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Anno XVI - n. 05 - Maggio 2024

  Costituzionale



Osservatorio sulla Giustizia Costituzionale al 31 maggio 2016. A cura di Dalila Uccello

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  • Corte Costituzionale - Sentenza 6 maggio 2016, n. 94

     

    Oggetto: Stupefacenti – art. 75 bis T.U. n. 309/1990 – misure di prevenzione – violazione dell’art. 77 Cost.

    Dispositivo: illegittimità costituzionale

    L’esame del contenuto della disposizione impugnata denota la palese estraneità delle disposizioni censurate - aggiunte in sede di conversione - rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite, evidenziando la palese violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. per difetto del necessario requisito dell’omogeneità, quale nesso funzionale tra le disposizioni del decreto-legge e gli emendamenti introdotti in fase di conversione.

    Dalla pronuncia in esame, emerge come seppure contenute in un’unica disposizione, le norme di nuova introduzione hanno una portata sistematica e coinvolgono istituti di estrema delicatezza, quali le misure di prevenzione atipiche e le reazioni sanzionatorie connesse alla loro violazione.

    Nell’ordinanza di rimessione, il giudice rileva come l’art. 75 bis del d.P.R. 8 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), introdotta in sede di conversione del D.L. n. 272 del 2005 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), presenti un contenuto disomogeneo rispetto al disposto del predetto decreto legge, difettando peraltro quest’ultimo, anche dei necessari requisiti di necessità e urgenza, richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost.

    Da quanto premesso, deriva l’accoglimento o meno della richiesta di condanna, non sussistendo altrimenti i presupposti per il proscioglimento di cui all’art. 129 c.p.p.

    Per tali evidenti ragioni, il rimettente ritiene la questione rilevante ai fini del giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato.

    Analogamente alla sentenza n. 32 del 2014 - con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del citato D.L. n. 272 del 2005, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della L. n. 49 del 2006 - la Corte costituzionale ha rilevato che l’art. 4-quater, introducendo l’art. 75-bis nel d.P.R. n. 309 del 1990, ha previsto, in sede di conversione dell’originario decreto-legge, una disposizione di carattere sostanziale e sanzionatorio totalmente disomogenea rispetto all’unica disposizione cui poteva riferirsi, la cui connotazione finalistica era esclusivamente quella processuale ed esecutiva, di impedire l’interruzione dei programmi di recupero di determinate categorie di tossicodipendenti recidivi.

    La norma censurata introduce la possibilità di assoggettare a determinate misure di prevenzione i soggetti tossicodipendenti che abbiano commesso illeciti amministrativi in materia di sostanze stupefacenti ai sensi del precedente art. 75, qualora, in relazione alle modalità e alle circostanze, possa derivare pericolo per la sicurezza pubblica.

    Inoltre, dall’inosservanza di tali misure di prevenzione deriva l’integrazione di una contravvenzione punita con l’arresto da tre a diciotto mesi.

    Ad avviso della Corte “il contenuto normativo della disposizione impugnata è rappresentato, dall’inestricabile collegamento tra la previsione di particolari misure di prevenzione nei confronti di persone tossicodipendenti e di una contravvenzione per il caso della loro inosservanza”.

    La Consulta rileva come l’art. 4 dell’originario testo del decreto-legge contiene norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza, diversamente dall’art. 4-quater, introdotto dalla legge di conversione, che prevede anche norme a carattere sostanziale, del tutto svincolate da finalità di recupero del tossicodipendente, ma piuttosto orientate a finalità di prevenzione di pericoli per la sicurezza pubblica.     

  • Corte Costituzionale - Sentenza 12 maggio 2016, n. 102

     

    Oggetto: Ne bis in idem – artt. 187 bis e 187 ter TUF – art. 649 c.p.p. – violazione dell’art. 117, c. 2°, Cost. e dell’art. 4, Protocollo n. 7 CEDU.

    Dispositivo: illegittimità costituzionale.

    Nella controversia in oggetto, l’imputato, chiamato a rispondere del reato di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 184, lettera b), del d.lgs. n. 58 del 1998 (“Testo unico sulla finanza”, da ora in poi “T.U.F.”), subiva anche l’irrogazione della sanzione amministrativa previsto dall’art. 187-bis, comma 1, T.U.F.

    Nell’ordinanza di rimessione, il giudice, aderendo all’orientamento avallato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, ritiene deducibile la violazione del divieto del bis in idem.

    Ad avviso del rimettente, la questione sollevata in via principale assumerebbe rilevanza nel giudizio a quo, perché il suo eventuale accoglimento farebbe venir meno il presupposto del ne bis in idem, in quanto la CONSOB dovrebbe assumere le necessarie determinazioni per revocare le sanzioni ai sensi dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (“Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”).

    In particolare, il riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione irrogata dovrebbe imporre il superamento del giudicato, in base a una interpretazione della disposizione conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

    Peraltro, il giudice a quo, escludendo ogni possibilità di praticare un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni in esame, sollevava anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen, in ragione della rilevanza che esso acquisirebbe in caso di accoglimento dell’intervento additivo richiesto.

    La Corte Costituzionale, ricordando il noto caso Grande Stevens contro Italia, ove la Corte Europea dei diritti dell’uomo, condanna l’Italia, non manca di rimarcarne i passaggi fondamentali dell’iter motivazionale.

    In particolare, evidenzia come dedotta la natura penale della sanzione prevista dall’art. 187-bis T.U.F., l’Italia veniva condannata per la violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, poiché procedeva in sede penale ai sensi dell’art. 185 T.U.F., nonostante fosse già divenuta definitiva una prima condanna, seppur a titolo di illecito amministrativo, per il medesimo fatto.

    Ad avviso della Consulta, “l’iter argomentativo dell’ordinanza cela una perplessità di fondo della motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione subordinata, che ne segna l’inammissibilità. È, infatti, lo stesso rimettente a postulare, a torto o a ragione, che l’adeguamento dell’ordinamento nazionale all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU dovrebbe avvenire prioritariamente attraverso una strada che egli non può percorrere per difetto di rilevanza, cosicché la questione subordinata diviene per definizione una incongrua soluzione di ripiego”.

    In particolare, rileva l’inefficacia del corredo motivazionale dell’ordinanza di rimessione, laddove la Corte di Cassazione invoca la direttiva 16 aprile 2014, n. 2014/57/UE, relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato, sull’obbligo degli Stati membri di adottare sanzioni penali per le fattispecie più gravi di abuso, permettendo loro di affiancare una sanzione amministrativa, proprio ove invece avrebbe dovuto trovare argomentazioni forti per fugare ogni dubbio circa l’ammissibilità dell’esclusione del concorso della sanzione penale e della sanzione amministrativa per il medesimo fatto di reato.

    Dalla scarsa incidenza argomentativa «dell’incongruenza sistematica» lamentata dal rimettente, deriva l’inammissibilità dell’incostituzionalità dell’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la sua applicazione anche quando la persona è stata giudicata in via definitiva per il medesimo fatto punito con una sanzione amministrativa alla quale debba essere riconosciuta natura penale ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.

    Vengono chiaramente poste delle questioni relative al rispetto del ne bis in idem come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in casi di cosiddetto “doppio binario” sanzionatorio, cioè in casi nei quali la legislazione nazionale prevede un doppio livello di tutela, penale e amministrativo.

    In questo ambito, sino al 2005 le figure dell’abuso di informazioni privilegiate e della manipolazione del mercato erano sanzionate esclusivamente in sede penale come delitti dagli artt. 184 e 185 del Testo unico della finanza – TUF (d.lgs. n. 58 del 1998).

    Successivamente, con la legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), attuativa della direttiva n. 2003/6/CE (cd. “Market Abuse Directive”), ai delitti di cui sopra sono stati affiancati due paralleli illeciti amministrativi previsti, rispettivamente, dagli artt. 187-bis (insider trading) e 187-ter (manipolazione di mercato) del novellato TUF, descritti in modo sovrapponibile ai corrispondenti delitti, ovvero con una formulazione tale da ricomprendere, di fatto, anche l’omologa fattispecie penale.

    Il giudice delle leggi rileva come la decisione Grande Stevens sebbene attribuisca natura sostanzialmente penale alle sanzioni amministrative stabilite per l’illecito di manipolazione del mercato ex art. 187-ter del TUF  - in considerazione della gravità desumibile dall’importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e dalle conseguenze delle sanzioni interdittive – sottolinea, allo stesso tempo, la mancanza di un meccanismo che comporti l’interruzione del secondo procedimento nel momento in cui il primo sia concluso con pronuncia definitiva, ascrivendo quindi all’identità dei fatti, la violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.

    Alla Corte non sfugge come siffatto divieto possa di fatto risolversi in una frustrazione del sistema del doppio binario, nel quale alla diversa natura, penale o amministrativa, della sanzione si collegano normalmente procedimenti anch’essi di natura diversa, ma è chiaro che spetta anzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU. Così argomentando dichiara l’inammissibilità della questione.

  • Corte Costituzionale - Sentenza 1 giugno 2016, n. 125

     

    Oggetto: Sospensione dell’esecuzione nel caso di cui all’art. 624-bis, c.p. – art. 656 c.p.p. – violazione degli artt. 3 e 27 Cost.

    Dispositivo: illegittimità costituzionale.

    Con la sentenza emarginata in epigrafe, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui esclude l’applicazione della disciplina della sospensione dell’esecuzione alla fattispecie di furto con strappo.

    Come è noto, l’art. 624-bis, c.p. disciplina due reati, il furto in abitazione e il furto con strappo; tuttavia la questione in esame riguarda solo il secondo reato.

    Nella specie, il giudice rimettente denuncia come la paradossale scelta legislativa di non prevedere un simile divieto per il reato più grave di rapina violi i principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità sanciti dall’art. 3 Cost, poiché comporta che l’eventuale condotta ulteriore di minaccia o violenza rispetto a due fattispecie identiche consentirebbe a chi l’ha commessa di poter beneficiare, in fase di esecuzione, del decreto di sospensione dell’esecuzione, diversamente da colui che si fosse limitato a commettere un’azione volta all’impossessamento, con violenza sulla cosa, e tuttavia priva di violenza o minaccia alla persona.

    Inoltre, la norma censurata, come modificata dall’art. 2, c. 1, lett. m), del D.L. 23 maggio 2008, n. 92 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, della L. 24 luglio 2008, n. 125, avrebbe introdotto «un’aprioristica presunzione di pericolosità del tutto eccentrica nel sistema dell’esecuzione penale delle pene detentive brevi, con conseguenze paradossali sul piano della coerenza del sistema, in contrasto con i principi di uguaglianza e della finalità necessariamente rieducativa della pena».

    Rileva il Giudice delle leggi come siffatto delitto, inoltre, non rientri neanche nell’elenco dei reati di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), per i quali non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione, figurando in tale elenco solo la rapina aggravata prevista dall’art. 628, c. 3, c.p.

    La distinzione tra la fattispecie incriminatrice del furto con strappo e quella della rapina, evidenziata dalla Consulta, risiede, come noto, nella diversa direzione della violenza esplicata dall’agente: poiché nel furto essa è immediatamente rivolta verso la cosa e solo indirettamente verso la persona che la detiene; nella rapina, invece, l’impossessamento della cosa mobile altrui si attua proprio mediante violenza diretta sulla persona.

    Si intuisce come nel furto con strappo la vittima può risentire della violenza solamente in modo riflesso, come effetto della violenza impiegata sulla cosa per strapparla di mano o di dosso alla persona, mentre nella rapina la violenza alla persona costituisce il mezzo attraverso il quale avviene la sottrazione.

    Non sono rari i casi in cui, nel progredire dell’azione delittuosa, il furto con strappo degenera in rapina, declinandosi in una progressione nell’offesa, in cui la lesione si estende dal patrimonio alla persona, giungendo a metterne in pericolo anche l’integrità fisica.

    La disparità di trattamento perciò non si giustifica, non solo per la maggiore gravità della rapina rispetto al furto con strappo, quanto per le caratteristiche dei due reati, che non consentono di assegnare all’autore di un furto con strappo una pericolosità maggiore di quella riscontrabile nell’autore di una rapina attuata mediante violenza alla persona.

  • Corte Costituzionale - Sentenza 1° giugno 2016, n. 126

     

    Oggetto: Risarcimento del danno ambientale - art. 311, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152– art. 437, c. 2° e 3°, c.p. – violazione degli artt. 3,24  Cost.

    Dispositivo: infondatezza.

    Con la sentenza in commento, il Giudice delle leggi ha ricondotto le questioni di incostituzionalità sollevate alla disciplina del danno ambientale.

    Nella specie, il rimettente censura l’art. 311, c. 1,  D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (“Norme in materia ambientale”), nella parte in cui attribuisce soltanto al Ministero dell’ambiente, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale derivante dall’omessa adozione di precauzioni e cautele nell’esercizio delle attività militari da parte degli imputati, così escludendo la legittimazione concorrente o sostitutiva della Regione e degli enti locali sul cui territorio si è verificato il danno.

    In particolare, il giudice a quo paventa un deficit di tutela della collettività e della comunità legato proprio al lamentato accentramento della legittimazione ad agire, in violazione degli artt. 3, 9, 24 e 32 della Costituzione.

    La Consulta, dichiarando la questione infondata, fornisce un interessante excursus sul danno ambientale e l’evoluzione normativa e giurisprudenziale sulla relativa tutela risarcitoria.

    Nonostante il testo originario della Costituzione non contenesse alcun cenno sull’espressione «ambiente», la giurisprudenza costituzionale sin dalla sentenza n. 247 del 1974 non ha mancato di evidenziare la «preminente rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell’uomo (art. 32) e alla protezione dell’ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma)», quali valori costituzionali primari.

    Inoltre, la giurisprudenza successiva, superando la ricostruzione in termini solo finalistici, affermava con la sentenza n. 641 del 1987 che l’ambiente costituiva “un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità”.

    Il riconoscimento dell’esistenza di un «bene immateriale unitario» non è fine a se stesso, ma funzionale all’affermazione della esigenza sempre più avvertita della uniformità della tutela, uniformità che solo lo Stato può garantire, senza peraltro escludere che anche altre istituzioni potessero e dovessero farsi carico degli indubbi interessi delle comunità che direttamente fruiscono del bene.

    La Corte evidenzia come l’espressa individuazione, a seguito della riforma del Titolo V, della materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema, quale competenza esclusiva dello Stato”, fotografi una realtà già riconosciuta dalla giurisprudenza e desumibile dal complesso dei valori e dei principi costituzionali.

    Invero, essa si accompagna al riconoscimento della rilevanza dei numerosi e diversificati interessi che fanno capo alle Regioni e quindi ai relativi enti territoriali, come sancito nella sentenza n. 378 del 2007.

    La legge 8 luglio 1986, n. 349 (“Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale”) rappresenta la prima disciplina organica della materia, della quale ne ha rimarcato la suddetta pluralità, prevedendo perfino che l’azione di risarcimento del danno ambientale potesse essere promossa «dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo».

    Ciò era coerente con una visione incentrata su una responsabilità di tipo extracontrattuale connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno ingiusto all’ambiente: ad avviso della Consulta, in questa prospettiva civilistica non era illogico collegare l’azione ad ogni interesse giuridicamente rilevante.

    La Corte rileva come il quadro normativo sia profondamente mutato con la direttiva 21 aprile 2004, n. 2004/35/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) che, nel recare la disciplina del danno ambientale in termini generali e di principio, afferma che la prevenzione e la riparazione di tale danno nella misura del possibile a realizzare l’assetto fissato nel trattato, sia saldamente ancorato al principio per il quale «chi inquina paga».

    Il cambiamento di prospettiva, con la conseguente collocazione del profilo risarcitorio in una posizione accessoria rispetto alla riparazione, è stato fatto proprio dal legislatore, che in sede di attuazione della direttiva, con il d.lgs. n. 152 del 2006, ha statuito la priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa “ambiente”.

    Poi, con l’art. 5-bis del decreto-legge n. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 20 novembre 2009, n. 166, − per rispondere a una procedura di infrazione della UE − si è precisato che il danno all’ambiente devesse essere risarcito con le misure di riparazione «primaria», «complementare» e «compensativa» contenute nella direttiva n. 2004/35/CE; prevedendo un eventuale risarcimento per equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del danno all’ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, o fossero state attuate in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte ovvero risultassero impossibili o eccessivamente onerose.

    Infine, con l’art. 25 della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea − Legge europea 2013), per rispondere all’ulteriore contestazione della Commissione europea, si è ulteriormente riordinata la materia, eliminando i riferimenti al risarcimento “per equivalente patrimoniale” e imponendo per il danno all’ambiente “misure di riparazione”.

    Ad avviso della Consulta, le conseguenze del processo evolutivo indotto dalla normativa comunitaria spingono ad ascrivere la legittimazione attiva dello Stato in sede di tutela «alla funzione a tutela della collettività […] e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio».

    Infatti, “la qualificazione in termini di “funzione” manifesta il carattere pubblicistico del ruolo di chi è preposto alla tutela del bene ambientale; carattere, del resto, confermato dalla modalità del suo esercizio".

    In tale contesto, ove si inserisce la nuova disciplina del potere di agire in via risarcitoria delineata dal d.lgs. n. 152 del 2006 – osserva la Corte – “emerge con forza l’esigenza di una gestione ambientale unitaria, che – contraddittoriamente, secondo il giudice rimettente − ha riservato allo Stato, ed in particolare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il potere di agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (art. 311), e ha mantenuto solo «il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”.

    Ciò non esclude – come si è visto − che ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006 sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti.

    Ricorda la Corte, come “la Corte di cassazione abbia più volte affermato in proposito che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale”, come stabilito dall’art. 309 del codice dell’ambiente.

    La Consulta ritiene dunque che il sistema è idoneo a scongiurare il rischio paventato.

     

  • Corte Costituzionale - Sentenza 23 giugno 2016, n. 152

     

    Oggetto: Sul danno da lite temeraria - art. 96, c. 3°, c.p.c. – abuso del processo - violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.

    Dispositivo: infondatezza.

    A corredo dei dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 96, c. 3°, c.p.c. il giudice a quo richiama l’orientamento della Corte di cassazione, per cui la condanna censurata “ha natura sanzionatoria e officiosa, sicché essa presuppone la mala fede o colpa grave della parte soccombente, ma non corrisponde a un diritto di azione della parte vittoriosa”.

    Da ciò, ne trae una funzione volta a “presidiare il processo civile dal possibile abuso processuale [e] di soddisfare l’interesse pubblico al buon andamento della giurisdizione”, tuttavia diversa dalla funzione risarcitoria assolta dalle disposizioni di cui ai primi due commi dello stesso art. 96 c.p.c., che quindi esorbiterebbe dalla tutela risarcitoria da essi delineata.

    Il rimettente chiede quindi alla Corte di pronunciarsi a fronte dell’intrinseca irragionevolezza ed arbitrarietà nella modulazione dell’istituto processuale con un intervento che definisce “additivo”, su quella parte della norma censurata che dispone la condanna di cui trattasi “a favore della controparte» (vittoriosa) «anziché a favore dell’Erario”, in violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.

    Prendendo le mosse dalla ratio dell’istituto processuale tracciato dall’art. 96, c. 3°, c.p.c., la Corte osserva come siffatto intervento legislativo muova dalla constatazione che l’istituto della responsabilità aggravata, pur rappresentando in astratto un serio deterrente nei confronti delle liti temerarie - quindi, uno strumento efficace di deflazione del contenzioso - risultava scarsamente utilizzato nella prassi applicativa, a causa dell’oggettiva difficoltà della parte vittoriosa di provare il danno – segnatamente in ordine al quantum – derivante dall’illecito processuale.

    Il legislatore del 2009, nell’intento di frenare l’eccesso di litigiosità che affligge il nostro ordinamento ed evitare l’instaurazione di giudizi meramente dilatori, ha quindi introdotto questo peculiare strumento sanzionatorio a carattere generale – tuttavia tramite un’infelice formulazione - che consente al giudice di liquidare a carico della parte soccombente, anche d’ufficio, una somma ulteriore rispetto alle spese del giudizio.

    Quanto al predetto carattere generale della misura in esame, va precisato che contestualmente all’introduzione della norma censurata, fu abrogato il quarto comma dell’art. 385 c.p.c., che prevedeva la medesima condanna sopra in caso di ricorso temerario in Cassazione; secondo la Corte, ciò induce a ritenere che “la legge di riforma abbia in tal modo voluto elevare a principio generale il meccanismo processuale predisposto per il procedimento di cassazione, facendolo rifluire in una disciplina valevole per tutti i gradi di giudizio”.

    A causa della difficile lettura della norma, dottrina e giurisprudenza di merito si sono divise sulla riconducibilità o meno della responsabilità della parte soccombente ex art. 96, c. 3°, c.p.c. allo schema della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. ovvero ad una funzione di tipo  - esclusivamente o prevalentemente - sanzionatorio delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, aggravando così il volume del contenzioso e ostacolando la ragionevole durata dei processi pendenti.

    Al riguardo, “la Corte concorda con la prospettazione del Tribunale rimettente – che rimanda, a sua volta, all’esegesi della Corte regolatrice – sulla natura non risarcitoria e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, della disposizione scrutinata”.

    A conforto di ciò la Corte trova supporto:

       a) Nel dato letterale dell’art. 96 c.p.c., poiché il comma 3° usa espressioni quali «pagamento di una somma», piuttosto che «risarcimento dei danni», invece oggetto della condanna di cui ai primi due commi dell’art. 96 c.p.c.;

       b) Ai connotati innegabilmente pubblicistici desumibili dalla sua rilevabilità «anche d’ufficio», sottratta quindi all’impulso di parte, a conferma ulteriore della finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende quello di parte.

    Nonostante, la comune impostazione di fondo, il Giudice di legittimità non condivide la censura articolata dal rimettente.

    La Corte ricorda infatti che la motivazione che ha indotto i redattori della novella a porre «a favore della controparte» l’introdotta previsione di condanna della parte soccombente al «pagamento della somma» in questione, “è plausibilmente ricollegabile all’obiettivo di assicurare una maggiore effettività ed efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna, come modulata dalla norma, assolvendo l’eminente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa”.

    Ad avviso della Consulta, la norma non presenta, dunque, i predetti connotati di irragionevolezza, riflettendo, piuttosto una delle possibili scelte del legislatore, il quale non è costituzionalmente vincolato nella sua discrezionalità ad individuare la parte beneficiaria di una misura che sanziona un comportamento processuale abusivo.