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Anno XVI - n. 05 - Maggio 2024

  Costituzionale



Osservatorio sulla Giustizia Costituzionale Gennaio - Febbraio 2016. A cura di Simona Sgroi

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  • Corte Costituzionale – Sentenza 29 gennaio 2016, n. 12

     

    Oggetto: Processo penale – Art. 538 cod. proc. pen. – Estensione delle decisioni sulle questioni civili – Caso dell’assoluzione dell’imputato per vizio totale di mente.

    Dispositivo: infondatezza.

    Con ordinanza, il Tribunale ordinario di Firenze, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 538 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice possa decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a norma degli artt. 74 e seguenti del medesimo codice, anche quando pronuncia sentenza di assoluzione dell’imputato in quanto non imputabile per essere, nel momento in cui ha commesso il fatto, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere.

    Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l’art. 3 della Costituzione, determinando un’irragionevole disparità di trattamento fra il danneggiato costituitosi parte civile in un processo penale che si concluda con l’assoluzione dell’imputato per totale infermità di mente, e il danneggiato che veda invece esaminata la sua domanda risarcitoria all’esito della condanna dell’imputato “sano di mente”. Ciò in quanto il danneggiato, scegliendo di far valere le sue pretese nel processo penale, vero è che accetta i condizionamenti connessi al necessario adattamento dell’azione civile alla struttura e alla funzione del giudizio penale, ma i suoi diritti non potrebbero rimanere comunque pregiudicati dalla mera eventualità che, all’esito di quel giudizio, si accerti che l’imputato era totalmente infermo di mente al momento del fatto.

    Risulterebbe compromesso, altresì, il pieno esercizio del diritto di difesa del danneggiato costituitosi parte civile (art. 24 Cost.), il quale si troverebbe costretto, per conseguire la tutela dei suoi diritti, ad instaurare un nuovo giudizio davanti al giudice civile, con totale vanificazione della scelta di far valere la sua pretesa in sede penale.

    Sarebbe violato, infine, il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., in quanto l’esigenza di trasferire la domanda risarcitoria in sede civile allontanerebbe sensibilmente nel tempo la pronuncia definitiva sulla stessa e impegnerebbe ulteriori risorse giudiziarie senza alcun apprezzabile motivo.

    Inquadrato così il thema decidendum, la Corte Costituzionale ritiene necessario anteporre alla soluzione una breve disamina del contesto storico antecedente alla norma censurata partendo, così, dal codice di procedura penale del 1930. I tratti salienti della ricostruzione sono i seguenti:

         a) nel detto codice, l’art. 489 delineava un assetto dei rapporti tra giudizio penale e giudizio civile improntato ai principi di unitarietà della funzione giurisdizionale e di preminenza della giurisdizione penale: il danneggiato poteva esercitare l’azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal reato nel processo penale mediante la costituzione di parte civile, ovvero far valere le proprie pretese davanti al giudice civile. In quest’ultimo caso, tuttavia, il giudizio civile rimaneva obbligatoriamente sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile, la quale assumeva efficacia vincolante nel giudizio di danno;

         b) in questo contesto, era espressamente previsto che, nell’ipotesi in cui il danneggiato si fosse costituito parte civile, il giudice penale non poteva comunque decidere sull’azione civile ove il procedimento si fosse chiuso con sentenza di non doversi procedere o di assoluzione per qualsiasi causa: dunque, neppure quando le ragioni del proscioglimento – non inerendo alla sussistenza del fatto o alla sua commissione da parte dell’imputato – non escludessero la configurabilità di una responsabilità civile;

         c) la ratio era che la competenza del giudice penale a conoscere eccezionalmente del “torto civile” era destinata a cadere allorché detto giudice, prosciogliendo l’imputato, avesse con ciò esaurito il compito decisorio suo proprio, inscindibilmente connesso alla definizione della pretesa punitiva;

         d) l’assetto ora ricordato poteva risultare, in fatto, assai penalizzante per il danneggiato il quale, se si rivolgeva sin dall’inizio al giudice civile, egli vedeva paralizzata la sua azione dal regime di sospensione obbligatoria, se, invece, optava per la costituzione di parte civile nel processo penale, rischiava di veder vanificata l’iniziativa – anche a distanza di numerosi anni – dall’esito assolutorio del giudizio ancorché per ragioni che non escludevano affatto la fondatezza della sua pretesa;

         e) nei dibattiti che hanno preceduto la nuova codificazione si erano manifestate spinte per il superamento della regola, spinte che erano confluite nel progetto preliminare del 1978 e che, però, non erano state recepite nel nuovo codice di procedura penale del 1988. In particolare, ammettendo la pronuncia sulla domanda civile in tutti i casi di proscioglimento sulla base delle prove assunte in giudizio, la decisione sulla domanda civile si sarebbe ricollegata non già alla fattispecie prevista dall’articolo 185 c.p., bensì a quella prevista dall’articolo 2043 c.c., in ordine alla quale manca la competenza del giudice penale.

    La Corte, dunque, sottolinea che, a fronte del mutato quadro ordinamentale, l’assetto generale del nuovo processo penale è sempre ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo.

    Ciò premesso, la Corte passa ad esaminare ogni profilo di censura.

    Con particolare riguardo alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., la Corte rileva che le due ipotesi poste a raffronto dal giudice a quo – sentenza di assoluzione dell’imputato per vizio totale di mente e sentenza di condanna – risultano palesemente eterogenee: con la sentenza di condanna, la responsabilità penale dell’imputato viene affermata, con la sentenza di assoluzione per vizio totale di mente, viene invece esclusa.

    Anzi, precisa la Corte che in quest’ultimo caso viene esclusa – in virtù della regola generale dell’art. 2046 c.c. – persino la sua responsabilità civile: il danneggiato potrà conseguire il ristoro del pregiudizio patito unicamente da terzi, ossia dai soggetti tenuti alla sorveglianza dell’incapace, qualora non provino di non aver potuto impedire il fatto (art. 2047, co. 1, c.c.) e, solo in via sussidiaria – allorché non risulti possibile ottenere il risarcimento in tal modo – il danneggiato sarà abilitato a pretendere dall’incapace, non già il risarcimento, ma la corresponsione di un’equa indennità, rimessa, peraltro, sia nell’an che nel quantum, all’apprezzamento discrezionale del giudice, sulla base di una comparazione delle condizioni economiche delle parti (art. 2047, co. 2, c.c.).

    A fronte di ciò, afferma la Consulta che la scelta legislativa di trattare diversamente le due ipotesi, escludendo che nella seconda il giudice penale debba pronunciarsi sulle tematiche civilistiche, non può, dunque, ritenersi manifestamente irragionevole e arbitraria: l’opposta soluzione verrebbe, in effetti, a rompere il collegamento sistematico – reso esplicito dalla disposizione combinata degli artt. 74 e 538, comma 1, c.p.p. – tra la competenza del giudice penale a conoscere delle questioni civili e la disposizione sostanziale dell’art. 185 c.p., che obbliga l’autore del reato e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere del fatto di lui a risarcire il danno, patrimoniale o non patrimoniale, cagionato dal reato stesso.

    Quanto, poi, all’asserita lesione del diritto di difesa (art. 24 Cost.), la Corte richiama la sua costante giurisprudenza in materia, secondo la quale l’impossibilità, per la persona danneggiata dal reato, di conseguire la riparazione del pregiudizio patito in sede penale non implica apprezzabile violazione di quel diritto (né, ancor prima, del diritto di agire in giudizio), restando sempre aperta la possibilità di far valere la pretesa in sede civile.

    Con riguardo, infine, all’asserita violazione del principio di ragionevole durata del processo (art. 111Cost.), la Corte ribadisce che – alla luce dello stesso richiamo al connotato di “ragionevolezza”, che compare nella formula costituzionale – possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza e tale ipotesi, a suo avviso, non è ravvisabile nel caso considerato: la preclusione della decisione sulle questioni civili, nel caso di proscioglimento dell’imputato per qualsiasi causa – compreso il vizio totale di mente – se pure procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione, come già rimarcato, nel carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nell’ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest’ultimo.

    Per tutte le superiori considerazioni, la Corte Costituzionale conclude per l’infondatezza della questione portata al suo vaglio.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 2 febbraio 2016, n. 17

     

    Oggetto: Ammissibilità del referendum abrogativo – Attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in zone di mare – Divieto di attività in zone di mare entro dodici miglia marine – Esenzione da tale divieto per i titoli abilitativi già rilasciati.

    Dispositivo: ammissibilità.

    Il presente giudizio ha ad oggetto l’ammissibilità della richiesta di referendum popolare dichiarata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, e come trasferita alla Corte Costituzionale con ordinanza.

    La richiesta referendaria ha ad oggetto l’art. 6, comma 17, terzo periodo del d.lgs. 152/2006 (Norme in materia ambientale), come sostituito, da ultimo, dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016) e si caratterizza per la seguente denominazione: “Divieto di attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in zone di mare entro dodici miglia marine. Esenzione da tale divieto per i titoli abilitativi già rilasciati. Abrogazione della previsione che tali titoli hanno la durata della vita utile del giacimento”, ed il seguente quesito: Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo d.lgs. 152/2006 , come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge di stabilità 2016, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?”.

    Peraltro, sottolinea la Corte che l’Ufficio centrale per il referendum ha ritenuto che lo ius superveniens, nel sostituire la disposizione oggetto della richiesta referendaria abbia introdotto una mera modificazione della durata dei titoli abilitativi già rilasciati, commisurandola al periodo “di vita utile del giacimento”, prevedendo, quindi, una “sostanziale” proroga degli stessi ove “la vita utile del giacimento” superi la durata stabilita nel titolo, modificazione che non intacca il contenuto normativo essenziale del precetto oggetto di richiesta referendaria. Ne consegue che non è ipotizzabile alcun inammissibile trasferimento del quesito come paventato dalla difesa dello Stato.

    Su altro fronte, la Corte ha cura di precisare che, in un giudizio di ammissibilità del referendum, spetta alla Corte stessa solo la verifica della non sussistenza di eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, co. 2 Cost., attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario, sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario stesso, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione: e, in particolare, omogeneità, chiarezza, semplicità, completezza, coerenza e idoneità a conseguire il fine perseguito nel rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria.

    A tal proposito – afferma la Corte – il quesito referendario, anzitutto, non comporta l’introduzione di una nuova e diversa disciplina: esso infatti produce un effetto di mera abrogazione della disposizione oggetto del quesito riformulato, in vista del chiaro ed univoco risultato di non consentire che il divieto stabilito nelle zone di mare in questione incontri deroghe ulteriori quanto alla durata dei titoli abilitativi già rilasciati.

    Inoltre, è infondato anche l’ulteriore rilievo della difesa erariale secondo cui l’abrogazione dell’inciso relativo alla salvaguardia ambientale è in contrasto con la finalità stessa del referendum, in quanto – dicono i giudice della Legge – una volta che la norma fosse abrogata, quel che conta è che la salvaguardia ambientale sia oggetto di una apposita disciplina normativa, anche di origine comunitaria.

    Infine, anche l’ultimo profilo di doglianza non merita accoglimento in quanto, al di là della formula impropriamente usata, quello che viene prospettato è un vizio di legittimità costituzionale e in quanto tale il suo esame è inammissibile in questa sede.

    Ne consegue, conclude la Corte, che il quesito referendario, nella formulazione risultante dal trasferimento operato dall’Ufficio centrale, rispetta i limiti espressamente indicati dall’art. 75 Cost. o comunque desumibili sulla base dell’interpretazione logico-sistematica dell’ordinamento costituzionale: esso deve, pertanto, ritenersi ammissibile.

  • Corte Costituzionale – Ordinanza 2 febbraio 2016, n. 19

     

    Oggetto: Processo amministrativo – Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – Art. 133 cod. proc. amm. – Concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari.

    Dispositivo: inammissibilità.

    La Corte Costituzionale, con la ordinanza indicata in epigrafe, si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, lett. b) del c.p.a. nella parte in cui non devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le questioni che attengono la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari.

    Ad avviso del Tribunale remittente, l’estensione della giurisdizione anche alle questioni sopra citate potrebbe trovare il suo fondamento nell’art. 12 della l. 241/90 che qualifica come concessioni le “sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati”.

    Poiché, però, tale percorso ermeneutico non è stato condiviso dalla giurisprudenza delle Corti superiori che hanno escluso che le controversie relative alla revoca di sovvenzioni in denaro pubblico rientrino nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, osserva il giudice a quo che continua ad applicarsi il criterio in base al quale “le controversie in tema di agevolazioni finanziarie sono attribuite alla giurisdizione amministrativa se riferite al momento genetico del rapporto, ovvero se – pur riguardando il momento funzionale − l’amministrazione abbia adottato un provvedimento discrezionale; spettano, invece, al giudice ordinario le controversie relative al momento funzionale, se l’atto che incide sulla posizione del privato consegue all’inadempimento e ha natura vincolata”.

    In base ai criteri appena individuati, il T.A.R. remittente si duole che la norma censurata gli permette di avere la cognizione “di soli due dei sei motivi di revoca posti a fondamento dell’atto impugnato, mentre il ricorso sarebbe inammissibile con riferimento agli altri quattro motivi del medesimo provvedimento”.

    Dunque, l’ostacolo che incontrerebbe il giudice amministrativo nel conoscere tutte le ragioni poste a base del provvedimento impugnato sarebbe incompatibile, in primo luogo, con gli artt. 24 e 111 Cost., “in quanto la disposizione impugnata, escludendo dall’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in tema di diritti, relative alle agevolazioni finanziarie, si porrebbe in contraddizione con il principio costituzionale del giusto processo, sotto il profilo della concentrazione delle tutele”; in secondo luogo, con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., in quanto costringerebbe ad adire due giudici e a coltivare due giudizi per rimuovere dalla realtà giuridica un solo atto; ed infine, con l’art. 76 Cost. per eccesso di delega.

    La Corte Costituzionale, dato atto dell’oggettiva situazione di non agevole distinguibilità tra posizioni di diritto soggettivo e d’interesse legittimo in materia di concessione di agevolazioni finanziarie nonché del fallimento del tentativo di pervenire all’estensione in via interpretativa in quanto tale percorso non è stato condiviso dalla giurisprudenza delle Corti superiori, afferma che “il petitum del rimettente è dichiaratamente volto ad ottenere una pronuncia additiva”.

    Tuttavia, ritiene conclusivamente la Corte, l’addizione invocata dal rimettente non tiene conto della previsione di cui all’art. 103 Cost., laddove stabilisce che “sia la legge ad indicare le particolari materie nelle quali è attribuita agli organi di giustizia amministrativa la giurisdizione per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi”.

    Peraltro, ad avviso dei giudici costituzionali, “la motivazione dell’ordinanza di rimessione non spiega le ragioni per le quali il denunciato vulnus di costituzionalità possa, e debba, essere eliminato mediante l’attrazione nella giurisdizione del giudice amministrativo delle controversie relative a diritti in materia di concessioni di contributi e sovvenzioni: il petitum del rimettente non è, quindi, supportato da elementi che consentano di ritenere che quella invocata sia l’unica scelta costituzionalmente compatibile e necessitata”.

    Per entrambe le sopraindicate ragioni, conclude la Corte, la questione deve essere dichiarata inammissibile.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 17 febbraio 2016, n. 30

     

    Oggetto: Trasporto pubblico locale – Art. 12, comma 3 della L. Regione Piemonte n. 22/2006 – Tutela della libera concorrenza – Ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni.

    Dispositivo: illegittimità costituzionale.

    La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale, sollevata con ordinanza dal Tar Piemonte, dell’art. 12, comma 3 della legge della Regione Piemonte n. 22/2006 recante norme in materia di trasporto di viaggiatori effettuato mediante noleggio di autobus con conducente nella parte in cui prevede il divieto per le imprese che svolgono suddetta attività di incrementare il parco autobus con automezzi usati.

    In particolare, il Tar remittente censura l’art. 12 della normativa regionale in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, primo e secondo comma, Cost. in quanto esso: a) avrebbe introdotto un requisito di esercizio non previsto dal diritto europeo, con effetto discriminatorio nei confronti delle imprese stabilite nella Regione Piemonte; b) si porrebbe in diretto contrasto con la natura ”trasversale” e prevalente della tutela della libera concorrenza e introdurrebbe una gravosa restrizione all’utilizzo di autobus usati nei confronti dei soli operatori economici iscritti nel registro della Regione Piemonte, al di fuori dei principi stabiliti dalla legge statale e delle competenze riservate alla legislazione regionale; c) ove il divieto di acquisire autobus usati trovasse la propria giustificazione nell’obiettivo di salvaguardare la sicurezza […] e di tutelare l’ambiente […], si porrebbe in contrasto con la riserva di potestà esclusiva statale nelle materie della sicurezza e della tutela dell’ambiente (rispettivamente art. 117, comma 2 lett. h ed s).

    La Corte Costituzionale dà conto del fatto che, dopo l’adozione dell’ordinanza di rimessione, la disposizione in esame è stata sostituita dalla legge della Regione Piemonte n. 20/2015, tuttavia afferma anche che lo ius superveniens non fa venir meno la rilevanza della questione sollevata, in quanto il giudice a quo è sempre tenuto al rispetto del principio del tempus regit actum.

    Ne consegue che il nucleo della questione, ad avviso della Corte, è capire se la Regione, che è titolare di competenza legislativa residuale in materia di trasporto pubblico locale, possa prevedere o meno – nell’esercizio di tale competenza – un limite all’iniziativa economica privata, in presenza della legge statale n. 218 del 2003.

    Con tale legge, il legislatore statale ha, infatti, inteso definire il punto di equilibrio fra il libero esercizio dell’attività di trasporto e gli interessi pubblici interferenti con tale libertà: il bilanciamento così operato (fra la libertà di iniziativa economica e gli altri interessi costituzionali), costituendo espressione della potestà legislativa statale nella materia della tutela della concorrenza, definisce un assetto degli interessi che il legislatore regionale non è legittimato ad alterare.

    Pertanto, le Regioni sono abilitate a regolare gli oggetti indicati dalla stessa legge statale e, in generale, la gestione del servizio, ma non possono introdurre, a carico delle imprese di trasporto aventi sede nel territorio regionale, limiti che, lungi dal rispettare i criteri di tutela della libertà di concorrenza fissati nella legge statale, penalizzerebbero gli operatori “interni”, data l’assenza di delimitazioni territoriali delle autorizzazioni rilasciate nelle altre regioni.

    Conclude, dunque, la Corte che l’art. 12, comma 3 della legge Regione Piemonte n. 22/2006, non solo comporta maggiori oneri in capo alle imprese di trasporto aventi sede in Piemonte rispetto a quelle situate in altre Regioni, ma è altresì idoneo a produrre l’effetto (nel caso in cui l’impresa non abbia le maggiori risorse necessarie per comprare un autobus nuovo) di impedire irragionevolmente l’espansione dell’attività delle imprese stesse e, dunque, di limitare la concorrenza e con essa le possibilità di scelta da parte dei committenti: ne va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 19 febbraio 2016, n. 36

     

    Oggetto: Equa riparazione per irragionevole durata del processo – Legge n. 89/2001 (cd. Legge Pinto) – Eccessiva protrazione di un procedimento disciplinato dalla Legge Pinto.

    Dispositivo: inammissibilità; illegittimità costituzionale.

    Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale si è pronunciata su ben sei ordinanze provenienti dalla Corte d’Appello di Firenze ed aventi ad oggetto tutte la censura di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis e 2-ter della legge n. 89/2001 (cd. Legge Pinto).

    La Corte remittente sostiene che l’art. 2 della suindicata legge – nell’assicurare un’equa riparazione a chi abbia subito un danno conseguente dall’irragionevole durata del processo – abbia introdotto, ai commi censurati, una disciplina legale dei termini entro i quali il giudizio deve reputarsi rispettoso del principio di ragionevole durata del processo che viola gli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

    In particolare, i giudici remittenti si dolgono del fatto di dover applicare la stessa disciplina legale dei termini prevista dai commi 2-bis e 2-ter per i processi ordinari di cognizione (3 anni per il primo grado, 2 anni per il secondo grado e 1 anno per il giudizio di legittimità, nonché 6 anni complessivi per definire in modo irrevocabile il giudizio) anche ai processi regolati proprio dalla l. n. 89/2001.

    La Corte EDU avrebbe, infatti, reiteratamente affermato che grava un peculiare onere di diligenza sullo Stato già inadempiente all’obbligo di assicurare la ragionevole durata di un processo: per questa ragione, il diritto all’equa riparazione dovuta a causa dell’eccessiva protrazione di un procedimento disciplinato dalla l. 89/2001 andrebbe soddisfatto con particolare celerità, mentre non sarebbero a tal fine adeguati i termini previsti in via generale, con riferimento alla durata dell’ordinario processo di cognizione.

    Al riguardo, le SS.UU. (sent. n. 6312/2014) avevano ritenuto congruo il termine di durata di un anno, per l’unico grado di merito del procedimento regolato dalla legge Pinto, e quello di un ulteriore anno, relativamente al giudizio di legittimità previsto da tale legge, per complessivi 2 anni.

    Così individuati i contorni della questione, la Corte Costituzionale ha in primo luogo precisato, facendo propria l’osservazione formulata dall’Avvocatura dello Stato, che per ciò che concerne l’art. 2, comma 2-ter, esso non sarebbe applicabile ai procedimenti previsti dalla legge Pinto, perché essi sono articolati su due gradi di giudizio, mentre il termine di sei anni previsto da tale norma, e che si considera “comunque” ragionevole, esigerebbe che il processo si sia svolto in tre gradi. Ne consegue che la relativa questione deve considerarsi inammissibile.

    In secondo luogo, invece, la Corte Costituzionale dichiara fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel primo e unico grado di merito.

    La Corte afferma, in motivazione, che dalla giurisprudenza europea consolidata si evince il principio di diritto, secondo cui lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie, che nella maggior parte dei casi sono più complesse, e che, comunque, non sono costruite per rimediare ad una precedente inerzia nell’amministrazione della giustizia. Ne consegue che l’art. 6 della CEDU […] preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale.