Giurisprudenza Amministrativa

CONSIGLIO DI STATO - Adunanza Plenaria, Sentenza 20 dicembre 2017, n.12
Sull’(in)ammissibilità del ricorso per revocazione proposto nei confronti di una sentenza irrevocabile del giudice amministrativo in contrasto con una successiva sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A cura di Ilaria Moscardi
1. Premessa
Con la decisione in commento, l’Adunanza Plenaria è tornata a pronunciarsi sull’istituto del ricorso per revocazione, contribuendo a definirne l’ambito di operatività.
Come si vedrà, il Supremo Consesso della giustizia amministrativa, in linea con la consolidata giurisprudenza, in ossequio al principio di tassatività dei casi di proposizione del ricorso per revocazione, ha dichiarato l’inammissibilità della domanda di revocazione avanzata, avente ad oggetto una sentenza irrevocabile del giudice amministrativo in contrasto con una successiva sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, trattandosi di un\'ipotesi diversa da quelle contemplate dagli artt. 395 e 396 c.p.c..
Per comprendere questa pronuncia in tutta la sua portata, si rende necessario ripercorrere brevemente i fatti che hanno dato luogo alla vicenda portata all’attenzione dell’Adunanza Plenaria.
Gli stessi giudici amministrativi, nella sentenza in commento, hanno ritenuto necessario compiere una puntuale ricostruzione della vicenda fattuale e di tutti i vari giudizi che da essa sono scaturiti.
2. Consiglio di Stato, Ad. Pl., n. 12/2017: in punto di fatto
I ricorrenti hanno svolto, dal 1983 al 1997, in qualità di medici, funzioni assistenziali presso il Policlinico dell’Università degli Studi di Napoli Federico II sulla base di contratti a termine aventi ad oggetto l’esplicazione di attività professionale remunerata “a gettone”.
Successivamente, i suddetti medici sono stati assunti a tempo indeterminato dallo stesso Policlinico con inquadramento nella categoria di personale non docente di Elevata Professionalità.
Con ricorsi proposti nel corso dell’anno 2004 – avanzati sulla scia di un precedente analogo ricorso proposto nel 2000 da un altro sanitario -, i ricorrenti hanno chiesto al T.A.R. per la Campania il riconoscimento, sin dall’origine, dell’esistenza di un rapporto di lavoro con l’Università; ciò in quanto, a loro dire, la qualificazione di “attività professionale” attribuita ai compiti espletati dissimulava un vero e proprio rapporto di lavoro pubblico subordinato.
In conseguenza di ciò, i ricorrenti hanno domandato al T.A.R. della Campania:
- l’accertamento del diritto a percepire la differenza tra il “gettone” effettivamente riconosciuto e la retribuzione spettante ai dipendenti chiamati a svolgere analoghe mansioni in costanza di un rapporto di lavoro subordinato;
- la ricostruzione della posizione previdenziale anche con riferimento al trattamento di buonuscita.
Il T.A.R. campano, riconosciuta la propria giurisdizione, ha ritenuto che i medici gettonati, per i caratteri dell’attività espletata, erano da assimilarsi ai “ricercatori universitari” (ovvero a personale le cui controversie costituiscono oggetto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).
Nel merito, invece, il Collegio ha accolto parzialmente il ricorso ovvero: è stata respinta la domanda volta ad ottenere una più elevata retribuzione (in considerazione della rilevata congruità del gettone a suo tempo corrisposto ai sanitari) mentre è stata accolta quella diretta a ottenere il riconoscimento dei diritti previdenziali e assistenziali.
3. segue: Consiglio di Stato VI Sez., ordinanza n. 2729/2006
Avverso tale sentenza hanno proposto appello l’Università degli Studi di Napoli e l’Azienda ospedaliera Universitaria, contestando l’assimilazione dei medici gettonati ai ricercatori universitari, data la natura solo assistenziale e non di docenza o ricerca dei compiti svolti dai primi a differenza di quelli svolti da quest’ultimi.
A parere degli appellanti, pertanto, la giurisdizione del giudice amministrativo avrebbe potuto unicamente radicarsi nel fatto che, all’epoca, il rapporto di lavoro in questione era da considerarsi di pubblico impiego (ancorché in seguito privatizzato dal D.Lgs. n. 80/1998).
A tale riguardo, ricordano però gli appellanti che l’art. 45, comma 17 del D.lgs. n. 80/1998 (confluito nell’art. 69, comma 7 del T.U. n. 165/2001) prevede l’attribuzione al giudice amministrativo delle controversie relative al periodo conclusosi il 30 giugno 1998, periodo in cui il rapporto aveva carattere pubblicistico; l’esperimento del contenzioso, però, è subordinato a un rigoroso termine decadenziale corrispondente al 15 settembre 2000.
Sulla base di ciò, a detta degli appellanti, i ricorsi proposti sarebbero dovuti essere dichiarati inammissibili in quanto avanzati solo nel 2004, quindi ben dopo il termine finale del 15 settembre 2000 previsto dal sopra citato art. 45 comma 17 del D.Lgs. n. 80/1998.
Con ordinanza n. 2729 del 2006, la VI Sez. del Consiglio di Stato, chiamata a pronunciarsi sull\'appello proposto, dato il carattere di massima di alcune questioni di giurisdizione sottese alla controversia, ha ritenuto necessario devolvere il ricorso all’esame dell’Adunanza Plenaria.
4. segue: Consiglio di Stato, Ad. Pl., sentenza n. 4/2007
Con la decisione n. 4 del 21 febbraio 2007, l’Adunanza Plenaria, in accoglimento del ricorso in appello proposto, annullando la sentenza del T.A.R. per la Campania, ha dichiarato l’inammissibilità, per tardività, di tutti i ricorsi avanzati dai medici perché proposti successivamente al 15 settembre 2000, applicando così alla controversia il citato art. 45, co. 17 del D.Lgs. n. 80/1998 (poi confluito, come detto, nell’attuale art. 69, co. 7 del T.U. n. 165/2001) il quale, come visto, disponeva per le liti concernenti il pubblico impiego “privatizzato” che “le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore al 30 giugno 1998” (quando il rapporto cioè aveva ancora carattere pubblicistico) “restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”.
5. segue: Corte Europea dei Diritti dell\'Uomo: sentenze Staibano c. Italia e Mottola c. Italia
Avverso la suddetta sentenza dell’Adunanza Plenaria è stato proposto ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo da parte di alcuni medici soccombenti la quale, con due sentenze del maggio 2014 (pronunce Staibano e Mottola) ha ritenuto contrastante con l’art. 1, prot. n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, l’interpretazione autentica dell’art. 69, comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 “nella parte in cui, disponendo che l’inottemperanza al termine del 15 settembre 2000 per adire il giudice amministrativo per le controversie in materia di pubblico impiego anteriori al 30 giugno 1998 comporti la definitiva perdita del diritto dei soggetti a far valere i propri diritti in materia pensionistica, non garantisce la possibilità di trasporre il giudizio a coloro che lo abbiano già incardinato presso l’ufficio giudiziario ritenuto incompetente”.
6. segue: Consiglio di Stato, Ad. Pl., ordinanza n. 2/2015
Alla luce delle sentenze della Corte di Strasburgo, i medici vittoriosi dinanzi alla predetta Corte e soccombenti nel giudizio di appello conclusosi con la decisione dell’Ad. Pl. n. 4/2007, hanno proposto, avverso quest’ultima pronuncia, ricorso per revocazione dinanzi al Consiglio di Stato.
In via principale, i ricorrenti, nell’intento di giustificare l’ammissibilità del ricorso per revocazione avanzato (che è l’aspetto preso in esame nel presente commento) hanno chiesto al Collegio di accogliere una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. in modo da ammettersi, nell’ambito del processo amministrativo, la revocazione di una sentenza passata in giudicato, qualora necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
A sostegno della propria tesi, i ricorrenti hanno richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 113 del 7 aprile 2011 la quale aveva dichiarato, in materia penale, l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva un diverso caso di revisione della sentenza penale o del decreto penale di condanna, al fine di ottenere la riapertura del processo, quando necessario per conformarsi a una sentenza della Corte di Strasburgo.
In via subordinata, i ricorrenti hanno sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c., in relazione agli artt. 117, co. 1, 111 e 24 Cost. nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46 par. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte di Strasburgo.
Con riferimento al ricorso per revocazione proposto (che, come detto, è l\'unico aspetto della vicenda che rileva ai fini del presente commento), l\'Adunanza Plenaria, con l\'ordinanza di rimessione n. 2 del 4 marzo 2015, ha innanzitutto ravvisato un contrasto tra le norme interne che disciplinano l’istituto della revocazione della sentenza amministrativa passata in giudicato e l’obbligo assunto dall’Italia di conformarsi alle decisioni della Corte di Strasburgo (art. 46 CEDU).
Tuttavia, il Consiglio di Stato ha precisato, in presenza di un simile contrasto tra norme, di non poter disapplicare, al pari del giudice ordinario, la norma interna ritenuta incompatibile con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in analogia a quanto previsto per il diritto dell’Unione europea (a partire dalle note sentenze della Corte di Giustizia, caso Simmenthal del 1978, e della Corte Costituzionale n. 170/1984), spettando esclusivamente alla Corte Costituzionale il controllo di costituzionalità sulle norme interne contrastanti con le norme pattizie internazionali, ivi compresa la CEDU.
Secondo tale impostazione, qualsiasi giudice, qualora si trovi a decidere un contrasto tra la CEDU e una norma di legge di legge interna, è tenuto in primo luogo a interpretare la disposizione nazionale in modo conforme alla Costituzione e, laddove non sia possibile un’interpretazione “conforme”, a sollevare un’apposita questione di legittimità costituzionale.
Nel caso di specie, il Consiglio di Stato, come detto, con l’ordinanza citata n. 2/2015, ha ravvisato un contrasto tra la norma interna che disciplina la revocazione della sentenza amministrativa passata in giudicato e l’obbligo assunto dall’Italia di conformarsi alle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Invero, la Corte di Strasburgo aveva ritenuto che la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4/2007 avesse comportato una duplice violazione dei diritti convenzionali, ovvero, nello specifico:
- del diritto di accesso a un Tribunale (art. 6 CEDU). Sul punto, si ricorda che l’Adunanza Plenaria aveva ritenuto inammissibile il ricorso originariamente avanzato in quanto proposto oltre il termine di cui all’art. 45 co. 17 del D.Lgs. n. 80/1998, con conseguente perdita del diritto di far valere in qualsiasi sede il contenzioso;
- del diritto di proprietà (art. 1 Prot. n. 1 CEDU), con riferimento alle prestazioni previdenziali reclamate dai ricorrenti. Sul punto si ricorda che la Corte Europea aveva rilevato una violazione del suddetto articolo ritenendo che i ricorrenti fossero titolari di un “bene”.
Alla luce di quanto sopra, il Collegio, esclusa la possibilità di risolvere il contrasto tra le norme processuali interne e quelle convenzionali mediante una “interpretazione adeguatrice”, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 117 co.1, 111 e 24 Cost nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell\'art. 46 par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell\'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell\'uomo.
Il Collegio ha evidenziato la rilevanza della questione per il giudizio in corso posto che dalla soluzione della stessa sarebbe dipesa l’ammissibilità del ricorso per revocazione proposto.
7. segue: Corte Costituzionale, sentenza n. 123/2017
Con sentenza n. 123 del 26 maggio 2017, la Corte Costituzionale ha dichiarato la non fondatezza della questione di illegittimità costituzionale sollevata con riferimento al parametro di cui all’art. 117, co. 1 Cost. e la sua inammissibilità, per difetto di motivazione in merito alla non manifesta infondatezza, con riferimento a parametri di cui agli artt. 24 e 111 Cost.
Invero, il Giudice delle leggi, pur ricordando che in passato, con la decisione n. 113 del 2011 era stato riconosciuto, in ambito penalistico, l’esistenza dell’obbligo convenzionale di riapertura del processo, laddove necessario per conformarsi a una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso di specie, ha ritenuto di non poter addivenire alle stesse conclusioni, stante la peculiarità della materia penale rispetto agli altri settori del diritto.
Ciò in quanto in un giudizio amministrativo, osserva la Corte Costituzionale, “non è in gioco la libertà personale”; inoltre, la Consulta ha riservato una particolare attenzione alla tutela dei terzi cioè di quei soggetti diversi dalle parti del processo al quale il giudicato contrastante con la CEDU si riferisce, nei confronti dei quali occorre preservare la certezza del diritto garantita dal passaggio in giudicato di una sentenza.
La Corte Costituzionale ha così rilevato “nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e configgenti interessi in gioco”.
Per tali motivi, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del D.Lgs. n. 104 del 2010 e degli artt. 395 e 396 c.p.c., sollevata in riferimento all’art. 117, co. 1 della Costituzione.
8. segue: Consiglio di Stato, Ad. Pl., n. 12/2017: principio di diritto
Proseguito il giudizio dinanzi all’Adunanza Plenaria, i ricorrenti in revocazione hanno chiesto al giudice amministrativo di:
- sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. (posto che la declaratoria di inammissibilità della Corte Costituzionale si era fondata su un difetto di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, ad avviso dei ricorrenti, l’Adunanza Plenaria avrebbe dovuto nuovamente sollevare la questione di legittimità costituzionale delle summenzionate disposizioni, chiarendo però questa volta le ragioni della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione);
- differire la trattazione della causa in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale sulla legittimità costituzionale dell’art. 69, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 30.3.2001 in relazione all’art. 117, co. 1 Cost, sollevata dalle SS.UU. della Corte di Cassazione con ordinanza n. 6891 dell’8 aprile 2016.
Con la decisione in commento, l’Adunanza Plenaria, prima di pronunciarsi sulla domanda di revocazione della sentenza impugnata, ha ritenuto necessario esaminare le due richieste sopra menzionate, ritenendole, però, come si vedrà, non accoglibili.
Riguardo alla prima di esse, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che non ricorressero le condizioni per sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c..
Invero, osservano i giudici amministrativi che ancorché la Corte Costituzionale, con la decisione n. 123/2017, avesse dichiarato l’inammissibilità di una delle questioni sollevate dall’Adunanza Plenaria, per difetto di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza, in realtà, anche questa questione era stata valutata dalla Corte Costituzionale.
E’ per questo che l’Adunanza Plenaria, con la sentenza in esame, ha ritenuto che “non sembra al Collegio che possano in tal senso individuarsi ulteriori profili di dubbia compatibilità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. con cui la Corte Costituzionale non abbia già fornito risposta nella decisione n. 123 del 26 maggio 2017”.
Quanto invece alla richiesta di differimento della trattazione della causa in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale sull’ordinanza n. 6891 dell’8 aprile 2016, l’Adunanza Plenaria l’ha giudicata, del pari, non accoglibile in quanto una eventuale pronuncia di accoglimento da parte della Corte Costituzionale non avrebbe potuto produrre effetti sul giudizio in corso posto che, per consolidato principio giurisprudenziale, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi, tra cui assume per l’appunto rilevanza la formazione del giudicato.
Disattesa, quindi, anche la richiesta di differimento della trattazione della causa, l’Adunanza Plenaria è passata ad esaminare la domanda di revocazione.
Richiamando la propria precedente ordinanza collegiale n. 2 del 2015 e la decisione della Corte Costituzionale n. 123 del 26 maggio 2017, il Supremo Consesso ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per revocazione in esame in quanto proposto al di fuori dei casi tassativamente stabiliti dall’ordinamento.
In particolare, nell’addivenire a tale conclusione, l’Adunanza Plenaria ha richiamato e trascritto il considerando n. 15 della decisione n. 123 de 26 maggio 2017, in cui il Giudice delle leggi – lo si ricorda - ha stabilito che “nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e configgenti interessi in gioco” giungendo alla conclusione che nel “nostro ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore”.
Alla luce di ciò, come detto, l’Adunanza Plenaria ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione proposto in quanto relativo ad un’ipotesi non contemplata dall’ordinamento giuridico.
Tra l’altro, l’Adunanza Plenaria ha ricordato che secondo il costante orientamento della giurisprudenza civile e amministrativa, i casi di revocazione delle sentenze, tassativamente previsti dall’art. 395 c.p.c., stante la loro eccezionalità, sono di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle Preleggi.
Con la sentenza in commento, quindi, l’Adunanza Plenaria si è allineata a principi ormai consolidati nella giurisprudenza civile e amministrativa concernenti l’intangibilità del giudicato rispetto agli effetti di una dichiarazione d’illegittimità costituzionale.
Per quanto riguarda più propriamente il ricorso per revocazione, l’Adunanza Plenaria, alla luce dell’attuale quadro normativo, ha escluso la possibilità di ampliare, in via pretoria, le cause di revocazione delle sentenze del giudice amministrativo rispetto a quelle stabilite dagli artt. 106 c.p.a, 395 e 396 c.p.c..
Ancor più di recente, con ordinanza n. 19 del 2 febbraio 2018, la Corte Costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente sulla questione di legittimità costituzionale (sollevata dal Consiglio di Stato Sez. IV, ordinanza 17 novembre 2016 n. 4765) dell’art. 106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione.
In analogia a quanto già disposto con la precedente sentenza del 26 maggio 2017, n. 123, la Corte Costituzionale ha nuovamente dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato in merito alla necessità di ampliare le cause di revocazione in caso di contrasto tra un giudicato nazionale e una successiva sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
A questo punto, la parola è rimessa al legislatore, al quale spetterà valutare se prevedere un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario per conformarsi a una successiva sentenza definitiva della Corte Europea dei Diritti dell\'Uomo.