ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Giurisprudenza Amministrativa



Interdittive antimafia e meccanismi presuntivi: un binomio intollerabile.

Di Enrico Vetrone
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Nota a Consiglio di Stato, Sez. III n. 552/2024 del 17 gennaio 2024

 

INTERDITTIVE ANTIMAFIA E MECCANISMI PRESUNTIVI:

UN BINOMIO INTOLLERABILE

 

Di Enrico Vetrone

 

Abstract

La sentenza annotata analizza i presupposti del diniego di iscrizione o rinnovo dell’iscrizione nelle c.d. “white list” e afferma il principio secondo cui il diniego dell’aggiornamento dell’iscrizione nella predetta lista delle imprese richiedenti deve necessariamente discendere da una valutazione rigorosa del quadro indiziario, che, corroborato da elementi gravi, precisi e concordanti, dimostri l’esistenza del relativo inquinamento mafioso. La pronuncia supera in via del tutto condivisibile il precedente orientamento giurisprudenziale secondo il quale sarebbe possibile desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa dal mero riscontro della sussistenza di uno degli elementi sintomatici elencati dall’art. 84, comma 4, lett. a) del D.Lgs. n. 159/2011.

 

The ruling focuses on the conditions for the denial of registration or renewal of registration in the so-called white list and affirms the principle according to which the refusal to update the registration in the white list must necessarily derive from a rigorous evaluation of the circumstantial framework, which, corroborated by serious, precise and consistent elements, demonstrates the existence of the relevant mafia pollution. The ruling therefore goes beyond the orientation that considers possible to deduce the mafia infiltration from the mere verification of the existence of one of the symptomatic elements listed in the art. 84, paragraph 4, letter. a) Legislative Decree 159/2011.

 

Sommario:1. La vicenda processuale. – 2. Cenni sul sistema della documentazione antimafia. - 3. Interdittive antimafia e tassatività sostanziale – 4. La white list – 5. I principi di diritto enunciati dalla sentenza annotata. – 6. Considerazioni conclusive

 

  1. La vicenda processuale

La pronuncia in commento definisce il giudizio di appello instaurato avverso una sentenza del T.A.R. Napoli, chiamato a giudicare della legittimità del provvedimento del 29 ottobre 2021 adottato nei confronti della società OMISSIS con cui la Prefettura di Caserta negava il rinnovo dell’iscrizione nelle white list per le categorie dell’estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti e di noli a freddo e a caldo di macchinari, nonché degli atti ad esso conseguenti e connessi, ivi compresa la nota ANAC relativa alla segnalazione del diniego e all’inserimento nel Casellario informatico dell’annotazione ivi riportata.

Il diniego prefettizio veniva argomentato sulla scorta del rinvio a giudizio disposto dal Tribunale di Napoli il 18 febbraio 2021 nei confronti dell’amministratore e socio unico della società, imputato per i reati di cui agli artt. 81 c.p., 110 c.p., 319 c.p., 321 c.p. e 416, comma 1-bis c.p..

Già in prime cure la società ricorrente evidenziava la superficialità e carenza dell’istruttoria condotta dalla Prefettura, nonché l’illegittimità del diniego di iscrizione, a suo dire fondato su di un automatismo valutativo, la prognosi di permeabilità mafiosa essendo stata acriticamente desunta dal rinvio a giudizio del socio unico per uno dei reati “spia” elencati dall’art. 84, comma 4, lett. a) del D.Lgs n. 159/2011.

A fronte del rigetto del ricorso del T.A.R. Napoli, la società proponeva appello al Consiglio di Stato. Con i primi tre motivi l’appellante contestava i passaggi della decisione di primo grado mediante i quali il Tribunale ha conferito rilievo dirimente al predetto rinvio a giudizio del e socio unico nel fondare la presunzione legale del rischio di infiltrazione mafiosa e ritenuto recessive le ulteriori risultanze istruttorie, militanti in senso contrario alla sussistenza della permeabilità mafiosa della società.

A questa prima serie di motivi seguivano quelli riproposti ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a., a mezzo dei quali l’appellante lamentava, tra gli altri, la mancata considerazione attualizzata del pericolo infiltrativo e segnalava la mancata acquisizione ed esame degli atti dell’indagine penale, né le difese e i documenti prodotti in giudizio, ritenuti capaci di disvelare l’esistenza di un quadro opposto all’esistenza di un tentativo di infiltrazione mafiosa.

 

  1. Cenni sul sistema della documentazione antimafia

La disciplina relativa alla documentazione antimafia è contenuta nel D.Lgs 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. “Codice antimafia”) ed è costituita dalla comunicazione antimafia e dall’interdittiva antimafia. 

La comunicazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o divieto di cui all’art. 67 del Codice antimafia; l’interdittiva antimafia, invece, consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o di divieto di cui all’art. 67 del codice antimafia, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’art. 91, comma 6, nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate (art. 84 del D.Lgs. n. 159/2011).

La comunicazione antimafia riguarda i rapporti tra privati. La relativa adozione preclude lo svolgimento delle attività private, sottoposte a regime autorizzatorio, che possono essere intraprese su segnalazione certificata di inizio attività da parte del privato alla pubblica amministrazione, nonché quelle sottoposte alla disciplina del silenzio assenso (art. 89, comma 2, lett. a) e b) D.Lgs. n. 159/2011).

L’informativa ha ad oggetto i rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni e al suo rilascio segue l’impossibilità per l’impresa destinataria di mantenere o instaurare qualsivoglia rapporto contrattuale con le pubbliche amministrazioni (art. 94, comma 1, D.Lgs. n. 159/2011).

Dalle coordinate legislative emerge con chiarezza la diversa natura dei due istituti. Mentre la comunicazione antimafia, concretandosi nella mera attestazione o meno dell’esistenza di misure di prevenzione personale a carico del soggetto interessato dal controllo, ha contenuto vincolato e matrice accertativa; l’interdittiva presenta un duplice contenuto[1].  L’adozione dell’interdittiva, infatti, può seguire o all’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o di divieto di cui all’art. 67 del codice antimafia (in analogia con la comunicazione antimafia), o all’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate.

Se nel primo caso l’interdittiva presenta contenuto vincolato, nel secondo, venendo resa all’esito di un complesso percorso valutativo, assume carattere discrezionale. Alla base del sistema della documentazione antimafia vi è l’esigenza di mediare tra due contrapposti interessi; da un lato, quello alla tutela della libertà di iniziativa economica privata, che rientra tra i valori costituzionalmente protetti (art. 41, comma 1, Cost.), dall’altro quello al contrasto della criminalità organizzata.

La collocazione sistematica della normativa in materia di documentazione antimafia non è casuale. La scelta del legislatore di inserire all’interno del medesimo corpus normativo (il Codice antimafia) la disciplina della comunicazione e dell’interdittiva antimafia e delle misure di prevenzione personali e patrimoniali disvela, infatti, l’analoga natura preventiva e cautelare di tali istituti, oltre che l’intenzione del legislatore di rendere evidente la natura amministrativa (e non penale o para penale) della documentazione antimafia[2]. Prendendo a prestito le parole del supremo consesso amministrativo “il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi”[3].

 

  1. Interdittive antimafia e tassatività sostanziale

Come chiarito in precedenza, l’interdittiva antimafia talvolta viene adottata all’esito di una valutazione discrezionale, in particolare allorquando l’autorità prefettizia ritenga l’impresa sottoposta a controllo oggetto di un tentativo di infiltrazione mafiosa. La permeabilità mafiosa dell’impresa può esser desunta da molteplici situazioni indiziarie. Gli artt. 84, comma 4[4], e 91, comma 6[5], del D.Lgs. n. 159/2011 si preoccupano di elencare[6] le predette situazioni sintomatiche, dando rilievo ad una serie di elementi tra loro eterogenei, parimenti capaci, nell’ottica del legislatore, di disvelare la permeabilità dell’impresa a condizionamenti mafiosi.

Ad un nucleo di situazioni espressamente tipizzate, in specie quelle indicate nelle lett. a),b),c), f) del citato art. 84, comma 6, del codice antimafia, il legislatore ha affiancato situazioni “atipiche”, facendo ricorso alla tecnica della clausola generale. In specie, le lett. d) ed e) dell’art. 84 dispongono che il tentativo di infiltrazione possa desumersi anche dagli accertamenti all’uopo disposti dal prefetto procedente, mentre l’art. 91, comma 6, prevede che l’infiltrazione possa essere desunta da provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata, nonché dall’accertamento delle violazioni degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari di cui all'articolo 3 della legge 13 agosto 2010, n. 136, commesse con la condizione della reiterazione prevista dall'articolo 8-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689.

La scelta del legislatore di non collegare l’individuazione del tentativo di infiltrazione mafiosa a situazioni espressamente tipizzate non ha visto il favore di una parte della dottrina, che ha riscontrato il deficit di tassatività sostanziale dell’elencazione contenuta nel codice antimafia. Le critiche in ordine all’asserita indeterminatezza dei presupposti per l’adozione dell’informativa generica, disposta nelle ipotesi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), si sono peraltro acuite all’indomani della sentenza De Tommaso c. Italia[7], taluni autori avendo riscontrato una certa analogia quanto a deficit di determinatezza tra misure di prevenzione personale, colpite dalla sentenza citata, e informative prefettizie[8]. Si è rimarcato come l’adozione di un provvedimento lesivo di guarentigie costituzionalmente rilevanti debba essere necessariamente condizionato all’esistenza e al riscontro empirico di presupposti legislativi precisamente determinati[9] e come la lotta alla criminalità organizzata non possa giustificare l’impiego di strumenti capaci di obliterare completamente le garanzie costituzionali e le esigenze di tutela del singolo[10].

Dette critiche non hanno, tuttavia, fatto breccia nella giurisprudenza amministrativa.

Il Consiglio di Stato, con un indirizzo inaugurato dalla sentenza n. 6105/2019 e poi costantemente ribadito[11], ha recisamente escluso che la disciplina dei presupposti per l’adozione delle informative prefettizie sconti un deficit di tassatività e ha ritenuto non prospettabile alcuna violazione dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, CEDU, con riferimento al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost.

Nella predetta sentenza il massimo consesso amministrativo, senza negare che il legislatore, nel radicare l’adozione del provvedimento antimafia all’esistenza di infiltrazioni mafiose, abbia fatto ricorso a clausole generali, colorando di ampia discrezionalità il potere prefettizio, ne ha escluso il carattere arbitrario. L’attestazione della sussistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa, infatti, anche laddove non fondato sulla valorizzazione di elementi tipizzati, deve in ogni caso essere tratta da indicatori gravi, precisi e concordanti, che siano capaci di evidenziare in maniera non equivoca l’esistenza di una situazione di permeabilità mafiosa

Il pericolo che la valutazione prefettizia si tramuti in una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità in questa materia sconfini nel puro arbitrio è scongiurata dal sindacato giurisdizionale per eccesso di potere sulla motivazione del provvedimento. Il giudice amministrativo ha, infatti, pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo ed è tenuto ad apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae dai fatti, i quali debbono evidenziare, con un canone che non è quello penale dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, bensì quello più tenue del “più probabile che non”, l’esistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa.

D’altronde, afferma il Collegio, subordinare l’attestazione della sussistenza del pericolo di infiltrazione all’accertamento di elementi solo “tipici”, significherebbe restringere irragionevolmente lo strumentario preventivo a disposizione delle autorità per l’opera di contrasto alla criminalità organizzata. La “funzione  di “frontiera avanzata” svolta dall’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini”.

Occorre, inoltre, evidenziare come la giurisprudenza amministrativa si sia prodigata nel tentativo di operare una “tassativizzazione processuale” degli elementi sintomatici delle infiltrazioni mafiose[12], sì da porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa[13].

Del deficit di legalità sostanziale che caratterizzerebbe la disciplina dei presupposti per l’adozione delle interdittive si è di recente occupato expressis verbis anche il giudice delle leggi nella sentenza n. 57/2020[14], che ha deciso la questione di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, sollevata con ordinanza del 10 maggio 2018 dal Tribunale di Palermo, escludendone la fondatezza.

Dopo aver ribadito la natura cautelare-preventiva delle interdittive antimafia, la Corte costituzionale ha escluso perentoriamente che la disciplina dell’istituto sia affetta da un deficit di legalità sostanziale. Sul punto la Corte precisa che “deriva dalla natura stessa dell’informazione antimafia che essa risulti fondata su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, perché sintomatici e indiziari. Tutto ciò, peraltro, non comporta che nella specie si debba ritenere violato il principio fondamentale di legalità sostanziale, che presiede all’esercizio di ogni attività amministrativa.”

Detta conclusione viene supportata dal giudice delle leggi mediante la valorizzazione di vari argomenti, di cui è necessario, seppur brevemente, dar conto.

In primo luogo, la Corte evidenzia come la decisione circa la sussistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa debba necessariamente seguire ad una attenta ponderazione delle risultanze istruttorie da parte dell’autorità prefettizia, dovendo l’interdittiva fondarsi su un quadro indiziario quanto più possibile chiaro, completo e convincente.

La Corte, inoltre, evidenzia come l’elevata discrezionalità tecnica che la prefettura è chiamata in quest’ambito ad esercitare trovi argine nel sindacato giurisdizionale, che, lungi dal sostanziarsi in un controllo meramente “estrinseco” del percorso logico-argomentativo espresso dall’autorità amministrativa in seno alla motivazione del provvedimento, assume i tratti di un “esame sostanziale degli elementi raccolti dal prefetto”.

In ultimo, il giudice delle leggi, rammenta l’opera di tassativizzazione giurisprudenziale dei presupposti dell’interdittiva operata dalla giurisprudenza amministrativa, che ha indubbiamente contribuito a circoscrivere i confini della discrezionalità prefettizia in materia.

Benchè la decisione della Corte non abbia convinto proprio tutti gli interpreti[15], può sostenersi che, quantomeno a livello giurisprudenziale, sia stata raggiunta una certa unanimità di vedute in ordine alla sufficiente tassatività sostanziale della disciplina dell’istituto delle interdittive.

Rimane, tuttavia, necessario svolgere un’ultima riflessione.

Il rispetto delle condizioni cui la giurisprudenza amministrativa e la stessa Corte costituzionale subordinano la legittimità dei provvedimenti interdittivi (in specie, l’esigenza che la relativa adozione sia giustificata dall’esistenza di un quadro istruttorio composto da elementi capaci di far emergere più probabilmente che non la sussistenza di un tentativo di infiltrazione mafiosa in seno all’impresa) si impone non solo nelle ipotesi in cui l’interdittiva sia emessa a seguito della valorizzazione di situazioni sintomatiche non espressamente tipizzate, ma sempre.

La verifica circa la concordanza degli elementi nel senso della sussistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa va effettuata anche ove essi abbiano contenuto “tipico”, in quanto espressamente menzionati nell’elencazione di cui all’art. 84, comma 4, del codice antimafia.  Il principio di legalità impone, difatti, che gli elementi sintomatici, anche se “tipici”, vengano adeguatamente ponderati dall’autorità amministrativa e non vengano apoditticamente assunti a base del provvedimento interdittivo[16]. Opinare in senso contrario porterebbe, a parere di chi scrive, a legittimare l’adozione di interdittive fondate sul mero sospetto e su di automatismi non adeguatamente supportati dall’id quod plerumque accidit in patente contrasto con il dettato costituzionale, che eleva a rango primario il valore della libertà di iniziativa economica privata.

 

  1. La white list

La c.d. white list[17] è un elenco di imprese tenuto dalle prefetture provinciali. L’iscrizione in dette liste certifica che l’impresa non è soggetta ad infiltrazioni mafiose e velocizza il rilascio di provvedimenti nell’ambito degli appalti pubblici sottesi alla richiesta della documentazione antimafia[18].

La ratio dell’istituto è analoga a quella della documentazione antimafia, essendo parimenti volto a salvaguardare l’ordine pubblico economico, la libera concorrenza tra imprese e il buon andamento della pubblica amministrazione[19].

La disciplina dell’istituto è collocata, a livello primario, nell’art. 1, commi da 52 a 57, della L. 190/2012 (legge anticorruzione) e, a livello sub primario, nel D.P.C.M. 18 aprile 2013, che ne definisce le modalità per l’istituzione e l’aggiornamento.  

Per le attività imprenditoriali maggiormente esposte al rischio di infiltrazione mafiosa[20], secondo il disposto del comma 52 dell’art. 1, l. 190/2012 “ la comunicazione e l'informazione antimafia liberatoria da acquisire indipendentemente dalle soglie stabilite dal codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, è obbligatoriamente acquisita dai soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, attraverso la consultazione, anche in via telematica, di apposito elenco di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa operanti nei medesimi settori”.

L’iscrizione all’elenco, gestita dalla prefettura competente[21], avviene su istanza dell’impresa secondo le modalità previste dall’art. 3 del D.P.C.M 18 aprile 2013. In particolare, essa è disposta all’esito della consultazione della Banca dati nazionale unica se l’impresa è un soggetto ivi censito ed è possibile rilasciare immediatamente l’informazione antimafia liberatoria ai sensi dell’art. 92, comma 1, del codice antimafia. Se il richiedente non rientra tra i soggetti censiti nella BDNA ovvero gli accertamenti antimafia siano stati effettuati in data anteriore ai dodici mesi ovvero emerga l’esistenza di taluna delle situazioni di cui agli art. 84, comma 4, e 91, comma 6, del Codice antimafia, la Prefettura competente è tenuta ad effettuare le opportune verifiche, onde valutare la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 2, comma 2[22], cui è l’iscrizione è condizionata.

Ove dall’accertamento all’uopo disposto emerga la carenza delle suddette condizioni, la Prefettura competente, nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 10-bis della l. 241/90, comunica il diniego d’iscrizione.

L’iscrizione nell’elenco sostituisce a tutti gli effetti l’informazione antimafia, non potendo essa essere richiesta nei confronti delle imprese iscritte nell’elenco per l’esercizio delle attività per cui è stata disposta.

L’impresa iscritta è tenuta al rispetto di specifichi obblighi di comunicazione (art. 1, comma 55, della L. 190/2012).

L’iscrizione ha valenza annuale e richiede di essere periodicamente rinnovata. All’uopo l’impresa iscritta, almeno 30 giorni prima della data di scadenza della validità dell’iscrizione, deve comunicare alla Prefettura competente l’interesse a permanere nell’elenco. Il rinnovo dell’iscrizione è disposto solo ove venga accertata la permanenza delle condizioni per l’iscrizione. In caso contrario il rinnovo è negato.

Quanto a caratteristiche non v’è differenza alcuna tra il controllo che la Prefettura effettua nell’ottica di valutare il rilascio dell’informativa antimafia e quello che segue alla richiesta di iscrizione nella c.d. white list. La giurisprudenza amministrativa, con un orientamento ormai pacifico, afferma che le disposizioni relative all’iscrizione nelle white lists e quelle dettate dal D.lg. 159/2011 in materia di documentazione antimafia costituiscono un corpus normativo unico[23]. Ciò impone una lettura coordinata e organica dei due sottoinsiemi normativi e obbliga le Prefetture a valutare le richieste di iscrizione tenendo conto degli orientamenti giurisprudenziali maturati in materia di interdittive.

 

  1. I principi di diritto enunciati dalla sentenza annotata

La sentenza in commento rileva e dirime il contrasto sviluppatosi nella Sezione III del Consiglio di Stato intorno al rilievo da ascrivere all’accertamento dei titoli di reato indicati nell’art. 84, comma 4, lett. a) del D.Lgs. n. 159/2011 ai fini della valutazione della sussistenza della permeabilità mafiosa e, di rimando ,dell’adozione dell’interdittiva antimafia o del diniego di iscrizione o del rinnovo dell’iscrizione (come nel caso portato all’attenzione del Collegio) nella white list.

Il collegio evidenzia come, secondo un primo filone interpretativo, rispetto ai reati indicati nell’art. 84, comma 4, lett a) del Codice antimafia, il legislatore avrebbe inteso istituire un meccanismo presuntivo, individuando alcune fattispecie che destano particolare allarme sociale e ricollegando al relativo accertamento, in via automatica, la permeabilità mafiosa della società[24].

Seguendo le coordinate definite dall’esposto indirizzo giurisprudenziale, all’accertamento del reato c.d. spia seguirebbe necessariamente l’attestazione dell’inquinamento mafioso del soggetto sottoposto a controllo.

Un secondo filone interpretativo, parimenti emerso in seno alla sezione III del Consiglio di Stato, rileva, al contrario, come l’adozione di un provvedimento interdittivo non possa giustificarsi sulla base del mero anodino accertamento di uno dei delitti spia contenuti nell’art. 84, comma 4, lettera a) del codice antimafia. Il tessuto normativo e i consolidati indirizzi giurisprudenziali in materia di documentazione antimafia e di accertamento della permeabilità mafiosa dell’impresa osterebbero, infatti, all’ammissibilità dell’impiego di un automatismo che ricolleghi sempre e comunque, quasi fosse un’equazione, l’accertamento di uno dei reati spia all’esistenza di un tentativo di infiltrazione mafiosa.

Il collegio aderisce alla seconda delle impostazioni dogmatiche proposte, evidenziando come l’adozione dell’interdittiva antimafia non possa assumere carattere vincolato neppure in presenza delle situazioni indiziarie “tipiche” menzionate dal comma 4 dell’art. 84, comma 4, del D.lgs. 159/2011. Detti provvedimenti debbono sempre e comunque essere preceduti da un apprezzamento autonomo del contenuto intrinseco delle risultanze istruttorie, non potendo la relativa emissione basarsi sull’applicazione di rigidi meccanismi presuntivi.

A quanto precisato segue che l’accertamento in sede istruttoria di procedimenti o provvedimenti relativi ad uno dei delitti spia indicati dall’art. 84, comma 4, lett. a), benchè rilevante e potenzialmente idoneo, ove corroborato da elementi ulteriori, ad attestare l’esistenza di situazioni di condizionamento mafioso, non può da solo e in via automatica fondare l’adozione di un provvedimento interdittivo o il diniego di iscrizione o rinnovo dell’iscrizione nella c.d. white list.

Dall’adesione al secondo filone interpretativo il Collegio fa discendere l’accoglimento dell’appello proposto avverso la sentenza del T.A.R. Napoli, che, proprio applicando l’automatismo in precedenza rilevato, aveva rigettato il ricorso proposto in prime cure, così confermando il diniego di rinnovo d’iscrizione alla white list opposto alla società e motivato sulla scorta del mero rinvio a giudizio del socio unico della società per uno dei reati indicati nell’art. 84, comma 4, lett. a) del codice antimafia.

Nella sentenza sul punto si legge “in definitiva, il Collegio ritiene che il puro e semplice richiamo al rinvio a giudizio, quale fatto sopravvenuto alla fine del controllo giudiziario, non rappresenti, nel peculiare contesto sin qui descritto, argomento motivazionale sufficiente a fondare una prognosi di pericolo di condizionamento criminale sulla gestione della società […] Il vizio dell’atto gravato in primo grado consiste, dunque, nel fatto di essersi arrestato ad una ricognizione di dati formali, di per sé neppure decisivi, e di non avere accompagnato ad essi una valutazione discrezionale e di merito delle circostanze storiche, sia pure nei limiti e con le avvertenze che contraddistinguono gli ambiti valutativi del giudice amministrativo, del giudice penale e della prevenzione.”

 

 

 

  1. Considerazioni conclusive

Le conclusioni cui giunge il Collegio con la sentenza in commento appaiono condivisibili. D’altronde, alla luce del quadro giurisprudenziale formatosi in subiecta materia, una soluzione contraria avrebbe creato una spaccatura evidente con gli approdi cui è giunta la Corte costituzionale nella sentenza n. 57/2020, esaminata nei paragrafi precedenti. La pronuncia annotata conferma l’assunto in base al quale il tentativo di infiltrazione mafiosa può essere desunto esclusivamente da un quadro indiziario composto da elementi che militino in modo inequivoco in quel senso.

Benchè, come in più occasioni ribadito in giurisprudenza, il canone di inferenza logica da utilizzarsi per far discendere la permeabilità mafiosa dal quadro probatorio sia quello del “più probabile che non”, emerge chiara l’esigenza che l’interdittiva segua ad una valutazione completa ed esaustiva dei fatti, sì da impedire indebite e ingiustificabili lesioni delle libertà dei singoli. Le limitazioni alla libertà di iniziativa economica privata, menzionata espressamente dalla Carta fondamentale nel suo art. 41, legate all’interdittiva potrebbero, peraltro, difficilmente giustificarsi laddove la relativa adozione fosse frutto dell’applicazione di rigidi automatismi, spesso incapaci di disvelare la reale sostanza delle cose[25]

La sentenza in commento, inoltre, conferma gli approdi in punto di estensione del sindacato del giudice in materia di interdittive. Fondando l’accoglimento dell’appello sulla deficitaria disamina dei fatti contestati da parte della Prefettura prima e del T.A.R. poi, il Collegio implicitamente sottolinea l’esigenza che il giudice amministrativo eserciti un sindacato “intrinseco” sui contenuti dei provvedimenti interdittivi, spingendosi alla valutazione dei fatti indiziari, senza appiattirsi alle scelte dell’autorità prefettizia.

In conclusione può dirsi che la sentenza commentata è ossimoricamente innovativa e conservatrice. Essa innova perché supera un contrasto giurisprudenziale che, ove non adeguatamente risolto, avrebbe potuto condurre all’adozione di interdittive ingiuste e scorrette; essa conserva, perché conferma i più importanti approdi giurisprudenziali in materia di interdittive, scongiurandone l’uso improprio.

 

 

[1] Sul punto cfr. R. CHIEPPA- R.GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2023, VII Edizione, p. 957.

[2] In argomento vedasi M. NOCCELLI, I più recenti orientamenti della giurisprudenza sulla legislazione antimafia, in www.giustiziaamministrativa.it, 2018, 1; Contra A. LONGO, La “massima anticipazione di tutela”. Interdittiva antimafia e sofferenze costituzionali, in www.federalismi.it, n. 19/2019, p. 22 e ss., il quale, partendo dal dato della particolare afflittività delle conseguenze connesse all’adozione delle informative antimafia, ritiene che l’istituto soddisfi i requisiti delineati dalla Corte Edu nella sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi per essere collocato nella matière pénale.  

[3] Cons. St., Sez. III, sent. n. 6105/2019.

[4] L’art. 84 del codice antimafia stabilisce che il tentativo di infiltrazione mafiosa può desumersi “a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli articoli 353353 bis603 bis629640 bis644648 bis648 ter del codice penale, dei delitti di cui all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all'articolo 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nonché dei delitti di cui agli articoli 2, 3 e 8 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74(1); b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione; c) salvo che ricorra l'esimente di cui all'articolo 4 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall'omessa denuncia all'autorità giudiziaria dei reati di cui agli articoli 317 e 629 del codice penale, aggravati ai sensi dell'articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, da parte dei soggetti indicati nella lettera b) dell'articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l'applicazione di una misura di prevenzione o di una causa ostativa ivi previste; d) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell'interno ai sensi del decreto-legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726, ovvero di quelli di cui all'articolo 93 del presente decreto; e) dagli accertamenti da effettuarsi in altra provincia a cura dei prefetti competenti su richiesta del prefetto procedente ai sensi della lettera d); f) dalle sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari dei provvedimenti di cui alle lettere a) e b), con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti coinvolti nonché le qualità professionali dei subentranti, denotino l'intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia.

[5] A mente dell’art. 91, comma 6, del codice antimafia il tentativo di infiltrazione mafiosa può altresì desumersi da “da provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all'attività delle organizzazioni criminali unitamente

a concreti elementi da cui risulti che l'attività d'impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata, nonché dall'accertamento delle violazioni degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari di cui all'articolo 3 della legge 13 agosto 2010, n. 136, commesse con la condizione della reiterazione prevista dall'articolo 8-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689. In tali casi, entro il termine di cui all'articolo 92, rilascia l'informazione antimafia interdittiva.

[6] Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743 ha escluso il carattere tassativo di detta elencazione, chiarendo come tali situazioni sintomatiche assumano «forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento».

[7] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, in Giur. it., 2017, 3, 580-581. Alla pronuncia della Grande Camera sono seguite le sentenze n. 24/2019 e n. 27/2019 della Corte costituzionale. Con la sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera c), del d. lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a), e ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 dello stesso d. lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a). Con la sentenza n. 25 del 27 febbraio 2019 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi» e ha dichiarato in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, dello stesso d. lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni appena ricordate di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi».

[8] Ci si riferisce in particolare a M. NOCCELLI, Le informazioni antimafia tra tassatività sostanziale e tassatività processuale, in www.giustiziaamministrativa.it, p. 18.

[9] Sul punto cfr. G. AMARELLI, Interdittive antimafia e “valori fondanti della democrazia”: il pericoloso equivoco da evitare, in www.giustiziainsieme.it

[10] In argomento A. LONGO, La “massima anticipazione di tutela”. Interdittiva antimafia e sofferenze costituzionali, cit., p. 28.

[11] Ex multis si vedano Cons. St., Sez III 3641/2020; Cons. St. Sez. III, 3182/2021.

[12] Cons. St. Sez. III, n. 1743/2016 ha chiarito che “L’autorità prefettizia deve valutare perciò il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi: a) i provvedimenti ‘sfavorevoli’ del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011; d) i rapporti di parentela; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità”.

[13] M. NOCCELLI, Le informazioni antimafia tra tassatività sostanziale e tassatività processuale, op. cit., p. 22.

[14] Corte cost., 26 marzo 2020, n. 57, in Guida al dir., 2020, 29, p. 96 e ss., con nota di A. CISTERNA, Una misura giustificata dalle dimensioni del fenomeno.

[15] Esprime un giudizio negativo sulla decisione A. LONGO, La Corte costituzionale e le informative antimafia. Minime riflessioni a partire dalla sentenza n. 57 del 2020, in www.nomos-leattualitaneldiritto.it, che afferma “non può, dunque, stupire il profondo disaccordo con la decisione di rigetto che qui si commenta; inoltre, al di là degli esiti, ci si sarebbe potuto aspettare (quantomeno auspicare) che la Corte avesse affrontato con argomenti ben più solidi (quantomeno più approfonditi) un problema tanto spinoso, invece di appiattirsi, è il caso di dirlo, pedissequamente, sugli arresti della giurisprudenza amministrativa”.

L’autore, in primo luogo non condivide la qualificazione giuridica che la Corte assegna alle interdittive. Questi ritiene che, diversamente da quanto prospettato dalla Consulta, debba riconoscersi il carattere afflittivo/sanzionatorio delle stesse, che ne imporrebbe, peraltro, l’assoggettamento alle guarentigie previste dalla Carta EDU per la materia penale. L’autore critica, inoltre, il giudizio positivo che la Corte esprime in ordine alla conformità al principio di legalità dell’istituto e lo fa, da un lato, negando che il sindacato esercitato dal giudice amministrativo sulle interdittive presenti reale carattere “intrinseco”, dall’altro, smentendo l’effettiva capacità della c.d. tipizzazione pretoria di contenere la discrezionalità della P.A.

[16] Sostanzialmente in questi termini Cons. St., Sez. III, 18 settembre 2023, n. 8395, secondo cui “l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa. Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio ai principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito”

[17] Sul tema, R. Garofoli e G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, Neldiritto editore, XVII edizione, 2023, Molfetta, p. 1302.

[18] S. RUSCICA, Manuale della legislazione prefettizia, JustowinEdizionigiuridiche, 2023, Roma, 2023, p. 523.

[19] Consiglio di Stato, sez. I, parere n. 2241 del 21-9-2018

[20] Il comma 53 dell’art. 1, l. 190/2012 definisce come maggiormente esposte al rischio di infiltrazione mafiosa le attività di “c) estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti; d) confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume; e) noli a freddo di macchinari; f) fornitura di ferro lavorato; g) noli a caldo; h) autotrasporti per conto di terzi; i) guardiania dei cantieri. i-bis) servizi funerari e cimiteriali; i-ter) ristorazione, gestione delle mense e catering; i-quater) servizi ambientali, comprese le attività di raccolta, di trasporto nazionale e transfrontaliero, anche per conto di terzi, di trattamento e di smaltimento dei rifiuti, nonché le attività di risanamento e di bonifica e gli altri servizi connessi alla gestione dei rifiuti.”

[21] La lettera f) dell’art. 1 del D.P.C.M. 18 aprile 2013 definisce la Prefettura competente “a Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo della provincia dove l'impresa ha posto la propria residenza o sede legale o, se l'impresa è costituita all'estero, la Prefettura della provincia dove l'impresa ha una sede stabile ai sensi dell'art. 2508 del codice civile, ovvero, se l'impresa è costituita all'estero e non ha una sede stabile nel territorio dello Stato, la Prefettura nel cui elenco ha richiesto l'iscrizione.”

[22] L’iscrizione è rilasciata ove emerga: a) l'assenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'art. 67 del Codice antimafia; b) l'assenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa, di cui all'art. 84, comma 3, del Codice antimafia.

[23] Cfr. ex multis Consiglio di Stato. Sez. III, 24-1-2018, n. 492; Cons. St., Sez. I, 01-02-2019; Cons. St., Sez. I, 21-09-2018.

[24] A tale filone interpretativo va ascritta la sentenza del Cons. St., Sez. III n. 6707/2018 di cui si riporta il seguente passaggio “Deve, invero, rilevarsi che, a mente dell’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011, le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva, di cui al comma 3, sono desunte, fra l’altro, «dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli articoli 353, 353-bis, 629, 640-bis, 644, 648-bis, 648-ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 1992, n. 356».

Rispetto ai suddetti titoli di reato, contenuti nell’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011, il legislatore ha, dunque, inteso operare una selezione a monte delle condotte che riflettono in sé il pericolo di infiltrazione mafiosa, in quanto si tratta di fattispecie che destano maggiore allarme sociale, intorno alle quali con maggiore regolarità statistica gravita il mondo della criminalità organizzata di stampo mafioso. Trattasi di un catalogo di reati che, nella valutazione ex ante fattane dal legislatore, integrano una 'spia' di per sé sola sufficiente ad imporre, nella logica anticipata e preventiva che permea la materia delle informative antimafia, l'effetto interdittivo nei rapporti con la pubblica amministrazione. Pertanto, ove il Prefetto abbia contezza della commissione di taluni dei delitti menzionati nell'art. 84, comma 4, lett a), e sino quando non intervenga una sentenza assolutoria, deve limitarsi ad 'attestare' la sussistenza del rischio infiltrativo siccome desunto dalla mera ricognizione della vicenda penale nei termini e nei limiti in cui è contemplata dalla disposizione più volte richiamata.”

 

[25] In tal senso Cons. St., Sez. III n. 6105/2019 del Consiglio di Stato, in cui si afferma che “l’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia […]prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.”