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Anno XVII - n. 05 - Maggio 2025

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Dal risarcimento del danno da lesione dell’affidamento ai motivi inerenti alla giurisdizione: vicinanza conflitto tra giurisdizioni?

Di Stefano Fondi
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Dal risarcimento del danno da lesione dell’affidamento ai motivi inerenti alla giurisdizione: vicinanza conflitto tra giurisdizioni?[1]

 

Di STEFANO FONDI

 

Abstract: Vengono analizzate, soffermandosi in particolar modo sulle questioni risarcitorie legate alla lesione dell’affidamento, le ipotesi controverse di riparto di giurisdizione, i loro tratti comuni le tendenze pretorie identificabili quali causa di questi contrasti, sottolineando anche gli impatti, in termini di effettività del sistema delle tutele, connessi alla competizione tra giurisdizioni.

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Ipotesi controverse di riparto della giurisdizione. – 3. La giurisdizione sulle questioni risarcitorie e le ordinanze “gemelle” delle Sezioni Unite del 2011. – 4. La sentenza delle Sezioni Unite n. 8236 del 2020.  – 5. Lesione dell’affidamento, responsabilità, contatto sociale e giurisdizione. – 6. Alla ricerca di una linea di continuità tra la sentenza n. 8236/2020 e la sentenza n. 500/1999. Spunti ricostruttivi. - 7. Brevi cenni sul d.l. n. 76/2020. – 8. La recente rimessione alla CGUE sul concetto di “motivi inerenti alla giurisdizione”. – 9. Giurisdizione ed effettività della tutela.

 

 

  1. Premessa.

Il riparto dello ius dicere tra giudice ordinario e amministrativo è da sempre fonte di dubbi e produttivo di attriti tra le due sfere in cui si articola il nostro sistema “a doppia giurisdizione”.

Esso è anche produttivo di tensioni nell’ordinamento nel momento in cui questo confine diventa “mobile” in ragione di interpretazioni divergenti da cui promanano, inevitabilmente, l’incertezza del diritto ed il rischio di vanificazione dell’effettività della tutela.

Le ragioni di ciò non risiedono soltanto nella oggettiva difficoltà di qualificazione che pur affligge talune fattispecie dedotte in giudizio (e le sottostanti situazioni giuridiche).

Vi sono ulteriori cause concorrenti (e preponderanti).

Oltre a dinamiche immanenti nella dialettica tra apparati pubblici[2] e alle motivazioni tese a colmare eventuali o presunti vuoti di tutela, ulteriore fattore attualmente generatore di confusione è l’incessante processo di commistione tra diritto amministrativo e diritto civile (sia in termini di utilizzo di strumenti giuridici che di perdita di privilegi del sistema pubblicistico).

Ma soprattutto troppo spesso si assiste – a sostegno ad alcune tendenze “ampliative” segnatamente del giudice ordinario verso il sindacato sugli atti dei pubblici poteri – ad interpretazioni riduzionistiche sia della sfera stessa dei poteri sia ab origine del concetto di interesse legittimo.

Quest’ultimo sembra vittima del pregiudizio, altamente resistente, relativo ad una sua presunta inferiorità ontologica rispetto al diritto soggettivo.

Anche quando ciò non avviene, l’interesse legittimo è visto come un qualcosa di misterioso, inafferrabile nella sua vera essenza, agli occhi del giudice ordinario.

Evidentemente la categoria subisce ancora i riflessi della sua stessa genesi, quale interesse,  individuato e qualificato, del privato ad una utilità attesa dall’esercizio del pubblico potere, quindi non realizzabile direttamente ma solo mediante l’intermediazione di quest’ultimo ed in un legame strumentale con esso talmente forte che, per lungo tempo, tale situazione giuridica è stata concepita come generata dall’affievolimento/degradazione del diritto soggettivo per l’effetto dell’agere publicum.

La suddetta teoria è stata nel tempo abbandonata ma ha segnato – in modo permanente – tutte le riflessioni sulla materia[3].

E’ ovvio che una differenza tra diritti soggettivi e interessi legittimi vi sia, essendo il primo la perfetta sintesi di forza e libertà[4] che, invece, nelle relazioni asimmetriche pubblicistiche manca, ma le due categorie sono poste nell’art. 24 Cost. sul medesimo piano ed entrambe sono caratterizzate dal nesso di strumentalità tipico delle situazioni giuridiche soggettive, finalizzate, pertanto, alla realizzazione degli interessi sostanziali, i c.d. beni della vita.

Entrambe mirano al conseguimento di utilità intese come soddisfazione di bisogni[5].

Come si vedrà, tratto che caratterizza in modo trasversale molte di queste interpretazioni espansive, costitutendone l’instrumentum o espediente di realizzazione, è una sostanziale riproposizione da parte del giudice ordinario del criterio che fornisce rilevanza al contenuto della domanda giudiziale così come prospettata dalla parte (il che equivale a riaffermare il canone del petitum formale).

 

  1. Ipotesi controverse di riparto della giurisdizione.

Esempi significativi di divergenze interpretative tra le due giurisdizioni sono la costruzione della teoria della carenza di potere in “concreto”, il criterio di riparto basato sull’attività a natura vincolata/discrezionale, il tema della giurisdizione per connessione, quello dei diritti “fondamentali” (incomprimibili) ed, inoltre, alcune tematiche risarcitorie a seguito della esegesi “alternativa” prospettata dalle “ordinanze gemelle” delle Sezioni Unite civili nel 2011, sulla quale ci si soffermerà più ampiamente.

Si tratta di deviazioni dal criterio di riferimento recepito dall’art. 7 c.p.a. sulla distinzione tra carenza e cattivo uso del potere, per il quale rileva la distinzione tra controversie, aventi ad oggetto la contestazione dell’esistenza del potere (G.O.) e contestazione sul suo esercizio illegittimo/scorretto (G.A.).

Le discordanze, come si accennerà in chiusura, arrivano fino a coinvolgere lo stesso concetto di “motivi inerenti alla giurisdizione” di cui all’art. 111, comma 8 Cost.

  1. a) La teoria della carenza di potere in concreto.

Era stata enucleata dalla Corte di Cassazione. Essa tendeva ad allargare la giurisdizione del G.O. riconnettendo al concetto di “carenza di potere”, non solo l’ipotesi di mancanza di norma attributiva del potere ma anche il caso di violazione dei presupposti (giuridici e fattuali) della sua esistenza.

Oggi è ricondotta alla giurisdizione del G.A. e riportata ad ipotesi di cattivo uso del potere[6].

Invero, anche la legge depone inequivocabilmente a favore di una valutazione solo “in astratto”[7].

  1. b) La teoria della distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale.

Anch’essa è concezione funzionale ad estendere la giurisdizione del G.O.[8]: distingue tra potere discrezionale (che provocherebbe l’affievolimento del diritto in interesse legittimo) e potere vincolato[9], dal cui esercizio il diritto non risulterebbe degradato, con l’ovvio corollario della giurisdizione del G.O.

La tesi, pur fornendo un criterio di riparto lineare, non è rimasta immune da critiche.

Sussiste esercizio di un potere pubblicistico anche nel caso di attività vincolata, quando il vincolo posto dalla norma è finalizzato al perseguimento ed alla tutela di un interesse pubblico (e non di un interesse privato).

A fronte di tale esercizio, il privato non può che essere titolare di un interesse legittimo.

Se il G.A. è il giudice degli atti del potere pubblicistico non si capisce perché gli atti espressione di tale potere, per il solo fatto di esplicarsi mediante attività vincolata, debbano essere attratti dalla sfera di ius dicere del G.O.

E’ proprio il carattere “pubblico” del potere esercitato, infatti, a fondare la giurisdizione del G.A[10].

Se si è in presenza di una relazione tra il privato e la P.A. disciplinata da norme pubblicistiche e della medesima natura è il fine tutelato da tali norme (si pensi al servizio essenziale dell’istruzione) la configurazione, pur vincolata, dell’attività posta in essere non può ridurre quest’ultima ad una dinamica “privatistica” alla stregua della sequenza norma-fatto-effetto tipica delle norme di relazione.

Solo quando si verifica una relazione “paritaria” è indubbia la giurisdizione del G.O. (si pensi ai poteri esercitati della P.A. nelle vesti di datore di lavoro nel pubblico impiego privatizzato ex art. 5, comma 2 d.lgs. n. 165/01).

In ogni caso le norme sono rivelatrici.

Il riferimento alla “natura vincolata del provvedimento” (art. 21-octies, comma 2 della l. n. 241/1990 per i vizi non invalidanti) e il richiamo all’attività vincolata che apre al giudizio sulla fondatezza della pretesa nell’azione avverso il silenzio (art. 31, comma 3 c.p.a.) hanno un significato univoco: presuppongono che la giurisdizione spetti al G.A.

Ancora: l’adesione a questa prospettazione comporta, di fatto, lo svilimento della giurisdizione esclusiva del G.A. riportandola nei medesimi confini della giurisdizione (generale) di legittimità.

Infine, la periodica riproposizione da parte della Corte di Cassazione di questa concezione si pone in contrasto con la giurisprudenza della Corte Costituzionale, espressa con le note sentenze n. 204/2004 e n. 191/2006, che – a proposito della giurisdizione esclusiva del G.A. – hanno affermato che il riparto di giurisdizione si determina distinguendo l’esistenza di poteri autoritativi (in qualsiasi forma esplicitati) dai comportamenti di tipo meramente materiale dell’amministrazione, che non siano conseguenza o manifestazione di potestà autoritativa.

In definitiva, l’espressione di un potere pubblico o anche la sola connessione con esso (esercizio indiretto o mediato del potere) comporta sempre la giurisdizione del G.A.

Pur riemerso recentissimamente nella giurisprudenza ordinaria[11], il criterio è stato ulteriormente contestato dal Consiglio di Stato, ad avviso del quale non potrebbe ravvisarsi una automatica equivalenza tra carattere vincolato dell’azione amministrativa e natura “paritetica” degli atti che ne derivano: «il vincolo, o detto altrimenti, l’assenza di discrezionalità amministrativa, non riduce il potere ad un’obbligazione civilistica (…) Nessuno spostamento di giurisdizione può giustificarsi sol perché la legge determina analiticamente le modalità di esercizio del potere»[12].

Neppure pare corretto, come si vedrà, aprire canali differenziati per determinate specie di situazioni giuridiche, riservando al G.O. la cognizione dei diritti considerati “fondamentali” (es. salute).

  1. c) La giurisdizione per connessione.

Il dubbio nasce nell’ipotesi in cui, in sede di ricorso, vengano formulate più domande ordinate in via subordinata, di cui non tutte attribuibili alla giurisdizione amministrativa: la vicenda processuale nella tua interezza si sposta o no presso il giudice che ha la cognizione sulla domanda principale, con “assorbimento” delle restanti?

La risposta è positiva per la Corte di Cassazione, che richiama esigenze di concentrazione della tutela e di economia processuale[13]; di contrario avviso è, invece, la giurisprudenza amministrativa che sottolinea l’inderogabilità delle norme sulla giurisdizione ed il rischio della surrettizia riproposizione del criterio del petitum formale[14].

  1. d) La teoria dei “diritti fondamentali” come inaffievolibili o incomprimibili.

Alla luce della loro importanza valoriale e giuridica, oggetto di particolari riflessioni sono stati i diritti fondamentali, ovvero quelli che, per previsione costituzionale, ricevono particolare tutela costituendo il patrimonio imprescindibile dell’individuo (si pensi ai diritti di cui all’art. 2 o il diritto alla salute ex art. 32)

Ovviamente la questione non riguarda l’inviolabile versante oppositivo di tali situazioni giuridiche (non subire menomazioni) quanto quello pretensivo (ottenere prestazioni).

Questi diritti hanno la caratteristica della intangibilità, peraltro non in senso assoluto, ma da intendersi come non suscettibilità di compressione nel loro nucleo essenziale[15].

Secondo un’impostazione, che trova radice nella teoria dell’affievolimento, tali diritti non risentirebbero di compressioni derivanti dall’esercizio, anche legittimo, dei pubblici poteri.

Il corollario in punto di giurisdizione della tesi è che, a fronte della carenza di potere idoneo a degradare il diritto in interesse legittimo, le controversie sarebbero sempre devolute al G.O.

L’assunto non appare, però, condivisibile, non perché i diritti fondamentali sarebbero sottratti al giudizio di bilanciamento (si è visto che non è così), quanto perché non esiste «alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario - escludendone il giudice amministrativo - la tutela dei diritti costituzionalmente protetti», anche di natura “fondamentale”[16].

Esistono comunque espresse previsioni, probabilmente frutto della suesposta tendenza, di diritti fondamentali assegnati alla tutela del G.O. (si pensi alla disciplina dell’immigrazione di cui al d.lgs. n. 286/1998 o della privacy ex d.lgs. n. 196/03)[17].

Infine si evidenzia che, anche in presenza di diritti incomprimibili, la giurisdizione è del G.A. nei casi di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva (art. 133 c.p.a.: si pensi alle controversie in materia di pubblici servizi[18]).

Proprio di recente il Consiglio di Stato[19] ha ricordato che i diritti sociali (è il caso della salute) «a differenza dei diritti di libertà, traducendosi nella pretesa di una prestazione pubblica, necessitano (…) di una mediazione amministrativa».

 

  1. La giurisdizione sulle questioni risarcitorie e le ordinanze “gemelle” delle Sezioni Unite del 2011.

Gli artt. 7 e 30 del c.p.a. sanciscono la cognizione del G.A. sulle questioni risarcitorie inerenti alla lesione di interessi legittimi, anche se introdotte in via autonoma, derivanti dall’illegittimo esercizio o dal non esercizio dell’attività amministrativa.

Quanto detto vale sia per quanto concerne la giurisdizione generale di legittimità che per le materie di giurisdizione esclusiva. Nel secondo caso può, altresì, essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi.

Le norme – che traslano nel codice quanto inizialmente previsto dall’art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 e dall’art. 7 della l. n. 205/2000 – hanno una forte valenza:

  1. a) unificano le tutele in capo al G.A. attribuendogli una giurisdizione piena, eliminando così l’onore di attivare un separato giudizio presso il G.O., al quale era precedentemente riconosciuta la cognizione su tutti i c.d. “diritti patrimoniali consequenziali”;
  2. b) fanno propendere (e la Corte Costituzionale lo conferma[20]) per una qualificazione del potere del giudice di disporre sulle vicende risarcitorie non come “materia” attribuita al G.A. ma come uno strumento di tutela, di reintegrazione della lesione del bene della vita ex art. 24 Cost., a completamento dell’azione di tipo demolitorio[21];
  3. c) confermano che anche la giurisdizione risarcitoria è un mezzo volto al sindacato sul potere amministrativo (rectius su ogni forma di esercizio del potere pubblico).

Il giudice della lesione degli interessi legittimi, infatti, è sempre il G.A. anche quando l’azione è proposta autonomamente da quella di annullamento ed anche nel caso dei c.d. comportamenti amministrativi, riconducibili comunque all’esercizio del pubblico potere, in quanto esecutivi di atti o provvedimenti amministrativi, secondo il noto insegnamento della sentenza n. 191/2006 della Corte Costituzionale.

Se si eccettua il caso dei comportamenti meri – attuati in via di fatto o posti in essere in carenza di potere – non sembrerebbe esserci spazio, dunque, per la giurisdizione di altro giudice per le controversie risarcitorie originate dalla lesione di posizioni giuridiche connesse all’esercizio dei poteri[22].

Queste acquisizioni sono, tuttavia, parzialmente contrastate da quell’orientamento della Corte di Cassazione che sembra riproporre una concezione ormai anacronistica quale quella della natura “consequenziale” della giurisdizione risarcitoria, la cui relativa domanda può essere proposta al G.A. sostanzialmente solo come conseguente ad un’azione volta a caducare un provvedimento amministrativo.

Corollario di tale assunto è quello secondo cui, per radicare la (consequenziale) giurisdizione risarcitoria del G.A., è necessaria la tempestiva impugnazione dell’atto amministrativo lesivo.

Poiché in caso di annullamento dell’atto (in autotutela o su ricorso di un altro soggetto leso) il provvedimento continua a rilevare per il soggetto che ne aveva tratto vantaggio come “mero comportamento” l’unico rimedio sarebbe quello risarcitorio per aver confidato incolpevolmente nella sua apparente legittimità e relativo ad un danno che prescinderebbe da valutazioni sull’esercizio del potere.

Il riferimento è ovviamente alle note ordinanze c.d. “gemelle” delle Sezioni Unite civili del 2011[23].

La questione riguardava la giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno subito a seguito del ritiro (annullamento) in autotutela di un emanato provvedimento ampliativo illegittimo, con conseguente lesione dell’affidamento determinato nel destinatario del provvedimento medesimo.

Le Sezioni Unite hanno affermato la giurisdizione del G.O., ritenendo che la controversia avesse «ad oggetto un comportamento illecito della P.A. per violazione del principio del “neminem laedere” cioè dei doveri di comportamento il cui contenuto prescinde dalla natura pubblicistica o privatistica del soggetto che ne è responsabile e che anche la P.A., come qualsiasi privato, è ritenuta a rispettare»; il soggetto il cui affidamento è frustrato, quindi, « non è tenuto a domandare al G.A. un accertamento della illegittimità del suddetto comportamento, che ha invece interesse a contrastare nel giudizio di annullamento da altri provocato e che può solo subire».

La posizione – come si vedrà non del tutto compatibile con il sistema delineato dall’art. 7 c.p.a. – sembra quasi una eco della vecchia norma dell’art. 7 della l. n. 205/2000 che qualificava il risarcimento del danno, ed in generale i diritti patrimoniali, come “consequenziali” confermando il nesso (all’epoca ritenuto) indissolubile tra azione risarcitoria e di annullamento e l’impossibilità di azionare la prima in via autonoma.

Di recente, alcune pronunce delle Sezioni Unite, riprendono in toto il sentiero tracciato nel 2011, in particolare la sentenza n. 8236 del 28 aprile 2020[24] che si occupa di una fattispecie non identica ma per molti versi assimilabile[25].

 

  1. La sentenza delle Sezioni Unite n. 8236 del 2020.

Con la sentenza in discorso le Sezioni Unite civili ritornano, su di una questione latamente riconducibile al tema del c.d. danno da provvedimento favorevole, anche se nella peculiare fattispecie contrassegnata dall’assenza di un precedente provvedimento (poi legittimamente annullato) e caratterizzata dalla semplice lesione dell’affidamento ingenerato nel privato da parte della condotta della P.A., che viola, quindi, i canoni generali di correttezza e buona fede.

La vicenda esaminata attiene ad una richiesta di risarcimento del danno avanzata da una società di costruzioni per la lesione dell’affidamento circa l’emanazione di un permesso di costruire che il Comune aveva determinato mediante ripetuti comportamenti interlocutori.

Questi oltre a violare i termini di conclusione del procedimento, erano ritenuti idonei a creare un’aspettativa positiva sul rilascio del provvedimento (ingenerata da precedenti provvedimenti favorevoli e dalle rassicurazioni fornite dall'amministrazione municipale).

Il pregiudizio lamentato consiste nel condizionamento alla libertà di autodeterminazione del privato e nella conseguente perdita patrimoniale e di tempo derivata dalle scelte negoziali che così si sono venute a determinare.

Tale inquadramento sistematico della fattispecie, al quale hanno aderito le Sezioni Unite, ha portato ad escludere le diverse ricostruzioni dell’amministrazione, nell’ambito del regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c., che, invece, prospettavano la giurisdizione esclusiva del G.A.

Dunque non una controversia in materia di risarcimento del danno da mero ritardo [ex artt. 133, comma 1, lett. a), n, 1 c.p.a. e 2 bis, comma 1 l.n. 241/90] poiché causa del pregiudizio non sarebbe l’attesa, il ritardo del pronunciamento della P.A. ma il suo comportamento positivo e generatore di aspettative (successivamente deluse).

E neanche una controversia rientrante nell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., ed avente ad oggetto “atti e provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.

Nella vicenda de quo, il danno non è stato cagionato da atti o provvedimenti ma, osserva la Corte, dal comportamento tenuto dalla P.A. nella conduzione dei rapporti tra i propri uffici e la società, tale da creare in quest'ultima un incolpevole affidamento nel rilascio del permesso, poi deluso dal diniego finale (del quale non viene messa in discussione la legittimità).

Un danno, cioè, da comportamento e non da provvedimento.

Un comportamento, in questo caso, ritenuto privo di ogni collegamento con l’esercizio del potere[26]:

La Corte osserva che il comportamento della P.A. lesivo dell’affidamento, in quanto non conforme ai canoni di correttezza e buona fede, non ha alcun nesso – nemmeno mediato – con l’esercizio del potere, ponendosi su un piano diverso rispetto a quello della scansione degli atti procedimentali che conducono al provvedimento e collocandosi in una più ampia “dimensione relazionale” complessiva tra l'amministrazione ed il privato[27].

Alla luce di ciò, la Corte – viste le peculiarità del caso oggetto di decisione – è passata a vagliare l’applicabilità dei principi espressi dalle Sezioni Unite del 2011 primi citati, che, come visto, estendono la giurisdizione del G.O.

Viene rilevano come l’essenza del principio sancito nel 2011 consiste nel ritenere, nelle ipotesi considerate, il provvedimento amministrativo illegittimo quale presupposto – sia applicativo che causale - del danno verificatosi, il quale, però, non è scaturito da esso (tra l’altro illegittimo, sì, ma favorevole), ma alla condotta tenuta dalla P.A.

Conseguenza di queste premesse è l’inevitabile applicazione dei principi di quella decisione anche per le ipotesi in cui manchi del tutto un precedente provvedimento della P.A. ed il cui danno derivi esclusivamente da comportamenti scorretti dell’amministrazione: nella sostanza nulla cambierebbe dalle fattispecie giudicate nel 2011, essendo sempre la condotta della P.A. a essere l’unica fonte del danno.

Anzi, in questo caso, si ritiene che i principi del 2011 valgano con maggior forza: l'amministrazione non ha posto in essere alcun atto di esercizio del potere amministrativo, il privato ha riposto il proprio affidamento in un comportamento mero dell'amministrazione ed il rapporto tra P.A. ed il privato si gioca, allora, interamente sul piano del comportamento.

Per completezza, si può rilevare ulteriormente che, a sostegno della assimilazione tra le due situazioni, gioca anche il fatto che l’annullamento, in autotutela o giurisdizionale, del provvedimento – producendo effetti retroattivi – è idoneo a determinare una mancanza ab origine del provvedimento stesso, che, pertanto, è come se non vi fosse mai venuto ad esistenza.

La Corte respinge anche le osservazioni di quella parte della dottrina che – in senso contrario – ha rilevato come in tal modo non si considera la natura dell’interesse legittimo quale posizione tipicamente relazionale, ovvero inserita in un rapporto bilaterale intercorrente tra P.A. e privato (di natura, tra l’altro, sempre più paritaria): viene rilevato che la condotta “tipicamente” amministrativa, sia essa provvedimentale ovvero semplice inerzia, in quanto espressione del potere amministrativo, qui è del tutto irrilevante ai fini della determinazione del danno che il privato lamenta[28].

Particolarmente importante è il richiamo all’Adunanza Plenaria n. 5/2018, la quale apre la strada alla configurabilità responsabilità precontrattuale pura, ovvero derivante da lesione delle regole di condotta (correttezza e buona fede), anche nella fase – a più marcata caratterizzazione pubblicistica –  che precede l’aggiudicazione nelle procedure ad evidenza pubblica: «non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto)».

Viene precisato, comunque, che l’affidamento rilevante è quello di natura civilistica, ovvero di tipo soggettivo (incolpevole) in cui rileva la condotta delle parti, nettamente distinto da quello legittimo/oggettivo che connota, invece, l’esercizio dell’autotutela amministrativa e che e si risolve nella verifica della legittimità degli atti formali.

Passaggio fondamentale nella ricostruzione operata dalla Corte, già nel 2011, è la configurazione dell’affidamento come «una situazione autonoma, tutelata in sè, e non nel suo collegamento con l'interesse pubblico», quale «aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell'amministrazione fondata sulla buone fede».

Esso si sostanzia non in un presunto “diritto soggettivo alla conservazione dell'integrità del patrimonio" (concetto pur ricorrente nella giurisprudenza della Corte) ma «si identifica nell'affidamento della parte privata nella correttezza della condotta» della P.A.

Resta da vedere, da ultimo, il dato relativo alla natura della responsabilità della P.A. derivante da lesione dell’affidamento.

La qualificazione operata dalla Corte è in termini di responsabilità di natura contrattuale da contatto sociale qualificato[29].

Si tratta, dunque, di quella responsabilità relazionale tra soggetti che prescinde dalla natura pubblica o privata degli interlocutori (vale per tutti i soggetti dell’ordinamento): essa discende dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede ricavate dagli obblighi di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. e dalla l. n. 241/1990 in tema di procedimento amministrativo, che al suo art. 1 recepisce i principi dell’ordinamento comunitario ai quali deve conformarsi l’attività amministrativa.

Anche mediante il richiamo a precedente giurisprudenza della medesima Corte[30], è affermato che «la responsabilità che grava sulla P.A. per il danno prodotto al privato a causa della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa non sorge in assenza di rapporto, come la responsabilità aquiliana, ma sorge da un rapporto tra soggetti – la pubblica amministrazione il e privato che con questa entra in relazione – che nasce prima e a prescindere dal danno e nel cui ambito il privato non può fare affidamento nella correttezza della pubblica amministrazione».

 

  1. Lesione dell’affidamento, responsabilità, contatto sociale e giurisdizione.

L’orientamento fondato sulla base della lettura “alternativa” sopra prospettata, elaborato fin dal 2011, in tema di giurisdizione risarcitoria e che cerca di ritagliare spazi a favore del G.O., ha alcuni aspetti apprezzabili, quali:

- la valorizzazione del ruolo della correttezza e della buona fede di cui all’art. 2 Cost., che, quali generali doveri di solidarietà sociale, toccano tutti i soggetti dell’ordinamento (a prescindere dalla loro veste e qualificazione);

- con specifico riguardo ai soggetti pubblici, la sottolineatura che il “buon andamento” di cui all’art. 97 Cost. abbraccia anche la coerenza e la ragionevolezza dell’agire procedimentale;

- l’estensione dell’area delle situazioni risarcibili, sussistenti anche in caso di provvedimento favorevole.

Ciò non toglie che la direttrice ermeneutica in questione ha destato perplessità in punto di giurisdizione, specialmente qualora sussista quella esclusiva.

Come si è evidenziato in precedenza, tanto nel caso di provvedimento favorevole successivamente annullato, quanto in caso di diniego del provvedimento con lesione dell’affidamento dell’interessato che aveva confidato nel rilascio, si “riduce” la relazione esistente tra le parti alla stregua del “mero comportamento”.

Aver riconosciuto l’esistenza di un contatto sociale (e di un affidamento) di tipo privatistico generato in occasione del procedimento amministrativo ma dotato di autonomia concettuale rispetto al rapporto ammini­strativo instauratosi, genera una relazioneparitaria” che correrebbe in parallelo ad ogni rapporto amministrativo.

Si tratta dei passaggi “chiave” finalizzati ad affermare la giurisdizione ordinaria.                                                                                                                                

Parimenti si è visto che, quale supporto ermeneutico, sono richiamate anche le acquisizioni dell’Adunanza Plenaria n. 5/2018.

Ma si tratta di un’operazione interpretativa corretta?

Gli aspetti critici si possono riassumere nell’ambito dei seguenti macro-profili.

  1. a) Si crea una indebita parificazione tra agire pubblico e privato.

Sia nel caso che venga annullato un provvedimento favorevole sia nel caso di mancata adozione lesiva però dell’affidamento, la relazione tra le parti è creata, funzionalizzata, scandita e realizzata all’interno del procedimento amministrativo ed in ragione di esso.

L’attività procedimentale/provvedimentale è pubblicistica: in tale sequenza di atti e comportamenti, non è concepibile un comportamento procedimentale non riconducibile al potere, anche in via mediata.

Non c’è spazio, dunque, nel predetto contesto, per comportamenti meri e neanche è sostenibile affermare che il procedimento sia “occasione” per l’esercizio del potere, essendone, invece, il luogo e modo fisiologico di manifestazione.

Ecco che il danno eventualmente arrecato non può che essere “collegato” al potere amministrativo.

In tali casi, la tutela risarcitoria che si intende azionare è comunque rivolta a ristorare le conseguenze di un potere illegittimamente esercitato: «l'azione amministrativa illegittima - composta da una sequela di atti intrinsecamente connessi - non può essere scissa in differenti posizioni da tutelare, essendo controverso l'agire provvedimentale nel suo complesso, del quale l'affidamento costituisce un riflesso, privo di incidenza sulla giurisdizione»[31].

La pretesa a non vedere lese le aspettative del privato verso l’agire provvedimentale costituisce una realtà unitaria, inscindibile con il provvedimento qualora emanato (anche se successivamente annullato) ed in ogni caso dialoga con una funzione autoritativa (qualora il provvedimento sia negato).

Anche in caso di determinazione dell’amministrazione nel senso del diniego è stato esercitato un potere, l’aver ingenerato affidamenti con un agire procedimentale orientato in direzione opposta, non riduce la relazione a privatistica.

Si è in presenza, quindi, di un interesse legittimo.

Anche tenuto conto dell’ormai consolidata ricostruzione della tematica fatta dalla Corte Costituzionale, si deve ritenere che anche i comportamenti della P.A. – quindi a prescindere dall’emanazione di provvedimenti – tenuti nell’ambito del procedimento siano espressione di potere pubblicistico, non essendo recidibile il legame procedimentale, con ovvia conseguenze in punto di giurisdizione: i danni da comportamenti scorretti nella gestione del procedimento amministrativo vanno ricondotti alla giurisdizione generale di legittimità del G.A., quale giudice non dell’atto ma del potere, ex art. 7 c.p.a.[32]

Ancora va rilevato che l’amministrazione in simili contesti deve perseguire il fine della “buona amministrazione” (art. 41 Carta dei diritti fondamentali della UE) ma non agisce da corretto contraente: la buona fede e la correttezza, rilevano, quindi, come regole modali dei pubblici poteri e non come parametro privatistico di un’azione amministrativa considerata nel suo aspetto “precontrattuale”.

  1. b) Cosa si intende per affidamento?

Sul crinale dell’impropria assimilazione tra l’agire pubblico e privato, qualche specificazione ulteriore merita l’analisi del concetto di “affidamento”. Esso, nella configurazione attribuita dalla Corte, ha due caratteristiche: è di natura civilistica (quindi privatistica) ed è situazione considerata autonomamente tutelabile.

Pur in assenza di una espressa qualificazione in tal senso se ne dovrebbe dedurre che si sia in presenza di una situazione assimilabile ad un diritto soggettivo di credito in quanto generata nell’ambito di un rapporto giuridico “obbligatorio” tra l’amministrazione e il privato e, pertanto, autonoma e indipendente rispetto alla conservazione o acquisizione del bene (finale) della vita.

Su quest’ultima caratteristica – e riallacciandosi a quanto sopra detto sull’affidamento quale riflesso dell’agire procedimentale – può osservarsi che l’affidamento può avere una rilevanza come diritto meramente strumentale alla tutela dell’interesse legittimo (così come i diritti procedimentali e le facoltà connesse alla partecipazione) ma non come autonomo diritto di natura privatistica.

E’ proprio la sua natura comunque pubblica che non può essere persa di vista.

Ciò non solo nel caso di affidamento legittimo, quale interesse alla conservazione di un vantaggio conseguito in buona fede decorso un ragionevole periodo di tempo.

Infatti, anche nel caso di affidamento collegato alla buona fede ex art. 2 Cost., dunque quale regola di comportamento, il principio è sì di estrazione privatistica ma riguarda l’aspettativa nei confronti di un agire pubblico che, nell’esplicarsi del procedimento, sia lineare e non contraddittorio e non ingeneri false convinzioni in ordine all’esito favorevole di questo.

Come può essere la P.A., in tale contesto, considerata come un “qualsiasi privato”?

Ulteriori specificazioni possono farsi distinguendo l’ipotesi dell’attività vincolata, come quella che viene in rilievo nella sentenza esaminata, da quella discrezionale.

Nel primo caso, nel quale “l’aspettativa” del privato è legata alla conformità legale del provvedimento, non c’è spazio per un affidamento come quello di cui si discute in questa sede, a maggior ragione considerando che il dialogo, la relazione, la collaborazione procedimentale tra parte pubblica e privata sono regolati dalle norme pubblicistiche della l. n. 241/90, come il preavviso di diniego ex art. 10 bis e l’obbligo per la P.A. di valutare memorie documenti di parte, ove pertinenti ex art. 10, comma 1, lett. b).

Maggior spazio concettuale per una pretesa alla correttezza, linearità e coerenza dell’azione amministrativa, potrebbe ravvisarsi nell’ipotesi di attività discrezionale, tuttavia non è da sottovalutare il rischio, derivante dalla dilatazione del concetto di affidamento, di innescare meccanismi di chiusura o veri e propri fenomeni di amministrazione difensiva, riflettenti l’interesse della parte pubblica a negare comunque l’utilità rivendicata, facendosi schermo dell’onere gravante sul privato di impugnare il provvedimento denegatorio[33].

  1. c) Non è corretto ipotizzare una sorta di “doppio binario” volto alla creazione di un rapporto di tipo privatistico (da contatto sociale) parallelo a quello pubblicistico (amministrativo).

Il procedimento amministrativo, pur scandito in fasi, va considerato quale realtà unitaria e non come momento “bifasico” da cui deriverebbero distinti rapporti privatistici e pubblicistici: come è possibile la scissione tra bene della vita finale inciso dal potere pubblico illegittimo e affidamento privatistico?

E, soprattutto, questa scissione dei due ambiti rischia di far regredire l’interesse legittimo quasi a mera pretesa alla legittimità formale dell’azione amministrativa, come era ritenuto in passato, in quanto tutti gli aspetti connessi alla correttezza dell’agire pubblico – e che incidono sul risultato finale atteso dal privato – sarebbero assorbiti dal presunto parallelo rapporto “privatistico”.

In realtà nel rapporto procedimentale le regole giuridiche si fondono con i principi di correttezza per dar vita al giusto procedimento, sia nell’ottica dell’art. 6 CEDU che nella legge n. 241/90, oggetto di recente riforma, come si accennerà.

Perché la lesione dell’affidamento procedimentale non può essere qualificata come interesse legittimo?

Ciò è tanto più vero in casi come quelli esaminati in cui la regolazione degli interessi è espressione di un’istituzionale asimmetria di potere tra gli interlocutori coinvolti.

La ricostruzione della Corte è articolata ma, in definitiva, ha come premessa una riduzionistica e angusta visione dell’interesse legittimo.

 

 

  1. d) Il contatto sociale

Quanto sopra detto si collega anche all’ulteriore aspetto degno di nota: la fattispecie risarcitoria esaminata è ricondotta dalla Corte nell’ambito della responsabilità da contatto sociale, quindi collocabile nella responsabilità (contrattuale) da inadempimento ex art. 1218 c.c.[34], richiamando anche l’impostazione estensiva dell’Adunanza Plenaria n. 5/2018.

Quest’ultima ha ampliato l’applicabilità dei principi di correttezza e buona fede derivanti dai vincoli solidaristici costituzionali anche alle fasi a connotazione pubblicista del procedimento ad evidenza pubblica (nella specie: anche prima e a prescindere dall’aggiudicazione).

Le statuizioni della Plenaria sono senza dubbio importanti al punto che ormai si ritiene che il principio di correttezza sia parte integrante del principio di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost.[35]

Tuttavia il richiamo a tale pronuncia, per i fini che qui interessano, andrebbe ridimensionato, considerando che:

  1. a) La plenaria non prende posizione sulla natura della responsabilità precontrattuale, non aderendo, dunque, all’impostazione della giurisprudenza civile che la riconduce sempre più nell’alveo di quella contrattuale.
  2. b) E’ vero che la Plenaria conferma che la violazione delle norme generali dell’ordinamento civile (cui anche la P.A. è sottoposta) «che impongono di agire con lealtà e correttezza (…) può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali».

Tuttavia viene chiarito che «nell’ambito del procedimento amministrativo (…) regole pubblicistiche e regole privatistiche non operano (…) in sequenza temporale (prime le une e poi le altre o anche le altre). Operano, al contrario, in maniera contemporanea e sinergica.»

E soprattutto è specificato che «le regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità».

Quindi non c’è alcuna frattura, o peggio ancora, alcun parallelismo all’interno dell’attività autoritativa del procedimento tra situazioni giuridiche di diritto pubblico e privato, restando confermato, invece, il legame tra comportamento e potere.

Come già detto, quindi, il procedimento non è “occasione” di esercizio del potere ma luogo fisiologicamente deputato alla sua estrinsecazione.

Ne consegue che il contatto sociale nel diritto amministrativo, genera non gli obblighi di protezione delle obbligazioni civilistiche ma interessi legittimi frutto dell’intermediazione pubblicistica.

  1. e) Sul piano strettamente processuale la concezione non sembra compatibile con la unificazione delle tutele sancita da codice del processo amministrativo (artt. 7 e 30): la tutela risarcitoria spettante al G.A. è quella relativa al danno non solo se consequenziale al provvedimento impugnato tempestivamente ma quale effetto di ogni forma di esercizio del potere.

Inoltre si fornisce rilievo – e la sentenza in commento lo rileva espressamente[36] – alla qualificazione della domanda del ricorrente (criterio del petitum formale) ai fini della individuazione della giurisdizione: quella ordinaria scaturirebbe in virtù del fatto che oggetto della richiesta non è la legittimità del provvedimento, ma la lesione dell’affidamento dell’attore nella legittimità dello stesso.

Questa impostazione, infine, mina anche l’ormai acquisita natura del giudizio amministrativo come giudizio sul rapporto, riportandolo, invece nell’alveo dell’atto.

 

  1. Alla ricerca di una linea di continuità tra la sentenza n. 8236/2020 e la sentenza n. 500/1999. Spunti ricostruttivi.

Quanto fino ad ora osservato in senso fortemente critico sul piano della giurisdizione non osta, tuttavia, ad una riflessione sulla portata sistematica, e potrebbe aggiungersi, “sintomatica”, di questa decisione.

Poco più di venti anni fa si prospettava ciò che, nella dogmatica, è stata definita una “svolta epocale” nella Giustizia amministrativa, indotta dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 500/1999 con cui veniva superato quello che notoriamente era il dogma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo: per effetto di tale pronuncia la tutela risarcitoria in caso di “danno ingiusto” è stata estesa a tutte le situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento, e ciò a prescindere dalla loro qualificazione strutturale.

In sostanza, si è teorizzata la piena giustiziabilità delle posizioni soggettive anche verso il potere amministrativo, così dando piena e completa attuazione all’art. 24 Cost.

La valenza di tale pronuncia è stata, ed è tuttora, da rintracciarsi nella incessante tendenza pretoria, che accomuna tanto l’interesse legittimo che la responsabilità civile, volta ad un accrescimento delle tutele e, attraverso le stesse, [ad un] riconoscimento di situazioni e interessi tutelabili”[37].

Se si volesse trovare un filo conduttore tra quella decisione e la linea ermeneutica inaugurata nel 2011, di cui la sentenza n. 8236/20 è espressione, è proprio l’incremento delle tutele del privato nei confronti dell’agire pubblico, quasi a sancire un “completamento” del quadro delle situazioni risarcibili.

La protezione giuridica viene assicurata anche in caso di provvedimento favorevole (successivamente annullato) e addirittura, a prescindere dall’emanazione di questo, nell’ipotesi di comportamento procedimentale contradditorio lesivo dell’affidamento, con il corollario del riconoscimento di un “dovere” (o addirittura “obbligo”, secondo le Sezioni Unite) di razionalità e correttezza dei comportamenti dei pubblici poteri.

Come si vedrà nel paragrafo successivo, pochi mesi dopo, anche il legislatore cristallizzerà questi canoni nella legge sul procedimento amministrativo.

Al netto delle pur innegabili “interferenze” tra giurisdizioni, più volte cennate nel corso del presente elaborato, si è al cospetto di una linea interpretativa di estremo interesse sul piano dell’ispessimento della tutela giuridica sostanziale delle posizioni attive.

Ma vi è di più: la decisione è anche espressiva di un mutamento più ampio e articolato che sta attraversando il mondo del diritto amministrativo moderno e che non può essere trascurato.

Si potrebbe quasi dire che si tratti di un diritto in trasformazione: si espande, cioè, come riflesso dell’espansione dell’azione amministrativa verso nuovi ambiti in una società sempre più complessa (a livello normativo, istituzionale e organizzativo) [38] e si iscrive nel continuo avvicinamento tra diritto pubblico e privato.

Un fenomeno, quest’ultimo, di cui il diritto amministrativo attinge, ciò inverandosi nella condivisione non solo di specifici istituti giuridici (ad es. gli accordi, i principi in tema di società pubbliche, la compensatio lucri cum damno), ma di metodiche interpretative del quadro normativo – che direttamente incidono sul sindacato giurisdizionale – e di una strutturazione per principi e clausole generali.

Questi, nel contesto così descritto di rafforzamento delle garanzie, hanno ormai hanno significativamente ampliato i confini della loro tradizionale perimetrazione teorica (si pensi ai canoni di buona fede, correttezza, proporzionalità, trasparenza).

Ne deriva un’azione amministrativa declinata su moduli organizzativi e di azione più “aperti” e flessibili, dove maggior spazio è rivestito dall’autonomia negoziale, rispetto ad un passato nel quale invece, era imperante il monopolio granitico del principio di tipicità, a sua volta espressione di quello di legalità.

La sentenza, probabilmente, è sintomatica di questa inclinazione evolutiva e di questo nuovo clima che ha fatto anche parlare di inziale creazione di un sistema di “diritto comune” civile-amministrativo[39].

  1. Brevi cenni sul d.l. n. 76/2020.

Riguardo alle regole di comportamento dell’agire pubblico un cenno merita sicuramente il comma 2 bis introdotto nel corpo dell’art. 1 della l. n. 241/90 dal d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni, conv. nella l. n. 120/20).

Esso, con una formula che richiama altre norme presenti nell’ordinamento[40], prevede che: “i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione della buona fede”.

La nuova disposizione ha, senza dubbio, la sua importanza nel momento in cui aggiunge esplicitamente due nuovi criteri a quelli generali che reggono l’attività amministrativa, ma essa, quanto alla buona fede, non fa altro che cristallizzare le acquisizioni della giurisprudenza amministrativa sopra viste.

Anche in ordine al principio di collaborazione, non c’è alcuna rivoluzione, trattandosi di un canone già ricavabile da tutte le norme che regolano la dialettica collaborativa tra parte pubblica e privata, quali quelle del capo III della legge n. 241/90 (artt. 7 e ss., tra cui comunicazione di avvio del procedimento, preavviso di rigetto, accordi).

Essa, in definitiva, sembra il frutto della già accennata tendenza ad impiantare nel settore pubblico norme di stampo privatistico nell’ambito del continuo processo di commistione tra diritto amministrativo e civile ma non sembra essere idonea a provocare mutamenti o sconfinamenti di giurisdizione rispetto alle regole consolidate.

 

  1. La recente rimessione alla CGUE sul concetto di “motivi inerenti alla giurisdizione”.

Discorrendo di confini tra le due sfere dello ius dicere che sembrano quantomai “mobili” non può ignorarsi che proprio recentissimamente si è (ri)proposta con l’ordinanza n. 19598 del 18 settembre 2020 delle SS.UU. la questione relativa alla portata del concetto di “motivi inerenti alla giurisdizione”.

Come noto, ex art. 111, comma 8 Cost., trattasi dell’unica ipotesi di ricorso in Cassazione per le sentenze del Consiglio di Stato (quindi non anche per motivi inerenti all’errata interpretazione o applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale).

Ricadono nelle questioni di giurisdizione le violazioni dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, che, per i fini che qui interessano, si concretizzano nell’eccesso di potere giurisdizionale (in caso di invasione della sfera di attività di altri poteri o della sfera di discrezionalità della P.A.) e nel difetto assoluto di giurisdizione, se la pretesa non è azionabile.

Tuttavia nell’ultimo decennio è emersa un’esegesi estensiva delle Sezioni Unite che ammette il sindacato della Corte – nella forma del vizio di eccesso di potere giurisdizionale –  nelle ipotesi in cui la sentenza del Consiglio di Stato sia fondata su di un’interpretazione delle norme che si risolve nel negare l’accesso alla tutela giurisdizionale garantita dall’ordinamento.

Già proposta in passato, ad esempio in tema di responsabilità della P.A. per attività provvedimentali, questa linea interpretativa è stata riaffermata con la citata ordinanza a proposito di procedure ad evidenza pubblica, in particolare relativamente alla legittimità dell’esclusione dalla gara del concorrente che non superi la soglia di sbarramento per le offerte fissata dalla stazione appaltante.

Viene criticata la consolidata giurisprudenza amministrativa che considera non sussistente la legittimazione ad impugnare gli atti di gara in caso di esclusione determinata da difetto di requisiti soggettivi di partecipazione o per carenza delle condizioni relative alle offerte tecniche, a meno che non si ottenga una pronuncia di accertamento della illegittimità della propria esclusione.

Il soggetto escluso risulta portatore di un interesse di mero fatto così da determinare l’inammissibilità dei relativi motivi di ricorso, con preclusione, quindi, di ogni esame nel merito.

Per la Corte da ciò deriverebbe una «consequenziale violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, codificato in materia nell'art. 1, par. 1, comma 3, della Direttiva Cee 21 dicembre 1989, n. 665, e diniego di accesso alla tutela stessa, censurabile con ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, ai sensi dell'art.111 Cost., comma 8».

Sembrava una questione definitivamente chiusa dall’intervento della Corte Costituzionale avvenuto con la sentenza n. 6/2018[41].

Il Giudice delle leggi aveva ristabilito i confini, riportando la giurisdizione della Corte di Cassazione sostanzialmente alla sola materia del riparto, ribadendo che non è ammissibile la dilatazione dei limiti esterni della giurisdizione, non rientrandovi le questioni attinenti all’effettività della tutela, al giusto processo né alla primazia del diritto comunitario.

E’ evidente, infatti, che una diversa interpretazione stravolge l’art. 111, comma 8 Cost., il quale prevede il limite del sindacato per i soli motivi attinenti alla giurisdizione, per dilatarlo – erroneamente –  fino agli errores in procedendo o in iudicando.

Il diniego di giurisdizione dovrebbe risolversi nella (sola) ipotesi abnorme «in cui il giudice amministrativo erroneamente sostenga che in astratto una data situazione soggettiva non riceva tutela nell’ordinamento e non anche in tutte quelle ipotesi in cui la tutela sia negata per ragioni di ordine processuale o per ragioni di merito» [42].

Ora la Cassazione reitera i propri dubbi interpellando la Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE (rinvio pregiudiziale) sotto il profilo della formazione di un giudicato in contrasto col diritto dell’Unione.

Le conseguenze dirette del ragionamento della Corte sono piuttosto gravi e complesse: non solo vi è la sostanziale degradazione del Consiglio di Stato da organo di vertice della giurisdizione amministrativa a Corte di appello ma anche l’attribuzione di una funzione nomofilattica al vertice di un altro ordine giurisdizionale, contro le norme dell’ordinamento e per di più ad un giudice privo di giurisdizione su quella materia.

Nel caso in cui la Corte di Giustizia aderisse alle prospettazioni della Cassazione, inoltre, si aprirebbe l’interrogativo sull’estensibilità del rimedio nei confronti di errori relativi a situazioni giuridiche non di derivazione comunitaria.

E’ intuibile, di conseguenza, la portata potenzialmente dirompente di questo rinvio e della futura pronuncia in via pregiudiziale alla CGUE.

 

  1. Giurisdizione ed effettività della tutela.

Tutte queste divergenze sulla giurisdizione, derivanti da tendenze espansive del G.O., si sostanziano nell’accaparramento da parte di quest’ultimo di spazi di sindacato sugli atti della P.A.

Questi sconfinamenti, oltre a non essere rispettosi della natura dell’interesse legittimo, non potrebbero giustificarsi neppure richiamando eventuali esigenze di fornire adeguata tutela all’intera gamma delle tipologie di posizioni giuridiche nascenti dalle relazioni dei privati con la P.A.

L’interesse legittimo è situazione giuridica soggettiva che sorge in capo al privato dall’estrinsecarsi del potere pubblico e, come accennato, la concentrazione della tutela risarcitoria per tutte le forme di esercizio del potere (artt. 7 e 30 c.p.a.) risponde ad esigenze di giustizia sostanziale e di non frammentarietà del sistema.

Sul versante processuale, l’evoluzione legislativa ha determinato il progressivo potenziamento delle tecniche di tutela giurisdizionale proprie della giustizia amministrativa, le quali, attualmente, hanno raggiunto la pienezza, sia in chiave di poteri di accertamento che sul piano delle azioni esperibili.

Il criterio giurisprudenziale inaugurato nel 2011, pertanto, pur se mosso, come detto, da una logica incrementativa delle garanzie, dovrebbe confrontarsi con il fatto che quella tutela che si vuole adeguata e piena, è erogabile dal giudice naturale dell’interesse legittimo, il G.A.

Quel filone giurisprudenziale appare ancora più ingiustificato per le ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale storicamente è il prototipo della pienezza della tutela innanzi al G.A.

Anzi, è intuibile come la duplicazione e la frammentarietà degli strumenti volti ad azionare le posizioni giuridiche produca un vulnus proprio alla effettività della tutela giurisdizionale, correlata all’effetto utile del processo nei confronti della situazione giuridica azionata.

Una tutela effettiva presuppone giurisdizioni comunicanti e coordinate (da qui anche l’esistenza della translatio iudicii) e non in competizione tra loro e confliggenti.

Il principio ha i propri riferimenti nella Costituzione agli artt. 24, 11, 113, nella CEDU agli artt. 6 (equo processo) e 13 (effettività del ricorso) ed anche nell’art. 264 TFUE (effetti del ricorso per annullamento).

Esso è recepito nel primo articolo del c.p.a. quale criterio guida ed implica, secondo l’insegnamento di Chiovenda, che le forme processuali siano soltanto strumentali rispetto ai beni della vita, in modo che il processo sia in grado di fornire tutto ciò che è riconosciuto dalle norme sostanziali[43].

Frequentissimamente invocata in ogni trattazione o pronuncia, la tutela effettiva, non è una formula sterile ma si proietta concretamente in tre dimensioni le quali vanno tutte equamente considerate:

- Pienezza. Nel senso di essere strumento di realizzazione più satisfattiva possibile della pretesa sostanziale ma anche prospettiva di potenziale estensione della tutela ad aree o questioni per la quali il giudice non disponeva di una norma positiva ad hoc.

- Certezza preventiva sulla azionabilità degli strumenti processuali, sul confine reciproco dei mezzi di tutela a disposizione e delle interpretazioni giurisprudenziali.

- Tempo della risposta giudiziaria. Essa deve essere quantomeno non tardiva non solo a livello organizzativo (ma questa è un tema attinente alla finanza pubblica) ma anche possibilmente immune da strumenti dilatori disposizione delle parti.

Se così è, risulta innegabile che le incertezze derivanti da applicazioni giurisprudenziali confliggenti, il rischio di spostamento della controversia da un giudice ad un altro, il tempo necessario a definire i ricorsi finalizzati alla risoluzione delle questioni di giurisdizione pur in presenza di dati normativi chiari e univoci, danneggino le esigenze di tutela del privato, che proprio dal corpus delle norme esistenti (sostanziali e processuali) confida, aspettando da esse il ristoro dei pregiudizi arrecati dall’agere pubblico.

E’ lo stesso codice del processo amministrativo a sancire il nesso tra effettività e concentrazione della tutela, per cui la prima si realizza per mezzo della seconda (art. 7, comma 7 c.p.a.[44]), arrivandosi a ritenere che la norma fornisce «un criterio interpretativo ai fini del riparto di giurisdizione, volto a precisare che questo deve essere effettuato tenendo conto della regola dell’effettività»[45].

Si sarebbe potuto concludere auspicando un nuovo “concordato giurisprudenziale”, una nuova stagione di confronto e dialogo tra Corti, alla luce delle esigenze legate al sistema delle tutele delle situazioni giuridiche soggettive, il quale è sì distinto ma anche integrato[46].

Tuttavia la recente ordinanza della Suprema Corte, prima vista, che torna a dilatare il concetto di “limiti esterni della giurisdizione” non consente, forse, ad oggi, una simile prospettiva.

Ecco perché proprio a proposito del complesso contesto qui analizzato si è autorevolmente arrivati a parlare di “giurisdizioni sconfinate” e di «accaparramento di giurisdizione svolto nell’ottica di rivendicazione di poteri tra Corti» [47].

 

 

[1] Contributo realizzato quale elaborato finale del Master Universitario di II livello di LUMSA e SIAA in Diritto Processuale Amministrativo A.A. 2019/2020. Le opinioni espresse impegnano esclusivamente l’autore e non l’Amministrazione di appartenenza.

[2] E’ insita negli apparati pubblici la naturale propensione alla difesa delle proprie attribuzioni, che – fisiologicamente – tende a sfociare nella vindicatio potestatis tra poteri e negli orientamenti (reciprocamente) espansivi tra giurisdizioni.

 

[3] Progressivamente ci si è resi conto che non è corretto parlare di degradazione/affievolimento del diritto, poiché diritto soggettivo e interesse legittimo sono situazioni distinte, hanno ad oggetto beni giuridici diversi e possono anche coesistere a fronte dell’esercizio del potere pubblico (si pensi al diritto di proprietà che non è degradato ma coesiste - verso la P.A. - con l’interesse alla legittimità della procedura di espropriazione).

Una spia normativa del definitivo superamento della teoria è l’avvento della categoria della nullità (art. 21 – septies della l. n. 241/90). Anche in caso di atto nullo, e non solo annullabile, infatti, sussiste un (cattivo) uso del potere pubblico e non una carenza di potere, con la conseguenza che, a fronte di esso, residua una situazione di interesse legittimo.

[4] Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Parte II, cap. V, par. 2, ESI, Napoli 2019.

[5] Secondo la distinzione consolidata, la dicotomia tra le due situazioni giuridiche sarebbe da rinvenire nella considerazione che il diritto soggettivo fornisce una tutela piena ed immediata ad un interesse considerato da una norma regolante le relazioni intersoggettive (norme di relazione); l’interesse legittimo, secondo la teoria preferibile (normativa) è, invece, l’interesse - differenziato e qualificato da una norma attributiva di potere - ad un’utilità che il privato attende dall’esercizio di un pubblico potere; nasce, quindi, dall’intermediazione delle norme di azione regolanti l’esercizio e le modalità del potere pubblico.

E’ acquisito che, per definire i confini dello ius dicere, debba aversi riguardo alla intrinseca natura della situazione giuridica dedotta in giudizio (criterio del petitum sostanziale correlato alla causa petendi) e non alla mera prospettazione delle parti (tra le altre, si veda C.d.S., sentenza n. 3248 del 27 giugno 20149).

[6] C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 677 del 19 febbraio 2016.

[7] Il criterio in esame ha lo svantaggio principale di rendere incerta la distinzione tra carenza di potere e vizio di legittimità per violazione di legge, come dimostrano i contrasti registrati sul tema delle ordinanze contingibili e urgenti.

La norma sulla nullità (art. 21 – septies della L. n. 241/90) è anche qui sintomatica. Tra le cause di nullità vi è il “difetto assoluto di attribuzione”. Ciò significa che rende nullo il provvedimento sia la mancanza di norma attributiva (è competente un altro potere dello Stato, c.d. straripamento di potere) sia l’incompetenza assoluta (il potere spetta ad altro plesso della P.A.); la carenza in concreto va, invece, ricondotta al cattivo uso del potere e quindi all’ipotesi della annullabilità.

[8] Di recente ricorre a questa prospettazione Cass., SS. UU. civ. ord. n. 25101 del 8 ottobre 2019 in tema di diritto alle ore di sostegno per gli studenti disabili, ricondotte dalla Corte alla “discriminazione” ex artt. 44 del d.lgs. n. 286/1998 (T.U. Immigrazione) e 28 del d.lgs. n. 150/2011. Si veda anche Cass. SS.UU., ord. n. 21990 del 12 ottobre 2020 in materia di clausole di revisione dei prezzi.

[9] Attività vincolate (prive di margine di scelta), possono aversi: per vincolo di legge ab origine; nel caso di attività originariamente discrezionali ma limitate in seguito in virtù di accordi tra P.A. e privato; in caso di autovincolo amministrativo; in caso di esaurimento della discrezionalità a seguito di pronuncia giurisdizionale.

[10] Speculare è il caso dei c.d. interessi legittimi di diritto privato, che, proprio perché privi dell’intermediazione del potere pubblico ma derivanti da esercizio di poteri privati, sono devoluti alla giurisdizione del G.O.

Nel diritto privato si individua un interesse legittimo nella situazione di chi è assoggettato al potere discrezionale di un altro soggetto senza essere a lui legato da un rapporto giuridico (perché altrimenti scaturirebbero diritti ed obblighi).

E’ il caso in cui il soggetto è inserito in collettività private organizzate, come la famiglia, le associazioni, le imprese. Si pensi, rispettivamente, agli atti di esercizio della responsabilità genitoriale non lesivi di diritti ma contrari all’interesse educativo del minore, all’impugnazione delle delibere da parte del socio o dell’associato, al licenziamento collettivo.

[11] Si veda la nota n. 7.

[12] CdS, Sez. III, sent. n. 6371 del 21 ottobre 2020 in tema di diniego di cure all’estero.

[13] Cass., SS.UU., sent. n. 4615 del 25 febbraio 2011.

[14] C.d.S., A.P. n. 6 del 29 gennaio 2014.

[15] Per comprendere la portata dell’enunciazione, si tenga presente che all’indomani dell’introduzione, nell’art. 81 Cost., del principio del pareggio di bilancio (l. Cost. n. 1/2012; l. n. 243/12) si era acuita la tematica dei diritti finanziariamente condizionati, ovvero la considerazione delle esigenze di equilibrio finanziario e di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, quali inderogabili esigenze capaci di comprimere anche i diritti fondamentali, come quello alla salute.

E’ intervenuta la Corte Costituzionale con la fondamentale sentenza n. 275 del 16 dicembre 2016 (in tema di diritto all’istruzione dello studente disabile) a ribadire definitivamente che è la garanzia e l’attuazione piena ed effettiva dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di quest’ultimo a condizionare la loro doverosa erogazione.

Si è, dunque, in presenza di diritti che entrano nel giudizio di bilanciamento (non ne sono sottratti) ma che ne risultano in posizione di primato a salvaguardia del loro nucleo indefettibile di garanzie.

Che poi la realtà contingente renda i diritti sociali - materialmente - condizionati alle esigenze finanziarie è discorso fattuale che esula dal tema del bilanciamento.

[16] Corte Cost., sent. n. 140 del 27 aprile 2007.

[17] La questione si intreccia con quella della configurabilità di una giurisdizione esclusiva del G.O.

[18] C.d.S. A.P. n. 7 del 12 aprile 2016.

[19] C.d.S., Sez. III, sent. n. 6371/2020 cit.

[20] Sent. n. 204/2004 e n. 191/2006.

[21] Il risarcimento del danno non è né una “materia” né un diritto soggettivo in sé considerato. Tuttavia non sfugge il fatto che l’attribuzione al G.A. in giurisdizione esclusiva del risarcimento del danno da ritardo operata dall’art. 133, lett. a) n. 1 c.p.a. sembra sottintendere un’opzione legislativa per una diversa teoria, ovvero quella che considera il danno da lesione degli interessi legittimi quale diritto soggettivo al risarcimento, e come tale sempre materia di giurisdizione esclusiva.

[22] Il paradigma scelto è comunque quello di una “autonomia” temperata nei rapporti tra tutela risarcitoria e impugnatoria. Il temperamento è visibile sotto due profili.

Il primo è l’inserimento nell’art. 30 c.p.a. di un sostanziale onere di attivazione degli strumenti di tutela previsti (giurisdizionali e invito all’autotutela) la cui omissione può escludere o limitare il risarcimento.

Si tratta di un meccanismo che ricalca quello dell’art. 1227, comma 2 c.c., ma che, di fatto, riecheggia in parte la vecchia pregiudiziale amministrativa.

Molti dubbi suscita, in secondo luogo, la previsione di un termine decadenziale per l’ipotesi di lesione di interessi legittimi, evidentemente ispirata dall’esigenza di garantire la certezza del diritto nei rapporti giuridici. Essa stride con il fatto che il legislatore sembra aver sposato un modello di natura aquiliana di responsabilità risarcitoria (sancito dal riferimento al “danno ingiusto” di cui all’art. 30, comma 2) e determina una sorta di allineamento, omogeneizzazione tra tutela impugnatoria e risarcitoria.

E’ vero che anche nel campo civile esistono termini decadenziali preclusivi di azioni risarcitorie (es. in materia societaria) tuttavia si tratta di norme dettate dall’opportunità di garantire la stabilità dei rapporti nell’ambito di determinate collettività organizzate.

Nel caso in esame, dunque, resta un contrasto evidente con la funzione reintegratoria del risarcimento del danno causato al privato dall’attività pubblicistica.

[23] Cass., SS.UU., ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 23 marzo 2011.

[24] Cass., SS.UU., n. 8236 del 28 aprile 2020: «Spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto amministrativo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione».

[25] Invece l’ordinanza n. 19677 del 21 settembre 2020 tratta anch’essa la fattispecie, già vista nel 2011, del danno derivante dall’annullamento del provvedimento ampliativo favorevole (nella specie: aggiudicazione di una gara per l’appalto di un servizio pubblico).

[26] Sul punto oltre agli insegnamenti della Corte Cost sopra richiamati, si veda l’ordinanza della Cass., SS.UU., n. 22650 del 8 novembre 2016: «il discrimen ai fini del riparto di giurisdizione è rappresentato dall'essere o meno il comportamento riconducibile ad un potere amministrativo (quali che siano, legittime o illegittime, le modalità con cui è esercitato), restando, invece, estranei alla giurisdizione esclusiva assegnata in particolari materie al G.A. i comportamenti meramente materiali posti in essere dall'amministrazione al di fuori dell'esercizio di una attività autoritativa o che trovino solo occasione nell'esercizio di un pubblico potere».

[27] Dimensione in cui un atto provvedimentale di esercizio del potere amministrativo potrebbe mancare del tutto (come nel caso oggetto del presente giudizio) o, addirittura, essere legittimo, così da risultare "un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativi dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico" (con richiamo a Cons. St., A.P., 4 maggio 2018, n. 5).

[28] La Corte richiama anche una propria precedente pronuncia (la n. 1162/2015) in cui le Sezioni Unite hanno affermato la necessità di considerare ancora attuali i principi esposti nel 2011 nella fase successiva all’entrata in vigore del Codice, ed in riferimento agli artt. 7, comma 1 e 30, comma 2: essi infatti, perimetrano e connettono sempre e comunque la giurisdizione amministrativa in base all’esercizio del potere amministrativo.

[29] Parametro del risarcimento del danno non saranno, quindi, le utilità derivanti o connesse al conseguimento del provvedimento, ma il c.d. interesse contrattuale negativo sia in termini di danno emergente (ovvero le spese sostenute) che di lucro cessante (inteso quali occasioni contrattuali e di investimento alternativo perdute e non come mancato guadagno rispetto al provvedimento annullato).

[30] Cass. civ., sez. I, n. 157 del 10 gennaio 2003; Id. n. 24382 del 21 giugno 2010; Id. n. 24438 del 21 novembre 2011; Id. n. 9636 del 12 maggio 2015; Id. n. 14188 del 16 luglio 2016; Id. n. 25644 del 27 ottobre 2017.

[31] Cosi correttamente Cass. SS.UU. civili, ordinanza n. 8057 del 21 aprile 2016 (in ambito di giurisdizione esclusiva).

[32] Cfr. F. Caringella, Compendio maior di diritto amministrativo, Roma, 2020, Parte II, cap. I, par. 5.

Per una sintetica panoramica delle posizioni aderenti ad una impostazione diversa, ovvero favorevoli a riconoscere la natura di diritti soggettivi agli interessi partecipativi, si veda S. Pellizzari, “L’illecito dell’amministrazione. Questioni attuali e spunti ricostruttivi alla luce dell’indagine comparata”, ESI, Napoli, 2017. pag. 216 e ss.

[33] Cfr. G. Tulumello, “Le Sezioni Unite e il danno da affidamento procedimentale: la “resistibile ascesa” del contatto sociale”, in giustizia-amministrativa.it , dottrina, 2020.

[34] Come noto, si tratta di una responsabilità che nasce in assenza di uno specifico e formale legame contrattuale, per l’effetto del contatto esistente tra le parti: non potendosi più considerate le parti come “estranei” ne conseguirebbe l’applicabilità non del regime dell’art. 2043 c.c. ma di quello dell’art. 1218 c.c. (per il tramite dell’art. 1173 c.c.).

Si parla anche di rapporti contrattuali di fatto, in quanto contrattuale sarebbe solo il rapporto ma non la fonte o di obbligazioni senza prestazione: manca l’obbligo primario di prestazione, il quale sorge solo dopo che si è creata un’ingerenza dell’altrui sfera giuridica, data dall’aver iniziato la prestazione stessa. Di qui la genesi dell’obbligo di collaborazione, il sorgere delle aspettative della controparte e la responsabilità da affidamento.

[35] Cfr. F. Caringella, Compendio maior di diritto amministrativo, Roma, 2020, Parte I, cap. II, par. 4.3.

[36] Par. 24 della motivazione: «il presupposto perchè si possa predicare la sussistenza della giurisdizione amministrativa, tuttavia, è che il danno di cui si chiede il risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione sia causalmente collegato alla illegittimità del provvedimento amministrativo; in altri termini, che la causa petendi dell'azione di danno sia la illegittimità del provvedimento della pubblica amministrazione;

- esula, pertanto, dalla giurisdizione amministrativa la domanda con cui il destinatario di un provvedimento illegittimo ampliativo della sua sfera giuridica chieda il risarcimento del danno subito a causa della emanazione e del successivo annullamento (ad opera del giudice o della stessa pubblica amministrazione, in via di autotutela) di tale provvedimento; la causa petendi di detta domanda, infatti, non è la illegittimità del provvedimento amministrativo, bensì la lesione dell'affidamento dell'attore nella legittimità del medesimo.»

[37] F. Patroni Griffi, “A 20 anni dalla sentenza n. 500-1999: attività amministrativa e risarcimento del danno”, 2019, in giustizia-amministrativa.it

[38] A dispetto del clima economico sempre più orientato verso la diminuzione degli spazi di azione pubblica (processi di liberalizzazione e privatizzazione).

[39] G. P. Cirillo “Sistema istituzionale di diritto comune”, Cedam, Padova 2018.

[40] Cfr. art. 10, comma 1, legge n. 212/2000 (Statuto del contribuente).

[41] Corte Cost., sentenza n. 6 del 18 gennaio 2018: «E’ inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nell’ambito di un giudizio ex art. 111, comma 8, Cost., in cui ci si duole della interpretazione accolta dal Consiglio di Stato di una norma processuale o sostanziale che impedisce la piena conoscibilità nel merito di una domanda giudiziaria, non rientrando siffatta censura nell’ambito del sindacato sui limiti esterni della giurisdizione; ciò in quanto tra i vizi denunciabili con il predetto rimedio sono ricomprese le sole ipotesi di difetto assoluto ovvero di difetto relativo di giurisdizione mentre non sono tali le questioni attinenti al rispetto dei principi di primazia del diritto comunitario, di effettività della tutela, del giusto processo e dell’unità funzionale della giurisdizione, né il sindacato sugli errores in procedendo o in iudicando.»

[42] F. Patroni Griffi, “Le giurisdizioni sconfinate”, 13 novembre 2020, in giustizia-amministrativa.it.

[43] G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1932, I, 41.

[44] "Il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi".

[45] A. Pajno, Il codice del processo amministrativo ed il superamento del sistema della giustizia amministrativa. Una introduzione al libro I, in Il diritto processuale amministrativo, 2011, vol. 29, fasc. 1, p. 100 – 132.

[46] E. Scoditti, “Il riparto di giurisdizione: dalla separazione alla integrazione delle tutele” (Relazione al Convegno per i 130 anni dell’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato – Roma, Palazzo Spada, 20 novembre 2019), in giustizia-amministrativa.it, dottrina, 2019.

[47] F. Patroni Griffi, “Le giurisdizioni sconfinate”, cit., il quale osserva: «Noi scontiamo una carenza storica: la mancanza di un Tribunale dei conflitti (come in Francia, a composizione paritetica e con turnazione della presidenza) o un criterio di riparto netto fondato sulla presenza in giudizio dell’amministrazione (come sostanzialmente in Germania).»