di giustiziabilità degli atti amministrativi nell’ordinamento italiano. Non è possibile annoverare il decreto tra gli atti politici, poiché esso è specificamente disciplinato da norme interne e sovranazionali e determina effetti concreti nella sfera giuridica del singolo. È legittimo considerarlo un atto di alta amministrazione o un atto amministrativo generale, comunque dotato di elevata discrezionalità: quale che sia la sua formale classificazione, esso è sindacabile dal giudice ordinario, mediante lo strumento della disapplicazione, in quanto incide su un diritto soggettivo (il diritto all’asilo) e il sindacato del giudice si focalizza sulla verifica di conformità ai criteri stabiliti dalla legge e dal diritto UE, nonché sulla congruenza con i dati di fatto, che possono evolvere nel tempo. Tale soluzione risulta coerente con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia e con i principi di effettività della tutela giurisdizionale, in linea con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e con l’art. 46 della direttiva 2013/32/UE.
In definitiva, la delicata materia della protezione internazionale e del diritto d’asilo impone di tenere insieme esigenze di controllo politico-amministrativo dei flussi e la tutela rafforzata di diritti fondamentali. La configurazione del decreto ministeriale di designazione dei paesi sicuri come atto amministrativo (o di alta amministrazione) e la possibilità di disapplicarlo nel giudizio di merito rappresentano la sintesi di questo equilibrio, consentendo al Governo di disporre di un potere normativamente disciplinato, ma garantendo ai singoli lo spazio per contestare atti eventualmente viziati e per ottenere tutela effettiva dinanzi a un giudice indipendente.
[1] G. TROPEA, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, in Diritto amministrativo, 2012, 329.
[2] Consiglio di Stato, 29 febbraio 2016, n. 808.
[3] F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1914.
[4] Cass. Civ., Sez. Un., 22 settembre 2023, n. 27177.
[5] P. BARILE, Atto di Governo (e atto politico), in Enciclopedia del diritto, IV, Milano, 1959, 223.
[6] Consiglio di Stato, Sez. VI, 29 febbraio 1996, n. 217; Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1397; Consiglio di Stato, Sez. V, 02 ottobre 2009, n. 6094; Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 novembre 2011, n. 6083; Consiglio di Stato, Sez. V, 09 gennaio 2017, n. 16; Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 giugno 2018, n. 3550.
[7] A.M. SANDULLI, Atto politico ed eccesso di potere, in Giurisprudenza completa della Corte Suprema di Cassazione. Sezioni civili, 1946, 521, ora in Scritti giuridici, III, Napoli, 1990, 30.
[8] L. CONDORELLI, Atti del Governo italiano in materia internazionale dinanzi al giudice interno, in Italian Yearbook of International Law, n. 2/1976, 200.
[9] Consiglio di Stato, Sez. III, 11 maggio 1966, n. 344.
[10] M.S. GIANNINI, A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della
pubblica amministrazione, in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano, 1970, 289.
[11] F. CAMMEO, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, I, Milano, 1911, 770 ss.; G. SAVONETTI, L’atto politico come limite alla funzione giurisdizionale, in Giurisprudenza italiana, 1927, 20 ss.; P. GASPARRI, Considerazioni in tema di atto politico, in Giurisprudenza completa della Cassazione civile, 1952, 102 ss.
[12] A. CROSETTI, Il Consiglio di Stato dall’unità d’Italia alla Costituzione. Genesi ed evoluzione della giustizia amministrativa, in AA.VV., Il Consiglio di Stato nella storia d’Italia, Torino, 2011, 237 ss.
[13] Consiglio di Stato, Sez. I, 19 settembre 2019, n. 2483.
[14] R. DICKMANN, La delibera del Consiglio dei ministri di avviare o meno le trattative finalizzate ad una intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost., è un atto politico insindacabile in sede giurisdizionale, in Forum di quaderni costituzionali, 2016.
[15] Cass., Sez. Un., 1 giugno 2023, n. 15601.
[16] G. DE GIORGI CEZZI, Aboliamo l’art. 7 comma 1 del Codice del processo amministrativo? Limiti e autolimiti del giudice amministrativo e sostenibilità dei procedimenti di generazione delle conoscenze in ordine ai fatti. I casi dell’eccesso di potere, dell’atto politico e dei poteri non ancora esercitati, in Federalismi.it, 2018.
[17] M. NIGRO, L’art. 113 della Costituzione e alcuni problemi della giustizia amministrativa (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 27 luglio 1948, n. 351), in Foro amm., 1949, 76.
[18] M. FRATINI, Manuale sistematico di diritto amministrativo, Roma, 2021, 408.
[19] L. CARLASSARE, L’atto politico fra “qualificazione” e “scelta”: i parametri costituzionali, in Giurisprudenza Costituzionale, 2016, 554 ss.
[20] Consiglio di Stato, Sez. V, 28 febbraio 2023, n. 2071; Consiglio di Stato, Sez. I, 20 maggio 2021, n. 936; Consiglio di Stato, Sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502.
[21] M. FRATINI, in op. cit., 411.
[22] Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 giugno 2007, n. 3286; Consiglio di Stato, Sez. IV, 6 aprile 2000, n. 1996;
T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 20 dicembre 1990, n. 970.
[23] Consiglio di Stato, Sez. VI, 20 dicembre 2021, n. 8449.
[24] Invero si afferma in Consiglio di Stato, Sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502 che gli atti di alta amministrazione costituiscono una specifica categoria nell’ambito più generale degli atti amministrativi e sono, pertanto, soggetti al relativo regime giuridico, incluso il controllo giurisdizionale. Tuttavia, tale sindacato presenta alcune peculiarità, derivanti dall’ampia discrezionalità che caratterizza questi atti. In particolare, il controllo del giudice non si estende nella stessa misura applicabile agli atti amministrativi ordinari, ma risulta meno penetrante, limitandosi alla verifica di eventuali illogicità manifeste sotto il profilo formale e procedurale. Anche l’obbligo di motivazione si configura in termini di maggiore semplicità, contribuendo a rendere il sindacato giurisdizionale complessivamente meno incisivo.
[25] Ne consegue che il controllo giurisdizionale è ammesso, ma solo nei limiti ristretti in cui atti caratterizzati da un’elevata discrezionalità possano essere sottoposti a sindacato nell’ambito della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, come previsto dall’art. 7, comma 1, del codice del processo amministrativo. In questo contesto, sebbene la discrezionalità amministrativa possa risultare ampia negli atti in esame, essa resta comunque vincolata al necessario perseguimento delle finalità pubbliche e al principio per cui il potere amministrativo non può essere esercitato per scopi diversi da quelli che ne giustificano l’attribuzione. V. anche Consiglio di Stato, Sez. V, 2 agosto 2017, n. 3871.
[26] Consiglio di Stato, Sez. IV, 27 settembre 2021, n. 6473.
[27] V. GIOMI, L’atto politico nella prospettiva del giudice amministrativo: riflessioni su vecchi limiti e auspici di nuove aperture al sindacato sul pubblico potere, in Diritto processuale amministrativo, 2022, 23.
[28] F. MODUGNO, Diritto pubblico generale, Roma, 2002, 119 ss.
[29] P. ZICCHITTU, Una “nuova stagione” per l’atto politico? Alcune riflessioni tra teoria e prassi costituzionale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 11/2018, 3.
[30] Nella Relazione del Senatore Costa, presentata durante la discussione parlamentare della legge (Atti Senato, Legislatura XVI, sessione II, vol. I, n. 6 A, 1887-1888, p. 11), si evidenziò che l’attività del Governo non è soggetta a controllo giurisdizionale, poiché gli atti politici, essendo finalizzati alla tutela degli interessi e delle necessità dello Stato sia nella gestione degli affari interni che nelle relazioni con le potenze straniere, intrattengono rapporti meramente occasionali, o addirittura inesistenti, con gli interessi privati. Ne consegue che, in assenza di un interesse privato direttamente leso, viene meno la materia del giudizio e non sussiste alcun soggetto legittimato ad agire. In tale prospettiva, l’art. 24 stabiliva che «Il ricorso non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico».
[31] Cass. Civ., Sez. I, 19 dicembre 2024, n. 33398.
[32] Trib. Catania, Sez. reati ministeriali ex l. cost. 1/1989, 7 dicembre 2018.
[33] Cass. Civ., Sez. I, 19 dicembre 2024, n. 33398.
[34] Cass. Civ., Sez. I, 17 settembre 2020, n. 21920; Cass., Sez. Un., 8 ottobre 1999, n. 907; Cass., Sez. Un., 26 maggio 1997, n. 4674.
[35] Cass., Sez. Un., 25 maggio 2018, n. 13193.
[36] Cass., Sez. Un., 31 dicembre 2018, n. 33688.
[37] A tale riguardo, si può richiamare la sentenza della Corte di Giustizia del 17 ottobre 2024, nella causa C‑156/23, Ararat, relativa a una domanda di pronuncia pregiudiziale presentata alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal rechtbank Den Haag, zittingsplaats Roermond (Tribunale dell’Aia, sede di Roermond, Paesi Bassi). Nella decisione, la Corte ha affermato che «la tutela giurisdizionale garantita dall’articolo 47 della Carta e concretizzata all’articolo 13, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2008/115 non sarebbe né effettiva né completa se il giudice nazionale non fosse obbligato a rilevare d’ufficio la violazione del principio di non respingimento. Tale obbligo sussiste quando gli elementi del fascicolo portati a sua conoscenza, eventualmente integrati o chiariti nel corso del procedimento in contraddittorio, indicano che la decisione di rimpatrio si basa su una valutazione ormai obsoleta dei rischi di trattamenti vietati da tale principio, cui il cittadino di un paese terzo potrebbe essere esposto in caso di ritorno nel paese d’origine. Ne consegue che il giudice deve trarre tutte le dovute conseguenze in merito all’esecuzione di tale decisione. Una limitazione della funzione del giudice nazionale potrebbe infatti determinare l’esecuzione della decisione di rimpatrio anche quando vi siano elementi che suggeriscono che l’interessato rischierebbe di subire, in quel paese, trattamenti vietati in modo assoluto dall’articolo 4 della Carta».
[38] In questa stessa prospettiva, assume rilievo l’articolo 27, comma 1-bis, del d.lgs. n. 25 del 2008, che impone alla Commissione territoriale e al giudice l’obbligo di acquisire d’ufficio le informazioni necessarie per integrare il quadro probatorio presentato dal richiedente.