ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 05 - Maggio 2024

  Costituzionale



Osservatorio sulla Giustizia Costituzionale al 31 maggio - 30 giugno 2017. A cura di Dalila Uccello

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  • CORTE COSTITUZIONALE - Sentenza 26 maggio 2017, n. 121

    Oggetto: Medici addetti a istituti penitenziari –Tetto massimo ore di lavoro – Legge Regione Puglia - Violazione dell’art. 117, II c., lett. 1), Cost.

    Dispositivo: Incostituzionalità

    Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale dichiara incostituzionale il tetto massimo dell’orario di lavoro dei medici incaricati dei servizi di medicina penitenziaria, fissato dall’art. 21, comma 7, della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e servizi sociali), per invasione della competenza in materia di ordinamento civile riservata al legislatore statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

    Segnatamente, la censura riguarda quella parte in cui si dispone un tetto massimo di quarantotto ore settimanali.
    La Corte, richiamando la propria consolidata giurisprudenza, ha dichiarato che la disciplina dei vari profili del tempo della prestazione lavorativa deve essere ricondotta alla materia dell’ordinamento civile, in quanto parte integrante della disciplina del trattamento normativo del lavoratore dipendente, sia pubblico che privato (cfr. Corte Cost. 5 dicembre 2016, n. 257; 14 febbraio 2013, n. 18; 19 dicembre 2012, n. 290), quindi di esclusiva competenza del legislatore statale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

  • CORTE COSTITUZIONALE - Sentenza 26 maggio 2017, n. 123

    Oggetto: Giustizia amministrativa – Ampliamento casi di revocazione – Obbligo adeguamento a successiva sentenza Cedu – Artt. 106 C.p.a. e 395 e 396 C.p.c. – Violazione art. 117, I c., Cost. in relazione all’art. 46 CEDU. 

    Dispositivo: Infondatezza

    Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale non amplia i casi di revocazione in presenza di un giudicato amministrativo contrastante con una sopravvenuta sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

    Nella specie, la Consulta dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 e degli artt. 395 e 396 del Cod. Proc. Civ., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza in caso di contrasto con una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (da ora “CEDU”).

    Con una articolata decisione, la Corte costituzionale respinge le questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’Adunanza plenaria (si tratta in particolare dell’ordinanza 4 marzo 2015, n. 2, secondo cui  «Il giudice amministrativo, così come quello ordinario, non può autonomamente disapplicare la norma interna che ritenga incompatibile con la convenzione europea dei diritti dell’uomo, analogamente a quanto previsto per il diritto dell’Unione europea, e ciò in quanto sulle norme interne contrastanti con le norme pattizie internazionali, ivi compresa la Cedu, spetta esclusivamente alla corte costituzionale il sindacato di costituzionalità accentrato; è fatta salva l’interpretazione "conforme alla convenzione", e quindi conforme agli impegni internazionali assunti dall’Italia, delle norme interne, interpretazione, anzi, doverosa per il giudice che, prima di sollevare un’eventuale questione di legittimità, è tenuto ad interpretare la disposizione nazionale in modo conforme a Costituzione».

    Invero, nella giurisprudenza della Consulta si rinviene un caso analogo relativamente alla revisione del processo penale, a seguito di una pronuncia della Corte di Strasburgo, ove la Corte Costituzionale statuiva nei seguenti termini: “È costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. in relazione all'art. 46, par. 1, CEDU, l'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo”(così si legge nella sentenza 7 aprile 2011, n. 113).

    Tuttavia, nel caso affrontato nella decisione in esame, la Consulta ha escluso l’ampliamento dei casi di revocazione civile ed amministrativa, poiché a differenza del precedente suddetto, non sono estensibili i diversi principi elaborati in ambito penalistico.

    Così argomentando, la Corte, passati in rassegna tutti i più peculiari casi affrontati da ultimo dalla giurisprudenza CEDU - da Mottola e Staibano contro Italia, del 4 febbraio 2014 (che ha sancito la responsabilità dello Stato italiano) a Bochan contro Ucraina, affrontato dalla Grande Camera il 5 febbraio 2015 - ha rilevato in estrema sintesi come nei processi civili e amministrativi non sia in gioco la libertà personale e che pertanto,  nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non emerge l'esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo. Di conseguenza, ha rilevato che “la decisione di prevedere la riapertura del processo è rimessa agli Stati contraenti i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco (fra cui la certezza dei rapporti giuridici e l’affidamento dei consociati)”, e che “allo stato non esiste, in seno alla Convenzione, una larga maggioranza di Stati membri che abbia optato per la scelta della riapertura dei processi (civili o amministrativi)”.

    La Consulta rileva, infine, come la questione di fondo relativa alla decadenza sancita dal più volte menzionato art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 (che ha rappresentato il punto di equilibrio fra pretese economiche dei dipendenti pubblici ed esigenze di stabilità dei rapporti giuridici e di tutela erariale) – risolta in modo univoco e concorde dalle corti supreme nazionali, Giudice delle leggi, Sezioni unite e Adunanza plenaria, come ricordato dalla sentenza in commento) –  è l’emblema delle criticità insite negli ordinamenti multilivello (in punto di superfetazione degli strumenti di tutela giudiziaria) essendo stata riproposta tal quale dai dipendenti pubblici incorsi nella decadenza attraverso tre distinti canali:
    i) il ricorso diretto alla Corte di Strasburgo per la condanna dello Stato italiano (casi Mottola e Staibano);
    ii) la proposizione (innanzi al giudice amministrativo) della domanda di revocazione dei giudicati asseritamente in contrasto con la Cedu come interpretata dalle sentenze Mottola e Staibano (di cui alla illustrata ordinanza della Adunanza plenaria); iii) il ricorso per Cassazione a mente dell’art. 111, u.c., Cost. (vedi sentenza n. 6891 del 2016).

  • CORTE COSTITUZIONALE - Sentenza 28 giugno 2017, n. 142

    Oggetto: Principio di personalità della responsabilità penale – Automatismi sanzionatori e divieto di bilanciamento ex art. 12, c. 3, D.Lgs. n. 286/1998 – art. 133 bis Cod. pen. – Violazione dell’art. 3 Cost.

    Dispositivo: Infondatezza

    Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, commi 3 e 3-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione.

    Secondo il giudice rimettente il vulnus rilevato aveva ad oggetto la parte in cui la norma prevede sanzioni pecuniarie fisse per il delitto di procurato ingresso illegale di cittadini stranieri nel territorio dello Stato: segnatamente nella misura di una somma per ogni persona trasportata pari a euro 15.000 di multa, nell’ipotesi base di cui al comma 3, e a euro 25.000 di multa, nell’ipotesi aggravata di cui al comma 3-ter.

    Ad avviso del giudice a quo, esse prevedono un automatismo sanzionatorio irragionevole, che non permetterebbe di adeguare la misura della pena alla personalità dell’autore del fatto e al caso concreto, attesa anche l’estrema diversificazione delle fattispecie sussumibili nelle disposizioni citate. Si profilano così pene pecuniarie «fisse», che non consentono quell’individualizzazione della pena che rappresenta il «volto costituzionale» del sistema penale, secondo quanto asserito da consolidata giurisprudenza costituzionale.

    Inoltre, la pena fissa determinerebbe, poi, una irrazionale sperequazione rispetto ai parametri elastici di qualsiasi pena pecuniaria, quali stabiliti dall’art. 24 del codice penale, e non consentirebbe al giudice di operare quel necessario adeguamento della sanzione alle condizioni economiche del reo, come previsto dall’art. 133-bis cod. pen.

    Le disposizioni censurate stabilirebbero, inoltre, pene sproporzionate, più severe rispetto a quelle previste per condotte analoghe  dall’art. 3, numero 6), della legge20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), in spregio ai principi costituzionali di colpevolezza.

    La Consulta rileva come le sanzioni stabilite dall’impugnato art. 12, commi 3 e 3-ter, per il delitto di procurato ingresso illegale di cittadini stranieri, non sono «fisse», ma «proporzionali».

    Infatti, l’art. 27 cod. pen. distingue nettamente le due ipotesi: «[l]a legge determina i casi nei quali le pene pecuniarie sono fisse e quelli in cui sono proporzionali», soggiungendo che «[l]e pene pecuniarie proporzionali non hanno limite massimo».

    Sicché, le norme censurate, diversamente da quanto ritenuto dal giudice rimettente, rientrano nella seconda ipotesi, poiché non sono stabilite in misura predeterminata - invariabile e insensibile alle circostanze di fatto - ma, al contrario, commisurate alla gravità di queste ultime. 

    Il Giudice delle leggi evidenzia come in siffatta ipotesi il legislatore abbia prescritto un metodo di computo della multa basato sulla moltiplicazione di un importo fisso per un coefficiente variabile, costituito dal numero di cittadini stranieri di cui il soggetto responsabile ha procurato l’ingresso illegale nel territorio italiano, secondo un paradigma complesso, composto da una pena pecuniaria proporzionale e da una detentiva variabile.

    In proposito, è ribadito che il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte ha escluso l’illegittimità delle pene pecuniarie fisse, se accanto a esse il legislatore ha previsto pene detentive dotate di una forbice edittale di ampiezza significativa, da irrogare congiuntamente alle prime (ordinanze n. 91 del 2008 e n. 475 del 2002). Tali principi valgono, a maggior ragione, quando a essere accompagnate da pene detentive modulabili sono le sanzioni pecuniarie proporzionali, come quelle prescritte dalle disposizioni in esame, che a differenza di quelle fisse sono di per se stesse caratterizzate da un certo grado di variabilità in ragione dell’offensività del fatto.

    Nella specie, la reclusione da cinque a quindici anni (comminata dal comma 3 del citato art. 12), aumentata da un terzo alla metà nel caso delle aggravanti previste dal comma 3-ter della stessa disposizione – secondo quanto osservato dalla Corte - costituisce un intervallo edittale che assicura un ragionevole spazio alla valutazione discrezionale del giudice, al quale è così consentito di ponderare aspetti ulteriori rispetto al dato strettamente quantitativo del numero delle persone illegalmente trasportate, al fine di pervenire ad una adeguata individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

    Per tali ragioni, non si configura alcun vulnus ai principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità delle pene.

     

  • CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 28 giugno 2017, n. 147

    Oggetto: Diritto alla ricongiunzione gratuita – Art. 12, c. 12-septies, D.L. n. 78/2010, conv. nella L. n. 122/2010 – Artt. 3 e 38 Cost.

    Dispositivo: Illegittimità costituzionale

    Con la sentenza emarginata in epigrafe, la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 12, comma 12-septies, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui prevede, per il periodo dal 1° luglio 2010 al 30 luglio 2010, che «alle ricongiunzioni di cui all'articolo 1, primo comma, della legge 7 febbraio 1979, n. 29» si applichino «le disposizioni di cui all'articolo 2, commi terzo, quarto e quinto, della medesima legge».

    La norma censurata, aggiunta in sede di conversione del d.l. n. 78 del 2010, statuisce, con decorrenza retroattiva dal 1° luglio 2010, l'onerosità del regime della ricongiunzione verso il regime dell'assicurazione generale obbligatoria dei contributi versati presso gestioni alternative.

    Il giudice rimettente assume che la norma censurata, in virtù dell'efficacia retroattiva che la contraddistingue, contrasti con «il canone generale della ragionevolezza e con il principio del legittimo affidamento».

    In particolare, secondo il rimettente, la norma determinerebbe un’arbitraria disparità di trattamento tra chi, per circostanze accidentali, abbia presentato la domanda di ricongiunzione prima o dopo il 1° luglio 2010, poiché accorderebbe - senza, peraltro, un’adeguata giustificazione - soltanto alla prima categoria di soggetti il beneficio della ricongiunzione gratuita, ledendo il legittimo affidamento dei consociati.

    Il giudice a quo prospetta, inoltre, la violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost., poiché il diritto alla pensione, che si deve determinare sulla base di tutta l’attività lavorativa svolta e della ricongiunzione dei versamenti effettuati ad enti previdenziali diversi, «non può essere sacrificato se non in forza di provvedimenti che tutelino pari o superiori diritti e che siano proporzionali, necessari ed equilibrati».

    In particolare, «la retrodatazione del termine ultimo di vigenza (al 1 luglio 2010) della possibilità di presentare domanda per la ricongiunzione gratuita, si appalesa irrazionale in quanto in alcun modo giustificata e crea una discriminazione fra soggetti che, vigente la stessa disposizione di legge, abbiano del tutto casualmente presentato la domanda prima e dopo tale data».

    Il Giudice delle leggi evidenzia come il nucleo delle censure non attiene alla ragionevolezza dell'assetto tratteggiato dal legislatore, ma al profilo diacronico della disciplina della ricongiunzione, che il legislatore è vincolato a delineare nel rispetto del principio generale di ragionevolezza e della tutela del legittimo affidamento.

    Ad avviso della Consulta, siffatta norma, nell'innovare con efficacia retroattiva il regime applicabile alle domande di ricongiunzione già presentate, vanifica l'affidamento legittimo che i lavoratori avevano riposto nell'applicazione del regime vigente al tempo della presentazione della domanda, principio che si configura quale «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» (sentenze n. 822 del 1988 e n. 349 del 1985), senza che si ravvisino ragioni apprezzabili, idonee a giustificare siffatta scelta.

    Ne deriva che l'esigenza di armonizzazione e di razionalizzazione, caratterizzante il dibattito parlamentare, dà conto delle ragioni sottese alla disciplina, ma non implica la necessità di farne retroagire di un mese l'efficacia, pregiudicando un affidamento che, nel caso di specie, appare meritevole di tutela. 

    Infatti, è solo a partire dalla pubblicazione della modifica legislativa e non prima di tale momento – ossia il 31 luglio 2010 – che, secondo quanto asserito dalla Consulta, il legislatore è abilitato a dettare disposizioni atte a modificare sfavorevolmente la disciplina in vigore. 

    È entro tale termine che va limitata la dichiarazione di incostituzionalità della norma censurata, in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza e della tutela del legittimo affidamento.