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Anno XVI - n. 10 - Ottobre 2024

  Giurisprudenza Amministrativa



La responsabilita’ della pubblica Amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimita’ provvedimentale sia da inossevanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilita’ extracontrattuale.

Di Daniela D'Amico
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO – ADUNANZA PLENARIA,

 SENTENZA 23 aprile 2021, n. 7

 

La responsabilita’ della pubblica Amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimita’ provvedimentale sia da inossevanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilita’ extracontrattuale.

 

Di DANIELA D'AMICO

 

 

SOMMARIO: 1. Brevi cenni sulla vicenda fattuale e le questioni oggetto di rimessione; 2. Pronuncia dell’Adunanza Plenaria; 3. Conclusioni.

 

  1. Brevi cenni sulla vicenda fattuale e le questioni oggetto di rimessione.

 

Con la sentenza non definitiva n. 1136 del 15 dicembre 2020, il CGARS ha deferito all’Adunanza Plenaria alcune questioni in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per la ritardata conclusione del procedimento amministrativo, sulle quali ha ravvisato, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a, orientamenti contrastanti della giurisprudenza amministrativa.

Le questioni rimesse sono sorte in un contenzioso promosso dalla società Iris Impianti Energia Rinnovabile Siracusa s.r.l. per la condanna della Regione siciliana al risarcimento dei danni subiti a causa del ritardo con cui l’amministrazione regionale ha autorizzato, con decreti emessi soltanto nell’anno 2013, la realizzazione e gestione di tre impianti fotovoltaici nel Comune di Siracusa, ai sensi dell’art. 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), con istanze presentate all’amministrazione tra il giugno del 2009 e il luglio del 2010.

 Il risarcimento è chiesto in ragione del fatto che a causa del ritardo nel rilascio delle autorizzazioni – per le quali la ricorrente aveva dapprima agito ex art. 117 c.p.a. contro il silenzio serbato dall’amministrazione e poi in ottemperanza – l’investimento sarebbe divenuto antieconomico. Ciò per effetto dell’impossibilità di accesso al regime tariffario incentivante previsto dall’art. 7 d.lgs. n. 387 del 2003 e successivamente abrogato dall’art. 65 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27.

Con la prima questione deferita, il Consiglio di giustizia amministrativa chiedeva di stabilire se la sopravvenienza normativa da ultimo menzionata interrompesse il nesso causale tra l’inerzia dell’amministrazione nel definire i procedimenti autorizzativi originati dalle istanze della società ricorrente e il danno da quest’ultima lamentato a titolo di lucro cessante (o alternativamente quale chance di guadagno), consistente nel venir meno dei margini economici realizzabili con il regime incentivante.

Le ulteriori questioni sottoposte al Supremo Collegio riguardavano la misura del danno risarcibile in conseguenza del ritardo, le quali venivano dal giudice rimettente poste in dipendenza con quella relativa alla natura della responsabilità della pubblica amministrazione, se cioè essa abbia natura contrattuale o da fatto illecito.

 

  1. Pronuncia dell’Adunanza Plenaria.

 

Le questioni ex art. 99 c.p.a. su cui l’Adunanza plenaria è chiamata a pronunciarsi concernono, come anticipato, la responsabilità dell’amministrazione pubblica per il ritardo nella conclusione del procedimento originato da un’istanza autorizzativa.

In merito alle questioni deferite, il giudice rimettente ha già ritenuto, con efficacia di giudicato interno, che sussistano taluni elementi della fattispecie, di seguito riportati:

a) la condotta dell’Amministrazione posta in essere in violazione della regola di conclusione del procedimento amministrativo nella tempistica prescritta;

  1. b) la fondatezza della pretesa concernente il bene della vita (come testimoniato dalla adozione, seppur in ritardo, dei provvedimenti autorizzatori);
  2. c) la sopravvenienza normativa ostativa all’ottenimento degli incentivi, che la società Iris avrebbe ottenuto se l’Amministrazione avesse provveduto per tempo;
  3. d) la colpa dell’Amministrazione (nessuna esimente è stata da quest’ultima prospettata per giustificare il proprio non modesto ritardo nel provvedere)”.

L’ordinanza di rimessione, con specifico riguardo alla qualificazione della responsabilità della pubblica amministrazione, sosteneva che sarebbero maturi i tempi per una “revisione critica del regime consolidato di scrutinio della responsabilità dell’Amministrazione in una duplice direzione: assimilazione della responsabilità dell’Amministrazione alla responsabilità contrattuale e apprezzamento del ruolo del rapporto di diritto pubblico sotteso alla nascita dell’obbligazione risarcitoria”.

L’Adunanza Plenaria esamina prioritariamente la questione relativa alla natura della responsabilità dell’amministrazione, affermando ab initio che la responsabilità in cui incorre l’amministrazione per l’esercizio delle sue funzioni pubbliche è inquadrabile nella responsabilità da fatto illecito.

La responsabilità da inadempimento si fonda, ai sensi dell’art. 1218 c.c., sul non esatto adempimento della prestazione cui il debitore è obbligato in base al contratto.

Ebbene, un vincolo obbligatorio di analoga portata non può essere configurato per la pubblica amministrazione che agisca nell’esercizio delle sue funzioni amministrative e, quindi, nel perseguimento dell’interesse pubblico definito dalla norma attributiva, che fonda la causa giuridica del potere autoritativo.

La relazione giuridica che si instaura tra il privato e l’amministrazione è caratterizzata da due situazioni soggettive entrambe attive: l’interesse legittimo del privato e il potere dell’amministrazione nell’esercizio della sua funzione.

In questo caso, dunque, è configurabile non già un obbligo giuridico in capo all’amministrazione, bensì un potere attribuito dalla legge, che la medesima è tenuta ad esercitare in conformità alla stessa legge e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza: il principio di legalità, che permea il diritto amministrativo, sta a significare che la legge è, allo stesso tempo, fonte e limite del potere della P.A.

Il rapporto amministrativo è contraddistinto dall’asimmetria delle posizioni, poiché l’amministrazione è posta in supremazia rispetto al privato cittadino, di talché la pubblica amministrazione - per ragioni storiche, sistematiche e normative - non può essere assimilata al debitore obbligato per contratto ad adempiere in modo esatto nei confronti del creditore.

La pronuncia in esame fuga ogni dubbio anche in relazione alla riconducibilità della responsabilità della P.A. alla dibattuta nozione di “contatto sociale”, ribadendo che la relazione tra privato e amministrazione è configurata nei suddetti termini di supremazia, che mal si concilia con le teorie sul contatto sociale, le quali si fondano sulla relazione paritaria tra i soggetti che interagiscono.

L’Adunanza Plenaria, dopo aver chiarito la natura della responsabilità della P.A. e le caratteristiche del rapporto amministrativo, rileva che lo strumento di tutela di carattere generale per l’interesse legittimo è quello dell’azione costitutiva di annullamento dell’atto amministrativo, risalente alla legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (legge 31 marzo 1889, n. 5992).

Tuttavia, nel corso del tempo, la giurisprudenza ha disancorato l’interesse legittimo dalla sua originaria concezione di interesse occasionalmente protetto e, anche in considerazione del quadro normativo, ne ha rilevato la dimensione sostanzialista, quale interesse correlato ad un bene della vita coinvolto nell’esercizio della funzione pubblica.

Per tale ragione, al privato sono innanzitutto riconosciuti strumenti di tutela procedimentale finalizzati ad orientare la discrezionalità dell’amministrazione, secondo la disciplina di carattere generale contenuta nella legge sul procedimento amministrativo n. 241/1990.

Sono poi riconosciute forme variegate di tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive originate dall’esercizio del potere amministrativo, al fine di rendere effettiva la protezione dei diritti e degli interessi devoluti alla giurisdizione amministrativa ai sensi dell’art. 1 c.p.a., coerenti con una evoluzione dei rapporti tra privato e amministrazione in cui accanto alla funzione amministrativa di stampo tradizionale si è via via affermato un modello di amministrazione pubblica erogatrice di servizi e prestazioni pubblici, in cui quest’ultima, però, continua a mantenere la citata posizione di supremazia necessaria a perseguire i fini determinati dalla legge (art. 1, comma 1, l. n. 241/1990), con atti di carattere autoritativo in grado di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del privato.

Tra le forme di tutela ulteriori rispetto a quella demolitoria, già prima della sentenza delle Sezioni unite della Cassazione 22 luglio 1999, n. 500, ha assunto un ruolo di rilievo la tutela risarcitoria, ammessa anche nei confronti del potere pubblico, originariamente sulla base di normative di carattere settoriale - e segnatamente nelle procedure di affidamento di contratti pubblici (art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142); in materia edilizia, per il danno da ritardato rilascio del titolo a costruire (art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito in legge 4 dicembre 1993, n. 493, come successivamente modificato) - poi seguite dalle disposizioni a carattere generale contenute dapprima nel decreto legislativo n. 80 del 1998 (in parte qua non dichiarate incostituzionali) e nella legge n. 205 del 2000, e poi nel codice del processo amministrativo.

Il Supremo Collegio ricorda come con l’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, è stata introdotta la regola per cui, nelle materie dell’urbanistica, dell’edilizia e dei servizi pubblici - materie di giurisdizione esclusiva - il giudice amministrativo “dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”.

L’articolo 7, comma 4, della legge n. 205 del 2000 ha poi previsto la risarcibilità del danno in ogni caso di lesione arrecata all’interesse legittimo.

Sulla base di tale quadro normativo, è stato, dunque, introdotto nel diritto pubblico un sistema in cui è devoluto al giudice amministrativo il potere di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno da illegittimo esercizio del potere pubblico, in una logica eminentemente “rimediale”, e cioè come “strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione” (Corte costituzionale, sentenza 26 luglio 2004, n. 204), al precipuo scopo di garantire l’osservanza del principio dell’effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, sancito dall’art. 47, comma 1, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e poi stabilito anche dal citato art. 1 c.p.a. 

Tale assetto normativo ha trovato una definitiva sistemazione con il codice del processo amministrativo, il quale ha attuato la suddetta tutela piena ed effettiva con la concentrazione presso il giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi (art. 7, comma 7), e la devoluzione ad esso delle controversie relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma (art. 7, comma 4).

Pertanto, è riconosciuta la possibilità di domandare la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria (art. 30, comma 2,c.p.a.),nonché derivante dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (art. 30, comma 4, c.p.a.)

La pronuncia in esame sostiene che l’esercizio contra legem della funzione pubblica, manifestatosi tanto con l’emanazione di atti illegittimi quanto con un’inerzia colpevole, è fonte di responsabilità, e, nello specifico, della responsabilità aquiliana fondata sul principio generale del neminem laedere di cui all’art. 2043 del codice civile, secondo il quale “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

Elemento centrale in tale fattispecie di responsabilità è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui il mancato o inesatto adempimento è qualificabile come ingiusto in re ipsa.

In particolare, il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi.

Il Supremo Consesso rileva, inoltre, che depongono nel senso della riconducibilità del danno per lesione di interessi legittimi al modello della responsabilità per fatto illecito, anche indici normativi di univoca portata testuale.

Nel dettaglio, il riferimento è ai citati commi 2 e 4 dell’art. 30 c.p.a., i quali rispettivamente attengono al danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria, e al danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.

La sentenza in commento chiarisce che, nello specifico settore del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo, il requisito dell’ingiustizia esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole.

In tale prospettiva, il tempo non costituisce un bene risarcibile ex se, ma lo diviene se il ritardo nel provvedere abbia causato la lesione all’interesse al bene della vita.

La norma che, in primis, viene in rilievo è l’art. 2-bis l. 241/1990, che prevede il risarcimento del danno ingiusto cagionato dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, e che va letto in combinato con l’art. 2 della medesima legge, che disciplina in termini generali la stessa conclusione del procedimento.

Quest’ultima disposizione - oltre ad enunciare il dovere di concludere il procedimento con provvedimento espresso (comma 1) -  prevede uno strumento di cooperazione con il privato istante, finalizzato a superare l’inerzia dell’amministrazione, incentrato sul potere di avocazione dell’affare (commi 9-bis – 9-quinquies).

L’istituto ha un ruolo centrale nella fattispecie di responsabilità dell’amministrazione per danno da ritardo, in quanto la sua attivazione da parte del privato è indice di serietà ed effettività dell’interesse legittimo di quest’ultimo al provvedimento espresso.

All’opposto, in assenza di ulteriori iniziative del richiedente, potrebbe presumersi, salve diverse considerazioni che spieghino tale inerzia, che l’ulteriore decorso del tempo sia sostanzialmente indifferente per il privato.

L’Adunanza precisa che il mancato utilizzo di tale strumento può concorrere a costituire comportamento valutabile ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a. al fine di escludere il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.

In chiave nomofilattica, il Supremo Consesso evidenzia, che la mancata sollecitazione del potere di avocazione previsto dall’art. 2, commi 9-bis ss., l. n. 241 del 1990, nonché la mancata proposizione di ricorsi giurisdizionali, non hanno rilievo come presupposto processuale dell’azione risarcitoria ex art. 2-bis della medesima legge, la quale, al pari dell’azione risarcitoria per illegittimità provvedimentale, è ormai svincolata da ogni forma di pregiudiziale amministrativa.

La condotta attiva del privato può, al contrario, assumere rilievo come fattore di mitigazione o finanche di esclusione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p.a., laddove si accerti “che le condotte attive trascurate (…) avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno” (in tal senso, Adunanza Plenaria 23 marzo 2011 n. 3).

In altri termini, la mancata attivazione dei detti rimedi procedimentali e di quelli processuali (tra cui l’azione contro il silenzio ex artt. 31 e 117 c.p.a. e quella di ottemperanza ex art. 112 e ss. c.p.a.) non è idonea in sé a precludere la pretesa risarcitoria, ma costituisce un elemento di valutazione che può concorrere, con altri, alla definizione della responsabilità; la condotta del privato rileva essenzialmente in relazione alla definizione del quantum del risarcimento.

L’onere di cooperazione in parola può essere ricondotto allo schema di carattere generale del concorso del fatto colposo del creditore previsto dall’art. 1227, comma 2, c.c., applicabile alla responsabilità da fatto illecito in quanto richiamato dall’art. 2056 c.c.

Come ha precisato l’ Adunanza Plenaria con la richiamata sentenza del 23 marzo 2011, n. 3, nell’ambito della struttura bipolare della responsabilità civile l’art. 1227, comma 2, c.c. rileva nella determinazione del danno, quale uno dei criteri in base al quale selezionare le conseguenze risarcibili, dopo che si sia positivamente accertata la ingiusta lesione di un interesse giuridico meritevole di tutela in termini di conseguenza immediata e diretta della condotta.

In modo parzialmente diverso da quanto si tende ad affermare nei rapporti regolati dal diritto civile, l’onere di cooperazione del privato nei confronti dell’esercizio della funzione pubblica assume i connotati di un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno), con la sola esclusione di attività straordinarie o gravose attività, per cui “non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza” (così ancora l’Adunanza Plenaria nella sentenza del 23 marzo 2011 n. 3).

Comuni all’illecito civile sono invece le questioni concernenti il danno-conseguenza, in cui si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell’interesse legittimo che siano conseguenze dirette e immediate dell’evento.

Il danno-conseguenza è disciplinato con carattere di generalità sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale che da fatto illecito (in virtù del richiamo dell’art. 2056 c.c.) dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c.

Tuttavia, solo per la responsabilità da inadempimento opera il limite previsto dall’art. 1225 c.c. della prevedibilità del danno, salvo il caso di dolo.

I criteri in questione attengono alla c.d. causalità giuridica, da distinguere rispetto alla causalità c.d. materiale.

Attraverso quest’ultima, logicamente prioritaria rispetto alla prima in quanto attinente alla delimitazione dell’evento dannoso, si pongono in correlazione accadimenti naturali e per essa si applicano i criteri di stampo penalistico enunciati dagli artt. 40 e 41 c.p.; la causalità giuridica attiene, invece, alla delimitazione delle conseguenze risarcibili del detto evento dannoso.

In tema di causalità giuridica, assume un ruolo centrale il menzionato art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.

Nella sua parte descrittiva, la dicotomia danno emergente - lucro cessante esprime la funzione della responsabilità civile, anche nei rapporti di diritto pubblico, di rimedio previsto in funzione reintegratrice della sfera patrimoniale dell’individuo rispetto ad aggressioni esterne.

Sulla sua base si esclude il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi.

Ciò precisato, la questione deferita dal Consiglio di giustizia amministrativa al Supremo Collegio si inquadra non nella causalità materiale, posto che,  come premesso, il giudice rimettente ha già accertato con efficacia di giudicato interno che l’inosservanza colposa da parte della Regione siciliana dei termini del procedimento ha impedito alla società ricorrente di ottenere il bene della vita, consistente nel tempestivo rilascio delle autorizzazioni.

Nel caso di specie, il ritardo ha leso il bene tempo, che ha dignità di interesse risarcibile ex art. 2-bis l. n. 241 del 1990, se e nella misura in cui, per effetto di tale lesione, si sia prodotto un danno ingiusto.

In tal senso è costantemente orientata la giurisprudenza amministrativa (da ultimo ribadita da: Cons. Stato, II, 21 dicembre 2020, n. 8199, 25 maggio 2020, n. 3318; III, 2 novembre 2020, n. 6755; IV, 8 marzo 2021, nn. 1921 e 1923, 1 dicembre 2020, n. 7622, 20 ottobre 2020, n. 6351, 22 luglio 2020, n. 4669; V, 2 aprile 2020, n. 2210; VI, 15 febbraio 2021, n. 1354, 26 marzo 2020, n. 2121).

La sentenza in commento precisa, al riguardo, che l’apparentemente contraria affermazione dell’Adunanza Plenaria al § 42 della sentenza 4 maggio 2018, n. 5, consiste in realtà in un riferimento a tesi interpretative dell’art. 2-bis l. n. 241 del 1990 volte a riconoscere la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo, come fattispecie di danno da comportamento e non da provvedimento; al successivo § 45 la stessa Adunanza Plenaria, tuttavia, ha precisato che anche in questo caso è necessario che venga provato sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione.

Chiarita la natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione, in specie riferita alla responsabilità da ritardo, l’Adunanza Plenaria si concentra sulla questione oggetto del primo quesito rimesso dal Consiglio di giustizia amministrativa.

La questione si sostanzia più precisamente nella possibilità di imputare alla Regione siciliana il mancato accesso al regime tariffario incentivante previsto per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, a causa del sopravvenuto citato divieto di cui all’art. 65 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1. Il dubbio del giudice rimettente sul punto si incentrava sulla questione se tale sopravvenienza normativa costituisca un fattore causale autonomo, in grado di interrompere il nesso di consequenzialità immediata e diretta ex art. 1223 c.c. tra la ritardata conclusione dei procedimenti autorizzativi ex art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003 e il mancato accesso al regime incentivante, o il ritardo costituisca mera occasione rispetto al pregiudizio patrimoniale lamentato dalla società ricorrente.

Il Supremo Consesso rileva innanzitutto che, nell’ambito della dicotomia danno emergente-lucro cessante posta dall’art. 1223 c.c., il mancato accesso al regime tariffario incentivante si colloca nel secondo concetto, come peraltro evidenziato dallo stesso giudice rimettente.

Ciò precisato, l’accertamento del nesso di consequenzialità immediata e diretta del danno con l’evento pone problemi di prova con riguardo al lucro cessante in misura maggiore rispetto al danno emergente.

Infatti, a differenza del secondo, consistente in un decremento patrimoniale avvenuto, il primo si identifica quale possibile incremento patrimoniale e ha di per sé una natura ipotetica: la valutazione causale ex art. 1223 c.c. assume la fisionomia di un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità), in cui occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui.

Non a caso in questo ambito è sorta la tematica della risarcibilità della chance, considerata ormai, sia dalla giurisprudenza civile che da quella amministrativa, una posizione giuridica autonomamente tutelabile - morfologicamente intesa come perdita della possibilità di un risultato più favorevole - purché ne sia provata una consistenza probabilistica adeguata.

Posta questa premessa, in tema di danno-conseguenza sub specie di lucro cessante, l’art. 2056, comma 2, c.c. rimette all’equo apprezzamento delle circostanze del caso la relativa valutazione del mancato guadagno.

L’Adunanza Plenaria afferma che la liquidazione equitativa assume una centrale rilevanza, sul piano tecnico, in tema di quantificazione di danni che si proiettano nel futuro e che non sono determinabili con la certezza propria di quelli verificabili sul piano storico, come invece nel caso del danno emergente.

In relazione alla questione ora affrontata dal Collegio, fermo l’onere di allegazione e prova del danneggiato (artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a.), anche mediante presunzioni, e l’eventuale espletamento di una consulenza tecnica di ufficio, il medesimo Collegio afferma che la sopravvenienza normativa opera nella fattispecie controversa non già come fatto imprevedibile ex art. 1225 c.c. (inapplicabile alla responsabilità da fatto illecito)  ma, in ipotesi, come fattore causale autonomo ed in grado di escludere il nesso di consequenzialità immediata e diretta ex art. 1223 c.c. tra la ritardata conclusione dei procedimenti autorizzativi e il mancato accesso al regime tariffario incentivante.

Occorre in altri termini valutare l’incidenza della sopravvenienza normativa nella sequenza causale produttiva del danno, sul piano della conseguenzialità immediata e diretta.

Sul punto l’Adunanza Plenaria, ritiene che, con riferimento al periodo di tempo anteriore alla modifica normativa che ha soppresso gli incentivi, non sia in dubbio che sussista un rapporto di consequenzialità che consente di imputare al ritardo della Regione siciliana il pregiudizio patrimoniale subito dalla società ricorrente a causa del mancato accesso agli incentivi tariffari.

La regolarità causale che lega i due eventi - ritardo dell’amministrazione nel provvedere e perdita degli incentivi - non può infatti ritenersi recisa dalla sopravvenienza normativa, per la decisiva considerazione che è stato proprio il ritardo a rendere la sopravvenienza rilevante, come fatto impeditivo per l’accesso agli incentivi tariffari altrimenti ottenibili.

Lungi dal porsi come mera occasione del pregiudizio, il ritardo ne è stata dunque la causa.

Con riferimento al periodo successivo alla sopravvenienza normativa, la sentenza in analisi precisa che occorre stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate, per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi, nel qual caso il pregiudizio sarebbe riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione, oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo, in quanto la legge, per esempio, faccia chiaramente salvi, e sottratti quindi all’abrogazione, gli incentivi già in corso di erogazione e fino al termine finale originariamente stabilito per gli stessi.

L’Adunanza Plenaria sostiene, altresì, che, nel caso di specie, l’applicazione del criterio della consequenzialità immediata e diretta enunciato dall’art. 1223 c.c. risulta coerente con gli obiettivi avuti di mira dal Legislatore con la previsione di termini massimi di conclusione del procedimento di cui all’art. 2 l. n. 241 del 1990; per cui, se è vero che la sopravvenienza normativa è di per sé un factum principis, idonea, pertanto, ad escludere l’imputazione soggettiva delle relative conseguenze pregiudizievoli, nondimeno l’ingiustificato ritardo nel rilascio del provvedimento ingenera una responsabilità in capo all’amministrazione coerente con la pretesa dell’ordinamento alla definizione dei procedimenti entro determinati termini.

La pronuncia in commento sostiene, dunque, che il mutamento normativo deve essere considerato un rischio imputabile all’amministrazione, in quanto la sopravvenienza normativa non avrebbe avuto rilievo se i tempi del procedimento autorizzativo fossero stati rispettati.

Sulla base di tutto quanto argomentato e motivato, l’Adunanza Plenaria formula i seguenti principi di diritto:

a) la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 cod. civ. –da ritenere espressione di un principio generale dell’ordinamento- i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 cod. civ.; e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 cod. civ.;

  1. b) con riferimento al periodo temporale nel quale hanno avuto vigenza le disposizioni sui relativi benefici, è in astratto ravvisabile il nesso di consequenzialità immediata e diretta tra la ritardata conclusione del procedimento autorizzativo ex art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003 e il mancato accesso agli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili quando la mancata ammissione al regime incentivante sia stato determinato da un divieto normativo sopravvenuto che non sarebbe stato applicabile se i termini del procedimento fossero stati rispettati;
  2. c) con riferimento al periodo successivo alla sopravvenienza normativa, occorre stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate, per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi, nel qual caso il pregiudizio è riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione, oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo, in quanto la legge, per esempio, faccia chiaramente salvi, e sottratti quindi all’abrogazione, gli incentivi già in corso di erogazione e fino al termine finale originariamente stabilito per gli stessi;
  3. d) in ogni caso, il danno va liquidato secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, e non può equivalere a quanto l’impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione”.

 

 

La pronuncia in commento, in via prioritaria, affronta la questione della natura della responsabilità dell’amministrazione, affermando che la responsabilità della P.A. per lesione degli interessi legittimi sia per illegittimità provvedimentale che per ritardo nell’adozione dei provvedimenti ha natura di responsabilità aquiliana, con tutte le ricadute processuali e sostanziali che ne derivano, confermando l’orientamento maggioritario e non accogliendo la tesi del cambio di passo sostenuta dall’ordinanza rimettente.

A tal fine, l’Adunanza Plenaria fa leva essenzialmente su due argomenti: la supremazia o asimmetria tra il privato e la pubblica amministrazione, che caratterizza il rapporto di diritto pubblico; la titolarità in capo al privato e all’amministrazione di due situazioni giuridiche soggettive attive, rispettivamente di interesse legittimo di potere nell’esercizio delle funzioni pubblicistiche.

Da qui l’impossibilità di assimilare l’amministrazione al debitore tenuto ad adempiere la prestazione dedotta nel contratto stipulato col creditore, con la conseguenza di non poter qualificare la responsabilità della P.A. né come contrattuale né da contatto sociale, in quanto tale ultima teoria si basa comunque sulla paritarietà dei soggetti che si trovano ad interagire. 

Il Supremo Collegio dà conto dell’evoluzione che ha interessato l’apparato amministrativo, considerato oggi come soggetto erogatore di servizi e prestazioni alla collettività, ma rileva anche come sia tuttora sussistente la citata posizione di supremazia della P.A. di cui sono espressione gli atti autoritativi adottati unilateralmente dall’amministrazione che producono effetti diretti nella sfera giuridica dei privati.

Il cuore della pronuncia attiene, poi, alla responsabilità dell’amministrazione per il ritardo ad adottare i provvedimenti ampliativi, sub specie di autorizzazioni richieste dalla società ricorrente.

In tema, la sentenza in esame si occupa di ribadire che il bene tempo non è risarcibile ex se, ma soltanto laddove vi sia stata una lesione ingiusta all’interesse sostanziale al bene della vita, non aderendo, dunque, alle tesi della risarcibilità del danno da mero ritardo, e sostenendo che le statuizioni sul punto dell’Adunanza Plenaria n. 5/2018, apparentemente in contrasto con la citata posizione del Supremo Collegio, si sono semplicemente limitate a riportare le dette teorie interpretative sul risarcimento del danno da mero ritardo, senza condividerle, mantenendo, così, continuità e coerenza all’interno della giurisprudenza della stessa Adunanza sul punto.

Le statuizioni cruciali della pronuncia in commento sono costituite da quelle appena menzionate, affrontando, poi, la medesima pronuncia le ulteriori questioni che ruotano attorno alla tematica della responsabilità dell’amministrazione: dalla regolarità causale alla causalità giuridica attinenti al danno-conseguenza; dalla maggiore difficoltà della prova del mancato guadagno alla risarcibilità del lucro cessante tramite la cd. perdita di chance favorevole da quantificare tendenzialmente in via equitativa.

In ultimo, il Supremo Collegio risolve la prima questione rimessa dal CGARS relativa all’incidenza della sopravvenienza normativa nella sequenza causale produttiva del danno che interessa il caso de quo, distinguendo la fase antecedente al mutamento legislativo da quella successiva e riconoscendo al ritardo dell’amministrazione efficienza causale del danno ingiusto nella prima fase, mentre afferma la necessità di un accertamento più specifico per la fase susseguente in ordine al contenuto delle previsioni legislative successive.   

Tale sentenza dell’Adunanza Plenaria è indubbiamente una pronuncia molto importante e chiarificatrice sulla natura della responsabilità della pubblica amministrazione per la lesione degli interessi legittimi per illegittimità dei provvedimenti e per il ritardo nell’adottare i provvedimenti amministrativi, che verrà considerata quale punto di riferimento in tema, in quanto partendo dalla natura del rapporto amministrativo intercorrente tra il privato e l’amministrazione, che è e resta di tipo asimmetrico, ha sostenuto l’inammissibilità sia della tesi della responsabilità contrattuale che di quella da contatto sociale, le quali presuppongono un rapporto paritetico più o meno intenso tra i soggetti interessati.

L’ordinanza di rimessione aveva ampiamente argomentato sulla maturità dei tempi per superare l’orientamento maggioritario e consolidato della natura della responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, ma l’Adunanza non ha accolto la sua tesi, confermando l’orientamento prevalente, che con tale pronuncia diviene quasi granitico.

Tuttavia, a parere di chi scrive, il dibattito e i contrasti rilevati nella giurisprudenza amministrativa e civile sono solo temporaneamente sopiti da tale pronuncia, in quanto probabilmente vi saranno ulteriori ordinanze di rimessione di analogo tenore rispetto a quella che ha dato origine alla sentenza in esame.

Il tema della responsabilità dell’amministrazione è un tema molto caldo e importante, sul quale si registra un grande fermento, dimostrato dai numerosi interventi dell’Adunanza Plenaria e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione susseguitisi negli ultimi anni, per cui è agevole immaginare che ve ne saranno degli altri dagli esiti non necessariamente scontati.