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Anno XVI - n. 05 - Maggio 2024

  Giurisprudenza Amministrativa



Illegittimità costituzionale dell’art. 7 della Legge della Regione Veneto N. 19/2021.

Di Alessandro Sorpresa
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NOTA A SENTENZA CORTE COSTITUZIONALE N. 217/2022, PRESIDENTE S. SCIARRA - REDATTORE E. NAVARETTA

 

Illegittimità costituzionale dell’art. 7 della Legge della Regione Veneto N. 19/2021 

 

Di Alessandro Sorpresa

 

 

Abstract

Il presente scritto mira ad approfondire l’analisi svolta dalla Corte Costituzionale con riguardo alla compatibilità a Costituzione dell’art. 7 della Legge della Regione Veneto n. 19/2021 e la complessa questione attinente gli effetti e le conseguenze pratiche della recente pronuncia.

 

This paper aims to delve into the analysis carried out by the Constitutional Court with regard to the compatibility with the Constitution of Article 7 of Veneto Region Law No. 19/2021 and the complex issue pertaining to the effects and practical consequences of the recent pronouncement.

 

 

- Premessa: l’intervento della Regione Veneto

Con l’art. 7 della Legge della Regione Veneto 30 giugno 2021, n. 19, c.d. Legge “Veneto cantiere veloce”, è stato introdotto l’art. 93 bis nella Legge della Regione Veneto 27 giugno 1985, n. 61.

In particolare, l’art. 7 prevede che per gli immobili dotati di certificato di agibilità o abitabilità, in cui sono state realizzate variazioni non essenziali prima del 30 gennaio 1977, appartenenti a soggetti che non sono autori di tali variazioni, lo stato legittimo dell’immobile coincida con l’assetto dell’immobile cui il certificato di agibilità o abitabilità si riferisce. Gli interventi successivi devono, invece, essere attestati da validi titoli abilitativi.

L’Ente territoriale ha giustificato un simile quadro normativo facendo leva sulle prassi sviluppatesi prima dell’entrata in vigore della Legge n. 10/1977, in forza delle quali le variazioni non essenziali sarebbero state consentite non essendo espressamente disciplinate.

Inoltre, lo stesso art. 7 prevede anche che lo stato legittimo di immobili realizzati in zone esterne ai centri abitati ed alle zone di espansione, previste da eventuali piani regolatori in epoca anteriore al primo settembre 1967, sia attestato dall’assetto dell’edificio realizzato entro il primo settembre 1967 ed adeguatamente documentato. Non assumono efficacia i titoli abilitativi rilasciati in epoca precedente, neanche se attuativi di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale. 

 

- La risposta del Presidente del Consiglio dei Ministri

Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale della richiamata disposizione normativa, sulla base di due distinti gruppi di censure.

Anzitutto, una prima questione viene promossa in riferimento all’art. 117, c. 3 Cost., con riguardo alla materia “governo del territorio”.

Nello specifico, l’art. 93 bis della L.R.V. n. 61/1985 contemplerebbe una definizione di stato legittimo degli immobili radicalmente difforme rispetto a quella prevista dall’art. 9 bis, c. 1 bis, TU Edilizia, considerato espressivo di un principio fondamentale della materia “governo del territorio”. Una difformità che sarebbe integrata dalla sostituzione, ai fini della documentazione dello stato legittimo dell’immobile, dei titoli indicati dalla disposizione statale con il certificato di abitabilità o agibilità.

Inoltre, con riguardo al secondo comma della medesima disposizione, un profilo di illegittimità costituzionale sembrerebbe emergere dall’asserita inefficacia, per gli immobili ivi descritti, di eventuali titoli abilitativi rilasciati prima del primo settembre 1967 in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati.

A ciò si aggiungeva un secondo gruppo di censure, che prendeva in riferimento l’art. 93 bis nella sua interezza e con il quale si osservava che “dallo stato legittimo dell’edificio, dipende, anche ai fini del rilascio di nuovi titoli edilizi, la qualificazione dell’immobile preesistente in termini di regolarità o abusività”; pertanto “nell’introdurre parametri diversi da quelli previsti dalla legge statale per stabilire se un edificio è regolare o abusivo, la disposizione regionale impugnata [introdurrebbe] elementi di difformità della normativa urbanistica ed edilizia nel contesto considerato, rispetto alla disciplina vigente nelle altre parti del territorio nazionale”. Da qui la violazione, oltre che dell’art. 117, c. 3, anche degli artt. 3, 117, c. 1 e 7 Cost.

 

- La previsione statale quale principio fondamentale della materia

Dopo aver accolto l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura Regionale relativa agli artt. 3 e 117, c. 1 e 7 Cost., invocati con il secondo macrogruppo di censure, la Consulta ha, invece, ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 della L.R.V. n. 19/2021 prospettata in riferimento all’art. 117, c. 3 Cost.

L’aspetto interessante risulta dalla stessa qualificazione dell’art. 9 bis, c. 1 bis, TU Edilizia in termini di principio fondamentale della materia.

A giudizio della Consulta, la previsione statale individuerebbe, infatti, in termini generali, la documentazione idonea ad attestare lo “stato legittimo dell’immobile”, definendo i tratti di un paradigma le cui funzioni sono quelle di “semplificare l’azione amministrativa nel settore edilizio, di agevolare i controlli pubblici sulla regolarità dell’attività edilizio-urbanistica e di assicurare la certezza nella circolazione dei diritti su beni immobili.

Da simili previsioni, aderendo alla tesi prospettata da parte ricorrente, la Corte Costituzionale ha evidenziato la necessità di una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale circa i criteri di determinazione dello stato legittimo dell’immobile.

Su analogo versante, non sono mancate, però, osservazioni critiche, attinenti alla effettiva possibilità di qualificare un simile articolo in termini di norma espressione di un principio fondamentale. Secondo questa seconda corrente di pensiero, si tratterebbe piuttosto di una disposizione meramente indirizzata all’individuazione dei presupposti necessari per la sussistenza dello stato legittimo dell’immobile.

In questo senso, si potrebbe dunque ritenere che l’art. 9 bis vada intesa come disposizione normativa di dettaglio e, sulla base dell’art. 117 Cost., la Regione Veneto avrebbe quindi ben potuto esercitare le competenze concorrenti ad essa spettanti.

Tuttavia, la Corte ha deciso diversamente, per cui, come sarà fatto nell’ultimo paragrafo, al più un ragionamento potrebbe svolgersi in relazione agli effetti di questa pronuncia.

 

- La soluzione della Consulta

Analizzando le motivazioni poste alla base della dichiarazione di illegittimità, sotto un primo profilo, la Corte Costituzionale chiarisce quanto già noto agli studiosi della materia ed alla stessa giurisprudenza amministrativa, ossia la differenza sussistente tra il titolo abilitativo edilizio ed il certificato di abitabilità o di agibilità.

La conformità edilizio-urbanistica costituisce presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, ma una simile considerazione non può “essere strumentalmente piegata a ragionamenti del tutto speculativi e sillogistici al fine di affermare che il rilascio dei certificati di agibilità [implichi] un giudizio (presupposto ed implicito) circa la natura non abusiva delle opere” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sent. n. 1996/2017).

I due documenti sono infatti collegati a presupposti diversi e danno vita a conseguenze disciplinari non sovrapponibili. Da un lato, il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce sia stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (art. 24 TU Edilizia), dall’altro, invece, il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio.

Ne consegue che, come in più occasioni sostenuto dai Giudici di Palazzo Spada, i diversi piani ben possano convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica di una loro divergenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 4309/2014).

Il secondo tema affrontato dalla disposizione della Regione Veneto (art. 93 bis, comma 2) è rappresentato da quel tentativo di ripresentare la teoria facente leva sul dato temporale (ante 1967) quale sorta di condizione legittimante a priori, superando ogni rilevanza di eventuali obblighi di titolo abilitativo previsti in strumenti urbanistici locali per aree diverse da quelle urbane.

L’art. 9 bis del D.P.R. n. 380/01 si limita ad un riferimento agli “immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio”.

È proprio in questa indeterminatezza legislativa che la Regione ha tentato di inserirsi aderendo a quella tesi secondo cui per gli interventi edilizi compiuti prima del 1967 sarebbe da escludere radicalmente la stessa possibilità di contestare l’assenza di titolo edilizio per opere realizzate al di fuori del centro abitato, pur nel caso in cui quest’ultimo fosse prescritto dalla disciplina urbanistica comunale vigente al tempo dell’intervento.

La Consulta, però, non condividendo un simile orientamento, risolve la questione nel senso che “pure al di fuori dei centri abitati e delle zone di espansione, nonché prima della legge n. 1150/1942, la necessità di un titolo abilitativo edilizio veniva, a ben vedere, disposta anche da altre fonti”.

Già prima della data indicata nel comma 2 della disposizione regionale impugnata vi erano infatti dei Comuni nei quali era obbligatorio munirsi di un titolo abilitativo edilizio, sia sulla base di fonti primarie riferite a territori sismici che sulla base di fonti non primarie che, però, attingevano la loro legittimazione dalla fonte primaria attributiva del potere regolamentare.

Dal momento che l’art. 9 bis, c. 1 bis, TU Edilizia si riferisce all’obbligatorietà del titolo, abbracciando quindi certamente anche le fonti sopra citate, si verrebbe inevitabilmente, secondo la Corte Costituzionale, a creare un disallineamento dell’art. 93 bis, c. 2 della legge regionale impugnata, che, al contrario, ascrive tali casi, in cui era obbligatorio il titolo, alla modalità semplificata di attestazione dello stato legittimo.

Inoltre, lo stesso art. 93 bis, c. 2, ai fini dello stato legittimo, non si limita a riconoscere la possibilità di avvalersi di altri documenti in mancanza del titolo edilizio, ma dispone anche l’inefficacia di titoli abilitativi rilasciati in adempimento di obblighi previsti da fonti primarie speciali o da fonti non primarie. Tuttavia, altro è consentire, come previsto dall’art. 9 bis, c. 1 bis, secondo periodo, l’attestazione semplificata dello stato legittimo per gli immobili realizzati in epoche in cui il titolo non era obbligatorio, altro è invece negare l’efficacia di titoli abilitativi legittimamente rilasciati.

Ne deriva che anche il secondo comma dell’art. 93 bis “compromette le funzioni che la norma statale interposta attribuisce all’attestazione dello stato legittimo”, finendo persino con l’incidere su titoli abilitativi edilizi pienamente validi ed efficaci.

 

- Conclusione

Sulla base delle ragioni esposte nei paragrafi precedenti, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della Legge della Regione Veneto n. 19/2021.

Questo, però, non esclude il permanere di alcuni interrogativi, direttamente riconnessi all’analisi degli effetti della pronuncia oggetto di esame in questa sede.

Fin da subito, merita ricordare che, come è noto, la norma oggetto di scrutinio costituzionale cessa di avere “efficacia”, ai sensi dell’art. 136 Cost., dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Si tratta dunque di un’inefficacia pro futuro.

Un articolo da leggere in combinato disposto con l’art. 30 della Legge 87/1953, secondo cui le norme dichiarate incostituzionali non possono più avere “applicazione” dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

Ciò significa che la disposizione regionale in questione non può trovare applicazione, oltre che per le fattispecie nuove, anche per tutti quei casi che si possono definire aperti o pendenti, intendendo per tali quelli per i quali non sono ancora maturati i termini di prescrizione e/o decadenza, quelli per i quali non possa dirsi maturata acquiescenza nonché le ipotesi in relazione alle quali non è stata ancora pronunciata una sentenza passata in giudicato.

Ne consegue che la sentenza della Corte Costituzionale oggetto di studio in questa sede non potrebbe trovare applicazione per i procedimenti già conclusi.

Sennonché, lo stato legittimo dell’immobile non deriva da un provvedimento della Pubblica Amministrazione, quanto piuttosto da un’attestazione di natura privatistica. Tanto è vero che, per aggirare il problema, molto spesso tale attestazione viene inserita all’interno di un più ampio intervento di ristrutturazione edilizia, cosicché il rilascio del relativo titolo abilitativo possa comportare una sorta di “protezione” della regolarità dell’edificio medesimo. Sotto tale profilo, si potrebbe dubitare che l’eventuale rilascio del provvedimento edilizio produca un simile effetto, riguardando lo stesso un diverso intervento di ristrutturazione.

A ciò si aggiunga l’ulteriore considerazione per cui il rigetto delle procedure pendenti potrebbe costituire una forma di auto-denuncia che dovrebbe comportare l’attivazione dei relativi procedimenti sanzionatori, che il dirigente comunale si vedrebbe costretto ad adottare, onde evitare una eventuale responsabilità penale e/o erariale.

In ultima analisi, a fronte di una simile mole di risvolti problematici e delle conseguenti complicazioni a livello locale, sembra auspicabile un intervento tempestivo del Legislatore statale, capace di fare chiarezza sul punto ed al tempo stesso di portare un effettivo ordine in uno scenario ed in una società i cui operatori tecnici e professionali necessitano e meritano maggiori certezze.