Studi
La natura bivalente dell’articolo 21-bis della legge antitrust: un delicato equilibrio tra norma d’azione e norma di giurisdizione
Di Giacomo Semenzato
La natura bivalente dell’articolo 21-bis della legge antitrust: un delicato equilibrio tra norma d’azione e norma di giurisdizione
Di Giacomo Semenzato
Abstract
Nel contesto del presente contributo, s’intende portare alla luce l’evoluzione della giurisdizione amministrativa, a partire dalla valorizzazione del legame tra funzione amministrativa di regolazione del mercato dell’Autorità antitrust e processo amministrativo. L’approccio adottato pone al centro della riflessione il potere d’azione processuale, al cospetto del giudice amministrativo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nonché il suo impatto sistematico sulla struttura e funzione dell’omonimo processo. Il dibattito dottrinale ha evidenziato due aspetti nell’analisi della richiamata fattispecie: su di un versante, è stato osservato che il potere di cui pocanzi, sarebbe da concepirsi quale potere d’azione processuale, strettamente legato all’interesse legittimo azionato, di cui l’Autorità antitrust possiede titolarità, ove, per altro verso, il suddetto è stato interpretato come manifestazione della funzione amministrativa di para-regolazione del mercato, quale prerogativa intrinseca all’essenza stessa del Garante della concorrenza. La presente analisi esplora queste prospettive, cercando di armonizzarle in un quadro interpretativo sistematico, mostrando l’impatto del “nuovo modello” sullo sviluppo della giurisdizione amministrativa e sulla peculiare funzione assunta dal giudice amministrativo.
In the context of this paper, it is intended to bring to light the evolution of administrative jurisdiction, starting from the appreciation of the link between the antitrust authority's administrative market regulation function and the administrative process. The approach adopted places the power of procedural action before the administrative court of the Antitrust Authority at the center of reflection, as well as its systematic impact on the structure and function of the process of the same name. The doctrinal debate has highlighted two aspects in the analysis of the aforementioned case: on the one hand, it has been observed that the aforementioned power, would be conceived as a power of procedural action, closely linked to the legitimate interest being pursued, of which the Antitrust Authority possesses ownership, where, on the other hand, the aforementioned has been interpreted as a manifestation of the administrative function of para-regulation of the market, as a prerogative intrinsic to the very essence of the Competition Guarantor. The present analysis explores these perspectives, seeking to harmonize them in a systematic interpretative framework, showing the impact of the “new model” on the development of administrative jurisdiction and the peculiar function assumed by the administrative judge.
Sommario: 1. Note introduttive. 2. L’articolo 21-bis della legge n. 287 del 1990: il problema concettuale sotteso all’analisi della fattispecie. 2.1. La natura di amministrazione indipendente, matrice di ambiguità circa il ruolo del Garante della concorrenza: uno sguardo ai poteri di competition advocacy dell’Autorità antitrust. 2.2. La natura discrezionale della funzione amministrativa di para-regolazione del mercato. 2.3. La riconducibilità del potere di azione processuale al ventaglio delle prerogative di para-regolazione del mercato. 3. La legittimazione “oggettiva” dell’Autorità antitrust per il corretto funzionamento del mercato, quale forma di tutela dell’interesse pubblico. 4. Il tentativo di una ricostruzione sistematica della fattispecie tra diritto sostanziale e processuale. 5. Considerazioni conclusive: la fruttuosa reciprocità tra articolo 21-bis e ampliamento della giurisdizione amministrativa.
- Note introduttive.
Il decreto-legge n. 201 del 2011, successivamente convertito nella legge n. 214 del 2011, ha introdotto nell’ambito della normativa antitrust (l. n. 287 del 1990) l’articolo 21-bis, intitolato «Poteri dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sugli Atti Amministrativi che Determinano Distorsioni della Concorrenza».
La disposizione ha conferito all’Autorità antitrust il potere di contestare innanzi al giudice amministrativo atti e provvedimenti delle pubbliche amministrazioni che violano le norme sulla tutela della concorrenza e del mercato; stando al disposto normativo, tale potere può essere attivato dopo un procedimento precontenzioso, nel quale l’Autorità indipendente deve, entro sessanta giorni, fornire un parere dettagliato sulle violazioni identificate: ove il soggetto pubblico non modifichi il proprio agire in conformità a quanto stabilito, entro sessanta giorni, l’Autorità diviene autorizzata a presentare ricorso al giudice amministrativo, nell’arco dei trenta giorni successivi.
Come osservato dalla dottrina, l’aspetto inedito più significativo della norma in analisi inerisce alla introduzione di un “modello”[1] processuale notevolmente diverso da quello tradizionale, di prassi caratterizzato dalla polarizzazione tra il cittadino e la pubblica amministrazione, quali parti del medesimo rapporto giuridico controverso; il che, ha suscitato un vivace dibattito dottrinale, stimolando gli interpreti a individuare una coerente ricostruzione sistematica della fattispecie, rispetto al modello di processo orientato alla tutela di situazioni giuridiche soggettive, qualificate e differenziate, come previsto dagli articoli 24, 103 e 113 della Costituzione[2].
A partire da tali esigenze, il dibattito si è cristallizzato in seno a due tendenze ricostruttive divergenti: su di un versante, quella di coloro che, attraverso articolate ricostruzioni teoriche, hanno sostenuto la compatibilità costituzionale della fattispecie, con ciò affermando la titolarità di un interesse legittimo da parte del Garante[3]; per altro verso, la posizione di quanti hanno espresso dubbi sulla compatibilità costituzionale della norma, chiamando in causa il ritorno a un “modello” processuale oggettivistico[4].
In virtù di tali premesse, una prima considerazione in merito può essere così formulata: dall’analisi del dibattito pocanzi menzionato – e di cui si darà ulteriore conto nel prosieguo – emerge come la dottrina abbia precipuamente focalizzato la propria attenzione sul piano del diritto sostanziale[5]; in particolare, l’attenzione s’è condensata nell’analisi del fondamento della legittimazione ad agire, avvalendosi della “situazione giuridica soggettiva” dell’interesse legittimo, quale parametro per determinare la natura del processo e, di conseguenza, valutarne la compatibilità con la Carta costituzionale.
Non di meno, malgrado l’innegabile attrattiva suscitata dal carattere radicalmente dialettico del dibattito di cui sopra, è doveroso sottolineare la scarsa rilevanza, ad oggi, investita dal considerare il problema della legittimità costituzionale della disposizione, essendo stato suddetto nodo disciolto in sede di deliberazione della Corte costituzionale e nel solco dell’ampia e prolungata applicazione giurisprudenziale della fattispecie[6].
Ciò nonostante, l’analisi della relazione tra legittimazione ad agire e interesse sostanziale nella prospettiva di una controversa compatibilità costituzionale, pare non aver reso esaustivamente ragione alle potenzialità intrinseche alla questione tout court: potenzialità che, in quanto “inespresse”, impongono all’interprete l’assunzione di una diversa angolatura, focalizzata sulla relazione giuridica tra funzione amministrativa – presupposto della legittimazione ad agire, come in seguito s’avrà modo di dimostrare – e l’omonimo processo – quale spazio giuridico regolamentato per attuarla –; sarà a partire da questo cambio di prospettiva, che s’intende condurre, ora d’innanzi, la presente disamina.
Di qui, peraltro, la scelta di focalizzare l’attenzione sul diverso piano della specifica situazione giuridica soggettiva (i.e.: il potere e non l’interesse legittimo), conferita all’Autorità per l’attivazione del rimedio giurisdizionale, anziché circoscrivere l’indagine alla sola legittimazione ad agire in giudizio e del supposto interesse legittimo a suo fondamento. Come sarà ulteriormente dettagliato nel prosieguo, infatti, il fenomeno in esame lambisce solo incidentalmente il piano della legittimazione processuale; la discussione, pertanto, dal terreno delle cosiddette condizioni dell’azione processuale, verrà trasposta al più sostanziale ambito del diritto d’azione (i.e.: il potere di agire in giudizio), specificatamente assegnato dal legislatore all’Autorità per promuovere il ricorso giurisdizionale.
Espandendo il perimetro della sola legittimazione ad agire e proiettando l’analisi al più esteso orizzonte della funzione amministrativa quale fondamento di tale potere, sarà possibile condurre un’indagine della fattispecie più esaustiva e pertinente, in quanto capace di rendere la legittimazione ad agire precipuo strumento per esplorare l’evoluzione della giurisdizione amministrativa, alla luce della peculiare relazione tra: (i) funzione para-regolatoria del mercato dell’Autorità antitrust; (ii) struttura e funzione del processo considerato; (iii) ruolo assunto dal giudice amministrativo nel bilanciamento di interessi pubblici confliggenti e nel garantire “certezza” nell’individuazione delle regole di funzionamento del mercato.
Si cercherà, pertanto, di conseguire l’obiettivo proposto, previa disamina di tutti gli aspetti di interesse, principiando dalla prima questione che si ritiene doveroso chiarire: il fatto che il potere di legittimazione non origini dalla titolarità di un interesse sostanziale qualificato e differenziato attribuibile all’Autorità antitrust, bensì rappresenti, al contrario, l’espressione di un potere tipico, eccezionale e disciplinato dalla legge, caratterizzante la missione istituzionale dell’Autorità, nel perseguire gli obiettivi che le sono stati assegnati.
- L’articolo 21-bis della legge n. 287 del 1990: il problema concettuale sotteso all’analisi della fattispecie.
La questione della natura del potere in esame trascende una mera indagine euristica o speculativa, radicandosi in una necessità pratica: determinare l’applicabilità o meno dei princìpi relativi all’azione amministrativa nei casi di patologie dell’azione, dubbi interpretativi, o per colmare eventuali lacune normative[7]. Pertanto, nell’ambito della presente sede, la chiarificazione di questo aspetto specifico assume un ruolo di cruciale importanza.
Esaminando attentamente le cause, emerge che la complessa questione interpretativa relativa alla natura del potere di impugnazione processuale esercitato dall’Autorità antitrust deriva dalla sua intrinseca peculiarità normativa. Questa, già a un’analisi superficiale, mostra una netta distinzione dalle abituali prerogative legalmente conferite ai soggetti pubblici, a causa di una non comune interazione tra il dominio dell’azione amministrativa e quello dell’iniziativa processuale[8].
Ciò che risulta chiaro è che l’ostacolo a una sistematizzazione concettuale del procedimento delineato dall’articolo 21-bis – il quale, come visto, non culmina nell’emanazione di un atto o provvedimento amministrativo “tipico” bensì in un ricorso giurisdizionale – ha indotto gli studiosi a considerare tale potere avulso dal contesto normativo in cui esso trova il proprio fondamento. Nonostante tale prerogativa sia eminentemente radicata in una fase precontenziosa di natura “procedimentale”, a causa della sua natura giuridica di potestà di agire nel processo, ciò ha sovente spinto i commentatori a prescindere dal riconoscerla quale manifestazione di un agire amministrativo. Piuttosto, è stata interpretata, secondo alcuni autori, come una forma di legittimazione processuale ordinaria, strumentale a tutelare un interesse legittimo di cui la stessa Autorità antitrust sarebbe titolare[9], mentre, secondo altri, è interpretata quale forma di legittimazione eccezionale, mirata alla salvaguardia dell’interesse generale al rispetto della legalità[10].
Per comprendere a fondo le ragioni che hanno spinto i commentatori a sviluppare un’analisi distaccata dal tradizionale ambito dei poteri amministrativi, è essenziale prendere in esame un ulteriore elemento.
L’Autorità antitrust, a differenza delle amministrazioni tradizionali, si distingue per la sua indipendenza dal circuito politico-amministrativo. Secondo autorevoli interpretazioni, questa peculiarità la collocherebbe al di fuori dei confini dell’ordine amministrativo convenzionale. Questo perché si ritiene che l’Autorità antitrust non eserciti una funzione prettamente amministrativa, basata sull’emanazione di atti e provvedimenti discrezionali, ma piuttosto una funzione più affine a quella giurisdizionale, focalizzata sull’interpretazione e sull’applicazione della legge. Ciò poiché, come affermato, «le autorità indipendenti, in quanto ricomprese nello Stato-comunità, anziché nello Stato-apparato, non possono vantare la suitas di un interesse pubblico dato»[11] e, per tale ragione, non potrebbero conseguentemente essere considerate delle autentiche entità amministrative.
Dall’analisi del dibattito dottrinale a commento della fattispecie, si evidenzia chiaramente una questione concettuale legata alla controversa natura giuridica dell’Autorità indipendente; in virtù di ciò, tale pregiudiziale condizionamento ha frequentemente inciso sull’analisi e sulla successiva definizione del suo potere d’azione processuale: sicché il primo aspetto da chiarire per inquadrare adeguatamente la discussione sul fondamento sostanziale della capacità dell’Autorità antitrust di agire in giudizio riguarda la necessità di determinare se il fondamento causale del potere, ancor prima di essere individuato nell’attuazione giudiziale di un interesse legittimo o di un interesse generale, possa (e debba) essere ricercato nella funzione amministrativa del Garante stesso.
Per validare tali asserzioni, è essenziale affrontare – seppure sinteticamente – due questioni fondamentali che hanno storicamente generato controversia nella dottrina giuridica. In primo luogo, occorre appurare se l’Autorità antitrust possa essere considerata un’entità amministrativa a pieno titolo. Successivamente, è necessario valutare se la prerogativa delineata dall'articolo 21-bis, considerata nella sua supposta duplice veste di potere processuale e di rimedio giurisdizionale, possa essere interpretata come espressione della funzione amministrativa antitrust.
Data l’abbondante letteratura esistente sull'argomento, nella presente sede ci si limiterà ad approfondire le summenzionate questioni mediante l’analisi dei cosiddetti poteri di competition advocacy dell’Autorità: contesto entro il quale trova collocazione la fattispecie esaminata.
2.1. La natura di amministrazione indipendente, matrice di ambiguità circa il ruolo e la funzione del Garante della concorrenza: uno sguardo ai poteri di competition advocacy dell’Autorità antitrust.
Il potere di iniziativa processuale dell’Autorità antitrust è situato topograficamente nella sezione della legge antitrust (il Titolo III della l. n. 287 del 1990) dedicata ai «Poteri consultivi e conoscitivi dell’Autorità», a mezzo dei quali essa svolge una funzione fondamentale per garantire che il potere normativo-regolatorio e provvedimentale da parte di soggetti pubblici sia esercitato nel rispetto del regolare e corretto funzionamento del mercato[12].
È notoriamente riconosciuto che le distorsioni concorrenziali e il turbamento dell’equilibrio del mercato non derivino esclusivamente da condotte anticoncorrenziali da parte di soggetti privati, come le imprese, attraverso intese, cartelli o abusi di posizione dominante. In realtà, tali distorsioni possono anche essere il risultato di un impiego inappropriato del potere normativo, regolatorio e provvedimentale da parte di enti pubblici[13]. In virtù di ciò, l’Autorità antitrust dispone di specifiche prerogative di competition advocacy[14], quali pareri, proposte e segnalazioni, che sono cruciali per intervenire contro le distorsioni indotte dall’azione dei soggetti pubblici sui mercati[15].
Entrando nel dettaglio, è possibile distinguere i poteri di advocacy dell’Autorità antitrust in funzione del momento temporale in cui questi vengono esercitati rispetto all’azione intrapresa dal soggetto pubblico coinvolto.
Avendo riguardo ai poteri “preventivi”, si rammenta che l’articolo 22 della legge antitrust – rubricato “Attività consultiva” – ha attribuito al Garante un generale potere consultivo in ordine ad iniziative legislative o regolamentari. In particolare, con tale disposizione il legislatore ha conferito all’Autorità la potestà di «esprimere pareri sulle iniziative legislative o regolamentari e sui problemi riguardanti la concorrenza ed il mercato quando lo ritenga opportuno, o su richiesta di amministrazioni ed enti pubblici interessati». Come evidente, la finalità di questo potere consultivo è di assicurare il coinvolgimento dell’Autorità nella fase di elaborazione di atti e provvedimenti pubblici, facilitando così la corretta formazione della volontà dell’ente responsabile dell’emanazione dell’atto, tenendo in considerazione l’incidenza di tale atto sulle dinamiche di mercato. In sostanza, permette all’Autorità antitrust di far valere il proprio interesse nei contesti legislativo e amministrativo, contribuendo alla corretta formulazione di atti o provvedimenti da parte degli enti pubblici.
In merito ai poteri “successivi” (collocati temporalmente in una fase postuma rispetto all’adozione di atti o provvedimenti pubblici), con l’articolo 21 della legge antitrust il legislatore ha disposto l’attribuzione, in capo all’Autorità, di un generale potere di segnalazione[16] al Parlamento, al Governo e agli enti territoriali di leggi, regolamenti o atti amministrativi generali che «determinano distorsioni della concorrenza o del corretto funzionamento del mercato che non siano giustificate da esigenze di interesse generale» e inoltre «ove ne ravvisi l’opportunità, ad esprimere parere circa le iniziative necessarie per rimuovere o prevenire le distorsioni». Anche in questo caso le prerogative del Garante, intervenendo su atti già emanati, le permettono di svolgere una funzione correttiva nei confronti dell’agire pubblico nell’economia, contribuendo così alla corretta formazione di regole che assumono come referente oggettivo il mercato, sia direttamente sia indirettamente[17].
La descrizione, seppur concisa, evidenzia una delle caratteristiche distintive dei poteri di promozione della concorrenza esercitati dall’Autorità antitrust: l’influenza posta nel processo di elaborazione delle norme e dei provvedimenti amministrativi si basa unicamente sulla capacità di persuasione che deriva dall’autorevolezza dell’Ente, nota come moral suasion[18]: nonostante l’azione dell’Autorità, resta ai soggetti pubblici coinvolti la facoltà di seguire o meno le raccomandazioni provenienti dal Garante[19], specialmente «in ambiti caratterizzati da alto tasso di politicità o da rilevanti conflitti di interesse»[20] dove gli interessi locali o specifici di certe categorie prevalgono sulla logica di libera concorrenza del mercato. Così come nell'attività consultiva riguardante gli atti in fase di elaborazione, anche per le attività di segnalazione e contestazione, l’intervento del Garante si configura unicamente come un tentativo di persuasione. Di conseguenza, non è raro che le raccomandazioni dell’Autorità non siano seguite, mantenendo irrisolte le questioni relative alla protezione degli interessi del mercato e all’efficacia degli interventi compiuti dall’Ente.
Dal punto di vista della logica e dell’efficacia dell’intervento, l’articolo 21-bis e il conseguente potere di azione giudiziaria derivano dalla necessità precedentemente illustrata: il legislatore ha introdotto tale disposizione per fornire all'Autorità antitrust uno strumento più incisivo e concreto per influenzare contesti nei quali le sue raccomandazioni e segnalazioni risultano trascurate o non debitamente considerate. In assenza di meccanismi di deterrenza efficaci, le norme volte a tutelare la concorrenza – che spesso si presentano in forma programmatica anziché precettiva – rischiano di ridursi a semplici astrazioni teoriche, senza alcun impatto reale sull’ordine economico e giuridico. In questo contesto, l’articolo 21-bis acquista un’importanza cruciale: il suo potere dissuasivo non deriva dall'esercizio di un potere ablatorio o sanzionatorio esercitato in maniera diretta dall’Autorità; al contrario, esso trova realizzazione nell’ambito del giudizio dalla medesima instaurato.
Attraverso questa misura, diventa palese che la norma in esame rappresenta un avanzamento significativo nel rafforzamento delle capacità dell’Autorità, dotandola di strumenti più efficaci per intervenire nella tutela dell’apertura del mercato e nella prevenzione delle distorsioni concorrenziali[21], determinando – più in generale – un cambiamento paradigmatico nella configurazione dei poteri dell’Autorità antitrust: l’efficacia deterrente del potere amministrativo non si manifesta tramite l’azione sanzionatoria della stessa Autorità preposta alla tutela dell’interesse pubblico, ma si compone attraverso il coinvolgimento dell’ente interessato in un procedimento giudiziario, culminante nella pronuncia giurisdizionale[22].
Con l’introduzione di tale disposizione, il legislatore, mantenendo fermo il principio di autonomia tra le diverse entità amministrative, ha scelto di non conferire all’Autorità poteri ablatori o sostitutivi in senso stretto. In questo senso, preferendo un sentiero più sinuoso, ma non meno efficace, egli ha circoscritto l’operato dell’Autorità alla mera facoltà dell’iniziativa processuale: tale scelta, che permette all’Autorità di avviare o intervenire in un procedimento giudiziario, non delinea semplicemente un approccio maggiormente articolato, bensì evidenzia una dinamica per cui l’efficacia e il carattere vincolante delle direttive elaborate dal Garante nella sua attività di regolazione del mercato trovano concretizzazione, qualora il ricorso venga accolto, attraverso il provvedimento giurisdizionale.
2.2. La natura discrezionale della funzione amministrativa di para-regolazione del mercato.
Sebbene formalmente priva di poteri normativi diretti e di capacità sanzionatoria esplicita per l’inosservanza delle prescrizioni rivolte agli altri soggetti pubblici interessati dal suo intervento, non vi è dubbio che l’Autorità, in qualità di Amministrazione indipendente, agisca in qualità di ente para-regolatore del mercato.
Le riflessioni finora avanzate rivelano che il ruolo del Garante trascende il mero controllo sull’impatto che la regolamentazione[23] attuata da altre pubbliche amministrazioni può avere sul mercato[24]: come correttamente osservato in dottrina[25], infatti, i poteri conferiti all’Autorità nei confronti degli organi legislativi e amministrativi sono stati intenzionalmente predisposti dal legislatore come strumenti dinamici per la promozione di una cultura della concorrenza in seno alle istituzioni pubbliche. In effetti, L’Autorità non si limita a monitorare l’impatto concorrenziale di atti e provvedimenti amministrativi, ma si determina in una funzione costruttiva delle regole di funzionamento del mercato, suggerendo di volta in volta emendamenti normativi e interventi amministrativi volti a modellare proattivamente il mercato secondo il paradigma concorrenziale.
Ciò posto, l’approccio dell'Autorità non può essere considerato passivo. Al contrario, essa si manifesta come un attore proattivo nella difesa dell’interesse pubblico che le è stato affidato, mediante l’esercizio «di un’attività talmente discrezionale da potere essere definita “politica”»[26]. Tale azione, infatti, può dirsi intrinsecamente discrezionale poiché caratterizzata da un potere di scelta tra soluzioni diverse[27]. Come autorevolmente sottolineato, tuttavia, ciò non è sufficiente: in via generale, la discrezionalità non è definita solamente dalla capacità di operare scelte; sono piuttosto le peculiarità della decisione richiesta all’amministrazione a renderla tale. L’agire discrezionale, oltre a essere finalizzato alla tutela dell’interesse pubblico specificamente assegnato all’amministrazione[28], si distingue per la «formulazione di giudizi di valore, di natura politica, dove il termine “politico” non indica un’azione con obiettivi arbitrari, [...] ma piuttosto una capacità decisionale radicata nella legge, che introduce elementi nuovi rispetto alla condizione esistente, determinando l’amministrazione a stabilire una regola ad hoc per il caso specifico»[29].
La capacità di operare in maniera discrezionale, particolarmente evidente nella descritta funzione di advocacy dell’Autorità, si rivela uno strumento irrinunciabile a causa della peculiarità dell'interesse tutelato e della sua relazione con altri interessi di significativa importanza per l’ordinamento[30].
Come noto, nel contesto giuridico attuale, la concorrenza è considerata più un bene strumentale o un principio procedurale[31] che non un fine in sé: essa riguarda il modo in cui gli attori agiscono sul mercato, piuttosto che gli scopi delle loro azioni. In questo senso, il principio di concorrenza assume un ruolo funzionale rispetto agli obiettivi tutelati dall’ordinamento, che non sempre si allineano a una struttura di mercato basata sulla concorrenza[32]. Tale principio è destinato a cedere il passo a beni giuridici di natura sostanziale quando la massima apertura del mercato e le modalità d’azione prescritte dalla concorrenza si rivelano inadeguate al raggiungimento di obiettivi sostanziali fondamentali per la comunità.
In assenza di un quadro normativo chiaro – e considerando che la concorrenzialità del mercato è un interesse ed un principio trasversale che deve guidare l’azione della pubblica amministrazione in tutti i suoi ambiti di competenza – la scelta su come bilanciare gli interessi pubblici sostanziali con il suddetto interesse riflette una scala di priorità soggettiva caratterizzante la composizione degli interessi in conflitto[33]. In situazioni dove l’Autorità antitrust non concorda con tale bilanciamento, essa ha il potere di intervenire formulando una nuova composizione degli interessi in questione[34], assumendo il ruolo di portatrice di un interesse pubblico secondario nel procedimento instaurato con l’amministrazione interpellata[35], individuando così la regola che nel caso concreto è preposta a disciplinare il corretto funzionamento del mercato.
A ben vedere, tuttavia, spesso gli atti o i provvedimenti contestati dal Garante rappresentano di per sé un intralcio alla concorrenza e alla massima apertura del mercato. Solo in circostanze eccezionali l’Autorità si trova davanti alla necessità di ponderare un trade-off [36] tra l’interesse concorrenziale e altri valori significativi (come l’ambiente, la salute, la sicurezza e la mobilità, oltre agli interessi individuali e collettivi tutelati dalla Costituzione e dal diritto dell’Unione Europea quali lo sviluppo economico e l’incremento del benessere dei consumatori) che entrano in conflitto con esso, giustificando in tal modo una delicata operazione di bilanciamento tra interessi pubblici contrapposti ed una potenziale deviazione dal principio di concorrenzialità stesso.
A conferma di quanto dianzi posto in evidenza, si rammenta che con la pronuncia n. 13 del 31 gennaio 2019, la Corte costituzionale ha ulteriormente chiarito la questione, negando all’Autorità Garante la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale in via incidentale, offrendo un chiarimento decisivo sulla natura giuridica dell’Autorità antitrust e sui poteri a lei conferiti. La Corte costituzionale ha precisato che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato opera attraverso una «funzione amministrativa discrezionale», la quale, data la sua missione di salvaguardare un interesse pubblico ben definito, non può essere considerata imparziale o «neutrale». Questa specificità nel ruolo dell’Autorità, accentuata dal carattere discrezionale dei suoi poteri e dalla sua partecipazione attiva nella protezione di certi interessi, impedisce che essa venga vista come un ente “super partes”. Al contrario, viene più accuratamente descritta come rappresentante di uno degli interessi in campo: una definizione che trova ulteriore conferma nella concessione all’Autorità del potere di iniziativa processuale nella presente sede esaminato. Quest’ultimo non solo la posiziona come un soggetto attivo nei procedimenti da lei iniziati, ma la qualifica anche come una parte processuale, evidenziando il suo ruolo peculiare all’interno del tessuto giuridico e amministrativo.
2.3. La riconducibilità del potere di azione processuale al ventaglio delle prerogative di para-regolazione del mercato.
Resta da chiarire se il potere di iniziativa processuale dell’Autorità antitrust, alla luce del diritto sostanziale, possa essere classificato come un potere amministrativo. È pertanto opportuno indagare la natura del diritto di azione processuale per valutare se, data la sua specifica struttura giuridica, sia compatibile con le finalità e le funzioni caratteristiche dell’azione amministrativa. Questo approccio permetterà di determinare in che modo tale diritto possa essere considerato parte dei poteri amministrativi convenzionalmente riconosciuti, agendo come uno strumento autoritativo nell’ambito dell’ordinamento giuridico a vantaggio della collettività e per il conseguimento degli obiettivi istituzionali dell’Ente.
Prima di approfondire ulteriormente, è fondamentale chiarire – seppure incidentalmente – i concetti di “potere” e di “funzione amministrativa”. Quest’ultima, come autorevolmente evidenziato[37], si identifica con l’esercizio di una determinata posizione giuridica soggettiva attribuita all’amministrazione. Di conseguenza, è la situazione giuridica soggettiva esercitata, anziché l’emanazione di un atto o di un provvedimento, a delineare l’essenza e la sfera d’azione dell’amministrazione. Proprio per questa ragione si è altresì evidenziato che, nell’ambito dell’ampio contesto dell’ordinamento, il “potere amministrativo” debba essere inteso semplicemente come «una specifica manifestazione all’interno del più grande insieme dei poteri giuridici, tramite i quali l’ordinamento determina le capacità giuridiche di tutti i suoi componenti»[38].
Questo permette di concludere che esista una sostanziale omogeneità tra i poteri amministrativi e quelli, talvolta definiti come “diritti potestativi”, nel dominio privato[39]. Pertanto, sia il potere amministrativo che quello esercitabile da soggetti privati, analogamente a qualsiasi altra posizione giuridica soggettiva riconosciuta dall’ordinamento, si configurano come manifestazioni dirette della capacità giuridica del soggetto titolare[40]: sicché le prerogative dell’amministrazione, qualunque sia la loro veste esteriore, le loro caratteristiche e i loro limiti sono intrinsecamente connessi alla natura e ai confini della sua personalità giuridica[41]. Diversamente dai poteri conferiti ai privati, che possono essere esercitati con notevole libertà una volta accordati dall’ordinamento, la situazione per l’amministrazione è diversa[42]. Nel contesto descritto, il potere amministrativo si orienta specificatamente al raggiungimento degli obiettivi istituzionali dell’amministrazione, agendo quest’ultima con autorità all’interno dell’ordine giuridico a favore dell’interesse collettivo. Pertanto, il potere amministrativo, diversamente da quello esercitabile in ambito privato, è caratterizzato dalla sua finalità di realizzare una specifica funzione pubblica, mirando al conseguimento di un interesse generale affidato all’amministrazione responsabile[43].
In virtù di tali premesse è agevole dedurre che, data l’identificazione delle caratteristiche proprie del potere amministrativo, il potere di azione processuale dell’Autorità antitrust si identifica senza dubbio come tale. Nonostante non si concretizzi nell’emanazione di atti o provvedimenti amministrativi convenzionali, bensì attraverso la promozione o la partecipazione a un procedimento giurisdizionale, tale potere funge da strumento per la tutela dell’interesse pubblico al corretto funzionamento del mercato.
In virtù di ciò, tale potere di azione processuale è una chiara espressione della funzione amministrativa dell’Autorità, in quanto è diretto alla salvaguardia e alla promozione dell’interesse pubblico a essa affidato. La sua natura è quindi definita non dalla forma o dalle modalità attraverso cui viene esercitato, ma piuttosto nel fine ultimo che mira a raggiungere: la protezione e la promozione di un determinato assetto concorrenziale del mercato.
Dal punto di vista ontologico, benché questa prerogativa processuale si discosti – quanto a forma e modalità d’esercizio – dal paradigma tradizionale del potere amministrativo, essa può essere considerata sostanzialmente tale per la sua finalità intrinseca di preservare e implementare l’ordine concorrenziale, fondamentale per il benessere della collettività e per il dinamismo economico.
In linea con l’orientamento maggioritario della giurisprudenza[44], il legame tra il primo e il secondo comma dell’articolo 21-bis dimostra chiaramente questa intenzione: il ricorso, secondo questa visione, prima di essere considerato un atto di impulso processuale, emerge come il risultato di un procedimento amministrativo articolato, il quale è precondizione per l’iniziativa dell’azione giudiziaria. Un’ulteriore conferma di questa interpretazione emerge dal fatto che il potere di agire in giudizio, sebbene formalmente processuale, è improntato dalla stessa discrezionalità che caratterizza l’azione dell’Autorità antitrust nella promozione della concorrenza. Tale meccanismo, infatti, è stato correttamente inteso come una forma di “persuasione morale rafforzata”[45]. Come dianzi evidenziato, la dinamica di esercizio del potere si manifesta, inizialmente, in una fase precontenziosa, attraverso il tentativo dell’Autorità di correggere le distorsioni che ostacolano il corretto funzionamento del mercato, mirando a stimolare un allineamento volontario degli enti pubblici alle direttive stabilite, come indicato nel secondo comma della normativa pertinente. Tale approccio, sebbene inizialmente incentrato sulla cooperazione spontanea tra enti[46], indica un cambiamento significativo nel modo di operare dell’Autorità, trasformando la persuasione morale in un approccio “rafforzato”: essa non esercita più il proprio potere fondandolo unicamente sulla propria autorità istituzionale di organo regolatore [47], orientandosi verso un approccio che prevede la “minaccia” di attivare un autentico potere giurisdizionale.
Alla luce di quanto esposto, se non sorgono dubbi sulla natura della prerogativa in questione, adottando una prospettiva di analisi strettamente formale è possibile sviluppare ulteriori considerazioni.
Tale prerogativa, sebbene operi funzionalmente come un potere amministrativo discrezionale, si manifesta formalmente come un diritto di azione processuale. Tuttavia, la percezione di una dicotomia tra l’aspetto processuale del potere illustrato dall’articolo 21-bis, sotto un esame più dettagliato e in virtù di quanto appresso sarà specificato, appare superabile.
Il diritto di azione processuale – pilastro fondamentale della teoria generale del diritto – è concepito da parte della dottrina come un diritto potestativo[48]. Questo conferisce alla parte il potere di avviare un procedimento giudiziario, imponendo al giudice l’obbligo di esprimere un giudizio sulla questione portata alla sua attenzione. Tale diritto, per sua natura, è distinto dall’interesse sostanziale sotteso, emergendo come una posizione giuridica soggettiva di carattere astratto, indipendente dagli interessi specifici salvaguardati dal processo[49]. Quindi, l’autonomia del diritto di azione si apprezza perché l’azione, proprio per essere “astratta” dagli interessi sottesi al processo, nelle sue distinte manifestazioni talvolta è in grado di essere “pura”, cioè strumentale per il conseguimento «di un bene senza che vi sia, o senza che si sappia che vi sia, alcun diritto soggettivo di chi ha proposto l’azione»[50].
Oltre alla caratteristica dell’astrattezza, il concetto di azione si distingue notevolmente per la sua relatività[51]: l’azione, poiché «scolpisce il modo in cui il diritto sostanziale si fa valere nel processo, […] è condizionata alla particolarità della situazione giuridica che nel processo si fa valere»[52]: rendendosi per questa ragione plastica e strumentale alle contingenze esterne al processo cui di volta in volta è strumentale.
In tale contesto, la struttura del diritto di azione processuale assume un’importanza cruciale, consentendo di affermare una piena compatibilità tra la figura del potere amministrativo (che tipicamente si esercita mediante l’adozione di un atto sostanziale) e il diritto di azione (che, invece, si attua mediante un atto processuale). Le caratteristiche di astrattezza e relatività che definiscono il diritto di azione processuale non sono semplici attributi distintivi, ma fungono da veri e propri collettori per l’integrazione di tale prerogativa nell’ambito del potere amministrativo. Attraverso l’articolo 21-bis, il legislatore ha attribuito all’Autorità una particolare situazione giuridica soggettiva che, alla luce dell’analisi finora condotta, può e deve essere definita come un autentico potere amministrativo “ad attuazione giudiziale”.
Differentemente dai tradizionali poteri amministrativi, che configurano la potestà dell’amministrazione di modificazione giuridica nei rapporti intersoggettivi, il potere di azione si distingue per le forme e le modalità di esercizio. Precisamente, per quanto concerne l’azione di annullamento[53] degli atti o dei provvedimenti impugnati[54], l’Autorità non dispone di una prerogativa il cui esercizio produce un effetto giuridico sostanziale nella sfera dell’amministrazione convenuta, essendo quest’ultimo, come visto, un effetto di mera persuasione morale rafforzata. Al contrario, nel caso in cui il ricorso sia validamente proposto e fondato, si instaura il dovere del giudice di emettere un provvedimento giurisdizionale che modifichi la realtà giuridica preesistente, vincolando così l’amministrazione convenuta alla sua giurisdizione. Per tale ragione, quindi, pare corretto parlare di potere amministrativo “ad attuazione giudiziale”: sicché questa interpretazione “ampia” del diritto di azione processuale – su cui si tornerà nel seguito – costituisce il primo postulato evincibile dall’analisi, confermando l’interesse non solo nello studio dell’articolo 21-bis come pilastro nella tutela dell’ordine concorrenziale, ma anche e soprattutto nell’avanzamento della giustizia amministrativa.
- La legittimazione “oggettiva” dell’Autorità antitrust per il corretto funzionamento del mercato, quale forma di tutela dell’interesse pubblico.
Una volta stabilito che il potere di azione processuale dell’Autorità antitrust configura un potere amministrativo a pieno titolo, è ora possibile traslare l’attenzione dal piano della funzione a quello più strettamente processuale della legittimazione. Permane, infatti, la necessità di chiarire se il fondamento sostanziale di tale legittimazione possa e debba essere rintracciato nella titolarità di un interesse legittimo dell’Autorità. In conseguenza di ciò, si rende inoltre necessario chiarire, nell’eventualità in cui non sussista alcun fondamento sostanziale, quale sia la precisa configurazione assunta dalle cosiddette condizioni del diritto di azione nel contesto del quadro processuale delineato dall’azione dell’Autorità. Tuttavia, di quest’ultimo aspetto si tratterà nel paragrafo che segue.
Come evidenziato in precedenza, il principale interrogativo a cui i commentatori hanno cercato di rispondere nell’esame della fattispecie è se, a fondamento del suo potere di iniziativa processuale, l’Autorità si basi sulla mera tutela di un interesse pubblico generale al ripristino della legalità, oppure piuttosto sull’attuazione di un interesse legittimo di cui essa sarebbe titolare.
Anzitutto, sebbene l’Autorità antitrust operi indubbiamente a tutela dell’interesse pubblico, proponendosi di salvaguardare il dinamismo concorrenziale del mercato, ciò non si traduce automaticamente nella titolarità di un interesse legittimo; allo stesso modo, il fatto che la medesima sia affidataria di un interesse pubblico non implica che lo stesso, in assenza di specifica norma attributiva del potere, possa essere attuato giudizialmente[55]. Come correttamente evidenziato, infatti, costituisce principio generale che «il potere pubblico non lo si aziona davanti al giudice, ma lo si esercita»[56]. Pertanto, l’interesse pubblico costituisce il presupposto ed il fondamento sostanziale per la cui tutela e gestione il legislatore attribuisce a soggetti pubblici o privati poteri d’uopo funzionali, mentre l’interesse legittimo rileva in una dimensione completamente diversa: esso costituisce il rimedio giurisdizionale «di difesa giuridica avverso l’esercizio del potere autoritativo, ossia di un potere che sia precettivo ed unilaterale, quando il suo esercizio risulti non totalmente libero (arbitrario) ma regolato giuridicamente, mediante la fissazione di vincoli finalistici e il richiamo di princìpi generali»[57].
La locuzione “interesse pubblico” non identifica quindi un tipo specifico di interesse – in termini ontologici o qualitativi – di titolarità della pubblica amministrazione, costituendo piuttosto una formulazione concettuale che sintetizza il processo mediante il quale la gestione di un interesse di rilevanza comune viene affidato a un soggetto pubblico, appositamente organizzato[58]. Per questa ragione, l’interesse pubblico – come del resto ogni altra forma di interesse giuridicamente rilevante – non costituisce una situazione giuridica soggettiva a sé stante, rappresentandone, propriamente, il presupposto[59]. Tale concetto non riflette dunque una realtà ontologica: si configura piuttosto come la causa legittimante l’attribuzione, da parte dell’ordinamento giuridico, delle plurime situazioni giuridiche soggettive strumentali allocate tra diritti, obblighi e poteri istituzionali, facenti capo alla pubblica amministrazione e caratterizzanti la dinamica intrinseca della sua azione.
Appurato ciò, rimane ancora da chiarire in quali circostanze una pubblica amministrazione possa essere considerata titolare di un interesse legittimo[60] e, di conseguenza, possa adire l’autorità giudiziaria per attuarlo. In tale contesto, la dottrina ha identificato due principali scenari in cui l’interesse legittimo della pubblica amministrazione si manifesta chiaramente: il primo deriva da un rapporto giuridico amministrativo “verticale” tra enti pubblici; il secondo, invece, origina da un rapporto di rappresentanza tra l’ente pubblico e la comunità territoriale a esso correlata.
Nel primo scenario, l’interesse legittimo dell’ente pubblico origina dalla lesione di una posizione di interesse giuridicamente rilevante, correlata alla salvaguardia dell’autonomia garantita dall’ordinamento all’ente stesso. Seguendo il tradizionale schema di potere e soggezione, questa posizione soggettiva emerge dalla contrapposizione tra l’esercizio di un potere da parte di un ente pubblico e la conseguente soggezione di un altro. Pertanto, l’interesse legittimo in tale ambito si manifesta nel contesto di un rapporto giuridico amministrativo intercorrente tra enti pubblici dove la dinamica di esercizio del potere e di soggezione sottolinea la natura relazionale e conflittuale che può sorgere tra diverse amministrazioni nell’ambito dell’ordinamento giuridico[61].
Nel secondo caso, l’interesse legittimo è legato al rapporto di rappresentanza tra l’ente pubblico e la comunità, poiché l’ente agisce come esponente degli interessi collettivi ad essa riconducibili[62]. Seguendo l’equazione tradizionalmente adottata dalla magistratura amministrativa, l’interesse meta-individuale affidato istituzionalmente alla cura dell’ente pubblico locale, diventa un interesse legittimo particolare e differenziato, azionabile in giudizio, in virtù del rapporto di rappresentanza con la collettività di riferimento[63].
Nelle fattispecie citate, la pubblica amministrazione non adisce il giudice amministrativo per reclamare una lesione dell’interesse pubblico che le è stato affidato, bensì agisce per la tutela di un interesse particolare e differenziato, subspecies di interesse legittimo. L’impossibilità logica, prima ancora che giuridica, di configurare l’attuazione giudiziale dell’interesse pubblico porta a ritenere che, secondo le coordinate precedentemente delineate, l’Autorità antitrust non basi la propria legittimazione sulla titolarità di un interesse legittimo ad essa riconducibile.
In primo luogo, l’Autorità non figura come destinataria diretta degli effetti dell’atto impugnato: agendo al di fuori di un rapporto giuridico amministrativo, essa non può essere considerata portatrice di un interesse differenziato conseguente alla lesione di una posizione giuridica soggettiva a seguito dell’esercizio di un potere di un’altra pubblica amministrazione incidente sulla propria autonomia istituzionale.
In secondo luogo, non sembra sussiste un rapporto di “rappresentanza” tra essa e i soggetti titolari dell’interesse al corretto funzionamento del mercato. La sua azione è volta a tutelare un interesse intrinsecamente disomogeneo tra i soggetti che compongono il mercato colpito dall’atto o dal provvedimento impugnato[64]. Come è noto, la concorrenza, se correttamente funzionante, è un processo in cui ci sono vincitori e perdenti, come in ogni competizione. È un interesse fisiologicamente disomogeneo e, pertanto, difficilmente riconducibile a categorie omogenee di individui [65]. La distorsione della concorrenza può infatti colpire «gli interessi di diversi soggetti, collocati in diverse posizioni dei mercati interessati, ma si tratta di interessi non omogenei, i cui titolari non sono individuati a priori»[66]. In un dato momento, alcuni operatori economici possono trovarsi favoriti, mentre altri, appartenenti alla stessa categoria di soggetti, possono essere svantaggiati. Di conseguenza, un ente rappresentativo di una determinata categoria di soggetti non può intervenire per tutelare un interesse che riguarda solo alcuni di essi e non tutti[67].
In conclusione, benché preposta alla cura e alla gestione di uno specifico interesse pubblico, l’Autorità antitrust non detiene un interesse legittimo al corretto funzionamento delle dinamiche concorrenziali del mercato. Come sarà analizzato in seguito, tale scenario non solo porta a una parziale trasformazione della struttura tradizionalmente soggettiva del processo, attraverso l’introduzione di un potere d’azione processuale che non richiede necessariamente la titolarità di un interesse differenziato da parte dell’attore nel processo, ma comporta altresì una significativa alterazione della stessa finalità del processo amministrativo.
- Il tentativo di una ricostruzione sistematica della fattispecie tra diritto sostanziale e processuale.
Alla luce dell’analisi svolta, diventa evidente la necessità di riflettere sull’impatto che l’introduzione di un’azione processuale, priva di una base sostanziale nella titolarità di un interesse legittimo e al contempo manifestazione di autentico potere amministrativo, ha sulla funzione e sulla struttura dell’omonimo processo. Tale riflessione conduce naturalmente l’interprete verso un’indagine più ampia, che riguarda la relazione fondamentale tra lo scopo del processo e la sua struttura organizzativa. In generale, infatti, lo scopo del processo e la conformazione della sua struttura sono due aspetti strettamente correlati: in base agli obiettivi che si intendono raggiungere con il processo, il legislatore definisce regole strutturali mirate, progettate per agevolare il raggiungimento del risultato desiderato. Questa correlazione intrinseca tra finalità e struttura processuale ha tradizionalmente permesso di distinguere due principali modelli di giurisdizione; distinzione che risulta opportuna menzionare per comprendere appieno l’impatto sistematico della fattispecie in esame sul panorama giuridico attuale.
Il primo modello giurisdizionale, al quale appartiene anche il processo amministrativo contemporaneo, è caratterizzato da una matrice eminentemente soggettivista e ha quale scopo la tutela di diritti e interessi individuali[68]. In tale contesto, l’iniziativa processuale è prerogativa esclusiva degli interessati: i processi di natura soggettiva sono governati dal principio dispositivo in senso sostanziale. L’attivazione del processo per la protezione di un interesse sostanziale della parte[69] è determinata esclusivamente dalla volontà del singolo[70], sia nel suo sorgere che in ogni suo atto successivo. È compito delle parti, infatti, nell’ambito di un “processo di parti”, promuovere e proseguire il giudizio, che rimane interamente sotto il loro controllo e pertanto sempre rinunciabile (principio dell’impulso di parte e di disponibilità del processo). Di conseguenza, le cosiddette condizioni di esercizio del diritto di azione[71] diventano criteri essenziali di ammissibilità per l’accesso alla giustizia, richiedendo alle parti di dimostrare non solo la legittimazione al ricorso, ma anche un interesse concreto all’intervento del giudice, basato sulla possibilità di ottenere un vantaggio dall’esito favorevole del giudizio.
Contrapponendosi al primo, il modello di diritto obiettivo si orienta verso finalità più ampie di tutela dell’ordine pubblico e ripristino della legalità nell’ambito dell’ordinamento giuridico. In questa prospettiva, l’iniziativa processuale – tipicamente dell’amministrazione giudiziaria dello Stato – si configura come necessaria, indisponibile e ufficiosa[72], sottostando a princìpi di natura pubblicistica che precludono qualsiasi forma di arbitrarietà o discrezionalità individuale nell’attivazione del procedimento giudiziario.
In tale contesto, il ruolo dell’azione processuale è sostanzialmente trasformato: non più veicolo per la tutela di interessi di parte, ma strumento per l’affermazione della legalità e la protezione dell’ordine pubblico. La “mera azione”[73] viene dunque esercitata da soggetti specificamente designati dalla legge, i quali, pur non subendo direttamente la lesione di un interesse proprio, sono incaricati di attivare il meccanismo giudiziario per conto della collettività. Questi attori, qualificati talvolta come “artificiali” dalla dottrina[74], assumono una funzione rappresentativa degli interessi pubblici, operando per il ripristino di una condizione di legalità violata.
Il processo guidato da tali obiettivi si distacca radicalmente dalla logica del “processo di parti”, essendo caratterizzato da una dinamica in cui l’impulso iniziale e la gestione procedurale sono affidati esclusivamente a soggetti istituzionali. In tale contesto, non vi è spazio per la volontà o per le strategie processuali tipicamente associate all’azione processuale delle parti private. Il giudizio si sviluppa quindi principalmente in funzione di un interesse pubblico predominante, con l’obiettivo principale di ripristinare l’ordine giuridico laddove questo sia stato compromesso.
La dinamica del processo ad iniziativa dell’Autorità antitrust sfida la tradizionale bipartizione dei modelli pocanzi delineati: in questo caso, infatti, il potere di azione non solo manca di un fondamento sostanziale, ma si distingue anche dalla tipica conformazione dell’azione processuale caratteristica dei modelli a matrice obiettiva. A differenza dell’amministrazione giudiziaria dello Stato, l’Autorità antitrust esercita le proprie funzioni in modo discrezionale, mirando principalmente a modulare o correggere specifiche dinamiche di mercato. Di conseguenza, il principio dispositivo e la disponibilità del diritto di azione, pilastri del processo amministrativo, degradano fino a confondersi con la discrezionalità della funzione istituzionale dell’Autorità nel perseguimento dell’interesse pubblico tutelato.
Malgrado ciò e sebbene l’azione dell’Autorità non si basi su un fondamento sostanziale, il processo si sviluppa mantenendo la tradizionale struttura “soggettiva”, caratteristica dei processi di parti. Conformemente all’interpretazione di autorevole dottrina[75], infatti, in tale contesto non si assiste a una radicale trasformazione della struttura del processo: essa rimane tipica di un processo di parti, fondato sul fondamentale principio della domanda, in cui l’oggetto dell’indagine processuale è definito attraverso le istanze dedotte, le difese proposte e le eventuali eccezioni sollevate dalle parti. Le uniche modifiche significative alla struttura del processo possono essere individuate nelle condizioni dell’azione: il potere di agire in giudizio, infatti, non risulta sostanzialmente condizionato alla previa verifica della titolarità formale e astratta (legittimazione) e di quella concreta (interesse) del diritto di azione. Come correttamente affermato risulta evidente «la difficoltà [rectius: impossibilità] di attribuire all’Autorità un interesse processuale, inteso tradizionalmente come la prospettiva di ottenere un vantaggio personale, concreto e attuale dalla decisione del giudice»[76], considerato il fatto che l’azione dell’Autorità è motivata da un dovere istituzionale e non da un interesse personale al conseguimento di una pronuncia nel merito della vertenza.
Come evidenziato, è chiaro che nel complesso il processo conserva la sua dinamica dialettica, tipica dei procedimenti in cui le parti si contrappongono per risolvere un conflitto. Ciò accade anche se, in questo caso, si tratta di soggetti pubblici istituzionali che cercano di risolvere una “crisi di cooperazione”, anziché perseguire principalmente il ripristino della legalità violata.
Ciò posto, sebbene sia condivisibile l’affermazione autorevole secondo cui tale legittimazione si configura come “obiettiva” per via della mancanza di un interesse legittimo sostanziale, è possibile integrare ulteriormente questa categorizzazione considerando la finalità della prerogativa in questione. Tale legittimazione, infatti, può essere definita di natura “amministrativa” avuto riguardo la sua finalità e funzionalità.
È del tutto evidente, infatti, che la legittimazione “obiettiva” dell’Autorità Garante – differentemente dall’azione del pubblico ministero, funzionale al ripristino della legalità violata[77] – è volta a tutelare un interesse pubblico particolare mediante moduli procedimentali e prerogative proprie di un ente amministrativo.
Equilibrando questi due aspetti – l’assenza di un fondamento sostanziale e la funzionalità della prerogativa – appare più congruente discorrere di una “legittimazione obiettiva di natura amministrativa”, la quale offre una descrizione più precisa della complessità e specificità dell’intervento dell’Autorità antitrust nel contesto giurisdizionale. Tale prospettiva, inoltre, come si evidenzierà nel prosieguo, mette in luce, in termini più generali, un significativo progresso nello studio della legittimazione processuale.
- Considerazioni conclusive: l’articolo 21-bis nel segno di un ampliamento della giurisdizione amministrativa.
Alla luce delle argomentazioni avanzate, emerge la necessità di una sistematizzazione conclusiva degli aspetti trattati, per evidenziare con adeguata consapevolezza le implicazioni che la fattispecie esaminata ha avuto sull’evoluzione della giurisdizione amministrativa. Pare, infatti, che l’aspetto di primario interesse manifestato da una maggioritaria compagine dei commentatori occupatisi di esaminare la norma in oggetto, sia stato quello di valutare l’impatto che, sulla giurisdizione amministrativa, ha sortito l’introduzione della legittimazione ex lege, attribuita a un’autorità amministrativa indipendente; di qui, l’analisi di tale relazione, alla luce delle coordinate ermeneutiche finora evidenziate.
Procedendo con gradualità, s’è preso le mosse dalla seguente acquisizione: le attività amministrative di tipo normativo-regolatorio e provvedimentale rappresentano ambedue un aspetto cruciale per il corretto funzionamento delle dinamiche di mercato, influenzando direttamente la competitività nel contesto economico nazionale, comunitario e financo internazionale. La deroga alla massima apertura del mercato, pur essendo talvolta cruciale per correggere i cosiddetti “fallimenti del mercato”, può, se non basata sui princìpi di sussidiarietà, proporzionalità e necessità, portare a quello che viene definito un “fallimento del regolatore”, quindi di una compromissione lato sensu intesa del benessere economico e sociale della collettività.
L’introduzione dell’articolo 21-bis della legge n. 287 del 1990 rappresenta un passaggio oltremodo significativo in tal contesto, implicando l’estensione dei poteri dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, afferenti la promozione e la diffusione della cultura concorrenziale – competition advocacy –, presso gli organi istituzionali.
In seguito a tale provvedimento, l’Autorità è assurta a una posizione di esclusività in funzione di una maggiore concorrenzialità del mercato: dal tradizionale approccio di natura per lo più persuasivo-morale, all’assunzione di un’agency più concreta, per cui l’efficacia e precettività delle prescrizioni puntualmente elaborate dal Garante, nell’esercizio della propria funzione di para-regolazione del mercato, si possano estrinsecare, in caso di accoglimento del ricorso giurisdizionale, attraverso le forme e le decisioni del provvedimento giurisdizionale.
Alla luce di ciò, peraltro, l’iniziativa processuale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato acquista un significato peculiare trasmutando da strumento di tutela giurisdizionale di interessi tipicamente individuali, a efficace mezzo di attuazione delle politiche concorrenziali e di regolamentazione del mercato.
Il seguito della presente analisi ha consentito, non di meno, di porre in luce la natura sostanzialmente amministrativa del potere in esame, bensì che tale prerogativa trascende la dimensione di tutela giurisdizionale degli interessi riferibili alla sfera soggettiva dell’Autorità stessa, ponendosi altresì a strumento per la cura e la gestione dell’interesse pubblico concorrenziale – con particolare riferimento a quegli atti e provvedimenti amministrativi, il cui impatto sia valutato negativamente dalla stessa –. Per le medesime ragioni, inoltre, è stata pertanto evidenziata la necessità che tale fattispecie sia interpretata valicando l’esclusivo dominio del diritto processuale, alla luce di una prospettiva più ampia, capace di coglierne esaustivamente la funzione e la portata dell’impatto sull’ordinamento giuridico.
Ebbene, nel tentativo di classificare la fattispecie in esame, ubicata a mezza via fra diritto sostanziale e processuale, è stato possibile far emergere due aspetti particolarmente significativi: antitutto, sebbene l’azione dell’Autorità non verta su di un fondamento sostanziale, il processo si sviluppa mantenendo la tradizionale struttura “soggettiva” di quelli di parti e le uniche alterazioni sostanziali sul piano strutturale debbono rinvenirsi in seno alle condizioni dell’azione; si mantiene integro, pertanto, un dinamismo dialettico caratteristico dei procedimenti in cui le parti si contrappongono per la risoluzione di un conflitto – seppur si tratti, in questo caso, di soggetti pubblici istituzionali e di una collisione legata a una falla di natura cooperativa, non già al ripristino della legalità violata.
Di conseguenza, seppure in larga parte condivisibile l’autorevole affermazione secondo cui tale legittimazione si configuri come “obiettiva” per il profilo della mancanza di un interesse legittimo sostanziale, suddetta categorizzazione, attenzionato il discorso fin qui intrapreso, pare possa essere ulteriormente integrata; in questi termini, infatti, può essere definita di natura “amministrativa” avuto riguardo alla finalità e funzionalità ad essa sottesa.
Per le ragioni evidenziate, è quindi ora possibile affermare che, in ultima analisi, l’articolo 21-bis acquisisce un’ulteriore rilevanza sistematica: se da un lato attribuisce all’Autorità Garante il potere di agire in giudizio per promuovere l’interesse pubblico ad essa affidato, dall’altro amplia il campo d’azione del giudice amministrativo, consolidandone il ruolo di custode dell’ordine giuridico nel mercato [78].
A tale ultimo proposito è opportuna un’ulteriore considerazione.
Come è noto, la giurisdizione amministrativa, nella sua evoluzione storica e giuridica, dall’essere preordinata al precipuo fine di garantire l’attuazione della legge, indipendentemente dal diritto individuale di alcuno, oggi è possibile affermare la sua piena afferenza alla cosiddetta “giurisdizione di diritto soggettivo”; a riprova di quanto appena menzionato, sta il fatto che lo sviluppo della giurisdizione amministrativa, nel solco di un percorso di consolidamento giurisprudenziale e successivo riconoscimento formale – per cui si rimanda all’entrata in vigore della Costituzione italiana del 1948 – non si sia mai arrestato. La costante esigenza di tutela a fronte dell’affermarsi di interessi sempre più rilevanti sul piano giuridico e sociale ha indotto la suddetta a occuparsi non solo delle tradizionali questioni legate al conflitto tra il potere dello Stato e le libertà individuali del cittadino, bensì pure di questioni che, trascendendo interessi puramente personali, assurgono alla tutela di interessi collettivi o “meta-individuali” [79].
In altri termini, da una prospettiva diacronica e alla luce di quanto finora emerso, ci è possibile asserire che quello della estensione dell’azione giurisdizionale alla tutela di interessi pubblici, diffusi o collettivi dal canto della giurisdizione amministrativa, sia un dato di fatto[80]. Tale parabola, in particolare, ha rafforzato il ruolo del giudice amministrativo, conferendogli la capacità di dirimere controversie in contesti profondamente rilevanti sui piani sociale e giuridico, garantendo in questo modo l’esercizio di una funzione “conformativa” nei confronti dell’azione amministrativa così da assicurare la “giustizia nella funzione pubblica”[81]. Di qui, il fatto che la legittimazione ad agire dell’Autorità non costituisca un istituto funzionale a reintrodurre forme di giurisdizione di diritto obiettivo scarsamente ammissibili, inserendosi, invero, nel contesto di quella nuova giurisdizione del giudice amministrativo, preposta a tutelare interessi meta-individuali nell’ambito di un processo in cui, a rilevare, non si pone il ripristino della legalità, bensì il principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale di interessi sempre più rilevanti per il consorzio sociale lato sensu inteso.
Anche nel caso del processo instaurato dall’iniziativa dell’Autorità antitrust, l’ampliamento della giurisdizione amministrativa si traduce in un intervento più incisivo del giudice amministrativo nelle controversie che coinvolgono soggetti pubblici, per la tutela di interessi meta-individuali, con precipuo riferimento alla regolazione del mercato: contesto, quest’ultimo, parimenti impattante sul corretto funzionamento dell’economia, in termini di competitività e realizzazione degli obiettivi legati al collettivo benessere socioeconomico. Visto l’intervento di natura correttivo-orientativa del giudice sulle azioni delle istituzioni pubbliche, ove queste influenzino negativamente il mercato o introducano regole inficianti una competizione equa e proporzionale, in accordo con i princìpi dell’Unione Europea, non pare discutibile affermarne la notevole rilevanza.
Malgrado ciò, a differenza dei casi a cui si è fatto in precedenza riferimento e che hanno tradizionalmente segnato l’estensione della giurisdizione amministrativa verso la tutela di interessi meta-individuali, il caso in esame si distingue ulteriormente per la sua unicità nella giurisdizione.
Sebbene la tutela dell’interesse pubblico concorrenziale costituisca il fine mediato del processo, infatti, a un più oculato sguardo, emerge che la responsabilità affidata al giudice sia stata propriamente quella di risolvere una “crisi di cooperazione” tra Autorità antitrust e amministrazioni pubbliche coinvolte entro le indagini di questa; come visto, attraverso l’emanazione degli articoli 21, 21-bis e 22 della legge n. 287 del 1990, il legislatore ha istituito una serie di meccanismi procedimentali che abilitano l’Autorità a promuovere tutelare e integrare al processo decisionale delle amministrazioni interessate, l’interesse alla concorrenza; ebbene, quest’ultimo assumerebbe una posizione di rilevanza interdisciplinare rispetto all’operato amministrativo, imponendo alle amministrazioni la necessità di operare un bilanciamento rispetto agli obiettivi legislativi primari: di conseguenza, il legislatore ha definito un modello in cui l’integrazione dell’interesse concorrenziale nel procedimento amministrativo, si realizza attraverso una diretta iniziativa dell’Autorità, che si configura, dunque, proattiva.
Nel caso di specie, lo scopo principale del processo non si identifica squisitamente con il ripristino della legalità attraverso il sindacato di legittimità sull’atto/provvedimento impugnati o con la tutela dell’interesse pubblico nell’ottica di un corretto funzionamento del mercato, risultando invero mediato rispetto alla risoluzione del contrasto insorto tra amministrazioni pubbliche; in tale circostanza, infatti, l’interesse pubblico di ambo le amministrazioni si pone quale interesse particolare nel contesto del processo, il quale diviene, anche in ragione della propria conformazione strutturale a ciò preordinata, il mezzo attraverso cui il giudice, nel sindacare la legittimità dell’atto/provvedimento, dirime sostanzialmente un contrasto: quest’ultimo, proprio in forza della specifica attribuzione normativa di potere processuale all’Autorità antitrust, da mera “crisi di cooperazione” trasmuta in lite processuale[82].
Tale scenario, più che manifestativo «di una disfunzione del nostro ordinamento giuridico» che, come affermato in dottrina, in assenza di altre «stanze di compensazione» a livello politico-amministrativo in grado di trovare una composizione tra interessi pubblici talora configgenti, rimette al giudice amministrativo la risoluzione di controversie tra pubbliche amministrazioni[83], pare esser frutto di una consapevole e razionale scelta del nostro legislatore; questi, oltre ad aver introdotto una significativa implementazione dei poteri di promozione della concorrenza a favore dell’Autorità antitrust, ha sostanzialmente istituito un regime giuridico di “sindacato diffuso” sulla regolamentazione amministrativa in grado di incidere direttamente sul mercato. Inoltre, l’aver attribuito al giudice amministrativo un ruolo cruciale nella risoluzione di tali “crisi di cooperazione” non è una scelta casuale, bensì necessaria.
La scelta del legislatore di non affidare tale compito a un’entità politico-amministrativa, inerisce alla necessità di ovviare ai rischi implicati dalle influenze politiche che potrebbero compromettere l’obiettività e l’efficacia dell’intervento. In effetti, la presenza di interessi di tal sorta potrebbe ostacolare una corretta e imparziale applicazione delle norme tutelari della concorrenza e volte a dirimere il conflitto, introducendo distorsioni e preferenze avulse dalle reali necessità di un mercato che possa dirsi autenticamente aperto e competitivo.
In questo scenario, il giudice amministrativo emerge quale garante di un’applicazione quanto più uniforme e coerente del diritto nazionale e comunitario che afferisce alla regolamentazione del mercato, ponendosi a soggetto super partes cui è in capo di sindacare, alla luce dei princìpi di legalità e proporzionalità, sulla legittimità di atti/ provvedimenti impugnati.
[1] Ad utilizzare il lemma “modello” processuale speciale è A. Carbone, Modelli processuali differenziati e legittimazione dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, in Conc. e merc., n.1, 2018, p. 43 ss. L’Autore evidenzia che: «l’elemento di fondamentale rilievo che permette di sganciare il modello speciale da quello ordinario è dato dalla legittimazione a ricorrere, che ricomprende situazioni giuridiche differenti da quelle tutelate dinnanzi al g.a. o, comunque, ipotesi peculiari di legittimazione ex lege».
[2] Si ritiene comunemente che tale conformazione del processo sia imposta dalla Costituzione, in particolare dal primo comma di ciascuno degli artt. 24 («Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi»), 103 («Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi») e 113 («Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa»).
[3] Tale orientamento si rinviene in R. Giovagnoli, Atti amministrativi e tutela della concorrenza. Il potere di legittimazione a ricorrere dell’AGCM nell’art. 21-bis legge n. 287/1990 - relazione al convegno tenutosi presso l’Università degli studi di Milano il 27 settembre 2012 in www giustizia-amministrativa.it.; M. Antonioli, La legittimazione a ricorrere degli enti pubblici tra situazioni sostantive, soggettività della tutela e funzionalizzazione dell'interesse pubblico, in Dir. Proc. Amm., 2015, p. 398, ove l’Autore ha precisato che: «all’AGCM va riconosciuta la rappresentatività di un interesse diffuso che si soggettivizza come interesse collettivo: un interesse al mercato – e nel mercato – al perseguimento (o alla conservazione) di un assetto concorrenziale: un interesse, ancora, pur concorrente con altri interessi coinvolti, pubblici o privati, come quelli intestati alle imprese concorrenti, la cui protezione viene sollecitata dall’authority, facendo valere una situazione soggettiva differenziata, in una posizione che non può ritenersi di terzietà o di indifferenza rispetto agli interessi coinvolti». Aderisce alla prospettiva del riconoscimento di una situazione giuridica soggettiva anche F. S. Marini, Il ruolo istituzionale dell’autorità garante della concorrenza e del mercato e l’art. 21-bisdella legge n. 287 del 1990, in Giustamm.it, 2014.
[4] Di tale avviso F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’autorità garante della concorrenza e del mercato e sulla legittimazione a ricorrere delle autorità indipendenti, in federalismi.it 12/2012, paragrafo 9. L’Autore ritiene che l’Autorità antitrust agirebbe per la tutela di un interesse al rispetto della mera legalità non essendo una istituzione riconducibile allo Stato-apparato ma allo Stato-comunità. Sulla base di questo presupposto, essa non agirebbe per curare un interesse pubblico così come avviene tipicamente per ogni amministrazione “tradizionale” ma per vigilare unicamente sul rispetto della legalità.
[5] Ad evidenziare tali aspetti in dottrina è M. Clarich, Il “public enforcement” del diritto antitrust nei confronti della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 21-bisdella l. n. 287/1990” in Conc. e Merc., n. 1/2018, p 104. L’Autore, criticando le ricostruzioni più soggettivistiche, ha osservato che: «Il tentativo di costruire una situazione giuridica sostanziale e un “bene della vita” particolare […] è stato giustificato con l’esigenza di salvaguardare la costituzionalità del nuovo rimedio, atteso che, in base ad un’interpretazione sin troppo rigida della disposizione, l’art. 103 Cost. riferisce l’ambito della giurisdizione amministrativa alla tutela di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo. In realtà, il processo amministrativo disciplinato dal Codice del 2010 può essere considerato una sorta di contenitore nel quale convivono una pluralità di riti speciali in aggiunta a quello ordinario che possono essere azionati d regola dai soggetti direttamente lesi in una propria situazione giuridica soggettiva, ma anche, talora, da fasce differenziate di soggetti. Certo è peraltro che la legittimazione straordinaria attribuita all’Agcm non trova poi sviluppi in alcun potere speciale attribuito al giudice amministrativo tale da dare origine ad un modello processuale differenziato».
[6] Il problema della legittimità costituzionale della disposizione è stato definitivamente risolto con la pronuncia n. 20 della Corte costituzionale del 24 febbraio 2013. Il quesito di costituzionalità, sollevato dalla Regione Veneto, riguardava un presunto contrasto della disposizione con l'articolo 113 della Costituzione, basato su un'interpretazione rigida del testo costituzionale che considera incostituzionale qualsiasi deviazione dal modello ordinario di legittimazione soggettiva (e, di conseguenza, di giurisdizione soggettiva). La questione è stata rigettata, tuttavia, il rigetto si è basato sulla qualificazione sostanziale dell'interesse alla base dell'azione processuale, evitando di affrontare direttamente la questione della legittimità costituzionale di un’azione processuale disancorata dalla tutela di un interesse qualificato e differenziato.
In particolare, la Corte ha precisato: «la norma – integrando poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della legge n. 287 del 1990 – prevede un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge citata) e, comunque, certamente non generalizzato, poiché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi «che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato (norma censurata, comma 1). […] La detta disposizione, dunque, ha un perimetro ben individuato (quello, per l’appunto della concorrenza), compreso in una materia appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lettera e, Cost.), concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi dell’art. 117, comma 6, primo periodo, Cost.».
[7] Si pensi, fra le altre questioni, alla doverosità dell’azione amministrativa. Come sottolineato da M. Clarich, Il “public enforcement” del diritto antitrust…, cit., p. 101: «La doverosità o meno dell’attivazione del potere di impugnazione assume una rilevanza con riguardo alla questione dell’inerzia dell’Agcm nei confronti di esposti di soggetti privati volti a sollecitarne un intervento. Se quest’ultimo fosse doveroso, si dovrebbe ammettere, almeno entro certi limiti, la possibilità dell’interessato di proporre un ricorso avverso l’inerzia dell’Agcm».
[8] La stessa struttura bifasica dell’azione delineata dalla disposizione getta ulteriore luce su questa complessità: il primo comma della normativa attribuisce all’Autorità un chiaro potere di impugnazione, mentre il secondo comma stabilisce un procedimento in due fasi: dapprima un’iniziale azione interlocutoria, seguita, in caso di mancata risoluzione nella fase precontenziosa, dall’azione processuale innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale competente.
[9] In tal senso si è espresso R. Giovagnoli, Atti amministrativi e tutela della concorrenza…, cit. In senso analogo anche M. Antonioli, La legittimazione a ricorrere degli enti pubblici…, cit.
[10] Di tale avviso è F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’autorità garante della concorrenza e del mercato…, cit., p. 16. In particolare, l’Autore afferma che: «non è possibile ritenere che l’autorità, in quanto tale, sia titolare di un interesse legittimo in senso proprio, potendo (e dovendo) attivarsi per la tutela e realizzazione di un interesse generale alla concorrenza che, per un verso, finisce per coincidere con una sommatoria di interessi di mero fatto ascrivibili alla collettività e, per altro verso, restando così generico, non soddisfa di certo i caratteri di una situazione soggettiva imputabile ad un soggetto di diritto». In un altro passaggio (p. 6), l’Autore, nel descrivere i tratti caratteristici della giurisdizione di diritto oggettivo, precisa che in tali ipotesi: «il giudice non tutela unicamente situazioni soggettive individuali, bensì un interesse generale, ad esempio quello alla legalità, o al buon andamento e all’imparzialità dell’azione amministrativa, ovvero, per restare vicini al nostro tema, quello alla tutela della concorrenza». Oppure, R. Giovagnoli, Atti amministrativi e tutela della concorrenza…, cit., seppure giungendo a conclusioni differenti rispetto all’Autore precedentemente citato, precisa che l’interesse tutelato dall’Autorità «non è propriamente un interesse pubblico specifico affidato alla cura dell’AGCM perché, se così fosse l’AGCM sarebbe il solo soggetto legittimato a lamentarne la violazione. Come si è visto, invece, ci sono dei casi in cui anche i privati, laddove possano vantare situazioni differenziate, sono legittimati ad agire per la tutela della concorrenza. Del resto, tutto il dibattito sulla natura delle Autorità indipendenti e dell’AGCM in particolare nasce proprio dalla considerazione che esse non sono chiamate alla cura di un interesse pubblico particolare, ma hanno come funzione principale quella di assicurare rispetto delle regole che disciplinano determinati settori. Sono quindi Amministrazioni neutrali, più che imparziali, chiamate ad assicurare il rispetto della legge e, a tal fine, collocate in posizione di equidistanza da tutti gli interessi in gioco, sia quelli privati, sia quelli pubblici particolari, di cui sono titolari i soggetti che operano nei settori cui sono preposte».
[11] F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’autorità garante della concorrenza e del mercato…, cit., p. 16.
[12] Un efficace strumento in tal senso è nell’attività di proposta per gli interventi pro concorrenziali ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza, nonostante lo strumento della legge annuale, previsto dall’art. 47 della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia) è stato in passato adottato solo nel 2017 (l. 124/2017) senza peraltro tenere in debito conto delle osservazioni formulate preventivamente dell’Autorità. A tal proposito si veda M. Clarich, Concorrenza, una cultura minoritaria, in Sole 24 Ore, 30 agosto 2018.
[13] Sul punto. A. Lalli, Concorrenza. Disciplina pubblicistica, Treccani Enciclopedia online, 2015, evidenzia che: «Oltre ai poteri volti a reprimere il comportamento illecito delle imprese e gli abusi del potere di mercato, fin dall’inizio l’Autorità garante della concorrenza è stata dotata di competenze di segnalazione nei confronti dei soggetti pubblici che hanno il compito di stabilire le regole, allo scopo di evidenziarne eventuali effetti di ostacolo al corretto funzionamento dei mercati. Come aveva lucidamente segnalato Luigi Einaudi, i nemici dei mercati concorrenziali, specie nella nostra tradizione di acceso interventismo pubblico, non sono solo i monopolisti o le imprese che colludono, ma gli stessi poteri pubblici che creano, per atto del principe, esclusive, riserve, o altri ostacoli al buon funzionamento dei mercati (ad esempio, imponendo la previa autorizzazione per accedere ai vari mercati; prescrivendo determinati modelli di organizzazione imprenditoriale o ponendo limiti alla libertà dell’imprenditore di organizzare i fattori della produzione), quando non vi è alcuna ragione di interesse generale che possa giustificare simili provvedimenti. In molti casi, infatti, queste discipline, pur mosse dall’intento di proteggere alcuni interessi pubblici, si risolvono in concreto in forme dissimulate di tutela corporativa e, comunque, in impedimenti all’efficiente funzionamento dei mercati».
[14] Di particolare interesse è la definizione di “competition advocacy” elaborata in seno alla conferenza organizzata dall’International Competition Network (organismo internazionale nato nel 2001 dalla volontà di quattordici paesi – tra cui l’Italia – e dedicato unicamente al diritto della concorrenza) tenutasi a Napoli nel 2002.
Secondo quanto affermato, l’attività in questione consisterebbe in «those activities conducted by the competition authority related to the promotion of a competitive environment for economic activities by means of non-enforcement mechanisms, mainly through its relationships with other governmental entities and by increasing public awareness of the benefits of competition». Sinteticamente, identificherebbe tutte quelle attività svolte dalle autorità di concorrenza che non rientrano all’interno dell’attività di enforcement e che si rivolgono nei confronti di soggetti pubblici al fine di influenzare l’attività amministrativa di regolazione in senso pro-concorrenziale o che comunque sono volte ad aumentare la sensibilità e la consapevolezza circa i benefici derivanti dalla concorrenza per la società intera. Si veda a tal proposito, ICN, Advocacy and Competition Policy, Naples, 2002, p. 24.
[15] Cfr. M. Ramajoli, La legittimazione a ricorrere dell’autorità garante della concorrenza e del mercato come strumento di formazione della disciplina antitrust, in Conc. e Merc., n.1, 2018, p. 86, ove l’Autrice afferma che: «Le distorsioni della concorrenza derivano non solo da pratiche anticoncorrenziali realizzate dagli operatori economici, ma anche e soprattutto dall’abuso o cattivo esercizio del potere normativo-regolatorio o provvedimentale. I processi di liberalizzazione hanno creato pochi mercati veri e propri, i settori dei servizi di pubblica utilità sono iper-regolati e persistono discipline, più o meno velatamente, corporativistiche, protezionistiche e nazionalistiche. Tra l’altro, le alterazioni della concorrenza prodotte dalle discipline normative talvolta sono frutto di scelte consapevoli, avendo il regolatore compiuto una sorta di trade-off tra l’interesse concorrenziale e altri interessi parimenti di rango generale, come la tutela della salute, dell’ambiente o dell’occupazione, talvolta invece sono conseguenze non volute di una regolazione priva di una adeguata valutazione del relativo impatto».
[16] Con riferimento ai poteri di segnalazione si veda, fra gli altri, F. Munari, Poteri di segnalazione, legge per la concorrenza, dialogo fra Autorità garante e Istituzioni, in C. Ribatti Bedogni, P. Barucci (a cura di), 20 anni di antitrust. L’evoluzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Giappichelli, Torino, 2010, p. 268.
[17] In dottrina si parla di «una sorta di alta consulenza, volta a favorire supporto tecnico alle sedi politiche competenti», così P. Lazzara, Legittimazione straordinaria ed enforcement pubblico dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Dai compiti di segnalazione all’impugnazione degli atti contrari alle regole della concorrenza e del mercato, in Conc. e Merc., n.1, 2018, p. 67.
[18] Definendo in tal senso le suddette prerogative P. Lazzara, Legittimazione straordinaria…, cit., p. 67, evidenzia che: «a fronte delle segnalate “distorsioni” e “violazioni”, l’art. 21 (commi 2 e 3) prevede una moral suasion, che può esprimersi attraverso il “suggerimento” ufficiale degli interventi necessari a prevenire o rimuovere le distorsioni al mercato e alla concorrenza. In questo caso si può parlare di “alta consulenza” e “segnalazione”, nella prospettiva di far emergere determinate criticità al fine di indurre gli organi competenti a correggerle».
[19] Si consideri inoltre che oggi delle ipotesi di parere obbligatorio vincolante sono assenti all’interno del nostro ordinamento. In materia di affidamento dei servizi pubblico locali però, fino al 2011 il legislatore nazionale aveva subordinato l’utilizzo dell’in house providing imponendo un duplice vincolo: l’uno rivolto nei confronti dell’ente locale di condurre una preventiva analisi di mercato sulla sussistenza delle condizioni per procedere all’affidamento o meno del servizio privatizzando o liberalizzando lo stesso; l’altro nei confronti dell’Autorità Antitrust imponendole di rendere un parere preventivo alla legittimità della scelta, limitando la libertà degli enti locali in materia di organizzazione di questi servizi. Infatti, se fino al 2011 era obbligatorio per le amministrazioni titolari della responsabilità del servizio procedere preliminarmente all’opzione della concorrenza per il mercato privatizzando il servizio, a seguito di un referendum popolare oggi il quadro normativo è mutato e un obbligo esplicito in tal senso sembra esser venuto meno.
[20] P. Lazzara, Legittimazione straordinaria…, cit., p. 68.
Guardando al dato reale dell’ordinamento, una delle cause che maggiormente assume rilievo della produzione di atti o provvedimenti distorsivi della concorrenza sono gli interessi particolari che, attraverso quell’atto o quel provvedimento, l’amministrazione intende tutelare. Si pensi, molto banalmente, al tema dell’evidenza pubblica nella selezione del contraente a cui affidare la gestione di un servizio pubblico, lo sfruttamento di una risorsa demaniale o un contratto d’appalto. Oppure, si pensi ancora ai regolamenti degli enti locali nelle materie di loro competenza funzionali all’introduzione di discipline differenziate tra categorie professionali od operatori economici al fine di tutelarne una a discapito dell’altra.
[21] In dottrina P. Lazzara, Legittimazione straordinaria…, cit., p. 67 e ss., ha osservato che, rispetto ai poteri di segnalazione di cui all’art. 21 della legge antitrust, «La differenza, importante da rilevare, è che la “segnalazione” ha ad oggetto atti “politici” e si rivolge perciò al Parlamento e al Governo, mentre la legittimazione straordinaria riguarda il livello “amministrativo” della normazione e dell’azione, e dunque un ambito sottoposto al principio di legalità. Si scende così di un gradino in un contesto in cui è possibile sottoporre gli atti al controllo del giudice».
[22] A tal proposito M. Ramajoli, La legittimazione a ricorrere dell’autorità…, cit., p. 90, ha osservato che: «[…] l’assenza di poteri coercitivi in capo all’Autorità antitrust nei confronti delle amministrazioni che non intendano conformarsi al suo parere-diffida è compensata da un tipo di coercizione che passa attraverso le maglie della giurisdizione».
[23]A tal proposito per “regolamentazione amministrativa” si intende un’accezione ampia e contenutistica della locuzione, con ciò ricomprendendo tutti gli interventi attraverso i quali le amministrazioni impongono regole a soggetti terzi, vale a dire previsioni specifiche che incidono sull’attività, sulla produzione o l’organizzazione dei destinatari, indipendentemente dallo strumento che li veicola (atti amministrativi generali, regolamenti, provvedimenti amministrativi) e del soggetto che li adotta (amministrazioni centrali o locali).
[24] A sottolineare tali aspetti del rimedio è F. Genghi, L’attività di segnalazione e consultiva dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato: inquadramento generale, attività di coordinamento amministrativo e normativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, casi pratici, in www.amministrativamente.com, fasc. 1/2012 p. 6, il quale evidenzia che: «Il compito dell’Autorità, sia nel caso delle segnalazioni che dei pareri, sembra quindi quello di riesaminare l’equilibrio tra la distorsione della concorrenza realizzata e l’interesse perseguito dalla norma. In altri termini, l’Antitrust è chiamato ad una valutazione di proporzionalità tra la restrizione della concorrenza implicita nella normativa esaminata e il fondamento generale di razionalità collettiva, “l’interesse pubblico”, che la norma stessa persegue».
[25] Ad evidenziare la funzione “para-regolatoria” del mercato è M. Ramajoli, La legittimazione a ricorrere dell’autorità…, cit., p. 91, ove l’Autrice evidenzia che: «Vero è che, dal punto di vista testuale, l’art. 21-bis stabilisce che l’Autorità nel suo parere-diffida si limiti ad individuare «gli specifici profili delle violazioni riscontrate». Cionondimeno l’Autorità, con il placet del giudice amministrativo, ha ampliato il contenuto dell’atto di sua competenza, indicando analiticamente all’interno del parere anche i rimedi per eliminare le violazioni lamentate e per ripristinare il corretto funzionamento del mercato concorrenziale. Torna dunque l’elemento qualificante di tutti i poteri di advocacy esercitati dall’Agcm nei confronti dei pubblici poteri e cioè il loro carattere propositivo, inteso a suggerire le concrete modalità per ristabilire il gioco concorrenziale».
[26] B. Libonati, L'Autorità e la cultura antitrust in Italia, in 20 anni di antitrust, in C. Rabitti Bedogni - P. Barucci (a cura di), L'evoluzione dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, I, 2010, p. 53 ss.
[27] Cfr. R. Villata – M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Giappichelli, Torino, 2006, p. 54.
[28] Ibid, p. 54
[29] Ibid, p. 54.
[30] In questa direzione M. Clarich, Il “public enforcement” del diritto antitrust…, cit., p. 103. In particolare, l’Autore evidenzia che la «caratteristica della funzione di vigilanza è quella di rimettere alla discrezionalità dell’amministrazione della funzione la scelta relativa al “se” attivarla, ai tempi e alle modalità degli interventi, fermo restando la doverosità di un esercizio efficace della medesima in relazione ai fini pubblici attribuiti all’amministrazione. […] Anche se si propendesse per la doverosità dell’attivazione del rimedio, ragioni di buon andamento, in presenza di risorse organizzative limitate, inducono a ritenere che l’Autorità possa selezionare i propri interventi sulla scorta di ragionevoli criteri di priorità». Analogamente, M. Ramjoli, La legittimazione a ricorrere dell’Autorità Garante…, cit., P. Lazzara, Legittimazione straordinaria…, cit.
[31] Ad utilizzare l’accezione di “principio di procedura” è F. Trimarchi Banfi, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, Giappichelli, Torino, 2021, p. 3, ove l’Autrice ha precisato che: «Nel caso del principio di concorrenza la coesistenza con altri princìpi si pone in termini differenti da quelli usuali, poiché il principio in questione è principio di procedura: esso riguarda la modalità dell’azione, non gli scopi ultimi di questa; […] Questo particolare rapporto – che si ricava sul piano logico, anche in assenza di espressi enunciati normativi – è esplicitato dal trattato dell’Unione Europea che, pur impegnando gli Stati a realizzare un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, ammette che alle regole che derivano si possa derogare quando ciò sia necessario per realizzare scopi di interesse generale (art. 106 TFUE). […] Si può quindi concludere che il principio (procedurale-strumentale) di concorrenza trova attuazione subordinatamente ai princìpi (sostanziali) che riguardano la promozione e la difesa della salute, della sicurezza e della dignità della persona, la conservazione dell’ambiente e, in generale, gli interessi dei singoli e della collettività che sono protetti dalla Costituzione e dal diritto dell’Unione Europea».
Nel senso di considerare la concorrenza come un “bene giuridico strumentale” si veda, fra gli altri, M. Libertini, Diritto della concorrenza dell’Unione Europea, Giuffrè, Milano, 2014.
[32] In tal senso si veda M. Libertini, Brevi note sui poteri dell’autorità garante della concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza, in Conc. e Merc., n.1/2018, p. 11., ove l’Autore sottolinea che: «l’Agcm è legittimata ad intervenire […] contro provvedimenti che, nell’esercizio di qualsiasi competenza amministrativa (p.e. urbanistica, sportiva ecc.), distorcano il modello normativo di buon funzionamento del mercato (più precisamente, secondo la nozione di concorrenza che si ritiene preferibile: distorcano il processo dinamico concorrenziale senza che vi siano ragioni giustificatrici in termini di politiche di sviluppo economico e di incremento del benessere dei consumatori)».
[33] In tal senso R. Villata – M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, cit., p. 174, ove l’Autore evidenzia che: «La scelta di una soluzione in luogo di un’altra rispecchia una scala di priorità elaborata dall’amministrazione, una preferenza accordata a determinati interessi ed una correlativa scelta di messa in secondo piano di altri interessi, l’amministrazione procede dunque all’individuazione degli interessi da privilegiare e al contemperamento, nonché all’ordinazione gerarchica degli interessi in conflitto».
[34] Cfr. F. Genghi, L’attività di segnalazione e consultiva dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato…, cit., p. 10. L’Autore evidenzia che: «Il compito affidato all’Autorità, sia nel caso delle segnalazioni che dei pareri, sembra quindi quello di riesaminare l’equilibrio tra la distorsione della concorrenza realizzata e l’interesse perseguito dalla norma. In altri termini, l’Antitrust è chiamato ad una valutazione di proporzionalità tra la restrizione della concorrenza implicita nella normativa esaminata e il fondamento generale di razionalità collettiva, “l’interesse pubblico”, che la norma stessa persegue».
[35] Nella pronuncia n. 13 del 31 gennaio 2019 la Corte costituzionale ha precisato che «la funzione esercitata dall’Autorità antitrust in sede di applicazione della l. n. 287/1990 presenta i connotati necessari per essere assimilata ad una funzione giurisdizionale, traducendosi in un’attività volta esclusivamente a garantire, in una posizione di neutralità e indipendenza, la riconducibilità delle condotte delle imprese nell’ambito della legge, al solo fine di tutelare un diritto oggettivo (quello della concorrenza) avente rilevanza generale”; di talché, sarebbe ragionevole «ritenere che tale questione sia sollevata da un organo assimilabile ad un giudice nel corso di un procedimento di carattere giurisdizionale, ai limitati fini dell’articolo 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 e dell’articolo 3 della legge n. 87 del 1953» disciplinante i presupposti necessari perché possa essere sollevata questione di legittimità costituzionale.
[36] Cfr. M. Ramajoli, La legittimazione a ricorrere dell’autorità…, cit., p. 91.
[37] In tal senso. A. Romano, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Giuffrè, Milano, 1975, p. 122. L’Autore evidenzia che «la costruzione della nozione di potere, infatti, rende possibile delineare l’atto amministrativo come l’esercizio di una particolare situazione giuridica dell’Amministrazione». Per tali ragioni, pertanto: «Il potere attribuito all’Amministrazione si presenta, sicuramente con propri caratteri peculiari: è implicito nella costruzione stessa del potere come una situazione soggettiva il cui esercizio costituisce un atto giuridico, che le particolarità dell’atto si riflettano in qualche modo nella particolarità del potere del quale esso costituisce l’esercizio; così a tacer d’altro, tutto quel complesso di caratteristiche dell’atto amministrativo alle quali si fa riferimento, diretto o indiretto, quando si parla della sua imperatività, non possono non trovare corrispondenza in correlati profili dei poteri amministrativi, i quali, del resto, anche nel particolar comune sono detti d’imperio».
[38] Ibid, p. 124.
[39] I poteri di conformazione dell’altrui sfera giuridica sono definiti dalla dottrina italiana diritti potestativi, mentre nell’ordinamento tedesco è invalsa la denominazione di Gestaltungsrechte; l’enucleazione della figura si deve alla dottrina tedesca formatasi a cavallo del XIX e del XX secolo e, in Italia, all’opera di G. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di diritto processuale civile, I, rist., Zanichelli, Bologna, 1993, p. 3 e ss.
[40] Cfr. S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano, 1953, p. 195. In tale opera l’Autore offre un contributo significativo alla comprensione della relazione intrinseca tra il concetto di potere e la capacità giuridica, all'interno del contesto più ampio dello sviluppo di una teoria generale del potere.
[41] Cfr. A. Romano, Giurisdizione amministrativa…, cit., p. 133: «[…] la contrapposizione tra poteri dell’Amministrazione e poteri e diritti dei privati, la precisazione della linea di confine tra gli uni e gli altri, prima ancora che all’assegnazione ad una delle due sfere giuridiche di concreti beni della vita, per dirla col Chiovenda, attiene alla configurazione della stessa personalità giuridica dei due soggetti che si fronteggiano; la definizione di tale contrapposizione, in ultima analisi, si traduce nella definizione dei ruoli, nel significato più ampio del termine, che l’ordinamento attribuisce ai soggetti pubblici e a quelli privati, al momento dell’autorità e a quello della libertà […]».
[42] Di peculiare pregnanza sono gli studi di M. S. Giannini, Diritto amministrativo, Vol. II, III ed., Giuffrè, Milano, p. 166 ove l’Autore pone a confronto il concetto di autonomia privata a quello di discrezionalità amministrativa, affermando che: «[…] la prima essendo una posizione necessaria del soggetto di un ordinamento generale che si estrinseca non solo nella libera scelta dei fini, ma in un potere autoresponsabile di regolazione di interessi, il quale, fino a quando non chiede la tutela dell’ordinamento, può anche ergersi contro la legge; la seconda essendo invece un mero potere di valutazione comparativa… e quindi un accadimento puntuale, circoscritto, normativamente preregolato e nella sola norma regolativa esaurito».
[43] In dottrina R. Villata – M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo…, op. cit, p. 61, viene evidenziato che: «La scelta compiuta dell’esercizio dell’attività discrezionale è funzionalizzata ad interessi non propri dell’amministrazione agente, è vincolata nel fine. I fini che le amministrazioni devono perseguire non sono liberamente scelti dalle stesse amministrazioni, dal momento che tali interessi corrispondono agli interessi dei cittadini e non ad interessi propri».
[44] Cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 23 luglio 2020, n. 4715, nell’ambito del quale il Giudice ha espresso la massima secondo cui «La fase precontenziosa, necessaria ai sensi dell’art. 21-bis della Legge n. 287/1990 ai fini della legittimazione dell’AGCM a ricorrere nei confronti dell’atto anticoncorrenziale, deve precedere anche l’azione in giudizio per motivi aggiunti. Fatta salva l’eccezione in cui il provvedimento impugnato sia meramente confermativo del precedente, già gravato con ricorso introduttivo, ove l’Autorità intenda proporre motivi aggiunti è tenuta ad emettere un ulteriore e autonomo parere motivato, presupposto indefettibile della sua legittimazione a prescindere dallo strumento giudiziale attivato. Del resto, neppure la valorizzazione di un rapporto di consequenzialità e continuità tra gli atti, oggetto di impugnazione, potrebbe escludere la necessaria adozione del suddetto specifico parere». In senso analogo alla necessarietà della fase precontenziosa si veda Cons. Stato, Sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 323; Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246.
[44] Si veda Cons. Stato, Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246; nonché Tar Lazio-Roma, Sez. II, 1 settembre 2014, n. 9264.
[45] In dottrina si è affermato che il legislatore con l’articolo 21-bis avrebbe trasformato i poteri di advocacy dotandoli di «loaded guns». In tal senso M. Ainis, The Italian Competition Authority’s Maieutic Role, in www.iar.agcm.it, 2016, p. 125 ss., p. 130.
[46] Ad evidenziare tali aspetti in dottrina è M. Ramajoli, La legittimazione a ricorrere dell’autorità…, cit., p. 89-90, ove l’Autrice evidenzia che: «Per far fronte al problema dell’effettività dei poteri esercitati, l’art. 21-bis prevede un particolare meccanismo di reazione all’inottemperanza al parere-diffida dell’Autorità nei riguardi di atti amministrativi generali, regolamenti e provvedimenti reputati lesivi delle norme a tutela della concorrenza e del mercato. […] Più precisamente, la necessaria fase sollecitatoria che si concretizza nel previsto parere-diffida formulato dall’Autorità resta ancora una forma di moral suasion, potenzialmente in grado di eliminare la situazione distorsiva. […] La vigilanza collaborativa mira dunque ad eliminare una presunta violazione antitrust compiuta dalle pubbliche amministrazioni, prima e al di fuori della sede processuale. In quest’ottica la legittimazione a ricorrere in giudizio dell’Agcm è il solo eventuale sbocco finale del fallimento della necessaria fase amministrativa culminante nel parere-diffida […]».
[47] Si può ricordare, infatti, che prima della modifica operata dal legislatore nel 2011, l’Autorità poteva solo intervenire in giudizi già instaurati da altri soggetti, passando così, attraverso la novella in questione, da mero interventore a potenziale promotore della lite. Il potere di intervento venne riconosciuto a partire dal regolamento 2001/3/CE. Per essere precisi, come asserisce correttamente parte della dottrina: «Si tratta dell’ipotesi generalmente indicata come “intervento amicus curiae”. Denominazione che chiarisce le peculiarità dell’istituto e, in particolare, la non coincidenza tra la previsione nazionale (art. 21-bis l. 287/1990) e quella europea (art. 15 Reg. 1-2003). Il Regolamento UE non prevede infatti un vero e proprio intervento (ad adiuvandum o ad opponendum), mai la semplice presentazione di osservazioni da parte dell’autorità, in modo tendenzialmente neutrale, e senza che l’autorità garante divenga parte del giudizio»; così P. Lazzara, Legittimazione straordinaria…, cit., p. 80.
[48] Per importanza si consideri l’opera di G. CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 1933, p. 42, ove l’Autore evidenzia che il nomen “diritti potestativi” è giustificato osservando che «tali diritti si esauriscono in un puro potere giuridico»; in senso analogo circa la qualificazione del diritto di azione quale “diritto potestativo”, A. Proto Pisani, Diritto processuale civile, Giappichelli, Torino, 2023, p. 124-125; M. Cappelletti, Istituzioni di diritto processuale civile, CEDAM, Padova, 2022, p. 100-101; N. Mazzamuto, Diritto processuale civile, UTET, 2021, p. 89-90.
[49] Il riconoscimento dell’azione come diritto autonomo è il tratto caratteristico della teorica chiovendiana. Cfr. G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, cit., p. 66.: «Il concetto di azione, inteso come autonomo potere giuridico di realizzare per mezzo degli organi giurisdizionali l’attuazione della legge in proprio favore, e il concetto del rapporto giuridico processuale, o sia di quel rapporto giuridico che nasce fra le parti e gli organi giurisdizionali dalla domanda giudiziale, indipendentemente dall’essere fondata o no, sono i due capisaldi del mio sistema».
[50] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, cit., p. 66. Il medesimo Autore, inoltre, in Istituzioni di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 1933, p. 24 evidenzia che: «L’azione ha natura privata o pubblica secondo che la volontà di legge di cui produce l’attuazione ha natura privata o pubblica».
[51] Per tutti si possono menzionare P. Calamandrei, La relatività del concetto di azione, ora in Studi sul processo civile, V, CEDAM, Padova, 1947, pp. 1 ss., nonché A. Attardi, Diritto processuale civile, CEDAM, 1997, p. 56.
[52] C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, CEDAM, Padova, 2005, p. 42.
[53] È S. Romano, Poteri. Potestà, in Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano, 1947, p. 178 s. ad evidenziare che il potere di azione giudiziale è detto innovativo o no secundum eventum litis: il potere di azione è “innovativo” allora, e soltanto, quando tende ad una modificazione giuridica sostanziale, come nei diritti potestativi di esercizio giudiziale, e l’eventus litis sfavorevole significa - deve significare - che il potere di modificazione non esiste, non già determina una diversa qualificazione del potere.
In generale, tuttavia, l’azione costitutiva, dal punto di vista funzionale, è omologa al potere sostanziale. Tuttavia, essa si distingue dal potere sostanziale sotto il profilo strutturale. L’azione costitutiva si configura come il potere di richiedere al giudice l’emissione di un provvedimento giurisdizionale, che attua l’effetto giuridico desiderato (Recht auf Gestaltung), mentre il potere sostanziale è il potere di produrre immediatamente la modificazione giuridica mediante un atto unilaterale di parte (Recht zur Gestaltung). Questa differenza è fondamentale e impedisce di assimilare tout court le azioni costitutive a un diritto (potestativo) sostanziale per le forme e le modalità di esercizio. In particolare, la necessità dell’intervento di un organo giurisdizionale, mediante la proposizione di una domanda giudiziale che mira all’emissione di un provvedimento costitutivo dell’effetto giuridico desiderato. Tale posizione è sostenuta da vari Autori: G. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti… op. cit, p. 178 ss.; S. Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Giuffrè, Milano, 198, p. 168 ss.; A. Proto Pisani, Le tutele giurisdizionali dei diritti, Jovene, Napoli, 2003, p. 211 ss.; C. Ferri, Profili dell’accertamento costitutivo, CEDAM, Padova, 1970, pp. 39, 212 ss. In tali fattispecie questo potere, sovente definito proprio “a necessaria attuazione giudiziale” ad avviso di autorevoli Autori andrebbe proprio identificato con il potere di azione processuale. A tal proposito, Cfr. C. Consolo, Domanda giudiziale, in Dig. civ., VII, Giappichelli, Torino, 1991, p. 44 ss., spec. 83 s.; M. Fornaciari, Situazioni potestative, tutela costitutiva, giudicato, Giappichelli, Torino, 1999, p. 108 ss.; L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, II ed., Giappichelli, Torino, 1994, p. 144.
[54] È dibattuto in dottrina quale sia il novero delle azioni esperibili dall’Autorità a seguito dell’introduzione del potere di proporre ricorso, senza ulteriori precisazioni da parte del legislatore. La prassi applicativa registra solo casi in cui l’Autorità ha agito per l’annullamento. In dottrina, tuttavia, è sostenuto che l’Autorità avrebbe anche il potere di formulare domande di accertamento dell’obbligo di provvedere e di condanna all’adempimento. Cfr. H. Simonetti, L’art. 21-bis della legge 287/90 ed il potere di impugnazione dell’AGCM: è ancora il secolo della “giustizia nell’amministrazione”, in www.giustamm.it, p. 8.; M. Clarich, I poteri di impugnativa dell’Agcm…, cit., p. 8.
[55] Nell’evidenziare tali aspetti M. Clarich, I poteri di impugnativa dell’Agcm…, op.cit, p. 4, ha precisato che: «se così fosse tutti gli apparati amministrativi finirebbero per essere portatori di una situazione giuridica costituita dall’interesse pubblico per il perseguimento del quale sono stati istituiti. Se le autorità fossero titolari di situazioni giuridiche sostanziali così individuate dovrebbero poterle esercitare non soltanto in sede processuale per contestare provvedimenti amministrativi illegittimi, ma anche, necessariamente, in sede procedimentale. Così, paradossalmente, si dovrebbe ritenere che all’Autorità garante della concorrenza e del mercato debba essere inviata una comunicazione d’avvio del procedimento tutte le volte che un provvedimento di una pubblica amministrazione (per esempio il rilascio di una concessione) sia suscettibile di interferire con il bene giuridico della concorrenza».
[56] V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, UTET, 1997, p. 94.
[57] F.G. Scoca, L’interesse legittimo delle amministrazioni pubbliche, in Scritti in onore di Ivone Cacciavillani, Editoriale Scientifica, 2018, p. 523 – 542.
[58] In dottrina ad avallare tale orientamento è V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2014, p. 339; Così anche A. Piras, Discrezionalità amministrativa, in Enc. Dir., XXII, Giuffrè, Milano, 1964, p. 76, afferma che «il pubblico interesse non può appartenere al novero degli interessi che si dicon pubblici sol perché tali appaiono nella realtà sociale, e neanche può essere generico, ossia indeterminato. Deve invece trattarsi di un interesse che rifletta il soddisfacimento d'un bisogno già qualificato come pubblico da una norma, sia indirettamente con l'ordinamento dei pubblici uffici, sia direttamente mediante l'attribuzione di una certa competenza a questa o quella autorità»; nonché, M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 99: «L’esigenza di tutelare un interesse pubblico (per esempio l'ambiente o la privacy) si afferma via via nella coscienza sociale e ciò si traduce di regola nell'istituzione di un apparato pubblico (per esempio, un ministero o un'autorità indipendente) che ha come scopo fondamentale lo svolgimento delle attività necessarie per curare tale interesse. Quanto più le finalità sono definite dalla legge in modo preciso e focalizzato (per esempio, il fine della tutela della concorrenza affidato all'AGCM), tanto più efficace può risultare l'azione posta in essere dall'apparato e tanto più agevole è valutare ex post l’operato dell’agente». In senso analogo, recentemente, N. Pica, La tutela processuale dell’interesse pubblico: considerazioni a partire dalla legittimazione ad agire dell’Agcm, in Dir. Proc. Amm., Fas. 3, 1. 2019 p. 809 ss.
[59] Sul punto V. Cerulli Irelli, Lineamenti di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2021, p. 267, evidenzia che: «[…] l’interesse diviene, in virtù della qualificazione dell’ordinamento, presupposto sostanziale di una situazione giuridica soggettiva».
[60] In tal senso sempre F.G. Scoca, L’interesse legittimo…, cit., p. 523.
[61] V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, UTET, 1997, p. 94. L’Autore evidenzia che «la potestà di una Pubblica Amministrazione di adire il giudice per l’annullamento di un atto riferibile ad un’altra entità pubblica è ipotizzabile «per azionare pretese che nascono da un momento di soggezione (ad esempio dell’ente controllato nei confronti degli atti di controllo, oppure dell’ente che per esercitare una propria attività deve essere autorizzato da altro ente, ecc.) che riproduca la formula potere = soggezione = interesse legittimo, su cui riposa il nostro sistema di giustizia amministrativa».
Si confronti inoltre F.G. Scoca, L’interesse legittimo…, cit., p. 523, il quale evidenzia che: «Il quadro in cui l’interesse legittimo si inserisce è caratterizzato, da un lato, da un soggetto titolare del potere autoritativo e, dall’altro, da un soggetto che deve difendersi dal modo (presuntivamente) scorretto, o illegittimo, di esercizio di tale potere: presuppone, in altri termini, un soggetto in posizione giuridicamente sovraordinata ed un soggetto in posizione subordinata. Un quadro del genere può aversi non solo tra amministrazione pubblica e privati cittadini ma anche tra amministrazioni pubbliche, quando l’una è titolare di poteri precettivi unilaterali che incidono sulla sfera giuridica (in particolare, ma non solo, sulla sfera delle competenze) dell’altra: in tal caso si determina un rapporto giuridico (per così dire) verticale, nel quale una amministrazione ha una posizione di sovraordinazione rispetto ad un’altra amministrazione».
[62] Recenti orientamenti giurisprudenziali evidenziano che, grazie alla nuova fisionomia assunta dagli enti territoriali a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione – in particolare grazie alla lettura in combinato disposto degli artt. 114 e 118 Cost. – porterebbe a desumere la loro funzione (affidata dall’ordinamento) di enti esponenziali rappresentativi degli interessi della collettività di riferimento, da cui implicitamente ricavare sic et simpliciter, sul solo presupposto del loro collegamento con la popolazione stanziata sul territorio, la legittimazione a ricorrere in seno al giudizio amministrativo avverso provvedimenti ritenuti illegittimi e connessi alla cura di interessi ad essi facenti capo.
In dottrina, cfr. R. Lombardi, Giustizi amministrativa - a cura di F. G. Scoca, Giappichelli, Torino, 2021, p. 216.
[63] In senso critico verso questa impostazione cfr. V. Cerulli Irelli, La legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” …, cit., p. 17. L’Autore precisa che la prerogativa impugnatoria non andrebbe ricostruita cercando la titolarità in capo all’ente di un interesse legittimo, affermando che: «Sul punto, si può rammentare il principio generale (la cui trattazione, peraltro non sufficientemente sviluppata in dottrina, esula dall'oggetto di queste note) secondo il quale gli enti pubblici (i pubblici poteri, le pubbliche Amministrazioni) possono tutelare (curare) gli interessi di cui sono portatori mediante una gamma differenziata di strumenti giuridici, dall'esercizio di poteri amministrativi formali (ove previsti dalla norma) all'esercizio della capacità negoziale (nei limiti adesso fissati dall'art. 1, comma 1-bis, l. proc. amm.), all'esercizio dell'azione in sede giurisdizionale (le azioni ritenute utili al fine della migliore tutela dell'interesse, nell'ambito della pluralità delle azioni, nelle sedi giurisdizionali competenti), anche in alternativa all'esercizio di poteri amministrativi (a carattere decisorio e anche esecutivo). Il principio è espresso, a proposito della tutela dei beni pubblici nell’art. 823, cod. civ., che a chiarimento di precedenti dubbi avanzati in giurisprudenza, afferma, com’è noto, che la tutela di detti beni (segnatamente di quelli ascritti alla categoria dei beni c.d. demaniali, per la cui tutela sussistono in capo alle Amministrazioni competenti incisivi poteri di autotutela) possa avvenire indifferentemente mediante l'esercizio di detti poteri ovvero mediante l’esercizio delle azioni possessorie o petitorie previste dal codice. Ed è da ritenere che il principio si estenda al di là della materia dei beni pubblici e investa tutti i rapporti nei quali si tratta di tutelare da parte degli enti interessi affidati alla loro cura, utilizzando la capacità generale di cui sono dotati (salve incapacità giuridiche speciali) ovvero le capacità speciali rappresentate dai singoli poteri amministrativi ad essi conferiti dalla legge; e ancora, la capacità processuale, appunto (come viene riconosciuto in via generale in capo agli enti territoriali, mentre in capo ad altre Amministrazioni pubbliche lo si è visto, provvedono in determinati casi, singole norme di legge)».
[64] Fra le altre si può menzionare l’orientamento assunto dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sent. n. 6 del 20/2/2020, determinando un netto superamento di quell’orientamento giurisprudenziale restrittivo verso la tutela degli interessi meta-individuali o plurisoggettivi tendente a limitare fortemente il fenomeno de qua sul presupposto che, essendo gli interessi finali sempre e soltanto individuali, ogni azione a tutela di interessi diffusi si tradurrebbe sempre in un agire nell’interesse altrui, dovendosi configurare come un’ipotesi sempre eccezionale alla stregua dell’art. 81 c.p.c..
[65] Ad assumere tale prospettiva è M. Libertini, Brevi note sui poteri dell’Autorità Garante …, op. cit, p. 9, il quale precisa che: «l’interesse pubblico alla tutela del bene giuridico “concorrenza” (di rilevanza costituzionale) presenta una ulteriore peculiarità, rispetto ai tradizionali interessi “diffusi”. Questi ultimi, infatti, fanno capo a serie di individui non concentrati nello spazio e nel tempo (p.e. gli aspiranti fruitori al godimento di un certo bene culturale o di un certo paesaggio naturale), ma sono interessi omogenei (di carattere, di volta in volta, oppositivo o pretensivo o partecipativo). La concorrenza fra imprese, se funziona efficacemente, determina sempre situazioni conflittuali, in cui qualcuno vince e qualcuno perde (e tra coloro che perdono vi sono non solo imprese che scompaiono, ma anche gruppi di consumatori che possono vedere frustrata una loro radicata abitudine di consumo). L’interesse pubblico tutelato per il tramite del bene giuridico “concorrenza” […] è quello alla realizzazione dello sviluppo economico e, soprattutto, su uno sviluppo incentrato sull’innovazione. Questo interesse non può intestarsi su una serie di individui, più o meno ampia: le stesse persone possono essere, di volta in volta, avvantaggiate o danneggiate da diversi momenti del processo concorrenziale; e possono essere avvantaggiate in un momento della loro attività economica (p.e. come consumatori) e danneggiati in altri (p.e come commercianti)».
[66] Ibid. p. 10.
[67] La giurisprudenza amministrativa, infatti, è ormai consolidata nel ritenere che la legittimazione a ricorrere dei soggetti collettivi (pubblici o privati che siano), per poter essere riconosciuta, deve riguardare interessi riferibili alla categoria di soggetti che tali organismi rappresentano in modo complessivo ed unitario e non quando, invece, tale interesse sia scrivibile alla sfera giuridica individuale di uno solo o di una parte di essi.
[68] Che alla finalità di tutela dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio si aggiunga, seppure indirettamente, il ripristino della legalità, rappresenta un principio ormai pacificamente acquisito nell'ambito di ogni processo. Si confronti V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” …, cit., p. 353–354: «ogni giurisdizione, anche quella civile, ha questa duplice funzione, intesa ad affermare la volontà della legge nel caso concreto, per la tutela dei diritti violati di singoli soggetti nell’ambito dei rapporti nei quali si svolge la vita di relazione, ma allo stesso tempo, intesa ad assicurare, nell’interesse generale, l’ordinato svolgersi della vita sociale».
[69] Sul principio della domanda risulta molto ampia la letteratura giuridica in materia, cfr., in via meramente generale, E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile – Principi (edizione curata da V. Colesanti, E. Merlin, E. Ricci), Giuffrè, Milano, 2007, pp. 135 ss., sempre il medesimo Autore, E.T. Liebman, Fondamento del principio dispositivo. Problemi del processo civile, Jovene, Napoli, 1962; C. Consolo, Domanda giudiziale (voce – diritto processuale civile), in Dig. disc. priv., VII, Giappichelli, Torino, 1991.
[70] Tra i molti sul punto E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile – Principi, cit., p. 136, afferma che il principio della domanda trova il suo fondamento nella volontà di non compromettere l’imparzialità e la neutralità del giudice, altrimenti chiamato a «investigare negli eventi e nei fatti della società quelli che a suo giudizio si presentassero come casi di inosservanza della legge […] tale ricerca lo porterebbe ad anticipare sia pure inconsciamente e almeno nel suo foro interno un giudizio che deve invece essere il risultato di un suo esame imparziale dello svolgimento del processo». D’altro canto, «sarebbe contraddittorio riconoscere ad un soggetto una posizione giuridica piena sul piano sostanziale e togliergli o limitargli, poi, la possibilità di farla valere in giudizio». Così, G. Verde, Diritto processuale civile – Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2015, p. 84.
[71] Anche in merito alle condizioni dell’azione la bibliografia è molto estesa, potendo riportare qui solo alcuni classici. Sulla legittimazione ad agire nel processo civile, cfr. C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile – Nozioni introduttive e disposizioni generali, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 52 ss.; F.P. Luiso, Diritto processuale civile – Principi generali, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 218 ss.
[72] Alla negazione del principio dispositivo fa da contrappeso l’affermazione del cd. principio inquisitorio. In relazione ad esso, cfr. G. Verde, Diritto processuale civile – Parte generale, cit., pp. 96 ss.; F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, I, Giuffrè, Milano, 1936, p. 422.
[73] In questo senso F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, n. 1, p. 502.
[74] A coniare tale espressione è A. Cicu, Il diritto di famiglia, Arnaldo Forni Editore, Roma, 1914, p. 181.
[75] V. Cirulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” …, cit. p. 16, ove si afferma che: «[…] nei casi di legittimazione “oggettiva”, la struttura del processo resta la medesima; come processo di parti, fondato sul principio della domanda. Non sono infatti, previste deroghe alle regole del processo, laddove l’azione sia esercitata da soggetti legittimati ex legge, o da soggetti istituzionali o da attori popolari. L’oggetto dell’accertamento processuale, in questi casi, è quello fissato attraverso le domande e le difese e le eccezioni di parte (non la legittimità dell’azione amministrativa contestata in quanto tale, ma la fondatezza dei motivi proposti esaminati sulla base delle controdeduzioni delle altre parti); le prove sono quelle richieste dalle parti, salvi i poteri acquisitivi del giudice nei limiti consentiti dal Codice; al ricorso può farsi rinunzia senza possibilità per il giudice di trattenere la causa per la decisione, salvo lo specifico caso di cui all’art. 99, ult. co., c.p.a. Si afferma in giurisprudenza, in alcuni di detti casi, che il giudicato abbia effetti erga omnes, ma ciò deriva a sua volta dai comuni principi, perché si tratta nei casi esaminati, dell’annullamento di atti generali o di atti comunque indivisibili. Insomma, nei casi di legittimazione “oggettiva”, ci troviamo di fronte allo stesso tipo di processo, non ad un processo diverso. Una volta che il soggetto, a tutela dell’interesse generale di cui è portatore e del quale ha la cura, ha scelto la via del processo amministrativo, in alternativa, o in aggiunta, ad altri strumenti di cui abbia la disponibilità, come i poteri amministrativi c.d. di autotutela, ovvero altri poteri a carattere repressivo o sanzionatorio (tutti ascrivibili alla funzione amministrativa), si assoggetta alle regole di quel processo. Esse restano quelle previste in via generale dal Codice, che non si modificano perché lo strumento processuale è attivato a tutela di un interesse generale anziché di una situazione soggettiva protetta».
[76] Sul punto M. A. Sandulli, Introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’Agcm nell’art. 21-bis l. n. 287 del 1990, in Federalismi.it, fasc. 12/2012. In senso contrario, R. Giovagnoli, Atti amministrativi e tutela della concorrenza…, cit.
[77] Ad esprimere tale avviso è M. Clarich, I poteri di impugnativa dell’Agcm ai sensi del nuovo art. 21-bis l. 287/90, Convegno organizzato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato su: “Evoluzioni del ruolo e delle competenze delle autorità antitrust” Roma, 27 marzo 2013, p. 5., ove l’Autore evidenzia che: «[…] mentre il pm che esercita l’azione civile nei casi previsti dalla legge (art. 69 c.p.c.) promuove o interviene in giudizio per la tutela di un pubblico interesse genericamente inteso, usualmente collegato a situazioni giuridiche soggettive altrui aventi natura indisponibile, l’Autorità ha una legittimazione processuale ex lege molto più circoscritta. Essa è definita dal perimetro dell’interesse pubblico specifico di cui essa custode e garante, cioè la concorrenza, sia pur intesa come inclusiva, non soltanto “tutela” in senso stretto, ma anche della promozione della concorrenza (con riguardo alle regolazioni proconcorrenziali)».
[78] È stato osservato da A. Pajno, Giustizia amministrativa ed economia, Dir. Proc. Amm., 2015, p. 952 ss. che: «fra giustizia amministrativa ed economia esiste un rapporto speciale. Se il diritto amministrativo opera nel senso di definire il ruolo di ciò che è pubblico nello spazio economico, la giustizia amministrativa è, in quanto titolare del sindacato sul potere pubblico, chiamata a pronunciarsi su alcuni aspetti rilevanti che incidono sulla crisi economica: la regolazione dei mercati, la distribuzione e la valorizzazione dei beni pubblici, le privatizzazioni la realizzazione delle grandi opere pubbliche, gli incentivi allo sviluppo: in una parola, sul grande contenzioso economico. […] Il processo amministrativo diviene così lo scenario in cui si scontrano mercato e potere, il luogo in cui si manifestano le polarizzazioni dell’economia e dove sembra combattersi la partita fra due opposti integralismi religiosi, fra quelle che sono state definite la teologia della politica e la teologia del mercato».
[79] Ad assumere tale posizione è V. Cirulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva…, cit., p.3: «Si tratta dunque, di una molteplicità di casi, previsti da norme legislative, ovvero formatisi sulla base di orientamenti giurisprudenziali, che nel loro insieme, sia pure con diverse gradazioni, conferiscono al giudice amministrativo un secondo ruolo, accanto a quello della tutela di interessi individuali a fronte dell'esercizio del potere (come da ultimo puntualmente ribadito dall'art. 7, c.p.a.), quello cioè della tutela di interessi generali, senz'altro di carattere pubblico, ovvero collettivo, promossa per iniziativa di soggetti pubblici o collettivi, portatori di questi interessi».
[80] Oltre all’ipotesi della legittimazione ad agire degli enti territoriali per gli interesse diffusi nella collettività rappresentata, si ricorderà come, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso con il celebre caso “Italia Nostra” della V Sezione del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V, 9 marzo 1973, n. 253), per la tutela di interessi privi di un titolare formale in quanto comuni a tutti gli individui di una formazione sociale non organizzata e non individuabile autonomamente, la giurisprudenza amministrativa ha legittimato non il singolo ma un ente esponenziale che potesse diventarne portatore legittimo quantomeno per esercitarne le relative azioni. In questo modo peraltro scongiurando il rischio di ampliare eccessivamente la legittimazione a ricorrere verso modelli assimilabili a quelli dell’azione popolare. Il riconoscimento della titolarità di tali interessi – naturalmente adespoti e diffusi – in capo ad un ente esponenziale, «ne ha consentito la soggettivazione e la differenziazione e, quindi, di fatto la trasformazione in interessi legittimi superindividuali riferibili non già ad una persona fisica, ma ad organismi esponenziali, abituati a rappresentarli» (R. A. Capozzi, La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, L’amministrativista.it, Giuffrè, Milano, 2022).
[81] In tal senso, P. Quinto, L’interesse legittimo anfibio nell’Europa del diritto, in www.giustizia-amministrativa.it., p. 7. Relativamente alla fattispecie qui esaminata, cfr. N. Pica, La tutela processuale dell’interesse pubblico…, cit., p. 40, ove l’Autrice evidenzia che: «Come noto, il dibattito concernente la funzione “conformativa” della giurisdizione amministrativa è risalente; nell’affrontare il tema, si è posto l’accento su una norma costituzionale la cui rilevanza è sovente trascurata: l’art. 100 Cost. laddove qualifica il Consiglio di Stato come organo di “tutela della giustizia nell’amministrazione».
[82] L’Autorità antitrust, a ben vedere, infatti, non agisce per la tutela di un interesse sostanziale, bensì ad arbitraria difesa della propria posizione all’interno di quella specifica circostanza. In termini generali il problema della situazione soggettiva spettante alle amministrazioni pubbliche in presenza di fattispecie analoghe a quelle di cui trattasi è stata oggetto di riflessione da parte della dottrina. In particolare, F.G. Scoca, L’interesse legittimo…, cit., p. 537, relativamente all’astratta individuazione di un interesse legittimo in capo all’amministrazione evidenzia che: «Il problema è più delicato quando si tratta non di impedimento all’esercizio dei poteri, ma, essendo stati esercitati ma non condivisi da altre amministrazioni, magari in un procedimento complesso, si tratta di poter difendere in giudizio il proprio punto di vista. In termini concreti, ci si può chiedere: può un’amministrazione impugnare il provvedimento finale che non abbia recepito il parere da essa reso in fase istruttoria? Può un’amministrazione impugnare l’atto conclusivo di una conferenza di servizi, nell’ambito della quale abbia preso una posizione diversa da quella infine prevalsa? Personalmente avrei forti dubbi sulla sussistenza della legittimazione ad agire in casi di questo tenore: mentre ravviso un interesse giuridicamente qualificato all’esercizio dei propri poteri da parte delle amministrazioni pubbliche, non riesco ad immaginare un consimile interesse alla difesa degli stessi poteri, una volta che siano stati regolarmente esercitati. A me sembra che l’insieme delle amministrazioni, che operano in un procedimento complesso o in sub-procedimenti collegati, siano astrette da vincoli di collaborazione, non di contrasto, nell’esercizio di una funzione, che deve riguardarsi come unitaria, in quanto finalizzata ad una sola, ed unitaria operazione amministrativa, anche se coinvolgente più interessi pubblici, che siano in cura a più amministrazioni».
[83] Ad osservare l’assunto è M. Clarich, Il “public enforcement” del diritto antitrust…, cit., p. 101.