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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Studi



Il servizio pubblico: nozione, ricostruzione storica, evoluzione.

Di Anna Laura Rum
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Il servizio pubblico: nozione, ricostruzione storica, evoluzione

 

Di Anna Laura Rum

 

 

Abstract

Con il presente contributo si propone una ricostruzione dell’istituto del servizio pubblico, il cui inquadramento è stato a lungo dibattuto, così come il dato nozionistico. A tutt’oggi, ci troviamo ancora di fronte a incertezze sull’esatta configurazione.

In particolare, saranno analizzate le due principali impostazioni ricostruttive avanzate dagli studiosi: soggettiva e oggettiva.

Tuttavia, un dato certo riguarda l’evoluzione che il concetto di servizio pubblico ha avuto nel corso della storia, correlata non soltanto all’evoluzione normativa, ma anche e soprattutto all’evoluzione giurisprudenziale.

 

The paper concerns a reconstruction of the public service institution, whose notion and features have been debated from the genesis, to nowadays.

Two perspectives are shown, particularly. The first one, subjective; the second one, objective.

However, it is clear that the notion of public service has been developing over time, in line with the legal and jurisprudential evolution of it.

 

Sommario: 1. Introduzione 2. La nozione di servizio pubblico 2.1 Teoria soggettiva 2.2 Teoria oggettiva 2.3 Teoria intermedia 2.4 La tendenza giurisprudenziale 3. La ricostruzione normativa 4. La nozione di servizio pubblico locale 5. La rilevanza economica del servizio pubblico locale. Il decreto legislativo di riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (d.lgs. 201 del 2022) 6. Il servizio pubblico nel panorama eurounitario

 

  1. Introduzione

Il servizio pubblico, da sempre, è tema di scontro fra interpreti, entrando in gioco, con esso, interessi di varia natura, eterogenei e contrapposti.

In particolare, ad esigenze di governo pubblico del mercato e di sviluppo dell’iniziativa privata, si intersecano istanze sociali e di gestione economica.

La nozione stessa di servizio pubblico è da sempre di incerta configurazione: l’art. 358 del Codice penale, rubricato “Nozione della persona incaricata di un pubblico servizio”, così dispone:

Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.

Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.

Il Codice penale, quindi, all’art. 358, ha dato per assunto che, almeno nel diritto amministrativo, fosse chiaro il significato da attribuire alla locuzione “servizio pubblico”.

Tuttavia, così non è.

Ad oggi, infatti, non possiamo ancora dire di aver trovato una nozione chiara e definita di servizio pubblico.

Quelle che vengono proposte nel prosieguo sono soltanto ricostruzioni che tendono a proporne talune, pur tuttavia senza poter vantare un carattere di definitività.

Del resto, può agevolmente notarsi come la nozione di servizio pubblico sia cambiata nel tempo e cambi, necessariamente, nel tempo, specialmente in relazione alla mutevole concezione che ne ha il Consiglio di Stato.

Il supremo organo di giustizia amministrativa, invero, se teoricamente resta giudice della legittimità, tuttavia, in concreto, sta evolvendosi in giudice dei diritti fondamentali dell’individuo, che ha come priorità assoluta quella di tutelare le situazioni giuridiche soggettive, preoccupandosi, soltanto successivamente, di individuare la norma giuridica all’interno della quale inquadrarle.

In sostanza, gli avvenimenti degli ultimi vent’anni, dapprima la crisi economica degli anni 2000, poi la pandemia e le guerre in Ucraina ed Israele, stanno riplasmando lo Stato, rendendolo sempre più Stato-sociale e sempre meno Stato-regolatore.

Questo lento ma inesorabile cambiamento lo si coglie, ad esempio, con riferimento alla materia dei contratti pubblici: se inizialmente il faro guida del giudizio di legittimità era il principio di libera concorrenza, adesso esso è uno fra i tanti, quali, ad esempio, le istanze sociali (prima fra tutte il rispetto del lavoro) e la sostenibilità ambientale.

Questa evoluzione dello Stato, in Stato-sociale, di fatto, sta avvenendo per il tramite di uno strumento: il servizio pubblico.

In tale contesto, ben si comprende come la definizione stessa di servizio pubblico appaia variabile: essa, infatti, è strettamente connessa alle vicende di carattere storico e istituzionale, oltre che giuridico ed è legata alle modalità di intervento pubblico nell’economia ed alle trasformazioni dello Stato e dell’Amministrazione, nei rapporti con la società civile.

 

  1. La nozione di servizio pubblico

La nozione di servizio pubblico, come anticipato, è da sempre sfuggente: dottrina e giurisprudenza, sin dall’origine dell’istituto, si sono interrogate in ordine all’esatta configurazione, specialmente al fine di distinguere l’esperimento del servizio pubblico, da attività di carattere prettamente funzionale-pubblicistico.

Tradizionalmente, infatti, con il concetto di servizio pubblico ci si riferisce ad attività economiche volte al soddisfacimento di interessi primari della collettività tutta, mentre per attività funzionale pubblicistica si intende l’attività che implica l’esercizio di poteri funzionali pubblicistici, con i quali l’Amministrazione titolare individua l’assetto di interessi più idoneo al soddisfacimento degli specifici interessi pubblici, alla cui cura è stata preposta dalla legge.

In sostanza, si ascrive alla nozione di servizio pubblico qualsiasi prestazione avente ad oggetto attività o beni accessibili a chiunque ne faccia richiesta, a parità di condizioni, nel senso di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost., dietro corrispettivo, anche imposto, a titolo contributivo, deputate ad assolvere ai fini sociali o a promuovere lo sviluppo economico e civile della società.

Con maggiore sforzo esplicativo, può dirsi che, con il concetto di servizio pubblico, si fa riferimento ad attività di attribuzione di beni della vita suscettibili di valutazione patrimoniale che, sebbene dirette a soddisfare esigenze essenziali per la collettività, si estrinsecano secondo modalità non autoritative. Si pensi, ad esempio, alla distribuzione del gas e dell’energia elettrica, al servizio sanitario, al servizio idrico, ai trasporti pubblici, alla gestione dei rifiuti, ai servizi telefonici e all’informazione radiotelevisiva.

Quindi, si può affermare che gli elementi essenziali del servizio pubblico sono la strumentalità al soddisfacimento di esigenze essenziali della collettività e la non autoritatività nella fase di erogazione della prestazione. Il primo elemento permette di distinguere i servizi pubblici da altre attività di natura economica, mentre il secondo li distingue dalle funzioni pubbliche.

E, infatti, sotto il profilo teleologico, servizio pubblico e funzione pubblica possono essere accomunate nel quadro finalistico unitario dell’attività amministrativa; invece, dal punto di vista strutturale, la funzione pubblica è un’attività che si estrinseca nell’esercizio del potere amministrativo, mentre la nozione di servizio pubblico prescinde da tale connotato.

Tale distinzione poggia, sostanzialmente, sul fatto che il pubblico servizio sarebbe un’attività non autoritativa, di natura tecnica e non giuridica, e come tale qualificata in via residuale rispetto alla funzione pubblica (ferma restando la coincidente destinazione di entrambi al soddisfacimento dei bisogni della collettività).

Possono ritenersi escluse dalla nozione di servizio pubblico le attività consistenti esclusivamente nell’esercizio di poteri e funzioni pubbliche, comprese le attribuzioni non riconducibili ai poteri autoritativi in senso stretto, come, per esempio, le iscrizioni in albi e i compiti inerenti all’anagrafe.

Sul piano del diritto positivo, si rinvengono plurime leggi dello Stato che fanno esplicito riferimento al concetto di servizio pubblico, come la legge n. 142 del 1990, in tema di servizi pubblici locali, oggi trasfusa nel Testo Unico delle leggi comunali e provinciali, d.lgs. n. 267/2000, la legge n.146 del 1990, sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, l’art. 358 del Codice penale, il decreto legislativo n. 80 del 1998, riformulato con la legge n. 205 del 2000.

Tuttavia, della nozione di servizio pubblico, non si riviene una definizione, neanche parziale, né all’interno della Costituzione, né nel corpo delle leggi citate.

Soltanto con la novella del Codice penale Rocco, avvenuta nel 1990, si è avuta una definizione del legislatore, al già visto art. 358.

A fronte di questa lacuna definitoria, la nozione di servizio pubblico è stata concepita grazie all’opera interpretativa di dottrina e giurisprudenza, che hanno elaborato linee teoriche differenziate in relazione al quadro normativo e istituzionale di riferimento.

Premesso ciò, occorre individuare quale sia il fondamento del servizio pubblico, sì da stabilire se la sua istituzione e organizzazione sia riservata esclusivamente all’iniziativa della pubblica amministrazione, oppure sia aperta anche all’iniziativa privata.

Tale distinzione è agevole quando la legge ne individua direttamente la materia come oggetto di servizio pubblico e ne attribuisce l’istituzione e l’organizzazione allo Stato o ad altro ente pubblico; la legge, talvolta, può istituire il servizio e, successivamente, demandare all’amministrazione il compito di sceglierne il modello di gestione, se diretto o indiretto, oppure a definire condizioni e presupposti per individuare il servizio come pubblico, tipizzandone anche i modelli di gestione e riservando all’amministrazione il potere di verificarne la ricorrenza e di optare per quello più idoneo alla sua gestione.

Tuttavia, quando manca un’impostazione normativamente definita, risulta problematico stabilire se l’erogazione del servizio pubblico possa essere affidata anche al privato.

In questo senso, appare decisivo l’inquadramento del servizio pubblico nella cornice soggettiva od oggettiva proposte dalle due ricostruzioni interpretative di seguito analizzate.

 

2.1 Teoria soggettiva

Come già considerato, in mancanza di una definizione normativa di servizio pubblico, la nozione è stata frutto dell’opera interpretativa di dottrina e giurisprudenza.

Già agli inizi del 1900, si iniziò ad avvertire il problema di individuare una nozione di servizio pubblico, in concomitanza coi processi di nazionalizzazione e municipalizzazione di attività, che fino a quel momento erano state svolte dai soggetti privati in forma di impresa.

In particolare, il fenomeno della municipalizzazione, teso a soddisfare, attraverso i pubblici servizi, i bisogni collettivi, si affermò come manifestazione dell’autonomia comunale che gestiva i servizi pubblici di maggior rilievo economico sociale, attraverso attività di natura economica, ma sottratte all’economia di mercato.

Fu la Legge Giolitti, n 103 del 1903, integrata dal regio decreto n. 108 del 1904, ad istituire le aziende municipalizzate: essa fu seguita dal T.U. n. 2578 del 1925, contenente un vero e proprio elenco dei servizi pubblici, suddivisi in 19 categorie, ritenute, tuttavia, da dottrina e giurisprudenza, non tassative ed esaustive, ma anzi meramente esemplificative.

Il regolamento di esecuzione del Testo Unico suddetto arrivò soltanto con il d.P.R. n. 902 del 1986.

Dunque, il Testo Unico del 1925 considerava il servizio pubblico come attività esercitata direttamente dal soggetto pubblico, in virtù di uno specifico atto di assunzione, secondo modalità indicate dalla legge.

Il servizio, in particolare, veniva gestito nelle forme dirette dell’azienda speciale e della gestione in economia, oppure attraverso la forma della concessione.

Inoltre, per alcuni specifici servizi, come i trasporti urbani, i trasporti funebri, o i mattatoi, veniva, poi, riconosciuto uno specifico diritto di privativa, intesa come la specifica possibilità per il Comune di escludere le imprese private dalla gestione di tali servizi, nel senso che la gestione dei servizi da parte dei privati sarebbe potuta avvenire soltanto previa concessione dell’Amministrazione interessata.

In tale prima fase caratterizzata dall’assunzione da parte degli enti locali della gestione di determinate attività, cui si è affiancata l’esperienza dei servizi pubblici di carattere nazionale assunti dallo Stato, la nozione di servizio pubblico si affidava ad un’impostazione soggettiva.

Secondo l’impostazione soggettivo-formale, in sostanza, la nozione di servizio pubblico doveva legarsi inevitabilmente ai concetti di assunzione e gestione, da parte di un pubblico potere, di una determinata attività produttiva, ovvero, il servizio pubblico era considerato un’attività priva di connotati suoi propri e, per essere qualificata come tale, in assenza di previsioni normative che lo specificassero, occorreva un atto di assunzione legale, o provvedimentale, da parte dell’ente pubblico territoriale.

Dunque, occorreva che l’ente considerasse tali attività come preminenti per il soddisfacimento degli interessi della collettività di riferimento e decidesse discrezionalmente di assumerle come di propria competenza: lo stesso ente pubblico era il soggetto che assumeva su di sé l’incarico di organizzare, gestire ed erogare i servizi alla collettività.

Storicamente, la nozione di servizio pubblico divenne un problema di carattere giuridico con l’inizio dello scorso secolo, in corrispondenza dei processi di nazionalizzazione e municipalizzazione di attività, che fino a quel momento erano state svolte dai soggetti privati in forma di impresa.

Il fenomeno della municipalizzazione, intesa come esigenza ed espressione dello Stato moderno di intervenire nella sfera dell’impresa privata, stante la necessità di soddisfare attraverso i pubblici servizi i bisogni collettivi, affonda le sue radici proprio nel cd. socialismo municipale e si affermò come manifestazione dell’autonomia comunale che voleva gestiti i servizi pubblici di maggior rilievo economico sociale attraverso attività di natura economica, ma sottratte all’economia di mercato.

L’articolato dibattito ebbe il suo culmine sul finire degli anni ’60 e vide contrapposti i fautori della teoria del servizio pubblico in senso soggettivo ed i sostenitori della teoria del servizio pubblico in senso oggettivo, che verrà analizzata a breve.

In particolare, lo sviluppo della concezione soggettiva di servizio pubblico viene attribuita a De Valles: la teoria soggettiva, dopo l’emanazione della legge Giolitti, si è diffusa rapidamente soprattutto in un primo momento, quando l’interesse si era concentrato nell’affidare all’amministrazione un’attività imprenditoriale, la quale, successivamente, veniva offerta ai cittadini in modo indifferenziato.

Secondo la classica definizione di De Valles, il servizio pubblico era un’attività imputabile, direttamente o indirettamente, allo Stato, volta a fornire prestazioni ai singoli cittadini; pertanto, il concetto di prestazione rappresentava il tratto peculiare dell’istituto.

Tale ricostruzione soggettiva considerava, in definitiva, elemento qualificante del servizio pubblico la sua imputabilità ad un soggetto pubblico.

Alla luce di questa ricostruzione dottrinale, il servizio doveva definirsi pubblico, in quanto le relative attività, non aventi carattere autoritativo, erano esercitate da un soggetto pubblico, o comunque per conto di esso, allo scopo di garantire alla collettività il soddisfacimento di utilità essenziali.

Rispetto a tale impostazione soggettiva, furono avanzate critiche, con riferimento, da una parte, alle attività d’impresa che l’amministrazione poneva in essere nei settori più vari, seppur senza alcuna connessione con le finalità proprie dei pubblici servizi, e, dall’altra, alle attività con caratteri materiali perfettamente simili ai servizi pubblici, ma gestite dai privati e non da un’Amministrazione.

Quindi, a contraddire la nozione soggettiva c’erano determinate attività, aventi caratteristiche materiali perfettamente simili ai servizi pubblici imputabili alla Pubblica Amministrazione, ma poste in essere da privati e sottoposte ad una disciplina pubblicistica non basata su di un provvedimento dell’Amministrazione pubblica.

Per questi casi, si parlava di servizi pubblici impropri.

Inoltre, la concezione soggettiva si è trovata a scontrarsi con il quadro ordinamentale e della sua tendenza ad una progressiva dismissione delle forme di intervento pubblico nell’economia.

Ancora, l’art. 43 Cost., contemplando la possibilità per lo Stato di riservare o trasferire, mediante esproprio e salvo indennizzo, a sé, determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali, sembra affermare la possibilità della gestione privata di tali servizi.

Sulla scia di queste critiche, è emersa sempre più l’esigenza di una definizione oggettiva di servizio pubblico, che comprendesse le attività economiche in senso lato, caratterizzate dalla soggezione ad un particolare regime per la rilevanza sociale degli interessi perseguiti, prescindendo dall’imputazione soggettiva ai pubblici poteri.

All’originaria impostazione soggettiva, si è venuta, quindi, a contrapporre una ricostruzione oggettiva della nozione di pubblico servizio, con l’intento di qualificare un’attività in base alla sua rispondenza alla pubblica utilità ed al pubblico interesse, a prescindere dal soggetto al quale è istituzionalmente collegata.

 

2.2 Teoria oggettiva

Se la teoria soggettiva intendeva il servizio pubblico come categoria essenzialmente descrittiva di una realtà contingente, secondo la tesi oggettiva, a prescindere dalla connotazione pubblicistica del soggetto gestore, il servizio è pubblico in quanto la relativa attività di prestazione è diretta a soddisfare interessi essenziali della collettività.

L’elaborazione della teoria in esame si deve a Pototschnig, il quale afferma che i caratteri del servizio si ricavano da una interpretazione congiunta degli artt. 41 e 43 della Costituzione.

L’art. 43 Cost. prevede, innanzitutto, che, ai fini di utilità generale, la legge può riservare “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o d’utenti determinate imprese o categorie d’imprese, che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti d’energie o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere d’interesse generale”.

Quindi, l’art. 43 Cost. stabilisce che, oltre allo Stato e ad altri enti pubblici, sono possibili destinatari della riserva o del trasferimento anche “comunità di lavoratori o di utenti”, ammettendo, quindi, che anche soggetti privati possono gestire attività qualificabili come “servizio pubblico”.

L’art. 43 Cost., allora, rappresenta una norma che ha posto importanti interrogativi circa l’esatta interpretazione del termine servizi pubblici essenziali, in quanto se il carattere di essenzialità non è attributo necessario del servizio pubblico, tuttavia essa è il frutto di una valutazione particolare e diversa rispetto a quella che è intesa soltanto a disciplinare un’attività come servizio pubblico, anche se può in concreto assorbirla.

La valutazione di essenzialità e di “carattere di preminente interesse generale”, prevista dall’art. 43 Cost., ha come conseguenza l’applicazione di un regime - riserva o trasferimento coattivo di imprese previo indennizzo - che non deve necessariamente applicarsi a tutti i servizi pubblici.

Proseguendo con l’art. 41 Cost., esso prevede, al terzo comma, che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni, perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”.

Affinché possa parlarsi di “servizio pubblico oggettivo” muovendo dal terzo comma dell’art. 41 Cost., occorre, allora, che la legge determini “i programmi e i controlli” necessari per garantire che l’attività economica pubblica o privata “possa essere indirizzata ed organizzata ai fini sociali”.

In questa prospettiva, dunque, si può parlare di servizio pubblico, indipendentemente dal soggetto che lo pone in essere, in quanto la qualità pubblica deriva dalla particolare disciplina pubblicistica e dallo scopo perseguito.

Ciò che rileva è, dunque, l’attività e la sua attitudine a soddisfare un interesse di carattere generale, indipendentemente dalla natura pubblica o meno del soggetto titolare della stessa.

La tesi oggettiva pura ha trovato accoglimento in un noto indirizzo giurisprudenziale sostenuto dal Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 1 del 2000, volto ad includere nella nozione di pubblico servizio ogni forma di attività “finalizzata al perseguimento dell'interesse collettivo”, con l’ulteriore conseguenza che l’ambito del servizio pubblico finirebbe col coincidere con l’intero ambito dell’attività amministrativa sorretta dai principi di cui all’art. 97 Cost., ovvero secondo altra accezione, con l’attività svolta da qualsivoglia soggetto, purché riconducibile ad un ordinamento di

settore, ovvero sottoposta “a controllo vigilanza o a mera autorizzazione da parte di un’amministrazione pubblica”. In tal senso, si era espressa anche l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, col parere n. 30, del 12 marzo 1998.

Deve, comunque, tenersi in considerazione il fatto che, nonostante il fondamento costituzionale, anche la teoria oggettiva non è stata esente da critiche.

In particolare, la principale critica a cui è stata sottoposta la teoria oggettiva è quella di aver esteso eccessivamente il concetto di servizio pubblico, includendo tutte le attività economiche che presentano programmi e controlli stabiliti dalla legge per soddisfare l’interesse generale della collettività.

Infatti, l’indeterminatezza delle fattispecie che possono essere ricomprese nella definizione finisce per ricondurre nella nozione del pubblico servizio situazioni non omogenee, così da divenire complesso distinguere il servizio pubblico, dalla semplice attività economica svolta da soggetti privati.

In definitiva, quindi, la teoria oggettivo-funzionale pone al centro le istanze di ispirazione costituzionale, correlate al principio di legalità, di cui all’art. 97 Cost., nonché i principi di derivazione comunitaria della neutralità delle forme giuridiche e di tutela della concorrenza.

Per la tesi in esame, viene in rilievo la funzionalizzazione di una determinata attività al soddisfacimento di bisogni di carattere collettivo, non invece la scelta discrezionale di assunzione del servizio da parte dell’ente pubblico territoriale, né la natura pubblicistica del soggetto che lo organizza, gestisce ed eroga alla collettività.

In ogni caso, proprio da tale impostazione, sono derivate le forme di municipalizzazione dei poteri di organizzazione e gestione del servizio pubblico, ovvero di attribuzione ad aziende autonome o municipalizzate, ovvero i cc.dd. enti pubblici economici, dei poteri di organizzazione e gestione del servizio pubblico, in quanto soggetti solo formalmente privati, ma nella sostanza pubblici.

La scelta dell’Amministrazione di esternalizzare la gestione ed erogazione dei servizi pubblici ai privati è, comunque, subordinata al rispetto degli obblighi di derivazione comunitaria e, cioè, fuori dai casi di affidamento diretto e senza gara alle società in house, è necessario procedere all’esternalizzazione mediante procedure ad evidenza pubblica.

In sostanza, l’esternalizzazione dei servizi pubblici a soggetti privati può avvenire attraverso un affidamento a società miste, attraverso procedure di gara a doppio oggetto, con le quali individuare il socio privato e contestualmente affidare i servizi pubblici, nelle forme del partenariato pubblico-privato istituzionalizzato, oppure, attraverso l’affidamento a privati concessionari cui aggiudicare uno dei contratti di concessione, con i caratteri del partenariato pubblico-privato contrattualizzato.

In particolare, il Libro IV del nuovo Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 36/2023 è rubricato “Del Partenariato Pubblico-Privato e delle Concessioni” e riguarda gli articoli dal 174 al 208: il Partenariato Pubblico-Privato (o PPP) viene individuato, nella disciplina dei contratti pubblici, come quei rapporti contrattuali che coinvolgo una pubblica amministrazione e che non sono di natura passiva, nel senso che l’Amministrazione non deve prevedere un esborso di denaro.

Il nuovo Codice chiarisce che il PPP non è un contratto, ma “un‘operazione economica” (art. 174) caratterizzata da talune condizioni, come essere un rapporto di lunga durata, avente come obiettivo un “risultato di interesse pubblico” ed essere un investimento finanziato in prevalenza (“in misura significativa”) dal privato.

Inoltre, è prevista una precisa suddivisione dei compiti: alla parte pubblica, la definizione degli obiettivi ed il controllo del loro raggiungimento, ai privati la realizzazione e la gestione del progetto. Infine, il rischio operativo grava sul privato che realizza l’opera o gestisce i servizi.

Per completezza, si ricorda che si riconoscono due diverse tipologie di PPP: contrattuali (concessione, locazione finanziaria, contratto di disponibilità) e istituzionali (società miste pubblico-privato per affidamenti in house).

Ai fini dell’esame del servizio pubblico, il riferimento è, come detto, al partenariato pubblico-privato contrattualizzato.

Con l’impostazione oggettivo-sostanziale del servizio pubblico, si comprende che l’affidamento di attività di spettanza e pertinenza pubblicistica a soggetti privati non incide sulla natura marcatamente pubblicistica del servizio, ma, sotto il profilo della gestione ed erogazione del servizio pubblico, vi è un’equiparazione fra soggetti privati e amministrazione.

Alla luce della ricostruzione interpretativa funzionale esaminata, quindi, si ricava che il servizio pubblico è attività non autoritativa di erogazione di servizi pubblici ad una collettività territoriale, mirata al soddisfacimento di interessi generali indispensabili per lo sviluppo sociale ed economico.

Tali servizi sono erogabili e dal soggetto pubblico e dal soggetto privato, rilevando unicamente il profilo funzionale del servizio, che è, come detto, il soddisfacimento di interessi preminenti pubblicistici, tanto che non rileva la veste formale del soggetto erogante.

 

2.3 Teoria intermedia

Le critiche mosse alla teoria soggettiva ed oggettiva hanno spinto una parte della dottrina a formulare una tesi intermedia, che è stata definita da alcuni “soggettiva temperata”.

Secondo la tesi intermedia, per poter qualificare un servizio come pubblico, occorre che lo stesso sia imputabile all’Amministrazione, anche ove l’attività venga svolta da un soggetto privato attraverso il modello concessorio.

Questa teoria, a differenza della teoria soggettiva c.d. “pura”, mette in risalto gli elementi caratterizzanti della nozione di servizio pubblico, secondo la concezione oggettiva, evidenziando l’importanza della disciplina di diritto positivo, l’attività oggetto del servizio e le finalità dalla stessa perseguita, senza che possa desumersi la pubblicità del servizio dalla natura pubblica del soggetto che ne è titolare.

In sostanza, la titolarità pubblica è determinata dal carattere pubblico del servizio e non dal fatto che sia erogato da un soggetto pubblico.

Analizzate le tre concezioni di servizio pubblico, è agevole osservare come le stesse siano influenzate da scelte culturali e politiche, e, in particolare, dal diverso grado di intervento della mano pubblica sul mercato, ovvero, dal grado di sviluppo socio-economico di una comunità, in un dato periodo storico.

Del resto, il servizio pubblico ha da sempre rappresentato il terreno privilegiato di scontro tra opposte concezioni dello Stato: quella cd. liberale, fondata sull’idea che ai pubblici poteri devono essere affidate le sole funzioni sovrane, lasciando alla libera iniziativa privata tutte le attività economiche; quella del cd. Stato-sociale, fondata invece sull’intervento pubblico nelle attività economiche, al fine di garantire l’eguaglianza, non solo giuridica, ma anche sostanziale, tra i cittadini.

 

2.4 La tendenza giurisprudenziale

La giurisprudenza ha teso far propria la nozione oggettiva di servizio pubblico, considerato come qualsiasi forma di attività volta alla realizzazione di fini sociali, per il cui svolgimento è dettata una disciplina derogatoria del diritto comune.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato e dei TTaarr ha più volte affrontato il problema della definizione della nozione di servizio pubblico, essendo divenuta quest’ultima un criterio di riparto della giurisdizione, a seguito del d.lgs. 80 del 1998.

Coerentemente con le definizioni della normativa comunitaria, rese anche in tema di appalto pubblico di servizio, secondo i giudici amministrativi, per individuare il servizio pubblico, è necessaria la presenza di tre elementi: il beneficiario del servizio, la sussistenza o meno di un interesse generale e la remunerazione.

Con la sentenza n. 466 del 2005, il Tar Sicilia, Catania ha affermato che il necessario perseguimento dell’interesse generale richiede che l’attività oggetto del rapporto debba essere rivolta non già direttamente all’amministrazione appaltante, ma ad un’utenza indiscriminata.

Il servizio può essere svolto anche da soggetti privati, ma ciò non può far concludere che a detta nozione possa essere attribuita un’accezione così ampia da comprendere qualsiasi attività privata soggetta a controllo, vigilanza o autorizzazione della Pubblica Amministrazione, in quanto il servizio si qualifica come pubblico, perché l’attività in cui esso consiste si indirizza istituzionalmente al pubblico, mirando a soddisfare direttamente esigenze della collettività, in coerenza con i compiti dell’Amministrazione pubblica. In questo senso si è espresso anche il Tar Lombardia, Milano, con la sentenza n. 5021 del 2009.

In conclusione, secondo la giurisprudenza citata, la funzione deve in questi casi essere rivolta necessariamente a vantaggio della collettività.

Ne deriva che la remunerazione del servizio non si pone quale corrispettivo del sinallagma contrattuale (che caratterizza, al contrario, la diversa figura dell’appalto pubblico del servizio), ma, come era ribadito dall’art. 12, comma 5, della L. 23.12.1992 n 498 (novellato dall’art. 117 del d.lgs n. 267 del 2000), richiede il ricorso alla diversa forma tariffaria.

In particolare, anche in assenza di una precisa definizione a livello normativo, nella giurisprudenza amministrativa si è consolidata la definizione di servizio pubblico soprattutto in relazione alle tariffe applicate dagli esercenti e alla fornitura a favore di un’utenza collettiva.

Più precisamente, relativamente ai servizi pubblici locali, l’art. 117 T.U.E.L. stabilisce che la tariffa ne costituisce il corrispettivo, ma non ne definisce il contenuto, determinato dalla possibilità concreta dell’ente di dividere sui singoli l’onere della gestione ed erogazione della prestazione.

Come evidenziato dal Consiglio di Stato, con sentenza n. 8090 del 2004, ne deriva che, se è pur vero che lo stesso Titolo V del T.U.E.L. disciplina anche i criteri per la determinazione e la riscossione delle tariffe, è altrettanto vero che non si possono escludere dall’ambito dei servizi pubblici locali quelli erogati senza un corrispettivo, sempre che le prestazioni siano strumentali all’assolvimento delle finalità sociali dell’ente.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7131 del 2000, hanno affermato che “il servizio si qualifica come pubblico allorquando l’attività, in cui esso consiste, sia indirizzata istituzionalmente al pubblico, mirando a soddisfare direttamente esigenze della collettività, in coerenza con i compiti propri dell’amministrazione pubblica”. Ancora, la Corte ha affermato che il servizio si qualifica come “pubblico”, proprio a causa della sua vocazione a soddisfare esigenze della collettività in coerenza con i compiti dell’amministrazione pubblica: in altre parole, è caratterizzato da un elemento funzionale (soddisfacimento diretto di bisogni di interesse generale), che non si rinviene nell’attività privata imprenditoriale, anche se indirizzata e coordinata a fini sociali.

Ancora, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6574 del 2004, ha affermato che i fattori distintivi del pubblico servizio sono, da un lato, l’idoneità del servizio, sul piano finalistico, a soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti, e, dall’altro, la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi, primo fra tutti il soddisfacimento di interessi di rilievo sociale, nonché obblighi di esercizio e tariffari, volti a conformare l’espletamento dell’attività a norme di continuità, regolarità, capacità e qualità, cui non potrebbe essere assoggettata, invece, una comune attività economica.

Secondo il Consiglio di Stato, in particolare, la scelta consigliabile è quella di adottare entrambi i criteri, come lo stesso legislatore ha previsto, all’art. 112, c. I33, del d.lgs 267/2000.

Come già accennato, la concezione oggettiva del pubblico servizio è da tempo prevalsa nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale: il Consiglio di Stato, anche di recente, con la sentenza n. 1867 del 2018, ha affermato che, sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale, per l’identificazione giuridica di un’attività quale servizio pubblico non è indispensabile, a livello soggettivo, la natura pubblica del gestore, mentre è necessaria la vigenza di una disposizione normativa che, alternativamente, ne preveda l’obbligatoria istituzione e la relativa disciplina, oppure che ne rimetta l’istituzione e l’organizzazione al soggetto pubblico. Inoltre, ad avviso del Collegio, oltre alla natura pubblica delle regole che presiedono allo svolgimento delle attività di servizio pubblico e alla doverosità del loro svolgimento, è ancora necessario, nella prospettiva di un’accezione oggettiva della nozione, che le suddette attività presentino un carattere economico e produttivo (e, solo eventualmente, costituiscano anche esercizio di funzioni amministrative) e che le stesse siano dirette a favore di terzi beneficiari. In definitiva, il Collegio, con la sentenza richiamata, ha statuito che la nozione di servizio pubblico non può essere definita in astratto, in relazione al tipo di attività cui esso si riferisce ed a prescindere da un contesto normativo qualificante, ma, anzi, deve ritenersi necessario l’elemento teleologico della sua capacità di rispondere ad un’utilità generale e collettiva.

 

  1. La ricostruzione normativa

L’art. 112 della legge 267/2000 (Testo Unico sulle autonomie locali) prevede che “gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo delle comunità locali”.

Viene superata, quindi, la concezione secondo cui sono da ritenersi pubblici solo i servizi locali correlati ad attività economiche e assumono dignità e rilievo anche un insieme di servizi che vanno rapportati alle nuove esigenze espresse dalle collettività locali.

Invero, rispetto al Testo Unico del 1925, sono molti gli elementi di novità: si abbandona la logica dell’elencazione delle attività municipalizzabili, in quanto la normativa sulle autonomie locali descrive, in termini generali, il contenuto dell’attività che può essere considerata come servizio pubblico. Inoltre, viene ampliata la categoria dei servizi pubblici, fino a ricomprendervi anche quelle attività tese a realizzare fini sociali o a promuovere lo sviluppo civile, che invece fino al 1990 si ritenevano estranee alla nozione di pubblico servizio.

Quindi, oggi si riconducono alla nozione di servizio pubblico attività non soltanto imprenditoriali, ma che abbracciano tutti i campi in cui può anche solo potenzialmente estrinsecarsi l’attività della Pubblica Amministrazione.

Altra novità riguarda il fatto che l’Ente, ed in particolare il Consiglio comunale, cui spetta la competenza in materia, deve scegliere la forma di gestione ritenuta più adeguata allo svolgimento del servizio, non potendo poi la scelta essere contraddetta nel corso degli eventi successivi, salva la possibilità di trasformazione della gestione consentita dallo stesso legislatore.

Con la normativa in esame, emerge con chiarezza l’importanza del rapporto che intercorre tra l’individuazione del servizio e la sua organizzazione.

Quindi, si notano importanti conseguenze sul versante della nozione di servizio pubblico e, cioè, che ciò che caratterizza il servizio sotto il profilo oggettivo, non è solo il carattere imprenditoriale della gestione, ma anche il soddisfacimento di bisogni di carattere sociale, senza rilevanza imprenditoriale, ritenuti dalla collettività meritevoli di tutela; ne consegue che il concetto in esame è per sua natura relativo e modificabile a seconda dei singoli contesti e del livello di maturità delle comunità locali.

Inoltre, poiché sussiste uno stretto collegamento tra il concetto di servizio pubblico e le competenze assegnate a Comuni e Province, per individuare le attività che possono rientrare in tale categoria occorre rifarsi all’individuazione delle funzioni e dei compiti attribuiti agli enti locali, nel quadro del principio di sussidiarietà.

Dal combinato disposto degli artt. 3, 4, 13 e 112 del Testo Unico sull’ordinamento delle autonomie locali, si trae che il legislatore ha individuato i settori organici di intervento (servizi sociali, assetto ed utilizzazione del territorio, sviluppo economico), riconoscendo al Comune la possibilità di assumere altre funzioni.

Infatti, ai sensi dell’art. 3, comma 5, “I Comuni e le Province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della Regione, secondo il principio di sussidiarietà” e più specificatamente, ai sensi dell’art 13, comma 1, spettano al Comune tutte le “funzioni amministrative che riguardino la popolazione ed il territorio comunale precipuamente nei settori organici dei servizi sociali, assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.

In altri termini, nel quadro autonomistico delineato dalla Costituzione e recepito dalla legge, emerge chiaramente che il Comune esercita le funzioni che lo stesso qualifica come di interesse locale, salvo che per espressa previsione legislativa non rientrino nella competenza di altri soggetti.

Questo principio già era contenuto all’art. 4 della legge Bassanini I, n. 59/1997, in base al quale il conferimento di compiti e funzioni agli enti locali deve avvenire nel rispetto del principio di sussidiarietà, secondo cui restano attribuite ai Comuni la generalità dei compiti e delle funzioni amministrative, con esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni dell’Ente e quindi da conferire –solo in tale caso- al livello superiore (cd. sussidiarietà verticale).

Quindi, nei settori organici individuati, ovvero, servizi sociali, assetto e utilizzazione del territorio, sviluppo economico, al Comune è attribuita una competenza amministrativa generale e residuale, nel senso che tutto ciò che la legge non assegna ad altri soggetti è funzione esclusiva del Comune, che rappresenta l’istituzione più vicina al cittadino, mentre in altri settori, non individuati, l’ente locale conserva un potere di “autoassunzione”, che trova i propri limiti nella popolazione, nel territorio e nell’adeguato svolgimento a livello comunale.

Tale scelta normativa è conforme all’art. 4 della Carta europea dell’autonomia locale, che è il primo trattato internazionale vincolante che garantisce i diritti degli enti locali e dei loro rappresentanti eletti. La Carta, in particolare, stata aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa sottoforma di convenzione il 15 ottobre 1985 ed è entrata in vigore il 1° settembre 1988. Il 16 novembre 2009, è stato adottato il Protocollo addizionale sul diritto di partecipare agli affari degli enti locali, a complemento del testo della Carta; il Protocollo è entrato in vigore il 1° giugno 2012. Il Congresso dei poteri locali e regionali vigila sul rispetto dei principi della Carta da parte degli Stati membri che hanno firmato e ratificato questo trattato e il suo Protocollo addizionale.

Secondo la Carta, “l’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere sulle autorità più vicine ai cittadini”. L’esigenza di attivare la competenza di livello istituzionale più vicino al cittadino si coniuga necessariamente con una valutazione di efficienza e con una valutazione di compatibilità delle funzioni affidate con le dimensioni territoriali ed organizzative dell’Ente.

La medesima impostazione si rinviene a livello comunitario, ove l’art. 3B del Trattato di Maastricht dispone che “Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e possono, dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”.

L’applicazione del principio di sussidiarietà verticale comporta necessariamente degli effetti anche sulla definizione ed assunzione del servizio pubblico locale.

Alla luce di tale principio, il legislatore nazionale deve fornire una generale indicazione della nozione di servizio pubblico, mentre spetta agli enti locali individuare, nell’ambito delle proprie competenze, i servizi da assumere per la cura e lo sviluppo della comunità locale.

Invero, l’art. 3, comma 5, del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, prevede non solo che “I Comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e conferite loro con legge dello Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà”, ma anche che essi “svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali”.

Quindi, secondo una logica opposta a quella che sottende le origini della pubblica funzione e del pubblico servizio, gli obiettivi della Pubblica Amministrazione possono essere efficacemente perseguiti anche senza intervenire direttamente sul mercato, attraverso lo svolgimento di un’azione regolatrice che renda l’esercizio dell’impresa privata compatibile con gli interessi della collettività. Ne consegue, dunque, che a fronte del normale esplicarsi delle regole di mercato, l’ente locale deve intervenire soltanto laddove l’autonomia privata non consenta di soddisfare “adeguatamente” gli interessi della collettività e gli obiettivi che l’amministrazione intende perseguire (cd. principio di sussidiarietà orizzontale).

In tale ottica, l’assunzione e la gestione di un servizio da parte dell’ente locale non può giustificarsi soltanto con il perseguimento di finalità di interesse generale, ma deve trovare il suo fondamento in un giudizio di inadeguatezza del mercato e delle regole della libera concorrenza a fornire una determinata prestazione con le caratteristiche richieste dall’Amministrazione. Più precisamente, l’ente locale dovrà provvedere a organizzare il servizio, solo nel caso in cui lo svolgimento dello stesso in regime di concorrenza non garantisse la regolarità, la continuità, l’accessibilità, l’economicità e la qualità dell’erogazione in condizioni di uguaglianza.

In sostanza, in fase di qualificazione e assunzione del servizio, l’ente locale deve tenere conto delle esigenze della collettività e dei pubblici interessi e rilevare, altresì, l’insufficienza o l’inefficienza di certi servizi erogati dai privati, ovvero la necessità di garantire tariffe o finalità sociali che l’impresa non potrebbe assicurare, motivando sulle ragioni che giustificano la gestione dell’attività da parte dell’Ente.

 

  1. La nozione di servizio pubblico locale

Ricostruito il panorama giurisprudenziale e normativo che ruota attorno alla nozione di servizio pubblico, appare utile soffermarsi sul concetto di servizio pubblico locale.

L’articolo 112, c.1 T.U.E.L., pur non definendo il servizio pubblico locale, ne espone alcuni tratti distintivi.

La disposizione fa riferimento a “servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”.

La norma si esprime in termini generali: infatti, i Comuni e le Province hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e finanziaria nell'ambito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi di coordinamento della finanza pubblica.

Inoltre, Comuni e Province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della Regione, secondo il principio di sussidiarietà e svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente. esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali.

Quindi, l’assunzione dei servizi pubblici locali è rimessa ad autonome valutazioni degli enti locali, in relazione ai diversi contesti socio-economici e territoriali ed a rilevare è la scelta politico-amministrativa dell’ente locale di assumere il servizio, al fine di soddisfare in modo continuativo le esigenze della collettività.

In particolare, affinché possa essere assunta come servizio pubblico, una attività dovrà incidere in via diretta sulla comunità, perché rispondente ad esigenze specifiche della stessa.

Sotto il profilo oggettivo, può dirsi che il servizio pubblico locale è specificazione del servizio pubblico.

Sotto il profilo soggettivo, invece, ai fini della configurazione del servizio pubblico locale, assume rilevanza la decisione dell’ente territoriale di istituire il servizio e la previa valutazione sulla doverosità del porre tale servizio a disposizione della collettività locale.

L’assunzione del servizio pubblico costituisce un atto di autonomia con il quale, accertata l’utilità collettiva di una determinata prestazione e, quindi, la sua doverosità, l’ente locale competente assume su di sé la titolarità del compito-servizio.

L’atto di assunzione, in particolare, è di competenza del Consiglio comunale o provinciale: la discrezionalità degli enti locali deve però contemperarsi all’esigenza che l’attività assunta come servizio pubblico incida in via diretta sulla comunità, in quanto rispondente ad esigenze essenziali o diffuse di una determinata collettività locale.

In sostanza, l’ente locale non può assumere servizi pubblici che abbiano ad oggetto un’attività qualsiasi, ma anzi, l’attività deve mirare al soddisfacimento di bisogni fondamentali della comunità di riferimento. Inoltre, deve esservi l’impossibilità per l’iniziativa privata di far fronte all’ingente volume di capitali necessari per la sua gestione ed erogazione.

In definitiva, quindi, il servizio pubblico locale costituisce una specificazione della nozione generale di servizio pubblico, differenziandosi da essa per il fatto che l’istituzione avviene ad opera dell’ente locale.

 

  1. La rilevanza economica del servizio pubblico locale. Il decreto legislativo di riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (d.lgs. 201 del 2022)

Sulla rilevanza economica dei servizi pubblici locali, il sistema legislativo non ha mai offerto, almeno fino all’ultimo intervento che verrà analizzato a breve, una definizione precisa. Tuttavia, il conferimento al servizio dell’una o dell’altra natura ha un ruolo essenziale, in vista della corretta individuazione del modello gestionale cui poter ricorrere in concreto.

L’AGCM, con deliberazione del 16 ottobre 2008, si è pronunciata sull’art. 23 bis del D.L. n. 112 del 2008, convertito in L. n. 133 del 2008, che ha distinto tra servizi a rilevanza economica e servizi privi di rilevanza economica, richiamando soltanto i primi come oggetto specifico della nuova normativa.

L’Authority, in particolare, ha affermato che debbono essere definiti servizi di rilevanza economica tutti quelli che hanno ad oggetto la produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali con esclusione dei servizi sociali privi di carattere imprenditoriale.

Anche dal lato giurisprudenziale vi sono stati alcuni tentativi definitori.

Il Tar Puglia, Bari, con la sentenza n. 1318 del 2006, ha ritenuto di rilevanza economica i servizi connotati non solo dall’astratta rimuneratività dell’attività svolta e, dunque, dall’esistenza di uno scopo di lucro, ma anche dalla presenza di un mercato di riferimento caratterizzato dalla concorrenzialità.

In sostanza, dai tentativi ricostruttivi esaminati, può trarsi che il discrimine tra il carattere della rilevanza economica o meno del servizio pubblico non è dato dalla natura dell’attività, né dal suo oggetto e ciò indipendentemente anche dalla segnalata inesistenza di una precisa nozione di servizio pubblico.

Il servizio pubblico a carattere commerciale si caratterizza, anzi, per i suoi requisiti di economicità, dovendosi assicurare, ex art. 2082 c.c., almeno l’equilibrio fra costi e ricavi del servizio. Nel servizio pubblico privo del requisito dell’economicità il costo è, invece, essenzialmente assicurato dalla fiscalità generale dell’ente e comunque dagli ordinari mezzi di bilancio.

Con la sentenza n. 5097 del 2009, il Consiglio di Stato ha affermato che i servizi a rilevanza economica sono caratterizzarti dalla (almeno potenziale) redditività e dalla complessiva attività svolta dalla società affidataria, che può anche avere un oggetto sociale eterogeneo, ricomprendente sia attività a rilevanza sociale, che economica. Ciò in quanto, ai fini della qualificazione di un servizio pubblico locale sotto il profilo della rilevanza economica, non deve considerarsi determinante la valutazione fornita all’amministrazione procedente, essendo necessario verificare in concreto se l’attività da espletare presenti o meno la caratteristica della redditività, anche solo in via meramente potenziale.

Ciò risulta confermato anche dalla disciplina contenuta nel citato art. 23 bis D.L. n. 112/2008, che prevede che si possa derogare alla regola generale della procedura competitiva ad evidenza pubblica in presenza di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali, e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato e che devono essere valutate tutte dall’ente stesso a seguito dell’effettuazione di un’analisi del mercato con riferimento anche alle offerte economiche e ai possibili per l’affidamento diretto.

L’ente, in sostanza, deve dimostrare la sussistenza delle peculiarità del contesto socioeconomico-ambientale a cui è destinato il servizio pubblico e, quindi, delle ragioni che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato per l’affidamento della gestione del servizio pubblico, anche con riferimento alla valutazione in termini di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, previa consultazione del mercato.

La disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica è stata oggetto di riordino, con il d.lgs n. 201 del 2022, le cui disposizioni si applicano, per espressa previsione, a tutti i servizi di interesse economico generale prestati a livello locale e prevalgono sulle normative di settore.

Resta in ogni caso ferma la disciplina di settore, attuativa del diritto dell’Unione Europea, relativa ai servizi di distribuzione dell’energia elettrica e del gas naturale.

L’art. 2 del d.lgs. 201 del 2022 identifica i “servizi pubblici locali di rilevanza economica” con i servizi di interesse economico generale, secondo la formulazione europea, e li definisce “i servizi erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato, che non sarebbero svolti senza un intervento pubblico o sarebbero svolti a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che sono previsti dalla legge o che gli enti locali, nell'ambito delle proprie competenze, ritengono necessari per assicurare la soddisfazione dei bisogni delle comunità locali, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale”.

Il decreto distingue, poi, tra servizi a rete e non a rete. In particolare, i servizi a rete sono definiti “i servizi di interesse economico generale di livello locale che sono suscettibili di essere organizzati tramite reti strutturali o collegamenti funzionali necessari tra le sedi di produzione o di svolgimento della prestazione oggetto di servizio, sottoposti a regolazione ad opera di un’autorità indipendente”.

L’articolo 14 si occupa delle modalità di gestione del servizio pubblico locale. In particolare, le forme previste sono l’affidamento a terzi, l’affidamento a società mista pubblico-privata, l’affidamento a società in house, oppure la gestione in economia o mediante aziende speciali limitatamente ai servizi diversi da quelli a rete, che consente l’assunzione diretta del servizio mediante l’utilizzazione dell’apparato amministrativo e delle ordinarie strutture dell’ente affidante; l’attività di gestione del servizio viene esercitata dall’amministrazione locale, attraverso l’utilizzazione del personale dell’amministrazione medesima. L’azienda speciale è, invece, un ente strumentale dell’ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di proprio statuto (art. 114, c. 1 d.lgs 267/00 - TUEL).

Secondo l’art. 21 d.lgs 201/22, gli enti competenti all'organizzazione del servizio pubblico locale devono individuare, in sede di affidamento della gestione del servizio, ovvero in sede di affidamento della gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali essenziali alla gestione del servizio. Le dotazioni patrimoniali essenziali, una volta individuate, sono destinate alla gestione del servizio pubblico per l’intero periodo di utilizzabilità fisica del bene.

La gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali essenziali può essere affidata separatamente dalla gestione del servizio, garantendo l'accesso equo e non discriminatorio alle reti, agli impianti e alle altre dotazioni patrimoniali essenziali a tutti i soggetti legittimati all'erogazione del servizio.

Qualora sia separata dalla gestione del servizio, la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali essenziali è affidata dagli enti competenti secondo le modalità di cui all'articolo 14, comma 1, lettere a), b) e c) d.lgs 201/22.

Lo strumento che regola i rapporti fra enti locali e i soggetti affidatari del servizio pubblico (nonché con le società di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali essenziali), è il contratto di servizio, che contiene previsioni dirette ad assicurare, per tutta la durata dell'affidamento, l'assolvimento degli obblighi di servizio pubblico, nonché l'equilibrio economico-finanziario della gestione, secondo criteri di efficienza, promuovendo il progressivo miglioramento dello stato delle infrastrutture e della qualità delle prestazioni erogate.

 

  1. Il servizio pubblico nel panorama eurounitario

Il processo di integrazione europea ha avuto ripercussioni anche nel settore pubblico degli Stati membri, e, quindi, l’ente locale, parte integrante dello Stato, è tenuto al rispetto degli obblighi comunitari.

La materia dei servizi pubblici, nel diritto comunitario, è retta dai principi di sussidiarietà e proporzionalità, con una competenza dell’Unione europea che si esplica nei limiti delle sole attribuzioni espressamente conferite dai Trattati e nella misura strettamente necessaria, lasciando, quindi, ampio spazio di normazione agli Stati e alle loro articolazioni territoriali.

Il diritto comunitario primario non conosce la figura del servizio pubblico o di interesse pubblico o comunque a rilevanza pubblica, ma contempla tre categorie di servizi: servizi di interesse generale, servizi di interesse economico generale e servizi non economici. Infatti, gli Stati fondatori della Comunità europea, all’inizio degli anni Cinquanta, non avevano ipotizzato un intervento comunitario volto a disciplinare le modalità di gestione dei servizi pubblici nazionali, che veniva lasciata alla regolamentazione dei singoli Stati.

Questa è la ragione per la quale all’interno dei Trattati non si rinvengono riferimenti a nozioni di servizio pubblico.

A partire dagli anni Novanta, la maggior parte degli Stati comunitari, indotti dalla Commissione europea, avviarono un processo di liberalizzazione che investì principalmente i settori delle telecomunicazioni, dei trasporti, il servizio postale e il settore energetico.

In conseguenza di questo processo, lo Stato iniziava a organizzare il proprio settore pubblico tenendo conto dei principi comunitari, in particolare quelli che presiedono alla realizzazione del mercato interno.

La materia dei servizi pubblici garantisce la concorrenzialità nel mercato interno: in tale contesto, si inquadra la norma di cui all’art. 86 del Trattato CE, paragrafo 2, che si pone come deroga alla politica della concorrenza.

La norma dispone, infatti, che le “imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata.

Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità”.

L’espressione “servizi di interesse economico generale” indirizza l’interprete ad individuare la categoria sulla base della rilevanza economica dell’attività, piuttosto che in relazione all’oggetto delle prestazioni ed ai destinatari di queste. Inoltre, la disciplina posta dall’art. 86 tocca solo indirettamente i servizi pubblici, poiché assume a proprio oggetto immediato la relazione che si stabilisce tra gli Stati e le imprese cui i servizi sono affidati, nonché la posizione di queste ultime di fronte alle regole del Trattato.

Il riferimento alla rilevanza economica dei servizi e la qualificazione dei soggetti incaricati dei servizi come “imprese”, indica il punto di vista economico come quello da assumere per l’identificazione della categoria. In questo quadro, si spiega il criterio seguito dalla Corte di giustizia per definire la categoria dei servizi pubblici di rilevanza comunitaria: essa è costruita sulla base dei concetti di impresa e di attività economica.

Il concetto di impresa incaricata della gestione di servizi di interesse economico generale è stato interpretato nel senso di comprendere tutte quelle attività di interesse economico generale gestite da un soggetto pubblico o privato, al quale l’esercizio di tale specifica missione sia stato affidato da un apposito atto del potere pubblico.

Quanto al concetto di attività economica, la Corte fa riferimento all’attività tesa ad offrire lavori e servizi su di un determinato mercato, con scopo di lucro, anche se non pare giungere ad una conclusione del tutto chiara e soddisfacente.

In particolare, per giurisprudenza costante della Corte di Giustizia UE, ribadita colla sentenza del 22 maggio 2003, in C. 18/2001, è pacifico che i compiti che gli Stati assegnano alle imprese non sono oggetto di sindacato: l’individuazione dei compiti rientra, infatti, nella sfera di decisione riservata agli Stati. Il diritto comunitario interviene solo quando il conseguimento degli obiettivi richiede misure contrarie alle disposizioni del Trattato, ma il sindacato che esso autorizza è limitato alla congruità di tali misure rispetto agli scopi cui sono dirette.

Tale impostazione è confermata anche dalla Decisione della Commissione del 28 novembre 2005 (riguardante l’applicazione dell’art. 86, n. 2 del Trattato CE agli aiuti di Stato sotto forma di  compensazione degli obblighi di servizio pubblico concessi a imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale), che dà atto che, nei settori nei quali non esiste una specifica disciplina comunitaria, la giurisprudenza riconosce agli Stati “un ampio margine di discrezionalità” nella definizione dei servizi di interesse economico generale.

Per questo, la Commissione, quale autorità che deve vigilare sull’osservanza dell’art. 86, intende il proprio intervento come limitato alle ipotesi di “errore manifesto” degli Stati, nella definizione dei servizi di interesse economico generale (7º considerando della citata Decisione).

La stessa logica presiede anche alla direttiva sui servizi nel Mercato interno – D. 2006/125 – che, all’art. 1, par. 3, prevede: “La presente direttiva lascia impregiudicata la libertà, per gli Stati membri, di definire in conformità del diritto comunitario, quali essi ritengano essere servizi di interesse economico generale, in che modo tali servizi debbano essere organizzati e finanziati e a quali obblighi essi debbano essere soggetti”.

Con l’art. 86 Trattato CE, non si è voluto, quindi, escludere a priori il ruolo svolto dai pubblici poteri in una materia tradizionalmente riservata alla loro competenza, quale quella dei servizi pubblici, ma, si è inteso relegare gli interventi pubblici in un ruolo “residuale”, essendo gli stessi consentiti soltanto quando i fini generali da perseguire siano di per sé incompatibili con il mantenimento delle regole concorrenziali.

Le modifiche successivamente apportate ai Trattati hanno rinnovato e valorizzato il ruolo dei servizi di interesse economico generale: dapprima, i tradizionali servizi pubblici economici vengono disciplinati in quanto primariamente “servizi”, soggetti alle regole di mercato, quindi, si è avuta una serie di interventi europei di liberalizzazione ed armonizzazione di numerose attività espletate tradizionalmente da monopoli pubblici. Riguardo ai servizi a rete, in particolare, vengono progressivamente aperti al mercato attività di telecomunicazione, di trasporto pubblico, di servizi energetici e postali.

L’instaurazione del mercato unico anche rispetto ai servizi pubblici diviene prioritaria e i pubblici poteri dismettono la veste di fornitori diretti di prestazioni, per divenire invece regolatori garanti del conseguimento dell’interesse generale, in mercati tendenzialmente liberalizzati.

Si addiviene, così, ad un compromesso fra le prerogative degli Stati membri in materia di politica economica e gli interessi dell’Unione Europea.

L’obiettivo del diritto comunitario era di regolare l’esercizio di funzioni pubbliche in forma imprenditoriale, per limitarne le portata, in funzione del libero mercato concorrenziale: i servizi pubblici vengono assoggettati alle regole di concorrenza fin dove ciò non comprometta la missione loro riconosciuta, quanto a continuità, uguaglianza di trattamento, adattamento ai bisogni delle prestazioni: nel qual caso, l’applicazione di tali regole sarebbe esclusa, secondo una valutazione degli Stati ispirata a criteri di ragionevolezza e proporzionalità e sottoposta alla vigilanza della Commissione e della Corte di Giustizia.

In una seconda fase, tuttavia, è maturata consapevolezza circa l’irrinunciabilità di una componente soggettiva regolatoria pubblicistica.

Si assiste, così, ad un arretramento del valore della concorrenza, che, da avere valore assoluto, acquisisce, talvolta, valore strumentale. In sostanza, i servizi pubblici divengono sempre più strumenti di coesione sociale e territoriale.

La definizione del concetto di servizio pubblico si è avuta per opera della Corte di giustizia e della Commissione europea. Quest’ultima, in particolare, con strumenti ora di soft law, ora normativi (quali le liberalizzazioni “controllate” dei grandi servizi a rete, la definizione di obblighi di servizio pubblico e di servizio universale).

Secondo la Commissione, il servizio pubblico consiste in un servizio di natura economica che, in virtù di un criterio di interesse generale, gli Stati membri o la Comunità assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico. In particolare, nella disciplina comunitaria, può individuarsi un concetto di servizi di interesse economico generale, i cui elementi caratterizzanti sono un servizio universale, la continuità, la qualità del servizio offerto, l’accessibilità delle tariffe, la tutela degli utenti e quella dei consumatori.

Proprio il “servizio universale”, frutto dell’elaborazione della Commissione in ambito europeo, merita specifica menzione, in quanto interpretato come nozione in cui le esigenze di servizio pubblico sembrano trasfigurarsi nel diritto comunitario.

Esso si sostanzia nel quadro dei processi di liberalizzazione controllata di alcuni servizi a rete (poste e telecomunicazioni) e consiste di un insieme minimo di servizi (di una certa qualità), che deve essere comunque garantito, a condizioni accettabili, a chiunque ne faccia richiesta.

In conclusione, quindi, può affermarsi che la nozione di servizio pubblico è costantemente in evoluzione: in particolare, tale evoluzione prende forma nella cornice dell’art. 16 TCE e dell’art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, oltre che nelle comunicazioni della Commissione.

Alla luce della tendenza eurounitaria, emerge un concetto minimale di servizio pubblico, che deve tener conto delle diverse realtà nazionali e costituisce una sorta di limite di tolleranza alle deroghe alla concorrenza.

La nozione di servizio pubblico comunitario coincide, sostanzialmente, con la nozione interna oggettiva di servizio pubblico. Entrambe le nozioni, infatti, prescindono dalla riserva e dalla titolarità del servizio in capo allo Stato, poiché lo stesso può essere svolto da imprese private o pubbliche.