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Anno XVI - n. 05 - Maggio 2024

  Costituzionale



Osservatorio sulla Giustizia Costituzionale al 31 luglio 2016. A cura di Dalila Uccello

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  • Corte Costituzionale - Sentenza 15 Luglio 2016, n. 179

     

    Oggetto: Giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo – Accordi ex art. 11 della L. n. 241/1990 -  Processo a parti invertite – Art. 133, comma 1, n. 2, lett. a) e f) del D.Lgs. n. 104/2010 - Artt. 103 e 113 della Costituzione.

    Dispositivo: Infondatezza.

    Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale viene chiamata a decidere della legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, n. 2, lett. a) e f), del D.lgs. n. 104/2010 (da ora, “CPA”) sulla devoluzione degli accordi ex art. 11 della legge n. 241/1990 (da ora, “LPA”) alla giurisdizione esclusiva del GA.

    Il giudice rimettente, rilevando che il giudizio ha per oggetto l’esecuzione di obbligazioni derivanti da un atto convenzionale, nella specie di “moduli convenzionali in urbanistica”, riconduce la fattispecie alla categoria degli accordi previsti dall’art. 133, comma 1, lettera a), numero 2), CPA.

    Tale disposizione riserva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di “formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo […]”.

    Inoltre, il medesimo art. 133, comma 1, alla successiva lettera f), attribuisce alla stessa giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio […]”.

    Osserva il rimettente che, in riferimento alle convenzioni urbanistiche, dottrina e giurisprudenza concordemente riconoscono la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche quando la pubblica amministrazione assume la veste di parte ricorrente ed il privato quella di parte resistente, ammettendo la tutela della pubblica amministrazione nei confronti dei soggetti privati in un giudizio <<a parti invertite>>.

    Al riguardo, viene richiamata l’ordinanza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 7 febbraio 2002, n. 1763, che ha affermato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla controversia, introdotta dalla pubblica amministrazione, avente ad oggetto l’inadempimento del privato delle obbligazioni derivanti da una convenzione di lottizzazione.

    Il giudice rimettente ritiene che l’art. 133, comma 1, lettera a, numero 2), e lettera f), determini dubbi di compatibilità con gli artt. 103, primo comma, e 113, primo comma, Cost., i quali porterebbero a ritenere che – anche nelle controversie devolute in via esclusiva al giudice amministrativo – la giurisdizione sia limitata alla tutela del privato nei confronti della pubblica amministrazione, quale parte necessariamente resistente, ed escluderebbero, invece, che la stessa pubblica amministrazione possa assumere la veste di ricorrente. 

    Ad avviso della difesa statale, la controversia nella quale si discute dell’esercizio - anche in forma convenzionale - di poteri pubblici è attratta nella giurisdizione del giudice amministrativo, non rilevando a livello costituzionale le forme procedurali attraverso le quali tale obiettivo viene perseguito.

    L’Avvocatura di Stato rileva come la disciplina del concreto svolgimento processuale della giustizia amministrativa compete alla legge ordinaria e non è prestabilita a livello costituzionale. Ciò troverebbe conferma nell’ultimo comma dell’art. 113 Cost., allorché prevede che sia la legge a determinare quali organi di tale giustizia, in quali casi e con quali effetti, possano pronunciare l’annullamento degli atti amministrativi. 

    Le norme costituzionali invocate non imporrebbero, quindi, che attore debba essere necessariamente (ed esclusivamente) il privato.

    Tale conclusione sarebbe, inoltre, coerente con la portata bilaterale della garanzia introdotta dalle norme costituzionali citate.

    A bene vedere, esse garantiscono al privato la disponibilità di un giudice “naturale” del potere amministrativo e, nello stesso tempo, assicurano quel giudice anche all’interesse pubblico, di cui l’amministrazione è interprete, allorché provvede nelle varie forme consentite, comprese quelle convenzionali.

    La difesa statale evidenzia, in linea generale, che la giustizia amministrativa moderna nasce dal superamento del privilegio soggettivo di un giudice “domestico” della pubblica amministrazione, come erano i tribunali del contenzioso amministrativo aboliti nel 1865.

    Pertanto, la giurisdizione amministrativa va affidata ad un giudice specificamente preparato a giudicare la complessità del rapporto giuridico amministrativo, nel quale si ha la ponderazione tra il soddisfacimento dell’interesse specifico e l’immanente e imprescindibile garanzia dell’interesse generale.

    Sarebbe proprio questa la ragione per cui, aboliti nel 1865 i tribunali del contenzioso amministrativo, non apparve garanzia sufficiente la generalizzazione della giurisdizione ordinaria, e nel 1889 si istituì la nuova giustizia amministrativa, al fine di avere un giudice specificamente preordinato a garantire il privato e a verificare la legittimità della ponderazione dell’interesse individuale con gli interessi generali.

    Se dunque la giustizia amministrativa si pone, nella sostanza, come giurisdizione sul rapporto e non sull’atto amministrativo, non vi sarebbe alcuna anomalia nell’ammettere che, sul piano processuale, l’azione avanti al giudice amministrativo possa proporsi non solo dal privato, ma anche dall’amministrazione.

    Si osserva, in primo luogo, che sebbene il tenore letterale degli artt. 103 e 113 Cost. sembri alludere solo al caso in cui il ricorso alla giustizia amministrativa sia proposto dal privato, da ciò non sarebbe ricavabile il divieto della proposizione di tale ricorso anche da parte dell’amministrazione.

    In secondo luogo, le disposizioni censurate costituiscono pur sempre applicazione, con riferimento ai rapporti giuridici amministrativi, dei principi generali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui questi garantiscono a tutti i soggetti dell’ordinamento il diritto di agire in giudizio a tutela delle proprie posizioni soggettive, e di farlo attraverso un «giusto processo», improntato alla parità delle armi tra le parti.

    In questa prospettiva, l’interpretazione dei principi costituzionali proposta dal TAR si tradurrebbe essa stessa in una più grave violazione della Costituzione.

    Sarebbe preclusa la tutela giudiziale dell’interesse generale rappresentato dall’amministrazione qualora esso fosse stato gestito mediante la stipula di un accordo sostitutivo o integrativo del provvedimento, mentre il privato potrebbe adire il giudice amministrativo, qualora l’amministrazione fosse inadempiente.

    Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la scelta del “modulo convenzionale” da parte dell’amministrazione non comporterebbe la perdita del potere di autotutela esecutiva, normalmente attivabile nei confronti del privato che si sottragga agli obblighi derivanti a suo carico dal provvedimento amministrativo autoritativo (nella specie, al pagamento degli oneri di concessione).

    Viene, inoltre, richiamata quella giurisprudenza del Consiglio di Stato che afferma che l’applicazione dei principi in tema di obbligazioni e contratti agli accordi dell’amministrazione trova un limite nell’esercizio di potestà pubbliche e nelle finalità di pubblico interesse alle quali esse sono teleologicamente orientate.

    Ed invero, anche nei contratti ad oggetto pubblico l’amministrazione mantiene, comunque, la sua tradizionale posizione di supremazia. Tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del diritto privato, ma dai «principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti», sempre «in quanto compatibili» e salvo che sia «non diversamente previsto».

    Le disposizioni vengono censurate nella parte in cui, secondo il diritto vivente, esse ricomprendono, nelle materie di giurisdizione esclusiva da esse stesse indicate, le controversie nelle quali sia la pubblica amministrazione – e non l’amministrato – ad adire il giudice amministrativo. Ciò contrasterebbe con il sistema di giustizia amministrativa delineato dagli artt. 103 e 113 Cost.

    Ad avviso della Corte, l’eccezione di inammissibilità della questione relativa all’art. 133, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 104 del 2010 non è fondata.

    Rileva la Corte come “la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di convenzioni sostitutive dei provvedimenti unilaterali, quale che sia la materia in cui tali negozi vengono stipulati, sarebbe contenuta nel comma l, lettera a), numero 2), dello stesso art. 133 CPA, il quale sarebbe, dunque, la sola disposizione rilevante”.

    Va peraltro rilevato che nel giudizio a quo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si può radicare sia sulla disposizione dell’art. 133, comma 1, lettera a), numero 2), sia su quella della lettera f), del medesimo art. 133, comma 1, CPA. Una controversia relativa all’esecuzione di una convenzione di lottizzazione può infatti trovare adeguata soluzione innanzi al giudice amministrativo (anche) in virtù di tale disposizione.

    Nelle ipotesi contemplate dalla lettera a), numero 2), è frequente che accada che sia l’amministrazione a chiedere al giudice la condanna della parte privata, anziché il privato che porti a conoscenza del giudice un accordo o un provvedimento dell’amministrazione ritenuto lesivo.

    È di tutta evidenza che dagli accordi procedimentali possono derivare non solo vincoli a carico dell’autorità procedente, ma anche obblighi gravanti sul contraente privato.

    Se, di norma, la pubblica amministrazione è parte resistente nel processo amministrativo, dapprima l’art. 11, comma 5, legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) ed in seguito l’art. 133, comma 1, lettera a), numero 2), del CPA, hanno devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie che trovano titolo negli accordi che sostituiscono o integrano i provvedimenti amministrativi.

    In tali controversie, anche quando parte attrice sia l’amministrazione, la giurisprudenza di legittimità, sia ordinaria, sia amministrativa, riconosce la giurisdizione del giudice amministrativo.

    Del resto, una giurisprudenza costituzionale ormai “granitica” identifica i criteri che legittimano la giurisdizione esclusiva ex art. 103 Cost. del giudice amministrativo in riferimento esclusivo alle materie prescelte dal legislatore ed all’esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, di un potere pubblico (sentenze n. 191 del 2006 e n. 204 del 2004).

    La Consulta rileva come siffatta giurisdizione si attivi quando siano coinvolte situazioni giuridiche di diritto soggettivo e interesse legittimo talmente connesse da risultare inestricabili e che essi si trovino “a dialogare” con il potere della P.A., sia mediante atti unilaterali e autoritativi, sia mediante moduli consensuali, sia mediante comportamenti, purché questi ultimi siano posti in essere nell’esercizio di un potere pubblico e non consistano, invece, in meri comportamenti materiali avulsi da tale esercizio ( così anche sentenza n. 35 del 2010).

    In considerazione di tali principi, il diritto vivente in tema di giurisdizione esclusiva sugli accordi procedimentali risulta pienamente coerente con questa ricostruzione sistematica e ne costituisce il ragionevole sviluppo.

    La Consulta rileva come il nostro ordinamento non conosca materie “a giurisdizione frazionata”, in funzione della differente soggettività dei contendenti. Elementari ragioni di coerenza e di parità di trattamento esigono, infatti, che l’amministrazione possa avvalersi della concentrazione delle tutele che è propria della giurisdizione esclusiva e che quindi le sia riconosciuta la legittimazione attiva per convenire la parte privata avanti il giudice amministrativo.

    Alla luce di tali argomenti, deve essere dichiarata l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice rimettente.

  • Corte Costituzionale - Sentenza 21 Luglio 2016, n. 201

     

    Oggetto: Decreto penale di condanna – artt. 3 e 24 Cost. – Avviso della facoltà di chiedere la sospensione con messa alla prova – art. 460, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.

    Dispositivo: illegittimità costituzionale.

    Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale ha dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 460, comma 1, lett. e), del Cod. Proc. Pen., per contrasto con l’art. 24 Cost., “nella parte in cui non prevede  che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova”.

    Rifacendosi al complesso dei principi della consolidata giurisprudenza costituzionale sulle facoltà difensive per la richiesta dei riti speciali, ad avviso della Consulta, il predetto avviso non può non valere anche per il nuovo procedimento di messa alla prova.

    In particolare, la Corte rileva la necessità che all’imputato sia dato avviso della facoltà di richiederlo, al fine di determinare correttamente le proprie scelte difensive, alla stessa stregua dei riti speciali.

    Considerato che nel procedimento per decreto, il termine entro il quale chiedere la prova è anticipato rispetto al giudizio, che è corrispondente a quello per proporre opposizione, la mancata previsione dell’art. 460, comma 1, tra i requisiti del decreto penale di condanna, di un avviso della facoltà dell’imputato di chiedere la messa alla prova - come quello sancito per i riti speciali - comporta una lesione del diritto di difesa e la violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost.

    L’istituto della messa alla prova, introdotto con gli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater cod. pen. – osserva la Consulta – “ha effetti sostanziali” poiché determina l’estinzione del reato, ma, allo stesso tempo, “è connotato da un’intrinseca dimensione processuale”, in quanto dà luogo ad un nuovo procedimento speciale - alternativo al giudizio - nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.

    Nella specie, l’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce i termini entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta di messa alla prova.

    A ben vedere, si tratta di termini diversi, articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti, e la loro disciplina è “collegata alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo”.

    Nel procedimento per decreto, la richiesta deve essere presentata con l’atto di opposizione.

    Come negli altri riti, anche nel procedimento per decreto deve ritenersi che la mancata formulazione della richiesta nel termine stabilito dall’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. - e cioè con l’atto di opposizione - determini una decadenza, sicché nel giudizio conseguente all’opposizione, l’imputato, che prima non l’abbia chiesta, non può più chiedere la messa alla prova.

    A differenza di quanto accade per gli altri riti speciali, l’art. 460, comma 1, cod. proc. pen. però, tra i requisiti del decreto penale di condanna, non prevede l’avviso all’imputato che ha facoltà, nel fare opposizione, di chiedere la messa alla prova.

    Secondo costante giurisprudenza costituzionale, la scelta di riti alternativi rappresenta “una delle più qualificanti forme di esercizio del diritto di difesa”, sicché la Consulta, non ha potuto che ricondurre l’avviso de quo, alle garanzie essenziali per il godimento del diritto di difesa.

    In particolare, in ossequio ai principi consolidati, l’omissione dell’avviso predetto, vedrà applicata la sanzione della nullità ex art 178, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., la cui ratio è riposta nella irrimediabile perdita della facoltà riconosciute dalla legge, alla luce del fatto che il termine stabilito per la loro richiesta è un termine a pena di decadenza.

    E vi è di più. È un consolidato principio del Giudice delle Leggi ritenere che “la violazione della regola processuale che impone di dare all’imputato (esatto) avviso della sua facoltà comporta […] la violazione del diritto di difesa”.

    Per le ragioni predette, la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 460, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova.

  • Corte Costituzionale - Sentenza 23 Settembre 2016, n. 213

     

    Oggetto: Coppie di fatto – art. 33, comma 3, L. n. 104/1992 – permesso mensile retribuito per assistenza - artt. 2, 3 e 32 Cost.

    Dispositivo: illegittimità costituzionale.

    Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992 (“Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”), nella parte in cui non prevedeva la possibilità per il  convivente di godere del permesso mensile retribuito al fine di assistere una persona con disabilità grave, si poneva in contrasto con gli artt. 2, 3 e 32 Cost. 

    Il tribunale rimettente rilevava che la norma censurata della normativa vigente sui permessi assistenziali non si prestasse ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, poiché il dettato normativo, tanto nella formulazione precedente che in quella successiva alla modifica di cui all’art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183 del 2010  (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), applicabile al giudizio principale, chiaramente escludeva il convivente more uxorio dal novero dei fruitori dei permessi retribuiti di assistenza, precludendo l’estensione a quest’ultimo dei benefici in questione.

    Con siffatta pronuncia, la Consulta ha quindi esteso l’applicabilità dei permessi di cui alla suindicata legge al convivente di fatto, proprio al fine di garantire e favorire l’assistenza familiare alla persona affetta da handicap grave, in ossequio alla stessa ratio legis.

    Il Tribunale a quo evidenzia come, dal tenore letterale dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992, il concetto di famiglia preso in considerazione dalla norma non sia quello di famiglia nucleare tutelato dall’art. 29 Cost., quanto quello di «famiglia estesa», nella quale sono ricompresi i parenti e gli affini sino al terzo grado, anche se non conviventi con l’assistito.

    La famiglia che viene in rilievo nell’art. 33 – aggiunge il rimettente – è dunque quella intesa come «formazione sociale» ai sensi dell’art. 2 Cost., come strumento di attuazione e garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo e luogo deputato all’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

    A tal proposito, il rimettente sottolinea come sia nella giurisprudenza costituzionale - che sin dagli anni ’80 afferma espressamente che l’art. 2 Cost. è riferibile altresì «alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità» - che nella giurisprudenza di legittimità  si rinvengono significative pronunce in merito alla rilevanza della convivenza more uxorio come formazione sociale, in quanto fonte di diritti e doveri morali e sociali del convivente nei confronti dell’altro.

    Da questa premessa il giudice a quo desume “una discrasia tra la norma in parola, nella parte in cui non attribuisce alcun diritto di assistenza al convivente more uxorio, e i principi sanciti a più riprese dalla giurisprudenza nazionale (tanto costituzionale che di legittimità) e sovranazionale in punto di tutela della famiglia di fatto retta dalla convivenza more uxorio e dei diritti e doveri connessi all’appartenenza a tale formazione sociale”.

    Dichiarando la questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente fondata, ai fini di un adeguato inquadramento, la Consulta procede preliminarmente a ricostruire la ratio dell’istituto del permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato.

    Invero, il Collegio rileva  come invariate siano rimaste nel tempo le condizioni oggettive per il riconoscimento del permesso mensile retribuito, ravvisabili nella situazione di disabilità grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992, riconosciuta, con certificazione o verbale, dalla apposita Commissione Medica Integrata ex art. 4, comma 1, della legge n. 104 del 1992, nonché – fatte salve specifiche eccezioni – nel mancato ricovero a tempo pieno del portatore di handicap da assistere.

    La Corte osserva come la formulazione originaria dell’art. 33, comma 3, riconosceva il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile, anche in maniera continuativa, alla lavoratrice madre o, in alternativa al lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità che avesse compiuto i tre anni di età, nonché a colui (lavoratore dipendente) che assistesse una persona con handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado, convivente.

    Procedendo all’esegesi normativa dei permessi in esame, la Corte osserva come l’art. 20 della legge n. 53 del 2000 (“Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”), abbia sancito l’applicabilità delle disposizioni dell’art. 33 “ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorché non convivente”.

    Dalla lettura congiunta delle predette norme, la prevalente giurisprudenza amministrativa (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione quarta, 22 maggio 2012, n. 2964; Consiglio di Stato, sezione sesta, 1° dicembre 2010, n. 8382) ha desunto l’eliminazione del requisito della “convivenza” anche per i permessi mensili retribuiti di cui al comma 3 dell’art. 33, nonché l’introduzione dei diversi requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza ai fini della concessione delle agevolazioni in questione.

    Successivamente, l’art. 24 della legge n. 183 del 2010, se da un lato - nel novellare l’art. 20 - comma 1, della legge n. 53 del 2000, ha eliminato i requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti, dall’altro - nel modificare l’art. 33, comma 3 della legge n. 104 del 1992 - ha introdotto il principio del “referente unico” per ciascun disabile, ovvero del riconoscimento del permesso mensile retribuito a non più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità, fatta salva la possibilità per i genitori, anche adottivi, di fruirne alternativamente, per l’assistenza dello stesso figlio affetto da grave disabilità. Nella formulazione dell’art. 33, comma 3, come sostituito dall’art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183 del 2010, è stato, peraltro, espunto espressamente il requisito della “convivenza”.

    La Corte pertanto riconduce il permesso mensile retribuito di cui al censurato art. 33, comma 3, alle prerogative dello Stato sociale, che eroga una provvidenza in forma indiretta - tramite facilitazioni e incentivi - ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave.

    Trattasi di uno strumento di politica socio-assistenziale, che - come quello del congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 - è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.

    Pertanto, la Corte Costituzionale, richiamando giurisprudenza consolidata, dichiara che rimane la tutela della salute psico-fisica del disabile, la finalità ultima perseguita dalla legge n. 104 del 1992, la quale postula anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie «il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap» (sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).

    Ad avviso della Consulta, quindi, l’istituto del permesso mensile retribuito si correla direttamente con le finalità perseguite dalla legge n. 104 del 1992, in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di handicap.

    Alla luce della enucleata ratio, è irragionevole espungere dall’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito il convivente della persona con handicap in situazione di gravità.

    Pertanto, l’art. 3 Cost. va invocato, dunque, non per la sua portata eguagliatrice - restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente - ma per la contraddittorietà logica dell’esclusione del convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile.

    Nel dichiarare la norma costituzionalmente illegittima, la Corte osserva che “ove così non fosse, il diritto – costituzionalmente presidiato – del portatore di handicap di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio”.

  • Corte Costituzionale – 16 settembre 2016, n. 210

     

    Oggetto: Ambiente – materia trasversale – artt. 3, comma l; 4, comma l; 8, comma 3; 11, comma 2; 15, commi l e 2; 17, commi 2 e 3; 23, commi l e 2; 24, commi l e 2, della legge della Regione Liguria 6 marzo 2015, n. 6, recante «Modifiche alla legge regionale 5 aprile 2012, n. 12 (Testo unico sulla disciplina dell’attività estrattiva), alla legge regionale 21 giugno 1999, n. 18
    (Adeguamento delle discipline e conferimento delle funzioni agli enti locali in materia di ambiente, difesa del suolo ed energia), alla legge regionale 4 agosto 2006, n. 20 (Nuovo ordinamento dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente ligure) e alla legge regionale 2 dicembre 1982, n. 45 (Norme per l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di competenza della Regione o di enti da essa individuati, delegati o subdelegati)» - Artt. 117, comma 2, lett. s) e 97 Cost.

    Dispositivo: illegittimità costituzionale.

    Sulla questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma l, 4, comma l, 8, comma 3, 11, comma 2, 15, commi l e 2, 17, commi 2 e 3, 23, commi l e 2, 24, commi l e 2, della legge della Regionale 6 marzo 2015, n. 6 (da ora “L.R.”), recante «Modifiche alla legge regionale 5 aprile 2012, n. 12 (Testo unico sulla disciplina dell’attività estrattiva), alla legge regionale 21 giugno 1999, n. 18 (Adeguamento delle discipline e conferimento delle funzioni agli enti locali in materia di ambiente, difesa del suolo ed energia), alla legge regionale 4 agosto 2006, n. 20 (Nuovo ordinamento dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente ligure) e alla legge regionale 2 dicembre 1982, n. 45 (Norme per l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di competenza della Regione o di enti da essa individuati, delegati o subdelegati), la Corte Costituzionale si è pronunciata ritenendo tutte le questioni proposte fondate.

    La Corte Costituzionale, con la pronuncia in epigrafe, conferma un principio più volte ribadito in merito alla materia ambientale: non si può identificare come materia in senso stretto, ma come “una sorta di materia trasversale”.

    Siffatta trasversalità implica l’esistenza di “competenze diverse che ben possono essere regionali”, con la conseguenza che allo Stato sarebbe riservato solo “il potere di fissare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali” (così si legge nella sentenza n. 407 del 2002).

    La Consulta ricorda come la giurisprudenza costituzionale abbia, peraltro, chiarito che alle Regioni non è consentito apportare deroghe in peius rispetto ai parametri di tutela dell’ambiente fissati dalla normativa statale, ed è stata  costante nell’affermare che la “tutela dell’ambiente rientra nelle competenze legislative esclusive dello Stato e che, pertanto, le disposizioni legislative statali adottate in tale ambito fungono da limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, dettano nei settori di loro competenza, essendo ad esse consentito soltanto eventualmente di incrementare i livelli della tutela ambientale, senza però compromettere il punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma dello Stato”.

    Nel caso in esame, la Consulta rileva come la competenza esclusiva statale, in materia di tutela dell’ambiente, si debba confrontare con la competenza regionale, in materia di cave, senza che ciò, però, possa importare alcuna deroga rispetto a quanto già affermato da questa Corte in ordine ai principi che governano la tutela dell’ambiente.

    In relazione alle specifiche questioni, l’art. 3, comma 1 della L.R. n. 6 del 2015, che modifica l’art. 4 della L.R. n. 12 del 2012, sostituendo il previgente obbligo di coerenza del Piano regionale delle attività estrattive al Piano territoriale di coordinamento paesistico (da ora, “PTCP”) con un vincolo di mero raccordo tra i due atti, comporta una significativa alterazione del principio di prevalenza gerarchica del piano paesaggistico, sancito dall’art. 145 del codice dei beni culturali e del paesaggio.

    Secondo quanto rilevato dalla Consulta, la circostanza che all’autorità procedente sia, comunque, imposto di avviare, contestualmente al processo di formazione del piano, la procedura di valutazione ambientale strategica (VAS) non priva di rilievo la dedotta violazione.

    Ciò, in quanto non può ritenersi ammissibile che una disposizione di legge regionale limiti o alteri, in qualsivoglia forma, il principio di gerarchia degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali che va considerato - come già affermato nella sentenza n. 182 del 2006 – “valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale” (principio ribadito nelle recenti sentenze di questa Corte n. 64 del 2015, n. 197 del 2014 e n. 211 del 2013).

    La Corte pertanto dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della L.R. n. 6 del 2015, in quanto contrastante con l’art. 117, comma secondo, lettera s), Cost. per violazione dell’art. 145 del codice dei beni culturali e del paesaggio.

    Quanto all’art. 4, comma 1, della L.R. n. 6 del 2015, la Corte rileva come - nel modificare il comma l dell’art. 5 della legge reg. n. 12 del 2012 - sopprima il riferimento alla necessità che il progetto di Piano regionale delle attività estrattive adottato dalla Giunta regionale debba essere corredato dal rapporto ambientale, come, invece, imposto dal comma 5 dell’art. 11 e dai commi 1 e 3 dell’art. 13 del d.lgs. n. 152 del 2006, violando l’art. 117, comma secondo, lettera s), Cost. Conseguentemente, ne dichiara l’illegittimità costituzionale.

    Sulle censure relative agli artt. 8, comma 3, 11, comma 2, 17, commi 2 e 3, e 24, commi l e 2, della L.R. n. 6 del 2015, la Consulta afferma in via preliminare la necessità di un esame congiunto, presentando tutte la previsione di «margini di flessibilità» della autorizzazione paesaggistica per l’esecuzione e l’autorizzazione all’esercizio dell’attività estrattiva. In proposito, la Corte rileva che quest’ultima espressione non risulta contemplata dalla normativa statale.

    Inoltre, si osserva che il rapporto di necessaria presupposizione, stabilito dall’art. 146, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio, tra l’autorizzazione paesistica e l’autorizzazione all’esercizio dell’attività estrattiva, impone che quest’ultima non possa avere dei contenuti - come i detti «margini di flessibilità» - che non risultino già previsti e disciplinati nell’autorizzazione paesistica, non essendo consentito al legislatore regionale di introdurre, ex novo, categorie concettuali ed istituti idonei, per la loro indeterminatezza, a cagionare l’elusione dei precetti statali.

    Pertanto, le norme censurate sono state dichiarate costituzionalmente illegittime per violazione dell’art. 117, comma secondo, lettera s), Cost., dato il contrasto con l’art. 146, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio. Resta assorbita la censura relativa alla dedotta violazione dell’art. 97 Cost.

    Sulle censure aventi ad oggetto la legittimità costituzionale dell’art. 15 della L.R. n. 6 del 2015 (a modifica dell’art. 17 della legge reg. n. 12 del 2012),  il quale consente di effettuare, negli impianti a servizio dell’attività di cava, il recupero e la lavorazione di materiali di provenienza esterna, sia estratti da altre cave, che derivanti da demolizioni, restauri o sbancamenti, previa la semplice presentazione allo Sportello unico per le attività produttive (SUAP) di una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), secondo le modalità stabilite all’uopo dalla Giunta regionale.

    Alla luce della normativa statale vigente in materia, il riempimento delle cave mediante rifiuti da estrazione risulta consentito, utilizzando la procedura semplificata prevista dagli artt. 214 e 216 del d.lgs n. 152 del 2006 e dal d.m. 5 febbraio 1998 e successive modifiche ed integrazioni, mentre, ove si tratti di rifiuti diversi da quelli di estrazione, la disciplina applicabile risulta essere quella posta dall’art. 208 del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.

    Va osservato inoltre che la clausola di salvaguardia contenuta nel novellato comma l dell’art. 17 della L.R. n. 12 del 2012, secondo cui l’attività in esame deve essere svolta nel rispetto di quanto previsto dalla normativa statale e regionale in materia ambientale e di rifiuti delle industrie estrattive e l’attività prevalente dell’azienda, risulta del tutto generica e, quindi, non idonea a specificare, in conformità alle previsioni della legge statale, né le condizioni di svolgimento dell’attività di recupero e di lavorazione dei materiali di provenienza esterna alla cava, né l’esatta portata della nozione di «attività prevalente dell’azienda».

    Inoltre, con riferimento alla disposizione impugnata di cui al comma 2 dell’art. 15 della L.R. n. 6 del 2015, relativo alla possibilità di avviare le dette attività di recupero subordinandole a semplice SCIA, la norma regionale non stabilisce che questa debba essere successiva e condizionata al rilascio delle autorizzazioni ambientali, determinando con ciò una evidente violazione dei precetti statali.

    Deve, quindi, ritenersi che la norma regionale impugnata sia anch’essa lesiva dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per violazione delle norme interposte richiamate e, pertanto, ne debba essere dichiarata l’illegittimità costituzionale.

    Sulla questione di legittimità avente ad aggetto l’art. 23, commi l e 2, della L.R. n. 6 del 2015, i quali modificano l’art. 28 della legge reg. n. 12 del 2012, relativamente alla mancata previsione di partecipazione degli organi ministeriali ai procedimenti da essa disciplinati, la Consulta rileva l’aperto contrasto con la previsione dell’art. 145, comma 5, del codice dei beni culturali e del paesaggio, che ne assicura, invece, la partecipazione al procedimento medesimo (in questo senso le sentenze n. 64 del 2015, n. 197 del 2014 e n. 211 del 2013).

    Quanto, poi, alla previsione contenuta dall’art. 23, comma 2, che consente alla Regione di rilasciare autorizzazioni aventi ad oggetto un incremento sino al 25% della superficie dell’areale di cava e/o la modifica della tipologia normativa, sulla base della presunzione ex lege che tali incrementi non comportano mai variazioni al PTCP, osserva la Corte “deve essere, preliminarmente, evidenziato che la prevista irrilevanza di detto incremento, per quanto concerne le zone soggette a vincolo paesaggistico sulla base di previsione di legge o di specifico provvedimento, non può, in alcun modo e in nessun caso, discendere da una disposizione di legge regionale, dovendo invece, costituire oggetto di specifico accordo tra la Regione e il Ministero dei beni e delle attività culturali, secondo quanto previsto, in materia, dagli artt. 135, 143 e 156 del codice dei beni culturali e del paesaggio, che sanciscono il principio inderogabile della pianificazione congiunta e che risultano, nel caso di specie, palesemente violati”.

    Ciò in quanto – asserisce la Corte richiamando principi consolidati – “la disciplina regionale, anche se di dettaglio o meramente transitoria, non può derogare in senso peggiorativo rispetto alla disciplina statale in materia e deve garantire, attraverso la partecipazione degli organi ministeriali ai procedimenti in materia, l’effettiva ed uniforme tutela dell’ambiente (così le già citate sentenze n. 64 del 2015, n. 197 del 2014 e n. 211 del 2013). Ne deriva che va dichiarata l'illegittimità costituzionale anche dei commi l e 2 dell’art. 23 della legge reg. Liguria n. 6 del 2015 per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.”.