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Anno XVI - n. 10 - Ottobre 2024

  Studi



Sulla fideiussione omnibus e sul rimedio invalidatorio della nullità parziale: tra tutela del mercato e decadenza ex art. 1957 c.c. – Nota a sentenza del Tribunale di Roma, Sez. Spec. Imprese, 23 febbraio 2024, n. 3385.

Di Giuseppe Maria Marsico
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Sulla fideiussione omnibus e sul rimedio invalidatorio della nullità parziale: tra tutela del mercato e decadenza ex art. 1957 c.c. – Nota a sentenza del Tribunale di Roma, Sez. Spec. Imprese, 23 febbraio 2024, n. 3385.

 

Di Giuseppe Maria Marsico

ABSTRACT

Le nullità di protezione racchiudono, implicitamente, caratteristiche appartenenti alla disciplina classica della nullità, come l’imprescrittibilità dell’azione, e caratteristiche dell’annullabilità, come la legittimazione ristretta; tuttavia, nel disciplinare gli interessi dei quali mediante le stesse viene garantita tutela è più arduo comprenderne la categorizzazione, ovvero farli rientrare fra le affinità dell’una o dell’altra disciplina, poiché, come l’annullabilità, persegue, come il rigor di logica porti a dedurre, interessi di tipo individualistico, in quanto tutela prettamente e rigidamente la figura del contraente debole e ulteriori soggetti in precedenza specificati, pur garantendo una tutela anche verso interessi generali, dacchè, in via consequenziale ed estensiva, proteggendo il singolo, si va a garantire anche il funzionamento del mercato, sostenendo e sviluppando la libera concorrenza, a discapito dell’accrescimento e diffusione dello sfruttamento delle posizioni dominanti e delle situazioni di abuso, collocando così il suo ruolo e la sua portata in un contesto più vasto della singola sfera dell’individuo, regolando il complessivo sistema del mercato..

La sentenza in commento, che si innesta nel dibattito in tema di nullità di protezione, sancisce che la validità del provvedimento n. 55/2005 della Banca d’Italia opera anche per le fideiussioni omnibus rilasciate successivamente al medesimo. Lo schema ABI sanzionato da Banca d’Italia con il provvedimento medesimo ha, dunque, natura di fideiussione e non di contratto autonomo di garanzia. Sussiste, pertanto, la necessità, per la banca creditrice, di interrompere il termine decadenziale ex art. 1957 c.c., agendo giudizialmente verso il fideiussore, a nulla rilevando una eventuale intimazione di pagamento mediante lettera raccomandata.

 

Protective nullities contain characteristics belonging to the classical discipline of nullity, such as the imprescriptibility of the action, and characteristics of annulability, such as restricted legitimacy; however, in regulating the interests whose protection is guaranteed through them, it is more difficult to understand their categorisation, or to make them fall within the affinities of one or the other discipline, since, like annulability, it pursues, like the rigor of logic leads to the inference of individualistic interests, as it purely and rigidly protects the figure of the weak contractor and other previously specified subjects, while also guaranteeing protection towards general interests, since, consequentially and extensively, by protecting the individual, we go to also guarantee the functioning of the market, supporting and developing free competition, to the detriment of the growth and diffusion of the exploitation of dominant positions and situations of abuse, thus placing its role and its scope in a broader context than the single sphere of the individual, regulating the overall market system.

The ruling in question, which is part of the debate on the nullity of protection, establishes that the validity of provision no. 55/2005 of the Bank of Italy also operates for omnibus guarantees issued subsequently to the same. The ABI scheme sanctioned by the Bank of Italy with the same provision has, therefore, the nature of a guarantee and not of an independent guarantee contract. There is, therefore, the need for the creditor bank to interrupt the limitation period pursuant to art. 1957 c.c. acting judicially towards the guarantor, noting any demand for payment by registered letter to no avail.

 

Sommario: 1. Brevi note introduttive. - 2. Premesse in fatto. – 3. Sulla interruzione del termine decadenziale ex art. 1957 c.c.: tra profili dogmatici, mercato e concorrenza. -  4. Riflessioni conclusive in tema di nullità parziale con funzione protettiva: tra categorie dogmatiche del diritto dell’economia e  limiti di un approccio basato sull’analisi economica del diritto.

 

  1. Brevi note introduttive.

 

La validità (rectius invalidità) delle fideiussioni omnibus ha dato il via ad una vera e propria querelle giurisprudenziale, non ancora del tutto sopita. Si particolare interesse è, sul profilo dogmatico, esplorare la vexata quaestio delle fideiussioni omnibus redatte in violazione della normativa antitrust e a fornire una nuova chiave di lettura della materia, in tema antiusura. Particolare riguardo assumono, in tale prospettiva, la conformità delle clausole contenute nel contratto di fideiussione rispetto al modello ABI, nonché all’applicabilità delle norme a tutela dei consumatori, alla violazione dei termini di decadenza ex art. 1957 c.c., della forma scritta ad substantiam ed ai criteri di diligenza e buona fede richiesti all’intermediario finanziario[1].

Lo sviluppo esponenziale del diritto privato europeo e la continua evoluzione del diritto dell’economia richiedono un impegnativo sforzo ricostruttivo, proiettato verso la ricerca di principi ordinanti e verso la ridefinizione del rapporto tra le categorie interne tradizionali e le nuove categorie di matrice euro-unitarie.  La Comunità ha dedicato i suoi primi trent’anni alla rimozione degli ostacoli al mercato interno, cui ha invece opposto la difesa del principio di libera concorrenza.

Il liberismo delle prime scelte di politica economica si è evoluto nei trattati degli anni Novanta che ad esso hanno accostato anche un programma di interventi di politica sociale, e così, mentre il Trattato Ce si limitava a indicare come obiettivo dell’azione economica comunitaria un’economia di mercato aperto e in libera concorrenza, ora il Trattato di Lisbona utilizza una diversa e suggestiva formula: economia sociale di mercato.

Alla luce di questa formula vanno riletti i dogmi e le categorie generali del diritto dei contratti.

Il settore di intervento principale è stato la tutela del consumatore, oggetto di una marcata specializzazione di disciplina in ragione dei soggetti protagonisti dell’operazione economica, volta in particolare a predisporre strumenti giuridici capaci di riequilibrare rapporti contrattuali sbilanciati a causa di asimmetrie[2] informative e di diverso potere economico tra le parti interessate.

Tra i meccanismi volti a garantire tale risultato, vi sono le c.d. nullità speciali di protezione.

La nullità di protezione è il rimedio posto a presidio del contenuto minimo e inderogabile del contratto del consumatore e volto, innanzitutto, a reagire all’introduzione di clausole abusive, con la conseguente inefficacia esclusivamente della parte del regolamento contrattuale o della singola clausola contra legem. L’istituto delle “nullità di protezione” si inquadra nell’ampia categoria dell’invalidità del contratto e più in generale nell’esigenza di garantire tra i protagonisti dei traffici giuridici ed economici il principio della c.d. “negoziazione consapevole ed informata[3]”.

  1. Premesse in fatto.

 

 Con la sentenza in commento, il Tribunale di Roma ha accolto la domanda proposta dai fideiussori nei confronti della banca. Precipuamente, la medesima aveva ad oggetto la declaratoria di nullità parziale[4] (circoscritta in particolare alla c.d. clausola derogativa dell’art. 1957 c.c.) di una fideiussione omnibus conforme allo schema ABI ritenuto lesivo della normativa Antitrust da Banca d’Italia con provvedimento n. 55/2005, nonchè la conseguente intervenuta decadenza della banca per violazione del termine semestrale ex art. 1957 c.c. (per non avere la stessa agito giudizialmente nei confronti del debitore principale e/o dei fideiussori entro il termine di sei mesi dalla data di risoluzione e/o revoca del finanziamento), con conseguente liberazione dei garanti dal vincolo fideiussorio.

Giova rilevare, sul piano ricostruttivo che, a fondamento della decisione, il Tribunale ha richiamato talune ricostruzioni ermeneutiche cristallizzate dalla Cassazione Civile, Sezioni Unite, con la sentenza n. 41994/2021.

Secondo il Consesso, a seguito della perimetrazione della disciplina di riferimento e ripercorso le diverse tesi dottrinali e giurisprudenziale, ha sancito che tra le diverse forme di tutela, quali quella obbligatoria (e conservativa, talvolta) del risarcimento  e quella demolitoria della nullità totale - nullità parziale) riconoscibili al garante, quella che perviene a risultati allineati con le finalità e gli obiettivi perseguiti dalla normativa Antitrust sia rappresentata dalla nullità parziale, essendo essa circoscritta a tre peculiari clausole.  

Nel 2002, infatti, è stato redatto uno schema negoziale per il contratto di fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) e la Banca d’Italia – allora autorità garante della concorrenza degli istituti di credito – evidenziava l’esistenza di clausole restrittive della concorrenza. In particolare, le critiche riguardavano le clausole 2, 6 e 8 del citato schema contrattuale che si riportano:

  1. a) la clausola di reviviscenza secondo cui il fideiussore deve “rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo” (art. 2);
  2. b) la clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 c.c. a mente della quale “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall'art. 1957 c.c., che si intende derogato” (art. 6)
  3. c) la clausola di sopravvivenza secondo la quale “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l'obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate” (art. 8).

La decisione in commento ha il pregio di ribadire che la Legge Antitrust[5] detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari, non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, in particolare i consumatori, tenuto conto che il contratto a valle costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti, ragion per cui in tale prospettiva il garante è legittimato ad esperire sia la tutela reale che quella risarcitoria[6].

Il Tribunale, nella decisione de qua, sancisce, sul piano eminentemente rimediale,   che il riconoscimento alla vittima dell’illecito anticoncorrenziale del diritto a far valere la nullità parziale del contratto si rivela un adeguato completamento del sistema delle tutele: tale riconoscimento, invero, non opera nell’interesse esclusivo del singolo, bensì in quello pubblicistico ed inderogabile della trasparenza e della correttezza del mercato[7], posto a fondamento della normativa Antitrust.

Peraltro, si ribadisce che la sanzione demolitoria della nullità delle “intese” prevista dal disposto di cui all’art. 2 della Legge n. 287/1990 non attiene soltanto il negozio giuridico originario collocatosi all’origine (o a monte) della successiva sequenza comportamentale.

Essa, secondo tale ricostruzione, al contrario, ha riguardo alla situazione, intesa nella sua interezza, anche successiva al negozio originario, realizzando un ostacolo o una limitazione al libero mercato e alla concorrenza. Dunque, si statuisce che la violazione della normativa Antitrust è riscontrabile se – in concreto - tra intesa a monte e contratto a valle sussista un nesso tale da far apparire la connessione tra i due atti funzionale a produrre un effetto anticoncorrenziale e, dunque, impeditivo dell’ottimale allocazione delle risorse in senso paretiano, con conseguente diminuzione del surplus del consumatore; tale “nesso funzionale”, invero, si riscontra proprio quando quest’ultimo è interamente o parzialmente riproduttivo dell’intesa anticoncorrenziale a monte.

In tale prospettiva, i singoli contratti “a valle” rappresenterebbero (secondo alcuni quale atto meramente esecutivo di un contratto di mandato stipulato ab origine o, ancora, quale propaggine di un contratto normativo o master agreement “a monte”) lo strumento di attuazione dell’intesa anti-concorrenziale vietata. Stante quanto sopra, il Tribunale ha ribadito che il Giudice, lungi dal dover accertare se successivamente le banche hanno dato concreta attuazione all’intesa restrittiva della concorrenza attraverso l’uniforme applicazione delle tre clausole ritenute illecite dal provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005, deve limitarsi a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidono o meno con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva della concorrenza. La decisione in commento sembra aderire, dunque, al filone giurisprudenziale rappresentato in primis dell’ordinanza n. 27545/2023 della Corte di Cassazione. Invero, la medesima ha dichiarato la nullità parziale di una fideiussione rilasciata successivamente al provvedimento n. 55/2005 di Banca d’Italia. In tale occasione, il Tribunale ha sancito, sul piano dogmatico, che “ciò che rileva non è la diffusione del modulo ABI, da cui non sia state espunte le clausole in questione, ma la coincidenza delle clausole col testo di uno schema contrattuale espressivo della vietata intesa restrittiva[8]”. Il Tribunale, dopo aver accertato la conformità della fideiussione in esame allo schema ABI sanzionato per lesione della normativa Antitrust da Banca d’Italia, ha dichiarato la nullità della c.d. clausola derogativa dell’art. 1957 c.c. per violazione della normativa Antitrust[9] ed ha, conseguentemente, dichiarato l’intervenuta decadenza della banca dalla possibilità di agire nei confronti dei fideiussori per violazione del termine semestrale[10].

Ed, infatti, nella fattispecie in esame, la banca aveva comunicato al debitore principale ed ai fideiussori la risoluzione e/o la revoca del finanziamento con nota del 14 novembre 2018, senza poi agire giudizialmente nei successivi sei mesi. Sul punto, il Tribunale non ha condiviso la ricostruzione della banca, secondo cui la fideiussione “a prima richiesta”, rivestendo i caratteri del contratto autonomo di garanzia, consentirebbe alla banca di interrompere il termine semestrale ex art. 1957 c.c. con un mero atto stragiudiziale (es: intimazione di pagamento).

 

  1. Sulla interruzione del termine decadenziale ex art. 1957 c.c.: tra profili dogmatici, mercato e concorrenza.

 

A fondamento della decisione, il Tribunale ha puntualmente evidenziato che l’intimazione di pagamento potrebbe rappresentare atto idoneo ad interrompere il termine decadenziale ex art. 1957 c.c. solamente nell’ambito dei contratti autonomi di garanzia, ove il venir meno del rapporto di accessorietà[11] con l’obbligazione principale giustifica un’attenuazione della pretesa diligenza richiesta dal 1957 c.c. da parte del creditore rispetto alle istanze proposte nei confronti del debitore principale. Parimenti, la sentenza de qua statuisce che la garanzia in esame prevede solamente la clausola “a prima richiesta” e non anche la clausola “senza eccezioni”: conseguentemente, sul piano applicativo, la stessa deve necessariamente essere ricondotta alla comune fideiussione (e non al contratto autonomo di garanzia come invece ventilato dalla banca). A tal uopo, a nulla rileverebbe, sul piano qualificatorio, il nomen juris conferito, peraltro, dagli stessi contraenti. Il medesimo, sebbene non sia preclusivo ad una diversa qualificazione giuridica, risulta, in tale prospettiva, esplicativo della volontà delle parti e rilevante ai fini dell’inquadramento della garanzia in esame nella categoria delle fideiussioni, non rinvenendosi altri elementi dai quali sia possibile desumere una diversa qualificazione. Dunque, vertendo il caso sottoposto al Tribunale in materia di contratto di fideiussione, e non avendo riguardo contratto autonomo di garanzia, occorre avere riguardo al disposto di cui all’art. 1957 c.c. con cui si impone al creditore di proporre la sua “istanza” contro il debitore entro sei mesi dalla scadenza per l’adempimento dell’obbligazione garantita dal fideiussore, a pena di decadenza dal suo diritto verso quest’ultimo. Il medesimo è idoneo a rappresentare un inducement o mezzo di coercizione indiretta nei confronti del creditore, affinchè lo stesso prenda sollecite e serie iniziative contro il debitore principale per recuperare il proprio credito. La ratio è evitare la posizione del garante non resti indefinitamente sospesa; il termine “istanza” si riferisce pertanto ai vari mezzi di tutela giurisdizionale del diritto di credito, in via di cognizione o di esecuzione, che possano ritenersi esperibili al fine di conseguire il pagamento, indipendentemente dal loro esito e dalla loro idoneità a sortire il risultato sperato. La sentenza in commento rappresenta, alla luce di quanto brevemente ricostruito, un ennesimo tassello di grande utilità operativa e dogmatica che si innesta nel complesso e multiforme mosaico del contenzioso avente ad oggetto la nullità parziale[12] della fideiussione per violazione della normativa Antitrust. La sentenza scioglie, invero, diversi nodi cruciali, aventi rilevanza dogmatica, da un lato, e pratico-applicativa, dall’altra. In particolare, deve aversi riguardo alla querelle sulla validità del provvedimento n. 55/2005 di Banca d’Italia anche per le fideiussioni omnibus rilasciate successivamente a tale provvedimento (di fatto è sufficiente che la garanzia oggetto di contestazione sia sostanzialmente conforme allo schema ABI 2003, a nulla rilevando la data di rilascio della garanzia); si affronta, ripercorrendo i diversi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in  punto di natura di fideiussione (e non di contratto autonomo di garanzia) dello schema ABI sanzionato da Banca d’Italia con provvedimento n. 55/2005. Infine, si ribadisce, sul piano operativo, la necessità, per la banca, di interrompere il termine decadenziale ex art. 1957 c.c. con una “istanza” giudiziale, a nulla rilevando una eventuale intimazione di pagamento.

 

  1. Riflessioni conclusive in tema di nullità parziale con funzione protettiva: tra categorie dogmatiche del diritto dell’economia e limiti di un approccio basato sull’analisi economica del diritto.

 

Come anticipato, la validità (rectius invalidità) delle fideiussioni ha dato il via ad una vera e propria querelle giurisprudenziale, non ancora del tutto sopita. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con Ordinanza 19 novembre 2015, C-74/15, si è pronunciata in tema di clausole abusive per i contratti di fideiussione e di garanzia immobiliare stipulati con i consumatori. I Giudici – chiamati ad esprimersi, nella fattispecie in esame, su di una controversia fra un consumatore finale ed un intermediario finanziario – hanno affermato che tali contratti devono essere interpretati in base alla Direttiva 5 aprile 1993, n. 93, e – più precisamente – in base al principio che afferma: «gli articoli 1, paragrafo 1 e 2, lettera b), della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che tale direttiva può essere applicata a un contratto di garanzia immobiliare o di fideiussione stipulato tra una persona fisica e un ente creditizio al fine di garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di detto ente in base a un contratto di credito, quando tale persona fisica ha agito per scopi che esulano dalla sua attività professionale e non ha alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta società». Questa tutela rileva particolarmente nel caso di un contratto di garanzia o di fideiussione stipulato fra un istituto bancario e un consumatore: tale contratto si basa infatti su un impegno personale del garante o del fideiussore al pagamento del debito contratto da un terzo. L’impegno comporta, per chi vi acconsente, obblighi onerosi che hanno l’effetto di gravare il suo patrimonio di un rischio finanziario spesso difficile da misurare. I Giudici europei aditi affermano, inoltre, che nel caso di una persona fisica che abbia garantito per l’adempimento delle obbligazioni di una società commerciale, spetta al giudice nazionale determinare se tale persona abbia agito nell’ambito della sua attività professionale o sulla base dei collegamenti funzionali che la legano a tale società – ad esempio, amministrazione della società stessa o partecipazione non trascurabile al capitale sociale – o se abbia agito per scopi di natura privata. Nell’ordinanza de qua, la Corte ha affermato che l’art. 1, paragrafi 1 e 2, lett. b), Direttiva n. 93/2013, deve essere interpretato nel senso che tale Direttiva può essere applicata a un contratto di garanzia immobiliare o di fideiussione stipulato tra una persona fisica e un ente creditizio al fine di garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di detto ente in base a un contratto di credito, quando tale persona fisica ha agito per scopi che esulano dalla sua attività professionale e non ha alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta società.

La nullità parziale, in questa prospettiva rimediale e conformativa, assume un'importanza determinante, anche nella materia dei contratti dei consumatori.

Secondo gli orientamenti ormai invalsi della Corte di Giustizia, il giudice è chiamato a valutare se la nullità parziale sia rimedio effettivo, proporzionato e persino dissuasivo (c.d. disinducement o strumento di coercizione indiretta) e non potrà farlo senza interrogarsi sulle conseguenze della nullità per le sorti del contratto, sull'effettivo riequilibrio tra diritti e obblighi significativamente alterato dall'abuso del professionista, sulla ragionevolezza del rimedio in termini di deterrenza generale.

In questa valutazione, in ragione dei peculiari poteri officiosi e degli atti di impulso del contraddittorio tra le parti, la nullità parziale[13] opera in combinazione quasi inscindibile con quello che, nella giurisprudenza euro-unitaria, finisce per essere un complemento determinante del rimedio invalidatorio: l'integrazione del contratto o la denegazione della stessa. Fortemente ancorata a un'effettività della tutela, che è in primis strumento di deterrenza e di garanzia dell'effetto utile delle direttive e poi la base del diritto fondamentale al rimedio effettivo ex art. 47, Carta di Nizza, l'integrazione del contratto retrocede a co-elemento residuale della tutela consumeristica, soggetto al vaglio del giudice e al peso delle preferenze del consumatore. La sua ‘denegazione' diventa la regola, la sostituzione della clausola l'eccezione.

L'indagine ermeneutica operata consente di osservare i meriti di un approccio europeo capace di arricchire, in via elastica, la gamma dogmatica di rimedi civilistici classici di nuove funzioni e di proiettarli verso i traguardi di una tutela piena, effettiva, proporzionata e, in una logica di sistema, anche dissuasiva rispetto alla violazione. Al tempo stesso, lascia intravedere i molti vuoti di un dialogo tra Corti nazionali e Corte di Giustizia che, per forza di cose, reagisce a sollecitazioni puntuali, inserite in contesti determinati, non sempre del tutto accessibili in una prospettiva sovranazionale.

Il timore è che l'argomento fondato sulla dissuasività del rimedio abbia spinto la Corte a sottovalutare il ruolo dell'etero-integrazione in funzione protettiva del consumatore e finisca così per generare tensioni non necessarie tra diritto europeo e legislatori nazionali, a cui invece potrebbe in molti casi riconoscersi il merito di una normazione suppletiva altrettanto rispettosa dei principi di effettività, dissuasività e proporzionalità delle tutele.

Ugualmente critica è, sotto questo profilo, quell'aprioristica denegazione di ruolo all'integrazione giudiziale, anche se prevista dai sistemi nazionali, come se, nello specifico ambito della determinazione degli effetti della nullità parziale, il giudice cessasse di essere l'interprete di una legislazione per principi, che lo stesso diritto europeo ha contribuito a valorizzare.

Del resto, nonostante l'intenso susseguirsi di pronunce, il dialogo tra corti nazionali e Corte di Giustizia ha ancora molti traguardi da conquistare in questo ambito.

Lo stesso New Deal for consumers, con la previsione di un rimedio caducatorio a fronte della pratica commerciale scorretta, potrebbe generare nuove questioni in merito all'alternativa tra caducazione totale e caducazione parziale del contratto affetto da pratica scorretta abbinata all'uso di clausole vessatorie.

Ugualmente, nel campo del credito al consumo, in cui è lo stesso diritto europeo ad aver sollecitato i legislatori nazionali ad adottare norme dispositive di riferimento (come nella determinazione del costo del credito o del valore dell'indennizzo in caso di restituzione anticipata), la sostituzione della clausola potrebbe riacquistare quel valore conformativo che le è già proprio nei sistemi nazionali, a cui forse è ragionevole rinunciare a favore di un più pesante ruolo sanzionatorio della nullità solo nei casi più gravi.

In questo trascolorare della tutela civile verso orizzonti propri delle forme pubblicistiche di attuazione dei diritti, è importante riflettere sull'essenza della nullità parziale di stampo consumeristico: un rimedio che, inerente all'atto, punta al riequilibrio di posizioni individuali all'interno di una relazione strutturalmente diseguale. Se, dunque, effettività, proporzionalità e dissuasività sono ormai comunemente applicate tanto alle sanzioni quanto ai rimedi, il loro uso dovrebbe essere correlato alla natura e alla funzione primaria di ciascuna misura disposta dal giudice. Nel caso della nullità parziale, ciò significa garantire che, attraverso il rimedio, la parte protetta dalla nullità sia in grado di recuperare effettivamente le utilità perdute, di liberarsi dagli oneri o i rischi ingiustamente assunti; non invece che, in ragione di una funzione deterrente del rimedio, consegua arricchimenti ingiustificati o vada esente da responsabilità proprie.

Del resto, il principio di proporzionalità non lo consentirebbe. In tale prospettiva, assume rilevanza peculiare la clausola generale della buona fede e il principio di solidarietà sociale. Il sistema della nullità speciale di tipo parziale, sulla scorta di un orientamento euro-unitario, consente di disegnare un assetto negoziale di intessi peculiare, in un’ottica di ottimale allocazione delle risorse economiche e finanziare, nonché del rischio di “inadempimento”, in riferimento ex multis agli obblighi informativi[14], alle regole di validità e alle regole di condotta (c.d. ottimo paretiano). La nullità di protezione – in via redistributiva-compensativa e, in parte, deterrente – alloca – entro i limiti dell’exceptio doli generalis - il rischio di “inadempimento” a carico dell’intermediario.

La nullità parziale – in un’ottica di analisi economica del diritto - opera quale fonte di inducement, o mezzo di coercizione indiretta, nei confronti dell’intermediario finanziario, affinché adempia all’obbligazione dedotta nel contratto e si comporti ex bona fide.

Gli incentivi o mezzi di coercizione indiretta sono importanti e guidano il comportamento umano; i medesimi, spesso, rappresentano qualcosa in più di mera prospettiva di guadagno monetario. La produzione e la tipizzazione di regole giuridiche, così come delle ipotesi patologiche della nullità, spesso, si basa su predizioni – secondo l’id quod plerumque accidit -  circa la misura in cui le persone risponderanno alle regole giuridiche e ai vincoli istituzionali. Molti dei primi contributi alla analisi economica del diritto sono stati profondamente influenzati da modelli di scelta razionale, della prassi contrattuale e dalle teorie comportamentali dell’azione umana, che hanno tradizionalmente fornito le basi teoretiche per tale predizione.

La complessità messa in luce da queste nuove dimensioni della moderna, elastica e non più dogmatica teoria dell’autonomia privata – ex art. 1322 c.c. – e delle ipotesi di nullità classiche porteranno al graduale sviluppo di modelli economici più complessi[15].  È, allora, opportuno domandarsi, in via generale, se tali rimedi siano adeguati a realizzare l'esigenza di sopperire alle negligenze dei soggetti intermediari e, se siano capaci di svolgere una funzione di deterrenza rispetto alle condotte illecite degli operatori medesimi.

Invero, nell’ambito della disciplina dei mercati finanziari, anche prima della MiFID II, si era posto il problema di determinare quale fosse il rimedio esperibile dall'investitore danneggiato dall'inosservanza, da parte dell'intermediario finanziario delle regole di condotta di cui all'art. 21 t.u.f., posto che l'unico rimedio positivizzato è quello risarcitorio giacché all'art. 23, comma 6, t.u.f. si prevede nei giudizi in cui spetti all'investitore il diritto al risarcimento del danno, l'inversione dell'onere della prova a carico dell'intermediario finanziario il quale deve dimostrare di aver agito con la diligenza specifica richiesta.

Occorre premettere che i rimedi per la violazione degli obblighi comportamentali[16] degli intermediari finanziari servono a ridistribuire le perdite da inefficienze, operando quali strumenti di correzione delle stesse. Tuttavia, essi incidono sul rapporto intermediario-investitore, per tale ragione si tende a guardare per lo più al rimedio tipico del rapporto – quale il risarcimento del danno subito – confidando che quest'ultimo sia il più adatto a rimediare alla violazione degli obblighi informativi, di trasparenza e, nel caso di conflitto di interessi, alla distribuzione di prodotti finanziari. Guardando anche al contratto – fonte del rapporto di intermediazione finanziaria – gli interpreti hanno, dapprima, sostenuto posizioni più protezionistiche prospettanti l'invalidazione per violazione di regole impositive di obblighi informativi in capo agli intermediari. In diversi pronunciamenti la giurisprudenza ha sostenuto che gli obblighi informativi debbano qualificarsi quale elemento strutturale del contratto derivandone che, laddove l'informazione non fosse fornita, oppure fosse incompleta/scorretta, il rimedio di cui avvalersi sia la nullità virtuale.

Successivamente, le Sezioni Unite, in due sentenze gemelle, basandosi sul principio di separazione tra regole di validità e regole di condotta – specificandone ciò che ne deriva – ha perimetrato i rimedi sanzionatori attivabili nelle ipotesi di violazioni aventi ad oggetto regole comportamentali, affermando che l'infrazione delle regole di condotta cui sono tenuti gli intermediari finanziari – che si basano sulla buona fede e correttezza – comporti la responsabilità risarcitoria, sì da ridurre l'ampio spazio concesso al rimedio invalidante.

Ha trovato così accoglimento la diversa soluzione per cui la violazione degli obblighi di comportamento, che si collocano in tutte le fasi contrattuali, comporta l'inadempimento contrattuale. Sicché la risoluzione del contratto-quadro trova la sua giustificazione nell'inadempimento dell'intermediario, consistente nella violazione dei doveri inerenti alla prestazione del servizio di intermediazione[17]. La nullità può essere invocata solo laddove le operazioni d'investimento non siano state precedute dalla stipula di un contratto quadro in forma scritta. Tuttavia, la difficoltà degli interpreti è stata quella di qualificare l'operazione d'investimento, in quanto essa si compone, non già di un unico atto negoziale, ma di un rapporto originario cui seguono diversi atti esecutivi. Ciò ha implicato che la valutazione sull'importanza dell'inadempimento possa riguardare il contratto-quadro o il singolo ordine di esecuzione, discendendone conseguenze diverse nell'un caso o nell'altro. In particolare, con riferimento al singolo ordine di esecuzione la giurisprudenza recentemente ha consolidato l'orientamento per cui dall'inadempimento dell'intermediario nell'esecuzione del singolo ordine di investimento derivi la risoluzione del singolo ordine di investimento, giacché considerato quale atto di natura negoziale autonomo rispetto al contratto-quadro. Vale la pena solo di accennare che poco seguito ha avuto, invece, la tesi che prospettava l'annullabilità del contratto per vizio del consenso, in considerazione della funzione che tale rimedio è chiamato a svolgere, operando in quelle situazioni di squilibrio contrattuale dovute ad una condotta illecita di una delle parti.

Il dibattito, tutt'altro che sopito, è, ora, fortemente catalizzato dalla questione della ripartizione dell'onere probatorio. Dall'esame della casistica si evidenzia, infatti, che la giurisprudenza è fortemente concentrata nella rilettura della distribuzione dell'onere probatorio nei giudizi di responsabilità[18]. L'orientamento prevalente afferma che l'investitore dovrebbe individuare l'inadempimento dell'intermediario allegando in modo specifico la norma che ritiene violata dal medesimo.

In secondo luogo, il danneggiato dovrebbe fornire la prova – anche per presunzioni – del conseguente danno emergente e lucro cessante ai sensi dell'art. 1223 c.c., consistente almeno nella perdita in tutto o in parte del capitale investito. Infine, la sessa giurisprudenza ritiene debba sussistere un nesso causale fra l'inadempimento dell'intermediario e il danno subito dal cliente è presunta, dal momento che l'inosservanza dei doveri informativi costituisce di per sé un fattore di disorientamento per l'investitore. L'intermediario finanziario può vincere tale presunzione fornendo la prova positiva di sopravvenienze atte a deviare il corso della catena causale. Riguardo alla violazione della regola di adeguatezza e l'esatta ripartizione dell'onere probatorio, la Cassazione non si è ancora pronunciata. Occorrerà, dunque, attendere per verificare se l'orientamento appena descritto è suscettibile di applicazione anche ai casi di violazione della regola di adeguatezza. La risposta, auspicabilmente, potrebbe essere positiva ove si consideri che la regola di adeguatezza trova la propria fonte nella norma inderogabile posta dall'art. 21 t.u.f. I giudici potrebbero traslare la soluzione anche ai casi di violazione della regola di adeguatezza, ritenendo sussistente la medesima presunzione circa il nesso causale tra evento e il danno. In tale prospettiva, occorre rileggere l’auto-responsabilità alla luce delle differenze previste dalle disposizioni normative tra adeguatezza e appropriatezza. A ben vedere, però, il sistema regolatorio ponendo l'accento sull'attività di impresa, (in particolare all'attività di concepimento dei prodotti di investimento) potrebbe aprire la possibilità di configurare un più specifico apparato di responsabilità in capo all'impresa manufacturer[19]. Al riguardo, occorre analizzare il Considerando n. 71 della Direttiva 2014/65 che, imponendo ai «produttori» di garantire «che tutti i rischi specificamente attinenti a tale target siano stati analizzati», potrebbe essere letto nel senso che l'impresa produttrice garantisce l'assoluta completezza della sua analisi e pertanto, in ipotesi di contestazione, egli dovrà provare di aver adottato le procedure necessari e ad escludere rischi non evidenziati. Del resto, l'attività di concepimento del prodotto finanziario ben potrebbe rientrare tra le attività continuate ed organizzate che cagionano statisticamente molti incidenti, dalle conseguenze molto gravi. Ciò potrebbe indurre l'interprete a ritenere che la suddetta attività sia qualificabile quale attività pericolosa, derivandone la configurabilità di una responsabilità di cui all'art. 2050 c.c.  Se ne inferisce che il risparmiatore che abbia subìto un danno e lamenti che esso sia derivato da una negligente effettuazione della Product governance potrebbe esercitare un'azione ex art. 2050 c.c. nei confronti di un'impresa produttrice. Se fosse ammissibile un'azione ex art. 2050 c.c. nei confronti del manufacturer da parte di un risparmiatore che abbia subìto un danno il quale lamenti che esso sia derivato dal non aver governato i rischi connessi alla circolazione del prodotto (in ragione di un target market di riferimento) ne discenderebbero rilevanti ricadute applicative, sia con riguardo all'onere della prova, che al danno risarcibile.

È d'uopo rimarcare che la regola di cui al 2050 c.c. ha visto negli ultimi anni un significativo ampliamento della sua portata applicativa da parte della giurisprudenza con il fine di assicurare una posizione di favore per il danneggiato, anche laddove l'attività posta in essere dal danneggiante risulti scarsamente significativa sul piano del pericolo. In questa prospettiva, si è fatto riferimento ad attività che secondo l'interpretazione tradizionale sembravano non possedere quel connotato di pericolosità nello svolgimento o nei mezzi adoperati richiesto dall'art. 2050 c.c.[20] Circa la natura di tale fattispecie di responsabilità l'orientamento oggi prevalente individua nell'art. 2050 c.c. un'ipotesi di responsabilità assimilabile a quella oggettiva. Ciò viene desunto dal regime della prova liberatoria posta in capo all'esercente l'attività, che esula dalla dimostrazione di un'assenza di colpa ed è talmente rigorosa da essere equiparata al caso fortuito. Quanto ai presupposti, la giurisprudenza parte dall'assunto che sia indispensabile l'accertamento di un nesso di causalità tra l'attività o la cosa e il danno patito dal terzo[21]. Al riguardo la Cassazione ha più volte affermato che deve ricorrere la duplice condizione: che il fatto costituisca un antecedente necessario dell'evento, nel senso che quest'ultimo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto; e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento o sia riconducibile ad una causa ignota o incerta. Da questi pochi elementi viene in rilievo che ricostruire in termini di responsabilità da attività pericolose l'attività del manufacturer non esimerebbe il danneggiato dal difficile onere di provare la sussistenza del nesso eziologico tra l'esercizio dell'attività pericolosa e l'evento dannoso, non potendo il soggetto agente essere investito di una presunzione di responsabilità rispetto ad un evento che non è ad esso in alcun modo riconducibile. Quest'ultima è prova che in passato ha posto problemi di accertamento, potendosi dubitare che il pregiudizio subito derivi dalla mancata o falsa informazione. Ciò ha indotto i giudici a ricorrere alle presunzioni di causalità enunciate, giacché il meccanismo presuntivo facilita l'accertamento dell'incidenza della condotta negligente dell'intermediario[22]. Ne emerge che imputare agli intermediari finanziari una responsabilità per esercizio di attività pericolose, ex art. 2050 c.c. porterebbe a scardinare il consolidato orientamento della giurisprudenza che si pone nella direzione dell'effettività dell'adempimento degli obblighi d'informazione in quanto la mera violazione dell'obbligo informativo in capo all'intermediario, insieme alla prova del danno, determina una presunzione di sussistenza del nesso causale.

Sono, dunque, utili, anche in tema di allocazione dell’onere probatorio, gli spunti dell’analisi economica del diritto; tuttavia, la sanzione della nullità parziale[23] (quale rimedio reale) dovrebbe, auspicabilmente, affiancarsi al rimedio obbligatorio del risarcimento del danno. A complicare il quadro ricostruttivo, che, in parte, già evidenzia i limiti della Law & Economics, si pone il peculiare regime di specialità della nullità di protezione, con riguardo, ad esempio, alla ristretta legittimazione ad agire e con il rischio di comportamenti opportunistici derivanti dall’utilizzo strumentale dell’exceptio doli generalis. La disciplina della Law & Economics, sebbene funzionale ad una ottimale allocazione del rischio di “inadempimento” – lato sensu inteso – dell’intermediario, non si attaglia del tutto, alle categorie dogmatiche proprie del diritto civile, con particolare riguardo alla prospettiva dei rimedi invalidatori[24] o di conformazione del contratto alle norme inderogabili a tutela del mercato.  Al fine di introdurre norme giuridiche efficienti, anche sulla scorta dello sviluppo del diritto privato europeo, si ritiene essenziale tenere conto degli errori cognitivi in cui incorrono gli operatori del mercato. Infatti, una volta preso atto che ogni individuo è potenzialmente affetto da illusioni cognitive o deviazioni sistematiche da un ragionamento astrattamente efficiente, lo scopo del legislatore non è più (solo) quello di proteggere – in via eminentemente paternalistica - quegli individui che ‘patologicamente’ deviano dal modello dell’homo oeconomicus, perché incapaci di intendere o di volere, bensì quello di correggere, per la generalità dei soggetti di diritto, comportamenti che possano portare a un fallimento del mercato, nonché ad una allocazione non ottimale delle risorse[25].  È certo, però, che il percorso così intrapreso si è avvalso dell’apporto, decisivo, del materiale giuridico sovranazionale e, specialmente, dei principi enucleati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, di cui, pertanto, è necessario dare conto, seppure in estrema sintesi, al fine di saggiare di come il dialogo con la Corte di cassazione si sia tradotto, in ambito nazionale, nella materia contrattuale. Principi, quelli della Corte di Lussemburgo, che si sono evoluti diacronicamente secondo una direttrice guidata dal consueto pragmatismo che connota gli interventi di quel giudice, spesso a geometria variabile, anche perché l’azione comunitaria nella materia contrattuale si sviluppa eminentemente in base ad esigenze, concrete, di politica economica piuttosto che farsi tentare da una compiuta e ineccepibile architettura di sistema. È, come noto, una politica orientata anche da dettami ordoliberisti, che mirano all’efficienza del mercato pure attraverso l’eliminazione di quelle situazioni di debolezza che ne minano il corretto funzionamento[26].

Pare immanente, in conclusione, un canone di “ordine pubblico di protezione”, per l’appunto, fondativo della predetta categoria dogmatica demolitoria, attraverso lo strumento negoziale, di “una politica dirigistica di ricerca dell’equilibrio giuridico nei rapporti negoziali non conclusi fra imprenditori.

 

 

 Bibliografia essenziale

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[1] CAPRIGLIONE, SEPE, Riflessioni a margine del diritto dell’economia. Carattere identitario ed ambito della ricerca, in Riv. Trim. Dir. Econ., n. 3, 2021, p. 385 ss.; STAIANO, Notazioni conclusive. Regolazione giuridica ed economia: un problema di diritto costituzionale, in Federalismi.it, 25 ottobre 2019, p. 270; PICOZZA, Il diritto dell’economia, in PICOZZA, RICCIUTO, Diritto dell’economia, 2^ ed., Torino, 2017, p. 3 ss.; LUCHENA, Profili della dimensione istituzionale dei processi economico-sociali sovranazionali, in LUCHENA, TEOTONICO (a cura di), op. cit., p. 20 ss.; COOTER, ULEN, Law and economics, 3rd ed., Addison, Wesley, Longman, 2000, p. 57 ss.; RABITTI, Il ruolo della Corte di Giustizia nel diritto dell'economia, in Analisi Giur. Econ., n. 2, 2018, p. 347 ss.; EAD, La Corte di Giustizia tra scelte di mercato e interessi protetti, in Persona e mercato, n. 4, 2018, p. 220 ss.; AMOROSINO, Le regolazioni pubbliche delle attività economiche, Torino, 2021, p. XII; AMMANNATI, I nuovi centri di regolazione dell’economia, in AMMANNATI, CORRIAS, SARTORI, SCIARRONE ALIBRANDI (a cura di), I giudici e l’economia, Torino, 2018, p. 439 ss.; FRANZONI, MARCHESI, Economia e politica economica del diritto, Bologna, 2006, p. 8; IANNELLO, Il «non governo» europeo dell’economia e la crisi dello Stato sociale, in Dir. Pubbl Eur. – Rassegna online, n. 2, 2015, p. 197 ss.; DI GASPARE, Genesi, metodo e prassi del neoliberismo, in Amministrazioneincammino.it, 20 agosto 2021; DEVOLVÉ, Droit public de l’économie, Paris, 1998, 799, p. 6.

[2] Perlingieri, Riflessioni sul «diritto contrattuale europeo» tra fonti e tecniche legislative, in Id., Il diritto dei contratti fra persona e mercato, Napoli, 2003, p. 485; Morera, Marchisio, Finanza, mercati e regole, ma soprattutto persone, in Analisi giuridica dell'economia, Bologna, 2012, p. 1; R. Pardolesi, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, nota a Cass., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Foro it., 2004, I, pp. 466 ss., il contratto che lega l’impresa all’utente finale costituisce lo strumento attraverso cui la prima attualizza l’oggetto della collusione predisposta con i suoi pari e, nella misura in cui consente alle imprese coinvolte di trarre i frutti della propria condotta, finisce inevitabilmente per assorbirne la natura illecita; Calabrese, Fideiussione omnibus “a valle”: illecito antitrust e nullità (parziale?), in Nuova giur. civ. comm., 2019, III, p. 522; Alessi, Olivieri, La disciplina della concorrenza e del mercato, Torino, 1991, pp. 16 ss.; Floridia, Catelli, Diritto antitrust. Le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante, Torino, 2003, p. 158. A. Di Majo, Nullità del contratto. Le nullità speciali, la nullità rimedio di protezione, le nullità da divieto, in Di Majo et al, L’invalidità del contratto, Torino, 2002, pp. 456 ss.; Vedasi, per una prospettiva di Law & Economics, Pigou, The economics of welfare, London, Mcmillan, 1932, p. 32. Di particolare rilievo è stato il contributo della scuola di Losanna in cui Vilfredo Pareto elaborò il celebre criterio (denominato efficienza paretiana) in forza del quale l’efficienza sarebbe raggiunta quando non sarebbe possibile migliorare il benessere di alcuno senza peggiorare quello di altri. Per un’incisiva analisi dei contributi economici e sociologici di Pareto v. Schumpeter, Vilfredo Pareto (1848-1923), in Q. J. Econ, 1949, p. 147.

 Vedasi anche Nervi, La difficile integrazione tra diritto civile e diritto della concorrenza (note in margine a Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207), in Riv. dir. civ., 2005, p. 4, ove si legge, tra l’altro, che: “la sentenza in commento lascia però intendere, a mio avviso, che non necessariamente la tutela del soggetto del mercato passa attraverso l’invalidazione del contratto a valle. Il problema resta aperto”.

In tal senso, v. per tutti Camilleri, Contratti a valle rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, Jovene, 2008; Scoditti, Il consumatore e l’antitrust, in Foro it., 2003, I, p. 1128 che richiamando la sentenza Cass. Civ.  1 febbraio 1999, n. 827 afferma che “la nozione di intesa eccede la pura dimensione negoziale, e si identifica con un dato comportamentale, «avente al centro l’effettività del contenuto anticoncorrenziale ovvero l’effettività di un atteggiamento comunque realizzato che tende a sostituire la competizione che la concorrenza comporta con una collaborazione pratica», in Foro it., 1999, I, p. 831, con osservazioni di L. Lambo.  Nello stesso senso Negri, Il lento cammino della tutela civile antitrust: luci ed ombre di un atteso grand arret, in Corr. giur., 2005, III, p. 347. Recentemente, proprio in relazione alla vicenda della nullità del contratto a valle riproduttivo dello schema ABI, tenta una simile ricostruzione D’Orsi, Nullità dell’intesa e contratto “a valle” nel diritto antitrust, in Giur. Comm., III, 2019, p. 584. L’Autore, prendendo le mosse dalla circostanza che la Cassazione dichiara di condividere l’affermazione secondo cui l’art. 2, l. 10 ottobre 1990, n. 287, “allorché stabilisce la nullità delle «intese», non abbia inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza”.

La conclusione secondo cui il contratto sarebbe valido, ma suscettibile di determinare una responsabilità ex art. 2043 cod. civ. nei confronti degli utenti di mercato, è sostenuta da Libertini, Autonomia privata e concorrenza, in Riv. dir. comm., 2002, I, p. 452. La tesi contraria all’invalidità del contratto “a valle” sembra condivisa da numerosi precedenti giurisprudenziali: Trib Alba 12 gennaio 1995, in Giur. it., 1996, I, p. 212 ss.; Cass. Civ. 11 giugno 2003, n. 9384, in Foro it., 2004, I, p. 466, con note di Pardolesi, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, F. Ferro-Luzzi, Prolegomeni in tema di mercato concorrenziale e «aurea aequitas» (ovvero delle convergenze parallele), ove si afferma che “se l’accordo antitrust può essere dichiarato nullo, i contratti scaturiti in dipendenza di tale accordo o intesa mantengono la loro validità e possono dar luogo solo ad azione di risarcimento del danno nei confronti dei distributori da parte degli utenti”; App. Torino 27 ottobre 1998, in Banca borsa, 2001, II, p. 87, con nota di Falcone, Ancora sull’invalidità dei contratti «a valle» per contrasto delle «norme bancarie uniformi» con la disciplina antitrust; Trib. Torino, 16 ottobre 1997, ivi, 2001, II, p. 87; T.A.R. Lazio 10 marzo 2003, n. 1790, in Foro amm. T.A.R., 2003, p. 906, che in tema di contratti con la pubblica amministrazione preceduti da un’intesa tra i concorrenti sostiene che “la nullità prevista dall’art. 2, l. n. 287/1990 è da questo riferita [...] alle intese restrittive della concorrenza, e come tali vietate. La norma, invero, qualifica come nulle ad ogni effetto “le intese vietate”, e quindi gli accordi nei quali si estrinsechino i comportamenti restrittivi della concorrenza identificati dallo stesso art. 2. Sicché già da un punto di vista strettamente letterale risulta che la nullità non coinvolge i contratti che possano essere stati conclusi, a valle dell’intesa, tra (una o più delle) imprese aderenti, da un lato, ed un terzo a questa estraneo dall’altro, contratti i quali non ricadono nell’ambito della previsione letterale della norma sulla nullità, hanno una propria causa a sé stante (in questo caso, la causa tipica dell’appalto) e realizzano il corrispondente schema di interessi”; App. Milano  2 febbraio 2005, in Contr., 2006, II, p. 141, con nota di Battelli, Illeciti antitrust e rimedi civili del consumatore; Contro l’invalidità del contratto “a valle”, in sede di commento al primigenio progetto legislativo n. 2076 sulla “tutela della libertà di concorrenza”, anche Schlesinger, Sul problema della responsabilità per i danni derivanti dalla violazione dei divieti previsti dal progetto governativo di legge a tutela della concorrenza, in Riv. soc., 1960, p. 737.

[3] Bastianon, Tutela antitrust del consumatore finale, in Danno e resp., n. 11/2006, p. 1137, muove, da questo punto di vista, serrate critiche alla decisione della Corte d’appello di Napoli, la n. 374, 9 febbraio 2006, nella parte in cui rileva che «per aver l’intesa riguardato soltanto alcune compagnie di assicurazione, il consumatore avrebbe potuto stipulare la propria polizza R.C. auto con una compagnia assicuratrice diversa da quelle sanzionate dall’Autorità garante, con la conseguenza che “l’adesione del consumatore al premio proposto dalla società convenuta costituisce ulteriore elemento atto ad escludere l’efficienza causale dell’intesa sanzionata nel determinare l’assunto danno”», obiettando che «nel momento in cui il consumatore stipulava il contratto di assicurazione r.c. auto, la partecipazione della propria compagnia all’intesa, successivamente scoperta e sanzionata dall’Autorità garante, non era certo evidente, come pure non si conoscevano i nomi delle compagnie di assicurazione coinvolte, in secondo luogo, l’affermazione della Corte di appello sembra non tenere nella giusta considerazione il c.d. umbrella effect, che spinge le imprese non partecipanti all’intesa ad allineare i propri premi a quelli praticati dalle imprese cartellizzate». Analizzando proprio una siffatta ipotesi, si asserisce che in questo caso l’ente assicuratore, in regime di piena libertà tariffaria, non commette alcun illecito, né prima del contratto né in occasione della sua stipula.  Il danno in questione riguarda, infatti, non l’aumento del premio in quanto tale, bensì la sostanziale impossibilità, per il consumatore, di reperire altrove condizioni di prezzo e di contratto più favorevoli», e conclude che «in tal caso l’assicurato che intenda ottenere il ristoro di tale danno non potrà che rivolgere la propria azione (aquiliana) nei confronti delle compagnie che hanno fatto parte del cartello e che dovranno rispondere dell’illecito in via solidale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2055 Codice civile. Invero, come si è già evidenziato, occorrerebbe riflettere meglio circa la possibilità, in un simile caso, di agire in via precontrattuale nei confronti della stessa impresa con cui si è concluso il negozio. Guizzi, Mercato concorrenziale, cit., p. 82 ss.; Camilleri, Contratti a valle, rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, cit., p. 98 ss.; Id, Validità della fideiussione omnibus conforme a schema-tipo dell’ABI, cit., pp. 397 ss

[4] Cfr anche Piraino, Contro l’uso della nullità parziale in chiave di conformazione del contratto, in Giur. it., 2020, pp. 1553 ss. L’Autore suggerisce, per sciogliere l’alternativa tra nullità totale nullità parziale, di guardare alla “soluzione che meglio soddisfa l’interesse della “vittima” della condotta abusiva dell’impresa che, grazie alla eliminazione della concorrenza realizzata attraverso il cartello, è stata in grado di imporre all’altro contraente quelle determinate condizioni contrattuali. Impostare la soluzione in termini di prevalenza dell’interesse della vittima dell’abuso rispetto a quello del suo autore dimostra assai chiaramente che il problema che si tratta di risolvere non attiene affatto al tema della nullità del regolamento contrattuale espresso dal contratto a valle - che del resto richiede una valutazione evidentemente oggettiva della liceità delle regole in esso espresse e che prescinde dalla considerazione della concreta “posizione” in cui versa ciascuna delle parti - bensì a quello della dannosità, di un contratto allora evidentemente valido, per uno dei due contraenti.  Maugeri, Breve nota sui contratti a valle e rimedi, ivi, pp. 415 ss. Per un approfondimento in ordine alla c.d. nullità virtuale vedi Villa, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993, p. 74. Recentemente la Cassazione ha chiarito che: “in tema di cd. nullità virtuale, la violazione di disposizioni inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità unicamente ove non sia altrimenti stabilito dalla legge. Pertanto, questo esito va escluso sia quando risulti indicata una differente forma di invalidità (ad esempio, l’annullabilità) sia ove la legge assicuri l’effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi diversi”.

[5] Scoditti, Il consumatore e l’Antitrust, in Foro it., 2003, I, p. 1129. Lo stesso autore afferma, dunque, che «la legittimazione del consumatore all’impugnativa per nullità ai sensi dell’art. 2 della previsione contrattuale è la logica conseguenza della qualificazione della clausola non quale negozio separato dall’intesa vietata, ma quale comportamento anticoncorrenziale, e dunque ancora intesa vietata, essa stessa […] e che la clausola così fissata è nulla per violazione diretta del precetto di cui all’art. 2». Cfr. anche l’opinione di Granieri, nota a Cass. Civ, sez. III, ordinanza 17 ottobre 2003, n. 15538; ma anche la sentenza n. 9384 dell’11 giugno 2003; e la pronuncia del Giudice di pace di Albano Laziale, del 10 settembre 2003, in Foro it., 2004, I, p. 469. Quest’ultimo, in particolare, rileva che «l’avvicinamento del diritto dei contratti ad altre forme di controllo del mercato, quali il diritto della concorrenza, impone un ripensamento della sua funzione […] ed una maggiore attenzione alla valenza del contratto stesso come vicenda giuridica ed economica non circoscritta, bensì suscettibile di produrre effetti esterni (le esternalità, nel linguaggio degli economisti) di vario tipo, tra le quali quelle destinate ad avere ricadute sui soggetti diversi dalle parti contrattuali». Esclude che si possa parlare di nullità derivata; Cfr., inoltre, Meli, Autonomia privata, cit., pp. 158 ss. Onorato, Nullità dei contratti nell’intesa competitiva, Milano, 2012; Ubertazzi, Concorrenza e norme bancarie uniformi, Milano, 1986; successivamente, invece, Mirone, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, Torino, 2003. Tra i saggi dedicati al tema, seppure con angolazioni talora differenti, meritano di essere segnalati, quanto meno, Salanitro, Disciplina antitrust e contratti bancari, in Banca, borsa, tit. cred., 1995, II, pp. 420 ss.; Ubertazzi, Ancora su norme bancarie uniformi e diritto antitrust, in Dir. banc. e merc. fin., 1997, pp. 515 ss.; Libertini, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2002, I, pp. 433 ss.; Id., Ancora sui rimedi civilistici conseguenti ad illeciti antitrust, in Danno e resp., 2005, pp. 237 ss.; Id., Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti “a valle”. Gentili, La nullità dei ‘contratti a valle’ come pratica concordata, cit., p. 675 ss.; Belli, Contratto a “valle” in violazione di intese vietate dalla Legge Antitrust, nota a Cass. civ., 12 dicembre 2017, n. 29810, Giust.civ.com; Borrillo, La nullità della fideiussione omnibus per violazione della normativa antitrust, cit., p. 3 ss.

[6] L’adozione di norme bancarie uniformi in materia di fideiussioni da parte dell’ABI ha avvento nel 1964 mediante la Circolare ABI, Serie Tecnica C, 11 giugno 1964, n. 24 e ha riguardato: i) le fideiussioni senza indicazione di limite massimo a garanzia di qualunque operazione con relativa dichiarazione aggiuntiva che potrà essere rilasciata dal fideiubente per precisare l’ammontare massimo garantito; ii) le fideiussioni a garanzia di apertura di credito per importo determinato a scadenza fissa. Successivamente, attraverso la Circolare ABI, Serie Tecnica O, 24 gennaio 1966, n. 5, sono stati predisposti ulteriori schemi di fideiussione relativi: i) alle fideiussioni a garanzia di apertura di credito per importo determinato valido fino a revoca; ii) alle fideiussioni a garanzia dello sconto di effetti; iii) alle fideiussioni a garanzia di operazioni varie comportanti rischi. Nel 1987, per mezzo della Circolare ABI, Serie Tecnica O, 20 giugno 1987, sono stati predisposti, in sostituzione dei precedenti, cinque nuovi schemi-tipo concernenti: i) le fideiussioni omnibus senza limitazione di importo; ii) le fideiussioni omnibus con limitazione di importo; iii) le fideiussioni a garanzia di apertura di credito per importo determinato; iv) le fideiussioni a garanzia dello sconto o della negoziazione di effetti cambiari; v) le fideiussioni a garanzia di operazioni varie comportanti rischi. La revisione del 1987 ha previsto una rimodulazione della clausola di sopravvivenza, in virtù della quale “nell’ipotesi in cui le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione si intende fin d’ora estesa a garantire l’obbligo di restituzione delle somme comunque erogate”. Gli schemi-tipo varati nel 1966 prevedevano espressamente che, in deroga all’art. 1939 c.c., “la fideiussione mantiene i suoi effetti anche se l’obbligazione principale sia dichiarata invalida”. Con la modificazione letterale della clausola, secondo Bigliazzi Geri, Sub art. 1366, in EAD., L’interpretazione del contratto. Artt. 1362-1371, in Comm. Schlesinger, Milano 2013, p. 283, si aveva «la convinzione che in tal modo si siano salvati capra e cavoli sı` che la clausola in questione non possa più essere considerata “alla stregua di una clausola automatica” […], sicchè essa risulti perseguire, al di là di ogni ragionevole dubbio, un interesse meritevole di tutela qual è quello di sicurezza del recupero di somme indebitamente erogate e dunque capace di superare la prova di resitenza imposta dall’intervento della clausola di buona fede; tale convinzione desta qualche non irragionevole perplessità». In tema, Lobuono, Contratto e attività economica nelle garanzie personali, Napoli 2002, p. 92 ss.; e, anche, Sassi, Le condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni omnibus, in Banca, borsa, tit. cred., 1990, I, p. 805 ss. 

Sull’accessorietà funzionale del contratto di garanzia contraddistinto dalla Uberlebensklausel, v. Walter, Die formularvertragliche Kreditbu¨rgschaft mit Globalzweckerkla¨- rung im italienischen Recht. Eine rechtsvergleichende Untersuchung, Berlin 1993, p. 108. Cfr. anche S. Pagliantini, Autonomia privata e divieto di convalida del contratto nullo, Torino 2007, p. 234-236; Macario, Garanzie personali, in Tratt. Sacco, X, Torino 2009, p. 212. Sempre Cavalli, Contratti bancari su modulo e problemi di tutela del contraente debole, cit., p. 80, precisa che la deroga all’art. 1939 c.c. è “quasi rivoluzionaria”, poichè intacca uno dei cardini della disciplina fideiussoria, mutando la garanzia da accessoria in autonoma.

[7] Lupano, Profili della tutela individuale dei consumatori e della riforma di quella collettiva - il regime processuale delle nullità di protezione, in Giur. it., 2021, 1, p. 226, il quale dà conto del dibattito sorto in ordine all’uso selettivo della nullità di protezione in materia bancaria-finanziaria, giudicato da alcuni interpreti sleale (o abusivo) perché fonte di eccessivo vantaggio per la parte protetta. Vedi anche Piraino, Il “cantiere” delle nullità: B2C, bancarie e selettive - contro l’uso della nullità parziale in chiave di conformazione del contratto, in Giur. it., 2020, 6, p. 1528 ss; Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, in Danno e Resp., 2004, V, pp. 469 ss., Id., Responsabilità civile, Milano, Giuffrè, 2018, pp. 136 ss.; Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, in Foro it., 2004, I, p. 484; Id., Mercato concorrenziale e teoria del contratto, in Riv. dir. comm., 1999, I, pp. 109 ss.; Longobucco, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Esi, 2009, pp. 140 ss. A questa impostazione sembra aderire Cass. Civ.. 18 agosto 2011, n. 17351, in Giur. it., 2012, VII, p. 1548, con nota di Febbrajo, Contratti “a valle” dell’intesa antitrust e riconduzione ad equità del corrispettivo. V. Meli, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese concorrenziali, Giuffrè, 2001, pp. 196 ss., per il quale il contratto “a valle” realizzerebbe l’abuso di un contraente sull’altro, da regolare secondo la disciplina stabilita dagli artt. 1425 ss. cod. civ.

[8] Sulle clausole derogatorie, sul tipo fideiussorio e sul ruolo della buona fede, v. Bigliazzi Geri, Sub art. 1366, cit., p. 275 ss. Per Barbiera, Sub art. 2740, in ID., Responsabilità patrimoniale. Disposizioni generali. Artt. 2740-2744, in Comm. Schlesinger, Milano 2010, p. 138, il provvedimento della Banca d’Italia è ineccepibile. Per l’A. le fideiussioni conformi allo schema ABI producono una dilatazione dell’oggetto «[…] contraria al sistema assiologico delle norme contenute negli artt. 2740 e 2741, sistema attinente all’ordine pubblico economico» p. 139. Sul rapporto tra tipo e controllo di vessatorietà nei contratti per adesione, De Nova, Il tipo contrattuale, Padova 1974, p. 29 ss., p. 157 ss.

[9] Guccione, Intese vietate e contratti individuali a valle: alcune considerazioni sulla invalidità derivata, in Giur. comm., 1999, II, p. 449. L’autore rileva che le clausole trasfuse nei contratti stipulati a valle “costituiscono una violazione del principio di libertà di concorrenza che, in linea di principio, si configura come una delle caratteristiche della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. In tal modo risulta violato il cosiddetto ordine pubblico economico e la clausola contrattuale è nulla per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1343 cod. civ”.

 Anche secondo Delli Priscoli, La dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, in Giur. comm., 1999, II, p. 237, i downstream contracts sono “nulli, ex art. 1418, comma 2, c.c. per illiceità della causa perché conclusi in violazione della norma imperativa rappresentata dal comma 2 dell’art. 2 che vieta la fissazione concordata dei prezzi di vendita”. In tal senso, già Cass. Civ., 1 febbraio 1999, n. 827, in Danno resp., 2000, 1, p. 57 con nota di Nivarra, “Interesse pubblico” e antitrust: qualche osservazione; in Giur. it., 1999, 1223 ss., con nota di Libonati, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione; ivi, 2000, pp. 939 ss., con nota di Afferni, Le intese restrittive della concorrenza anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale?; Alessi, Olivieri, La disciplina della concorrenza e del mercato, Torino, 1991, pp. 16 ss.; Floridia, Catelli, Diritto antitrust. Le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante, Torino, 2003, p. 158. Secondo Di Majo, Nullità del contratto. Le nullità speciali, la nullità rimedio di protezione, le nullità da divieto, in Di Majo et al, L’invalidità del contratto, Torino, 2002, pp. 456 ss., «le cause o i fattori» delle nullità speciali «non si lasciano rinchiudere in una determinata fattispecie. Essi sono la negazione della fattispecie. Ecco, dunque, che il predicato “speciali”, con riguardo a queste forme di nullità finisce coll’andare al di là del singolo effetto “speciale” (e sia esso da individuare nella particolare forma di legittimazione relativa o nel carattere necessariamente parziale della nullità o nell’effetto sostitutivo di altre clausole), per attingere a contenuti che si pongono persino in contrasto con la forma della nullità-fattispecie, perché destinati ad attuarsi in giudizi altamente discrezionali su circostanze “esterne” al contratto […]»

[10] Si veda, anche, in particolare, Barcellona, La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, in Aa.Vv., Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, a cura di Mazzamuto, Torino, 2002, pp. 325 ss.; Id., Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006. Per la sottolineatura della contiguità, pertanto, dei due temi nella prospettiva rimediale della correzione del contratto sia permesso rinviare anche a Guizzi, Squilibri nella contrattazione bancaria e finanziaria e rimedi, in Aa.Vv., La trasparenza bancaria venticinque anni dopo, Napoli, 2018, pp. 305 ss. per l’idea che anche lo squilibrio normativo si risolva, in realtà, in ultima istanza, pur sempre in uno squilibrio di tipo economico, in quanto ogni clausola abusiva produce un minor costo per l’impresa, perché rappresenta sempre qualcosa in meno che essa dà al consumatore, senza però che siffatto minor costo necessariamente si rifletta in un minor corrispettivo rimedio caratterizzato da una funzione riequilibratrice, che metta capo ad una forma di tutela specifica, che dunque non solo conservi il contratto ma elimini quello “squilibrio” che pure è causalmente riconducibile proprio all’illecito concorrenziale a monte, e dunque al fatto che il suo contenuto è stato influenzato dall’esistenza dell’intesa restrittiva. Naturalmente, l’impostazione appare di più semplice realizzazione, là dove l’incidenza dell’intesa si esprima in via immediata e diretta sui termini economici dell’operazione di scambio disciplinata dal contratto a valle, in quanto il cartello ha avuto una diretta incidenza sulla definizione del prezzo del bene venduto o del servizio erogato dall’impresa aderente. È evidente, infatti, che in questi casi la funzione riequilibratrice accomuna vuoi - se la si ritiene ammissibile, come a me ancora sembra si debba per le ragioni esposte in quel mio primo saggio e che non mi sembra siano mai state adeguatamente confutate - l’azione di riduzione ad equità ad instar dell’art. 1448 c.c., vuoi l’azione di risarcimento dei danni, il cui esercizio anzi, ove il danno venga commisurato, in ossequio all’Als-Ob Prinzip, alla differenza tra il prezzo in concreto applicato in ragione della concertazione a monte e quello che si sarebbe determinato in assenza di un’alterazione della dinamica concorrenziale, produce un risultato del tutto identico a quello a cui conduce la riconduzione ad equità, che si svolgerebbe pur sempre secondo il medesimo criterio. L’impostazione può risultare, invece, meno intuitiva, e il risultato apparentemente di più problematico raggiungimento, là dove l’incidenza dell’intesa sull’equilibrio economico del contratto a valle si esprima in dovuto da quest’ultimo.

[11] Si vedano in proposito anche i puntuali rilievi di Denozza ,I principi di effettività, proporzionalità, cit., pp. 369 ss. che pur accogliendo la tesi della nullità dei contratti a valle secondo la disciplina generale del codice civile avverte poi la difficoltà di spiegare, in quel contesto, come si possa pervenire ad una sistematica disapplicazione, come invece propone parte della giurisprudenza nonchè il Collegio di Coordinamento dell’ABF (decisione n. 14555 del 19 agosto 2020), della regola dell’art. 1419, comma 1, c.c. Nota, infatti, l’Autore che “dal punto di vista degli interessi delle parti che hanno posto in essere l’atto la conservazione diventa un obiettivo importante e sensato solo quando si tiene conto della volontà di entrambe”, sicché predicare aprioristicamente una generale conservazione del contratto, pur nullo, significa manipolare il senso della norma richiamata che impone, invece, di indagare, su basi oggettive, se le stesse, in assenza delle clausole nulle, avrebbero entrambe egualmente concluso il contratto (per analoghi rilievi – ancorché in una prospettiva di ordine generale – sul limitato spazio di operatività dell’azione di nullità ex art. 1419 c. c., cfr anche  Piraino, Contro l’uso della nullità parziale in chiave di conformazione del contratto, in Giur. it., 2020, pp. 1553 ss.). L’Autore suggerisce, per sciogliere l’alternativa tra nullità totale nullità parziale, di guardare alla “soluzione che meglio soddisfa l’interesse della “vittima” della condotta abusiva dell’impresa che, grazie alla eliminazione della concorrenza realizzata attraverso il cartello, è stata in grado di imporre all’altro contraente quelle determinate condizioni contrattuali. Gli è, infatti, che impostare la soluzione in termini di prevalenza dell’interesse della vittima dell’abuso rispetto a quello del suo autore dimostra assai chiaramente che il problema che si tratta di risolvere non attiene affatto al tema della nullità del regolamento contrattuale espresso dal contratto a valle - che del resto richiede una valutazione evidentemente oggettiva della liceità delle regole in esso espresse e che prescinde dalla considerazione della concreta “posizione” in cui versa ciascuna delle parti - bensì a quello della dannosità, di un contratto allora evidentemente valido, per uno dei due contraenti.

[12] Non può con citarsi come precedente Cass. Civ. Sez. Un., 4 ottobre 2019, n. 28314, con nota di Scognamiglio, Le Sezioni Unite e le nullità selettive: un nuovo spazio di operatività per la clausola generale di buona fede, cit., pp. 5-8Secondo l’Autore, la giurisprudenza, in tale sentenza, in tema di nullità della species selettiva, riduce la questione (della risolubilità e) della nullità selettiva a un giudizio di comparazione sugli investimenti complessivamente eseguiti: se i rendimenti degli investimenti non colpiti dall’azione di nullità superano il pregiudizio accertato per l’investitore, l’effetto paralizzante dell’eccezione è integrale; ove invece si determina un danno per l’investitore, anche all’esito della comparazione con gli altri investimenti non colpiti dalla nullità selettiva, l’effetto impeditivo opera nei limiti del vantaggio conseguito con detti investimenti. Sulla nullità derivata del cd. contratto di fideiussione ‘‘a valle’’ per violazione della normativa antitrust Cass. Civ., 12 dicembre 2017, n. 29810, in Foro it., 2018, I, p. 152, e più recentemente, Cass. Civ, 15 giugno 2019, n. 21878, in DeJure. Nello stesso senso nella giurisprudenza di merito si pone Trib. Salerno, 3 febbraio 2020, in www.contenzioso-bancario.it. La tesi della nullità derivata del contratto ‘‘a valle’’ non è invece condivisa da Trib. Treviso, 13 agosto 2019, in www.dirittodelrisparmio.it, atteso che l’art. 2, comma 2º, della l. n. 287/1990 si riferisce alle intese tra ‘‘imprese’’ tra di loro in concorrenza, nulla disponendo circa le sorti dei rapporti commerciali tra una di queste imprese e contraenti terzi. In senso conforme a quest’ultima pronuncia di merito Trib. Napoli, 28 febbraio 2019, in www.expartecreditoris.it; Trib. Busto Arsizio, 26 maggio 2020, in www.ilcaso.it, ed in modo ancora più marcato, Trib. Treviso, 26 luglio 2018, in www.iusexplorer.it, nell’affermare che nei contratti di fideiussione non vi è alcun oggettivo richiamo alla deliberazione dell’associazione di imprese bancarie di approvazione del modello standardizzato di fideiussione, nè, men che meno, risulta che tale deliberazione abbia vincolato l’istituto di credito stipulante al rispetto dello schema ABI nella contrattazione con i terzi. Sull’onere di dimostrare il carattere uniforme dell’applicazione della clausola conforme agli artt. 2, 6 e 8 dell’intesa ABI contenuta nel contratto di garanzia stipulato ‘‘a valle’’ e contrastante con l’art. 2, comma 2º lett. a) della legge antitrust., Cfr. Trib. Belluno, 31 gennaio 2019, in banca dati Wolters Kluvers, nota di Toschi Vespasiani: “L’illecito anticoncorrenziale consumato con lo schema ABI, non può che travolgere con la nullità il negozio concluso ‘a valle’, per la violazione dei principi della Legge Antitrust in quanto il cosiddetto contratto ‘a valle’ costituisce lo sbocco dell’intesa a monte vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti, con la lesione del diritto del consumatore finale a una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza.

[13]  Rosselli, Il controllo della cassazione civile sull' uso delle clausole generali, Jovene, Napoli, 1983, che ritiene che le clausole generali siano norme elastiche e la elasticità dipenderebbe proprio dal profilo della "eccedenza assiologica"; ed ancora Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Cedam, Padova, 1999, p. 47, secondo il quale le clausole generali sarebbero i "polmoni vitali dell'ordinamento". Insistono sulla capacità di adeguare per mezzo delle clausole generali il diritto alla specificità del caso, Torrente,  Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 1999: "buona fede, buon costume diligenza...obbligano ad una valutazione di specifica riferibilità al singolo caso che nella sua concretezza e specificità è sempre refrattario a farsi comodamente inquadrare nelle rigide descrizioni delle fattispecie legali; secondo Ruoppo, Istituzioni di diritto privato, Monduzzi, Bologna, 2001, p. 29, concetti del genere non hanno un significato buono una volta per tutte perchè ricevono il loro senso dal clima sociale e culturale dell'ambiente in cui devono essere applicate; questo esalta il ruolo dell'interprete che, per individuare il precetto, è chiamato a fare da "mediatore" tra il testo normativo e la realtà sociale. Secondo Di Majo, Limiti ai poteri privati, op.cit., 346, quello del richiamo ai principi di buona fede e correttezza tuttavia è un richiamo che può definirsi abbastanza desueto nella nostra pratica del diritto. E' nota infatti la tradizionale diffidenza dei giudici verso l'impiego di clausole generali dato il loro elevato margine di genericità e di indeterminatezza. Ciò che si teme è la decisione politica e/o comunque la decisione difficilmente controllabile in base a parametri oggettivi.

Tuttavia un grande riconoscimento giurisprudenziale della buona fede e correttezza come oggetto di un vero e proprio dovere giuridico si è avuto con la sentenza della Suprema Corte n. 89 del 5 gennaio 1966 la quale ha sostenuto che la buona fede intesa in senso etico come requisito della condotta, forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con proposito doloso di creare pregiudizio; ma anche quando il comportamento non sia stato improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede.

Mentre per buona fede "soggettiva” si intende lo stato psicologico di un soggetto ovvero la sua percezione della realtà, che si atteggia di volta in volta: come erronea convinzione di agire in conformità del diritto, come ignoranza di ledere un diritto altrui, come affidamento in una situazione apparente ma difforme dalla effettiva realtà giuridica; la buona fede intesa in senso "oggettivo" è invece riconducibile ad una esperienza generalizzata di un fatto o di un comportamento considerato in sé e per sé, assumendo la natura di una obiettiva regola di condotta. Musio, Breve analisi comparata, op.cit. pag. 5; essa si concretizza in un generale dovere di correttezza e reciproca lealtà di condotta nei rapporti tra soggetti che impone cioè di considerare interessi che non sono oggetto di una tutela specifica e impone la lealtà del comportamento nella esecuzione della prestazione. Per una esaustiva analisi dell'excursus storico delle clausole generali ed in particolare della buona fede si veda Meruzzi, L'exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, Giuffrè, Milano, 2005; Senn., Buona fede nel diritto romano, in Dig., disc. priv. sez. civ. Torino, 1988; Talamanca, La bona fides nei giuristi romani "leerformeln" e valori tutelati dall'ordinamento, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza giuridica storica e contemporanea, Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese, Cedam, Padova, 2003. La buona fede ebbe una importanza sostanziale nel diritto romano dove era già presente la differenziazione tra buona fede in senso soggettivo (richiesta ad es. quale requisito dell'usucapione) e la buona fede in senso oggettivo che esprimeva l'idea etica della correttezza che l'uomo onesto osserva nei rapporti con gli altri consociati pur se di tale concetto non vi è definizione nelle fonti. In particolare nei iudicia bonae fidei il giudice era chiamato a condannare il convenuto a fare o dare tutto ciò che era dovuto secondo buona fede (quidquid dare facere oportet ex fide bona).

In tal modo, la buona fede assurge a principio di giustizia sostanziale e, al di là del processo, a precetto dell'agire umano. cfr. Grosso, Buona fede, in Enc. Dir, Giuffrè, Milano, 1959.

La bona fides nasce con il diritto romano che sostanzialmente ne ha riconosciuto due ambiti applicativi: da un lato quello dei diritti reali in cui essa è definita come buona fede soggettiva, ovvero lo stato psicologico del soggetto, la sua convinzione di non violare alcun diritto; dall'altro quello dei contratti in cui essa diventa buona fede oggettiva ovvero l'obbligo di comportamento per i contraenti ulteriore rispetto all'obbligo di adempimento secondo standard generali di correttezza e lealtà.

[14] La buona fede in senso oggettivo nasceva sulla base del rapporto di connessione tra ius civile e ius honorarium con l'affermarsi dei c.d. iudicia bonae fidei ossia giudizi costituiti dai pretori romani in sostituzione e in alternativa ai tipici procedimenti di diritto civile.

Tali giudizi modificavano profondamente il diritto romano dei contratti introducendo una tutela superiore che teneva conto di esigenze socialmente riconosciute (valori etici e sociali) attraverso l'introduzione di regole di correttezza che per la prima volta godevano di difesa processuale, a prescindere dagli elementi sostanziali e formali tipici dello ius civile. Successivamente alla comparsa della bona fides, e fino al VI secolo D.C. l'ambito dell'actio bona fidei si ampliò sempre più soprattutto grazie alla introduzione della differenza tra obblighi di adempimento e obblighi di comportamento delle parti: da regola di mero rispetto della parola data, la bona fides diventava una vera e propria regola del rapporto obbligatorio assumendo la veste di fonte autonoma della obbligazione distinta dal vecchio ius civile. Nell'età medievale, poi, essa acquistò nuovo vigore e venne riconosciuta giuridicamente durante il periodo del c.d. "diritto intermedio" assumendo un ruolo più complesso; essa descriveva in sé tre tipologie di condotta: obbligo delle parti di tenere fede alla parola data; divieto delle parti di trarre vantaggio da propri comportamenti sleali; dovere delle parti di adempiere a quelle obbligazioni che, ancorché non espressamente previste, sarebbero ritenute giuste da una persona onesta e leale.

Un nuovo impulso alla formulazione e all'ampliamento del concetto di buona fede è rilevabile nell'età della codificazione (fine XIX inizio XX secolo) come testimonia soprattutto l'interesse di giusnaturalisti quali Rosmini, Domat, Pothier i quali consideravano la buona fede come il punto fondamentale della disciplina dei contratti onerosi. Nelle codificazioni dei vari ordinamenti contemporanei di civil law il concetto di buona fede trova sempre spazio anche se non ne viene mai descritto esplicitamente il contenuto proprio in coerenza con la natura elastica ed evolutiva delle clausole generali; al contrario nei sistemi di common law i medesimi risultati vengono raggiunti attraverso formulazioni implicite ed indirette, concettualmente diverse dalla buona fede. Musio, Breve analisi comparata sulla clausola generale della buona fede, op.cit., 11 e ss. Cfr. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., I, Jovene, Napoli, 1983

[15] Molti importanti dibattiti metodologici hanno accompagnato la crescita e l’evoluzione dell’analisi economica del diritto. Le tradizioni culturali di economisti e giuristi hanno prospettive diverse circa il ruolo da attribuire all’analisi economica nella scelta delle regole e nel disegno istituzionale. Durante la sua storia relativamente breve, il movimento della law and economics ha sviluppato tre distinte scuole di pensiero. Le prime due scuole, a cui spesso ci si riferisce come scuola “positiva” di Chicago e scuola “normativa” di Yale, si sono sviluppate quasi simultaneamente. La scuola “funzionale” di law and economics, che si è sviluppata successivamente, prende le mosse dalla teoria della public choice e dalla prospettiva della economia politica costituzionale della scuola della Virginia per offrire una terza visione che non è pienamente positiva né pienamente normativa. Il dibattito tra queste scuole offre importanti spunti per definire il ruolo appropriato dell’analisi economica nel processo legislativo ed istituzionale e per valutare i limiti dei metodi di calcolo delle preferenze sociali e del benessere aggregato nelle analisi politiche. Questi dibattiti hanno contribuito a far crescere l’interesse intellettuale verso l’analisi economica del diritto e alla diversificazione delle metodologie nell’analisi economica del diritto stessa.

[16] Amadio, Nullità del contratto e conformazione del contratto (note minime in tema di “abuso dellautonomia contrattuale”), in Riv. dir. civ., 2005, I, pp. 299 ss.; Navaretta, Buona fede oggettiva, contratti di impresa e diritto europeo, ivi, 2005, I, p. 521; Putti, Linvalidità dei contratti, in Trattato dir. priv. europeo, III, Lattività e il contratto, Padova, 2003, pp. 603 ss.

[17] Fondamentali sono sull’argomento i contributi di Roppo, La tutela del risparmiatore tra nullità e risoluzione (a proposito di Cirio bond & tango bond), in Danno e resp., 2005, pp. 627 ss.; D’Amico, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli, 1996, pp. 99 ss.; Id., Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 39; Busnelli, Itinerari europei nella terra di nessuno tra contratto e fatto illecito: la responsabilità per informazioni inesatte, in Contratto e Impresa, 1991, p. 556 ss.; Vettori, Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione fra imprese, in Diritto dei contratti e regole di concorrenza, Milano, 1983, p. 83

[18] Floridia, Catelli, Diritto antitrust. Le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante, Torino, 2003, p. 158. Secondo Di Majo, Nullità del contratto. Le nullità speciali, la nullità rimedio di protezione, le nullità da divieto, in Di Majo et al, L’invalidità del contratto, Torino, 2002, pp. 456 ss.

[19] Dolmetta, Malvagna, Vicinanza della prova e prodotti d'impresa del comparto finanziario, in Banca borsa tit. cred., 2014, I, pp. 676 ss.

[20] Tale configurazione è operata già prima della introduzione della MiFID da De Nova, La responsabilità dell'operatore finanziario per esercizio di attività pericolosa, in Contratti, 7, 2005, p. 709, secondo il quale la pericolosità dell'attività di intermediazione dovrebbe rintracciarsi sia in ragione della qualità del danneggiato, sia altresì per la natura dei mezzi adoperati, cioè per il tipo di strumento finanziario collocato.

[21] Cfr., in particolare, Ferri, Appunti sull’invalidità del contratto (dal codice del 1865 al codice del 1942), in Riv. dir. comm., 1996, p. 382, il quale riconduce all’annullabilità le “patologie soggettive di libertà e consapevolezza” e alla nullità le “patologie riguardanti la regolamentazione di interessi che il negozio giuridico esprime”.

[22] Pietrobon, Errore, volontà e affidamento nel giudizio, Padova, 1990, p. 104.

[23] Per quanto attiene al profilo della nullità di particolare interesse è la recente sentenza della Cassazione n. 34889, datata 13 dicembre 2023: essa segna un punto di svolta significativo nel diritto bancario, con particolare riferimento alla validità dei tassi di interesse applicati ai mutui. La sentenza affronta specificamente il periodo dal 29 settembre 2005 al 30 maggio 2008, durante il quale è stata accertata la manipolazione dell’Euribor. Tale manipolazione ha ora importanti ripercussioni legali, determinando la potenziale invalidità delle pattuizioni dei tassi di interesse dei mutui che facessero riferimento a questo indice. L’importanza della sentenza risiede nel suo ampio raggio d’azione: essa stabilisce che la nullità dei tassi di interesse non riguarda soltanto i mutui contratti con le banche direttamente coinvolte nella manipolazione dell’Euribor, ma si estende a tutte le banche che hanno utilizzato questo indice per calcolare gli interessi sui mutui. Questo aspetto è cruciale perché amplifica il numero di mutuatari potenzialmente interessati. La sentenza sottolinea che gli accertamenti antitrust condotti in precedenza rendono legittima la presunzione dell’esistenza di una pratica anticoncorrenziale durante il periodo in questione. Di conseguenza, i tassi di interesse applicati ai mutui in quel lasso di tempo potrebbero essere considerati invalidi. Per i mutuatari, ciò implica la possibilità di avanzare richieste di restituzione degli interessi pagati nel periodo dal 29 settembre 2005 al 30 maggio 2008. In tale contesto, i mutuatari potrebbero avere diritto a un rimborso degli interessi versati, con la possibilità di applicare un tasso sostitutivo ex art 117 TUB, presumibilmente inferiore a quello originariamente pattuito. Con la medesima decisione, la Cassazione aveva affermato infatti la nullità di tale clausola in quanto il tasso d’interesse veniva determinato per relationem, ovvero facendo riferimento al tasso Euribor fissato attraverso un accordo di manipolazione della concorrenza da un certo numero di istituti bancari, come accertato dalla Commissione Antitrust Europea con decisione del 4 dicembre 2013 (Caso AT.39914 — Derivati sui tassi di interesse in euro).

[24] Perlingieri, Riflessioni sul «diritto contrattuale europeo» tra fonti e tecniche legislative, in Id., Il diritto dei contratti fra persona e mercato, Napoli, 2003, p. 485.

[25] Pigou, The economics of welfare, London, Mcmillan, 1932, p. 32; Cooter, Mattei, Pardolesi, Ulen, Il Mercato delle Regole, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 294 ss.

[26] JEANTET, Aspects du droit économique, in Dix ans de conférences d’agrégation, Etudes de droit commercial offertes à Joseph Hamel, Paris, 1961, p. 34. 34 Solo per citare alcuni dei contributi sul tema, anche a carattere manualistico, v. DE KIRALY, Le droit économique, branche indipendente de la science juridique, in Receuil d’études sur les sources du droit de l’honneur de F. Geny, Paris, III, 1935, p. 111 ss.; JACQUEMIN, SCHRANS, Le droit économique, Paris, 1970; DE LAUBADÈRE, Droit publique économique, Paris, 1974; QUADRI, Diritto pubblico dell’economia, Padova, 1980; CAVALLO, DI PLINIO, Manuale di diritto pubblico dell’economia, Milano, 1983; GIUSTI (a cura di), Diritto pubblico dell’economia, Padova, 1994; GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1995; DE CARLI, Lezioni ed argomenti di diritto pubblico dell’economia, Padova, 1995; CARULLO, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, Padova, 1997; DI PLINIO, Diritto pubblico dell’economia, Milano, 1998; GHETTI, Lineamenti di diritto pubblico dell’economia, Milano, 2001; COCOZZA, Diritto pubblico applicato all’economia, Torino, 2003; GIUSTI, Fondamenti di diritto dell’economia, Padova, 2005; CHEROT, Droit publique économique, Paris, 2007; BERNARD, Droit public économique, Paris, 2009; CAPUNZO, Argomenti di diritto pubblico dell’economia, 2^ ed., Milano, 2010; CAPRIGLIONE, Ordine giuridico e processo economico nell’analisi della law and economics, in Pellegrini (a cura di), Corso di diritto pubblico dell’economia, Padova, 2016, p. 18 ss.; DI GASPARE, Diritto dell’economia e dinamiche istituzionali, Padova, 2017, in particolare, pp. 3-18; PICOZZA, RICCIUTO, Diritto dell’economia, cit., p. 5 ss.; CARDI, Mercati e istituzioni in Italia. Diritto pubblico dell’economia, 4^ ed.,Torino, 2018; FERRARI (a cura di), Diritto pubblico dell’economia, 3^ ed., Milano, 2019; TRIMARCHI BANFI, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, 7^ ed., 2021; VALETTE, Droit public de l’économie, Paris, 2021; SARTORI, Il diritto dell’economia nell’epoca neoliberale: tra scienza e metodo, in PASSALACQUA (a cura di), Diritti e mercati nella transizione digitale, cit., p. 145 ss.; LUCHENA, Il diritto dell’economia, in BANI, DI PORTO, LUCHENA, SCOTTI, op. cit., p. 1 ss.; PELLEGRINI (a cura di), Diritto pubblico dell’economia, II ed., Padova, 2023.