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Anno XVI - n. 05 - Maggio 2024

  Costituzionale



Osservatorio sulla Giustizia Costituzionale al 30 novembre - 31 dicembre 2016. A cura di Simona Sgroi

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  • Corte Costituzionale – Sentenza 25 novembre 2016, n. 251

     

    Oggetto: Legge 7 agosto 2015, n. 124 (delega al Governo per la riforma delle pubbliche amministrazioni) – Riparto di competenze Stato-Regioni – Violazione delle competenze regionali – Principio di leale collaborazione.

    Dispositivo: infondatezza; illegittimità costituzionale.

    Con ricorso in via principale, la Regione Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 11, 16, 17, 18, 19 e 23 della legge 7 agosto 2015, n. 124, norme che hanno delegato il Governo, in una prospettiva unitaria, ad adottare decreti legislativi per il riordino di numerosi settori inerenti a tutte le pubbliche amministrazioni, comprese quelle regionali e degli enti locali.

    In particolare, la ricorrente censura le predette disposizioni, in primo luogo, nella parte in cui dettano principi e criteri direttivi in ordine alla delega al Governo all’adozione di uno o più decreti legislativi rispettivamente in materia di codice dell’amministrazione digitale, di dirigenza pubblica, di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, di partecipazioni azionarie delle pubbliche amministrazioni e di servizi pubblici locali di interesse economico generale e, in secondo luogo, nella parte in cui esse stabiliscono che i decreti legislativi delegati siano deliberati su proposta del Ministro delegato “previa acquisizione del parere della Conferenza unificata”, da rendere “nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione di ciascuno schema di decreto legislativo, decorso il quale il Governo può comunque procedere”.

    Ad avviso della Regione Veneto, le norme censurate si porrebbero in contrasto con gli artt. 3, 81, 97, 117 secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché con il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

    Infatti, anzitutto esse andrebbero al di là delle sfere di competenza legislativa statale esclusiva e invaderebbero vari ambiti di competenza legislativa regionale residuale (organizzazione amministrativa regionale, turismo, servizi pubblici locali, trasporto pubblico locale) o concorrente (tutela della salute, coordinamento della finanza pubblica), in quest’ultimo caso in quanto, recando una disciplina di dettaglio, eliminerebbero ogni spazio di intervento della Regione.

    Inoltre – sostiene la Regione ricorrente – nonostante le molteplici interferenze con le competenze regionali, non risolvibili mediante il criterio della prevalenza del legislatore statale, esse prescriverebbero, per l’adozione dei decreti legislativi delegati, una insufficiente forma di raccordo con le Regioni – il parere in Conferenza unificata – ritenuto lesivo del principio di leale collaborazione. Il mancato raggiungimento dell’accordo, entro il breve termine di quarantacinque giorni, legittimerebbe, infatti, l’assunzione unilaterale di un provvedimento da parte del Governo.

    La Corte Costituzionale, entrando nel merito della questione, ha ritenuto di dover fare delle preliminari considerazioni e ha affermato che tutte le disposizioni impugnate riflettono l’intento del legislatore delegante di incidere sulla “riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, secondo un criterio di diversificazione delle misure da adottare nei singoli decreti legislativi. Nella complessa struttura delle norme contenenti le deleghe riguardanti i settori sopra indicati, occorre verificare se vi sia una prevalente competenza statale, cui ricondurre il disegno riformatore nella sua interezza.

    Un simile intervento del legislatore statale rientra, infatti, nel novero di quelli, già sottoposti all’attenzione della Corte, volti a disciplinare, in maniera unitaria, fenomeni sociali complessi, rispetto ai quali si delinea una “fitta trama di relazioni, nella quale ben difficilmente sarà possibile isolare un singolo interesse”, quanto piuttosto interessi distinti «che ben possono ripartirsi diversamente lungo l’asse delle competenze normative di Stato e Regioni», corrispondenti alle diverse materie coinvolte. In tali casi occorre valutare se una materia si imponga sulle altre, al fine di individuare la titolarità della competenza.

    Tuttavia, quando, come in questo caso, non è possibile individuare una materia di competenza dello Stato cui ricondurre, in via prevalente, la normativa impugnata, perchè vi è, invece, una concorrenza di competenze, statali e regionali, relative a materie legate in un intreccio inestricabile, è necessario – continuano i giudici costituzionali – che il legislatore statale rispetti il principio di leale collaborazione e preveda adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze. La Corte ha individuato nel sistema delle conferenze il principale strumento che consente alle Regioni di avere un ruolo nella determinazione del contenuto di taluni atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale e una delle sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione.

    In armonia con tali indicazioni, l’evoluzione impressa al sistema delle Conferenze finisce con il rivelare una fisiologica attitudine dello Stato alla consultazione delle Regioni e si coniuga con il riconoscimento, ripetutamente operato da parte della Consulta, dell’intesa in sede di Conferenza unificata, quale strumento idoneo a realizzare la leale collaborazione tra lo Stato e le autonomie.

    Alla luce di quanto sinora premesso, la Corte ritiene non fondato il dubbio di costituzionalità inerente la delega a modificare il codice dell’amministrazione digitale in quanto le norme costituiscono espressione, in maniera prevalente, della competenza statale nella materia del coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale (art. 117, secondo comma, lett. r., Cost.). Esse, infatti, sono strumentali nell’assicurare una comunanza di linguaggi, di procedure e di standard omogenei, in modo da permettere la comunicabilità tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione, in vista della realizzazione all’esigenza primaria di offrire ai cittadini garanzie uniformi su tutto il territorio nazionale, nell’accesso ai dati personali, come pure ai servizi (art. 117, secondo comma, lett. m., Cost.) e, infine, sono espressione delle indicazioni provenienti dall’Unione europea.

    Per quel che riguarda, invece, la questione di costituzionalità sollevata con riferimento al disegno di riforma della dirigenza pubblica, la Corte ha ritenuto palese il concorso di competenze regionali e statali, inestricabilmente connesse, nessuna delle quali si rivela prevalente, in particolare in relazione all’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali e alla definizione, da un lato, dei requisiti di accesso, delle procedure di reclutamento, delle modalità di conferimento degli incarichi, nonché della durata e della revoca degli stessi (aspetti inerenti all’organizzazione amministrativa regionale, di competenza regionale), dall’altro, di regole unitarie inerenti al trattamento economico e al regime di responsabilità dei dirigenti (aspetti inerenti al rapporto di lavoro privatizzato e quindi riconducibili alla materia dell’ordinamento civile, di competenza statale).

    Pertanto, non è costituzionalmente illegittimo l’intervento del legislatore statale, se necessario a garantire l’esigenza di unitarietà sottesa alla riforma. Tuttavia, esso deve muoversi nel rispetto del principio di leale collaborazione, indispensabile anche in questo caso a guidare i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie. Poiché le disposizioni impugnate toccano sfere di competenza esclusivamente statali e regionali, il luogo idoneo di espressione della leale collaborazione deve essere individuato nella Conferenza Stato-Regioni.

    Ne consegue – afferma la Corte – che deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 della l. 124/2015 nella parte in cui, nonostante le molteplici interferenze con le competenze regionali non risolvibili mediante il criterio della prevalenza del legislatore statale, prescrive, per l’adozione dei decreti legislativi delegati attuativi, una forma di raccordo con le Regioni – il parere in Conferenza unificata – da ritenersi lesiva del principio di leale collaborazione perché non idonea a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali, necessario a contemperare la compressione delle loro competenze. Solo l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, contraddistinta da una procedura che consente lo svolgimento di genuine trattative, garantisce un reale coinvolgimento.

    Al pari, anche le norme contenenti le deleghe al Governo per il riordino della disciplina vigente in tema di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, nonché di partecipazioni azionarie delle pubbliche amministrazioni e di servizi pubblici locali di interesse economico generale incidono su una pluralità di materie e di interessi, inscindibilmente connessi, riconducibili a competenze statali (ordinamento civile, tutela della concorrenza, principi di coordinamento della finanza pubblica) e regionali (organizzazione amministrativa regionale, servizi pubblici locali e trasporto pubblico locale).

    La Corte costituzionale ne ha, pertanto, dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui, pur incidendo su materie di competenza sia statale sia regionale, prevedono che i decreti attuativi siano adottati sulla base di una forma di raccordo con le Regioni, che non è quella dell’intesa, ma quella del semplice parere, non idonea a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali.

    Al termine dell’iter motivazionale, tuttavia, la Corte precisa che le predette pronunce di incostituzionalità sono circoscritte alle disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative. Nel caso di impugnazione di tali disposizioni, si dovrà accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 15 dicembre 2016, n. 269

     

    Oggetto: Pubblico impiego – Spoils system – Norme della Regione Calabria – Decadenza automatica degli organi di vertice delle società controllate o partecipate alla data di proclamazione del Presidente della Giunta.

    Dispositivo: illegittimità costituzionale.

    Il Tar Calabria ha sollevato un dubbio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3, 97 e 98 della Costituzione, dell’art. 1, comma 1 della legge della Regione Calabria 3 giugno 2005, n. 12 contenente norme in materia di nomine e di personale.

    In particolare, ad avviso del giudice a quo, la censura riguarderebbe la disposizione relativa alle nomine degli organi di vertice e dei componenti o dei rappresentanti della Regione nei consigli di amministrazione o negli organi equiparati di un’ampia serie di enti – pubblici o privati, controllati o partecipati dalla Regione – conferite, rinnovate “o comunque rese operative”, anche di intesa o di concerto con altre autorità o previa selezione, dagli organi di indirizzo politico regionale, nella parte in cui prevede che, se tali nomine sono effettuate nei nove mesi antecedenti la data delle elezioni per il rinnovo degli organi di indirizzo politico della Regione, ed anche successivamente a tale data, fino all’insediamento di questi ultimi, i titolari decadono alla data di proclamazione del Presidente della Giunta regionale ed i conseguenti rapporti di natura patrimoniale sono risolti di diritto.

    Tale meccanismo, ritiene il Tar rimettente, si porrebbe in contrasto con l’art. 97 Cost.: sarebbero infatti pregiudicate la continuità, l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa, oltre ad essere sottratte al titolare dell’incarico, dichiarato decaduto, le garanzie del giusto procedimento (in particolare la possibilità di conoscere la motivazione del provvedimento di decadenza), poiché la rimozione del dirigente risulterebbe svincolata dall’accertamento oggettivo dei risultati conseguiti.

    Sotto altro aspetto, continua il Tar, venendo in rilievo una figura dirigenziale tenuta a perseguire risultati ed obiettivi in veste neutrale, nell’espletamento di compiti di natura tecnico-gestionale, a questa non potrebbe essere richiesta “la condivisione degli orientamenti politici della persona fisica che riveste la carica politica o la fedeltà personale nei suoi confronti”.

    Ne conseguirebbe che la disposizione censurata violerebbe anche l’art. 98 Cost., nella parte in cui richiede che i pubblici impiegati siano al servizio esclusivo della Nazione, poiché il principio di neutralità mira, da questo punto di vista, a garantire l’amministrazione pubblica ed i suoi dipendenti da influenze politiche o di parte.

    La disposizione censurata lederebbe, infine, il principio del legittimo affidamento nella certezza dei rapporti giuridici, desunto dagli artt. 3 e 97 Cost., in particolare arrecando un vulnus all’aspettativa di mantenimento dell’incarico legittimamente ottenuto fino alla scadenza del termine prestabilito, in assenza di violazione dei doveri d’ufficio ovvero di inadempienze agli obblighi contrattualmente assunti o di mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati.

    Entrando nel merito della questione e facendo leva sul suo pregresso orientamento costante in materia, la Corte Costituzionale ritiene di dover ritenere contrastanti con l’art. 97 Cost. quelle disposizioni di legge che prevedano meccanismi di decadenza automatica dalla carica, dovuti a cause estranee alle vicende del rapporto instaurato con il titolare e non correlati a valutazioni concernenti i risultati conseguiti da quest’ultimo, quando tali meccanismi siano riferiti non al personale addetto ad uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo, oppure a figure apicali, per le quali risulti decisiva la personale adesione agli orientamenti politici dell’organo nominante, ma ai titolari di incarichi dirigenziali che comportino l’esercizio di funzioni amministrative di attuazione dell’indirizzo politico, anche quando tali incarichi siano conferiti a soggetti esterni.

    Poiché, nel caso di specie, la norma censurata viene applicata al presidente del consiglio di amministrazione di una società calabrese nell’ambito di un rapporto fra detto presidente e l’organo politico che non è diretto ma mediato da strutture dipendenti della Giunta regionale, ritiene la Corte, conformemente ai principi pocanzi espressi, di doverne dichiarare la illegittimità costituzionale.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 16 dicembre 2016, n. 276

     

    Oggetto: Artt. 7 e 8 d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 (cd. Legge Severino) – Elezione del Presidente e dei componenti del Consiglio regionale – Sospensione della carica a seguito di sentenza di condanna penale non definitiva.

    Dispositivo: inammissibilità; infondatezza.

    Con tre ordinanze, la Corte d’appello di Bari, il Tribunale ordinario di Napoli e il Tribunale ordinario di Messina hanno sollevato complessivamente quattro questioni di legittimità costituzionale del d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), c.d. “legge Severino”.

    La prima censura concerne la violazione degli artt. 76 e 77 Cost. per eccesso di delega dal momento che la legge delega n. 190 del 2012 prevede tra i principi e criteri direttivi, all’art. 1, comma 64, lettera m), quello di «disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica».

    Tale norma, ad avviso dei giudici a quibus, sarebbe violata dagli artt. 8, comma 1, e 11, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012, che contemplano la sospensione dalla carica in caso di condanna non definitiva, anche precedente la candidatura: viene invocata la lettera della disposizione e i lavori preparatori della legge delega, dai quali emergerebbe che il comma 64, lettera m), riferisce «la sospensione alle cariche elettive e la decadenza alle cariche non elettive» (entrambe in caso di condanna definitiva).

    Con riguardo alla superiore questione, la Corte afferma che, sin dall’adozione della legge n. 55 del 1990, l’ordinamento ha sempre previsto la sospensione dalla carica politica per provvedimenti (relativi ai reati ostativi) precedenti la condanna definitiva e la decadenza dalla carica al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

    Dunque, prima della legge delega n. 190 del 2012, il regime della sospensione e della decadenza non ha mai conosciuto la previsione che i giudici a quibus imputano all’art. 1, comma 64, lettera m), ossia la sospensione dalla carica elettiva solo in caso di condanna definitiva. Questo significa che, nella prospettiva dei rimettenti, prevedendo la sospensione solo come conseguenza della condanna definitiva, il legislatore delegante avrebbe avuto l’intenzione di innovare in modo significativo la situazione previgente, non solo dunque estendendo l’incandidabilità ai parlamentari e ampliando i reati ostativi, ma anche abolendo la sospensione cautelare e la stessa decadenza dalle cariche elettive, nel senso che la condanna non definitiva non avrebbe dovuto produrre alcuna conseguenza e quella definitiva avrebbe determinato solo la sospensione dalla carica elettiva e non la decadenza (decadenza che, invece, si sarebbe verificata a carico dei titolari di cariche non elettive).

    L’intenzione di innovare così radicalmente il regime della sospensione e della decadenza e, in definitiva, di “ammorbidire” gli strumenti di prevenzione dell’illegalità nella pubblica amministrazione – continua la Corte – non trova tuttavia riscontro nella chiara lettera della legge delega. A differenza di altri criteri direttivi, che esprimono univocamente una volontà innovativa (art. 1, comma 64, lettere a, b, f, h, della legge n. 190 del 2012), il comma 64, lettera m), non menziona affatto l’eliminazione della sospensione cautelare e della decadenza dalle cariche elettive.

    La formulazione del comma 64, lettera m), del resto, non è tale da escludere un’interpretazione in continuità con il regime precedente, secondo la quale la legge delega non intendeva affatto stravolgere l’assetto anteriore. Il sintagma successivo a «decadenza» («dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica») può infatti essere riferito solo alla decadenza stessa e non anche alla sospensione, che resterebbe così affidata alla disciplina di riordino del legislatore delegato senza la precisazione espressa dal citato sintagma, da intendere riservata al solo istituto della decadenza.

     La seconda e la terza questione sono proposte con riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 della CEDU), che sarebbero violati in quanto gli artt. 7, comma 1, 8, comma 1, e 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 non prevedono la sospensione solo per sentenze di condanna relative a reati consumati dopo la loro entrata in vigore, nonché, per diversa argomentazione, l’applicazione retroattiva delle stesse norme si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.

    Entrando nel merito delle superiori questioni, la Corte ha, in primo luogo, precisato che il principio di irretroattività valido per le pene e per le misure amministrative di carattere punitivo-afflittivo non è predicabile nei confronti delle disposizioni censurate, per la natura non punitiva di quanto in esse previsto e, prendendo in esame le stesse previsioni del d.lgs. n. 235 del 2012, ha escluso che «le misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione abbiano carattere sanzionatorio», rappresentando esse solo «conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate».

    In secondo luogo, i giudici costituzionali si sono imbattuti nella verifica che la sospensione dalle cariche elettive locali prevista dalla disposizione censurata sia compatibile con il principio di irretroattività delle sanzioni di cui all’art. 7 CEDU, la cui applicabilità presuppone l’utilizzo di autonomi criteri elaborati dalla giurisprudenza europea per definire la nozione di pena (cd. criteri di Engel).

    Esclusa la qualificazione della sospensione in senso afflittivo, la sua natura punitiva e la sua speciale gravità, la Corte Costituzionale non ha rinvenuto alcun vincolo ad assoggettare una misura amministrativa cautelare, quale la sospensione dalle cariche elettive in conseguenza di una condanna penale non definitiva, al divieto convenzionale di retroattività della legge penale.

    Sotto altro profilo, i giudici della Consulta hanno ritenuto che, peraltro, le sopradette questioni sono già state dichiarate infondate dalla Consulta con la sentenza n. 236 del 2015, e vanno pertanto respinte per gli stessi motivi, e segnatamente per l’infondatezza della tesi, sostenuta dai rimettenti, della “costituzionalizzazione” del principio di irretroattività in tutti i casi in cui la Costituzione riserva alla legge la disciplina di diritti inviolabili. Come più volte affermato nella giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., […] le leggi possono retroagire, rispettando una serie di limiti che questa Corte ha da tempo individuato e che attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.

    Infine, con la quarta questione, i giudici remittenti lamentano che gli artt. 1, comma 1, lettera b), 7, comma 1, lettera c), e 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 determinerebbero una disparità di trattamento, non prevedendo – ai fini della sospensione dalla carica in caso di condanna per uno dei reati previsti – una soglia di pena superiore ai due anni, come è stabilito per i parlamentari nazionali ed europei ai fini dell’incandidabilità. I parametri invocati sono gli artt. 3, 51, 76 e 77 Cost.

    A questo proposito, la Corte ha affermato che «non appare configurabile, sotto il profilo della disparità di trattamento, un raffronto tra la posizione dei titolari di cariche elettive nelle regioni e negli enti locali e quella dei membri del Parlamento e del Governo, essendo evidente il diverso livello istituzionale e funzionale degli organi costituzionali ora citati», con la conseguenza che «certamente non può ritenersi irragionevole la scelta operata dal legislatore di dettare le norme impugnate con esclusivo riferimento ai titolari di cariche elettive non nazionali».

    Infatti, la finalità di tutela del buon andamento e della legalità nella pubblica amministrazione perseguita dalla disciplina in esame può anzi giustificare un trattamento più severo per le cariche politico-amministrative locali. La commissione di reati che offendono la pubblica amministrazione può infatti rischiare di minarne l’immagine e la credibilità e di inquinarne l’azione in modo particolarmente incisivo al livello degli enti regionali e locali, per la prossimità dei cittadini al tessuto istituzionale locale e la diffusività del fenomeno in tale ambito. Va sottolineato in particolare che parte delle funzioni svolte dai consiglieri regionali ha natura amministrativa e che essa giustifica un trattamento di maggiore severità nella valutazione delle condanne per reati contro la pubblica amministrazione.

    A ciò si aggiunga che la stessa eterogeneità degli istituti messi a confronto (sospensione e incandidabilità) rende l’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012, in tema di incandidabilità alla carica di parlamentare a seguito di condanna definitiva, è inidoneo a fungere da tertium comparationis, restando così esclusa, anche per questa ragione, la violazione del principio di parità di trattamento.

    Per tutte le superiori argomentazioni la Corte conclude in parte per la inammissibilità, in parte per la infondatezza di tutte le superiori questioni di legittimità costituzionale sollevate.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 21 dicembre 2016, n. 286

     

    Oggetto: Stato civile – Attribuzione automatica del cognome paterno.

    Dispositivo: illegittimità costituzionale.

    La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), nella parte in cui prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori.

    Ad avviso del giudice a quo, è denunciata, in primo luogo, la violazione dell’art. 2 Cost., in quanto verrebbe compresso il diritto all’identità personale, il quale comporta il diritto del singolo individuo di vedersi riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali.

    Viene, infine, ravvisata la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28 aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo 1998, n. 1362, nonché alla risoluzione 27 settembre 1978, n. 37, relative alla piena realizzazione dell’uguaglianza dei genitori nell’attribuzione del cognome dei figli.

    Ritiene la Corte Costituzionale che, quanto al primo profilo di illegittimità, va rilevato che la distonia di tale norma rispetto alla garanzia della piena realizzazione del diritto all’identità personale, avente copertura costituzionale assoluta, ai sensi dell’art. 2 Cost., risulta avvalorata nell’attuale quadro ordinamentale. Il valore dell’identità della persona, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, portano ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale, che si proietta nella sua personalità sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost.

    La piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori. Viceversa, la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno.

    Quanto al concorrente profilo di illegittimità, che risiede nella violazione del principio di uguaglianza dei coniugi – continua la Corte – va rilevato che il criterio della prevalenza del cognome paterno, e la conseguente disparità di trattamento dei coniugi, non trovano alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., né nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost. La perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome, contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed in particolare, della norma sulla prevalenza del cognome paterno. Tale diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica.

    Per tutte le superiori motivazioni, la Corte conclude per la illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.

    Dichiara, inoltre, in via consequenziale, da un lato, l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai genitori (in caso di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio effettuato di comune accordo contemporaneamente da entrambi i genitori) di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno, dall’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 21 dicembre 2016, n. 287

     

    Oggetto: Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti – Banche popolari – Art. 1 decreto legge 24 gennaio 2015, n. 3 – Obbligo di trasformazione dell’attivo o di trasformazione in S.p.A.

    Dispositivo: infondatezza; inammissibilità.

    Su ricorso della Regione Lombardia, la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legge 24 gennaio 2015, n. 3, impugnato sotto diversi profili: in primo luogo, per la violazione della competenza legislativa regionale concorrente in materia di «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale» prevista all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in secondo luogo, per la violazione del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., in terzo luogo, sotto il profilo della violazione del principio di sussidiarietà in collegamento con le previsioni costituzionali che tutelano la cooperazione, il risparmio, la libertà di associazione e di iniziativa economica di cui agli artt. 118, 45, 47, 18 e 41 Cost. e, infine, il profilo della violazione delle condizioni per l’esercizio della decretazione d’urgenza di cui all’art. 77 Cost. 

    In particolare, la Regione aveva contestato la disposizione nella parte in cui prevede l’obbligo, per le banche popolari che superano la soglia di otto miliardi di attivo, di trasformarsi in società per azioni o di ridurre entro un anno l’attivo sotto tale misura.

    Al riguardo, la Corte ha osservato che la scelta del legislatore statale di assumere la soglia dell’attivo di otto miliardi di euro come indice della dimensione della banca popolare è coerente con lo scopo della novella di riservare il modello cooperativo solo alle aziende di credito di piccola o media dimensione, sul presupposto che esso non sia adeguato alle caratteristiche di banche popolari di grandi dimensioni, anche quotate in mercati regolamentati. Compiendo tale scelta, lo stesso legislatore statale si è mantenuto nei limiti delle proprie attribuzioni e di conseguenza si deve escludere che vi sia stata la lamentata lesione delle competenze regionali in materia di aziende di credito a carattere regionale.

    La Corte ha ricordato, infatti, che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, materie di competenza statale esclusiva come quelle menzionate della «tutela del risparmio», della «tutela della concorrenza» e dell’«ordinamento civile», assumono, per la loro natura trasversale, carattere prevalente e «possono influire su altre materie attribuite alla competenza legislativa concorrente o residuale delle regioni fino a incidere sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano».

    In quanto riconducibile ad ambiti materiali di competenza esclusiva trasversale dello Stato, la norma impugnata è dunque espressione di attribuzioni statali destinate a prevalere anche sull’ipotetica e in ogni caso marginale competenza concorrente regionale in materia di aziende di credito di interesse regionale, della quale dunque inutiliter la Regione ricorrente lamenta la lesione.

    È stata poi giudicata inammissibile la questione attinente alla dedotta lesione del principio di sussidiarietà in collegamento con le previsioni costituzionali che tutelano la cooperazione, il risparmio, la libertà di associazione e di iniziativa economica, per difetto di motivazione sul prospettato collegamento, nonché sugli ambiti di competenza regionale che sarebbero incisi dalla disposizione censurata.

    Infine, in applicazione della costante giurisprudenza costituzionale sui limiti del sindacato di legittimità in materia, la Corte ha ritenuto che non sussiste la violazione, lamentata dalla Regione, delle condizioni per l’esercizio della decretazione di urgenza. Le ragioni indicate nel preambolo del provvedimento legislativo impugnato, infatti, portano a escludere che esso sia stato assunto in una situazione di evidente carenza del requisito della straordinaria necessità e urgenza.