Giurisprudenza Amministrativa

Corte dei conti, Sezione Regionale di controllo per la Regione Marche, Deliberazione n. 161/2024/PAR, sulla possibilità di disporre, da parte di un Comune, la concessione diretta ad una associazione non riconosciuta del Terzo Settore, partecipata dallo stesso, di uno spazio pubblico per la realizzazione e gestione da parte della medesima Comunità di un impianto a fonte rinnovabile.
Di Giuseppe Lonero
Corte dei conti, Sezione Regionale di controllo per la Regione Marche, Deliberazione n. 161/2024/PAR, sulla possibilità di disporre, da parte di un Comune, la concessione diretta ad una associazione non riconosciuta del Terzo Settore, partecipata dallo stesso, di uno spazio pubblico per la realizzazione e gestione da parte della medesima Comunità di un impianto a fonte rinnovabile.
Di Giuseppe Lonero
Nell’ambito della materia dei contratti pubblici, la delibera in esame ha ad oggetto il quesito se sia possibile e legittimo disporre da parte di un Comune la concessione diretta ad una Comunità di Energia Rinnovabile (associazione non riconosciuta del Terzo Settore) partecipata dallo stesso, di uno spazio pubblico per la realizzazione e gestione da parte della medesima Comunità di un impianto a fonte rinnovabile, prevedendo anche il pagamento da parte della Comunità di un canone stimato congruo. La Sezione - richiamando l’art. 71, c. 2, del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, cd. Codice del Terzo Settore – ha riconosciuto la legittimità dell’operazione alle seguenti condizioni: l’ente deve dimostrare il perseguimento dell’effettivo interesse pubblico (che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello meramente economico) fermo restando lo scopo non lucrativo di utilizzazione del bene; deve effettuare una necessaria ricognizione sui propri beni, valutando se risultino funzionali alle attività istituzionali degli ETS; deve, infine, in conformità ai principi di imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, procedere all’affidamento previo un avviso pubblico con conseguente procedura comparativa.
In particolare, la Sezione, affrontando le questioni processuali, ricorda che la funzione consultiva della Corte dei Conti non può essere intesa come consulenza generale e precisa che le Sezioni regionali di controllo non possono pronunciarsi su quesiti che implichino valutazioni sui comportamenti amministrativi o attinenti a casi concreti o ad atti gestionali già adottati o da adottare da parte dell’Ente. In tale prospettiva, richiama il costante orientamento della Corte dei conti alla stregua del quale la funzione consultiva non può risolversi in una surrettizia modalità di co-amministrazione, rimettendo all’Ente ogni valutazione in ordine a scelte eminentemente discrezionali (ex multis, deliberazione della Sezione regionale di controllo per le Marche n. 21/2012/PAR). Sulla scorta delle conclusioni raggiunte in sede consultiva, per la Sezione, l’Ente non può mirare ad ottenere l’avallo, preventivo o successivo che sia, della magistratura contabile in riferimento alla definizione di specifici atti gestionali, tenuto anche conto della posizione di terzietà e di indipendenza che caratterizza la Corte dei conti, quale organo magistratuale.
Peraltro, precisa la Corte, la funzione consultiva non può interferire con le altre funzioni attribuite alla Corte dei conti (di controllo e giurisdizionali) o ad altra magistratura. A tale proposito, richiama la deliberazione della Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, n. 24/SEZAUT/2019/QMIG, secondo cui “appare opportuno ribadire che la funzione consultiva di questa Corte non può espletarsi in riferimento a quesiti che riguardino comportamenti amministrativi suscettibili di valutazione della Procura della stessa Corte dei conti o di altri organi giudiziari, al fine di evitare che i pareri prefigurino soluzioni non conciliabili con successive pronunce dei competenti organi della giurisdizione (ordinaria, amministrativa, contabile o tributaria). La funzione consultiva della Corte dei conti, infatti, non può in alcun modo interferire e, meno che mai, sovrapporsi a quella degli organi giudiziari”.
Ciò posto, la Corte evidenzia che la questione sottoposta al suo scrutinio verte sulla corretta interpretazione dell’art. 71, comma 2, del decreto legislativo del 3 luglio 2017 n. 117, cd. Codice del Terzo Settore, il quale recita “lo Stato, le Regioni e Province autonome e gli Enti locali possono concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, agli enti del Terzo settore, ad eccezione delle imprese sociali, per lo svolgimento delle loro attività istituzionali. La cessione in comodato ha una durata massima di trent'anni, nel corso dei quali l'ente concessionario ha l'onere di effettuare sull'immobile, a proprie cura e spese, gli interventi di manutenzione e gli altri interventi necessari a mantenere la funzionalità dell'immobile.”
La disposizione, come evidenziato dalla Sezione, contiene vari aspetti che devono essere esaminati per la questione in esame: il Comune di Grottammare intende assegnare in concessione diretta (in comodato) alla Comunità di Energia Rinnovabile, associazione non riconosciuta del Terzo Settore, alla quale il Comune stesso ha aderito, uno spazio pubblico (tetto di edificio e/o parcheggio, non specificamente indicato) per la realizzazione e gestione da parte della medesima Comunità di un impianto a fonte rinnovabile, attinente alla attività istituzionale svolta dalla Comunità. Preliminarmente, la Corte precisa che le Comunità di Energia Rinnovabile (CER) sono definite dalla direttiva (UE) 2018/2001, all'art. 2, paragrafo 2, numero 16), come «soggetto giuridico: a) che, conformemente al diritto nazionale applicabile, si basa sulla partecipazione aperta e volontaria, è autonomo ed è effettivamente controllato da azionisti o membri che sono situati nelle vicinanze degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili che appartengono e sono sviluppati dal soggetto giuridico in questione; b) i cui azionisti o membri sono persone fisiche, PMI o autorità locali, comprese le amministrazioni comunali; c) il cui obiettivo principale è fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai suoi azionisti o membri o alle aree locali in cui opera, piuttosto che profitti finanziari».
La stessa direttiva, all'art. 22, stabilisce in capo agli Stati membri una serie di obblighi finalizzati a promuovere e agevolare lo sviluppo delle CER. Alla citata direttiva, specifica la Corte, è stata data attuazione in Italia in due tempi. In un primo momento, l'art. 42-bis del decreto legge del 30 dicembre 2019 n. 162, come convertito, ha dettato una disciplina di carattere transitorio e sperimentale, consentendo, «[n]elle more del completo recepimento» della direttiva (UE) 2018/2001, la realizzazione di CER secondo le modalità e alle condizioni stabilite dallo stesso articolo. Successivamente, il d.lgs. dell’8 novembre 2021 n. 199 ha provveduto a dare piena e stabile attuazione alla direttiva in esame. In particolare, all'art. 31 vengono stabiliti i requisiti per la partecipazione alle CER e le condizioni alle quali le stesse possono operare, mentre l'art. 32, comma 3, assegna ad ARERA il compito di adottare, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, i provvedimenti necessari a garantire l'attuazione delle disposizioni in materia di CER. L’obiettivo principale è quello di fornire benefici ambientali, economici e sociali ai propri membri o soci e alle aree locali in cui opera, attraverso l’autoconsumo di energia rinnovabile. La CER può essere costituita sotto forma di associazione, ente del terzo settore, cooperativa, cooperativa benefit, consorzio, ovvero organizzazione senza scopo di lucro, al fine di dotare la CER di una propria autonomia giuridica attraverso una qualsiasi forma che ne garantisca la conformità con i principali obiettivi costitutivi.
Dal complesso delle disposizioni in materia, per la Sezione, si evince come tanto il legislatore europeo, quanto quello italiano, esprimano un marcato favor nei confronti delle CER, quali strumenti ispirati al principio di sussidiarietà orizzontale, finalizzati alla produzione di energia da fonti rinnovabili e alla riduzione del consumo di energia da fonti tradizionali. (Corte Cost. sent. n. 48 del 23 marzo 2023). Peraltro, il decreto legge 29 maggio 2023, n. 57, convertito con modificazioni, dalla legge 26 luglio 2023 n. 95, all’art. 3-septies, ha ampliato l’elenco delle attività di interesse generale dell’articolo 5 del D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo Settore) e, modificando la lett. e) introduce “la produzione, all’accumulo e alla condivisione di energia da fonti rinnovabili a fini di autoconsumo, ai sensi del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199”, consentendo quindi alle associazioni e fondazioni CER di iscriversi al Registro unico nazionale del terzo settore.
Quanto sopra premesso, e nella pluralità di forme giuridiche in cui la CER può costituirsi, la Sezione evidenzia che il Comune dichiara che la “Comunità di Energia Rinnovabile ( CER) si è costituita sul proprio territorio con la forma giuridica dell’associazione non riconosciuta del Terzo Settore, ai sensi dell’articolo 31 del decreto legislativo 8 novembre 2021 n. 199 e successive modifiche e integrazioni, con le relative disposizioni di attuazione, e del decreto legislativo 3 luglio 2017 n.117 – Codice del Terzo Settore”: la finalità della CER risulta pertanto attinente, per la parte che interessa, alle disposizioni contenute nel codice del Terzo Settore (Decreto legislativo 3 luglio 2017 n. 117) attraverso il quale il legislatore si è fissato l’obiettivo di « sostenere l'autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene Comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l'inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa » (art. 1 d.lgs. n. 117/2017 citato).
Il Codice introduce infatti, aggiunge la Corte, alcuni istituti di ‘coinvolgimento amministrativo' degli enti del Terzo settore sotto forma di moduli partecipativi, quale, ad esempio, la co-programmazione (art. 55, comma 2), ovvero co-decisori, com'è il caso della co-progettazione (art. 55, comma 3), diretta alla definizione ed eventuale realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare i bisogni individuati in precedenza. Inoltre, riconosce (art. 56) alle pubbliche amministrazioni la facoltà di sottoscrivere con le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi di attività e servizi sociali di interesse generale. In materia, va fatto cenno anche all’art. 6 del decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36 (cd. Codice dei contratti pubblici), il quale, recependo la sentenza n.131/2020 della Corte Costituzionale, ha introdotto un doppio sistema fondato su due modelli organizzativi alternativi per l’affidamento dei servizi sociali, uno nel rispetto del principio di concorrenza e l’altro basato sulla solidarietà e sussidiarietà orizzontale. Tale articolo dispone “In attuazione dei principi di solidarietà sociale e di sussidiarietà orizzontale, la pubblica amministrazione può apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, modelli organizzativi di amministrazione condivisa, privi di rapporti sinallagmatici, fondati sulla condivisione della funzione amministrativa con gli enti del Terzo settore di cui al codice del Terzo settore di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017 n.117 sempre che gli stessi contribuiscano al perseguimento delle finalità sociali in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente e in base al principio del risultato.”.
Come ricordato dalla Corte, il modello riguarda, nello specifico, forme di “affidamento diretto” per i servizi sociali di interesse generale prestati dagli Enti del Terzo Settore (ETS). Si tratta, a ben vedere, di un sistema non derogatorio rispetto al paradigma generale incentrato sulla concorrenza, bensì di un modello a sua volta generale da coordinare con quest’ultimo. Un modello che si basa su principi di rango costituzionale, stante la connessione con l’art. 118 co. 4 della Costituzione in tema di sussidiarietà orizzontale e con l’art.2 della Costituzione riguardo ai doveri di solidarietà sociale necessari a realizzare il principio personalista su cui si fonda il nostro sistema costituzionale. Una ulteriore conferma di quella posizione che vede il risultato quale fine dell’azione amministrativa - mentre concorrenza e trasparenza fungono da strumenti in vista del raggiungimento del primo – a beneficio della collettività in termini di efficacia, efficienza e qualità dei servizi resi, stante la maggior rapidità di intervento, talvolta, da parte dei privati rispetto a quella delle amministrazioni.
Con il suddetto bilanciamento tra concorrenza e sussidiarietà si attribuisce, dunque, a dire della Corte, portata generale a quanto già sancito dagli art. 55 e 57 del Dlgs 117/2017 (c.d. codice del terzo settore): tuttavia, il ruolo fondamentale delle pubbliche amministrazioni nella materia in esame non è richiamato dal Codice del Terzo Settore soltanto con riferimento ad istituti di matrice collaborativa, come previsti dagli articoli in precedenza citati, ma anche nell'ambito delle misure di promozione e sostegno degli enti del Terzo Settore. Tra queste, l'art. 71, comma 2, che, nel disciplinare l'istituto della concessione in comodato a enti del Terzo settore (a esclusione delle imprese sociali), si riferisce ai beni di proprietà degli enti pubblici non utilizzati per fini istituzionali. Pertanto, una prima valutazione che l’Ente pubblico è tenuto a fare, al fine di stabilire se il bene di proprietà possa rientrare nelle tipologie stabilite dalla norma in esame, è quella di valutare l’utilizzo del bene di proprietà e se lo stesso non sia strumentale a finalità istituzionali. Al riguardo, la Sezione precisa che, nel patrimonio di ogni singolo ente, vi possono essere beni demaniali (ex artt. 822 ss. c.c.), destinati al soddisfacimento di una funzione avente imprescindibile rilevanza pubblica (che ne giustifica ed al tempo stesso connota la relativa disciplina); beni patrimoniali indisponibili (di cui all’art. 826, commi 2 e 3 c.c.), anch’essi destinati ad un pubblico servizio e dunque anch’essi soggetti a disciplina pubblicistica, e beni patrimoniali disponibili, ossia tutti quei beni non rientranti nelle precedenti categorie e che i soggetti pubblici possono utilizzare iure privatorum, con l’ovvio limite del rispetto dell’interesse pubblico anche relativamente a tali beni.
La formula espressa nell’articolo 71 comma 2 citato, secondo la Corte sembra richiamare implicitamente la nozione di ‘patrimonio disponibile', come individuabile in via residuale dall'art. 826 c.c. per contrapposizione a quella del c.d. patrimonio indisponibile, i cui beni, ivi elencati, sono direttamente destinati a un fine pubblico. I beni ricompresi all'interno del patrimonio disponibile, siccome appartenenti all'ente pubblico ‘uti privatorum', sono in linea di principio assoggettati alla disciplina privatistica. Questi, invero, realizzano l'interesse pubblico unicamente in via strumentale o indiretta, ossia per il tramite dei redditi ricavati dal relativo sfruttamento economico mediante i quali si concorre al finanziamento della spesa pubblica. Ne discende che il conferimento a terzi di beni facenti parte del patrimonio disponibile per mezzo dello strumento giuridico del comodato non rappresenti – ex se - una modalità tipica di valorizzazione patrimoniale, quale potrebbe essere, ad esempio, il ricorso al contratto attivo di locazione. In altri termini, precisa il Collegio, il comodato (gratuito), rappresenterebbe un'evidente fonte di depauperamento in concreto del bilancio pubblico, in ragione della deminutio patrimoniale conseguente al mancato introito di utilità non tributarie sotto forma di canoni locatizi o altri corrispettivi.
La Corte ricorda che gli enti territoriali non debbono perseguire in modo indefettibile risultati esclusivamente economici, giacché agli stessi compete — in quanto enti ‘comunitari' e a finalità generali — anche la promozione e la cura in senso ampio degli interessi della comunità amministrata. E, tra questi, potrebbe rientrare anche l'interesse politico a promuovere alcune delle attività di interesse generale perseguite da enti del Terzo settore, mediante il sostegno pubblico sotto forma di concessione in comodato di beni immobili, ove poter svolgere le proprie attività istituzionali. Tuttavia, questa facoltà deve essere necessariamente ricondotta in via interpretativa nell'ambito del più ampio contesto normativo, che persegue la logica diametralmente opposta espressa dal principio di necessaria redditività del patrimonio immobiliare pubblico.
Dunque, per il Collegio s'impone pertanto all'ente pubblico, nel silenzio della disposizione contenuta nel Codice del Terzo settore (art. 71, comma 2), di assumere una scelta (quantomeno) tra le due principali opzioni alternative concernenti la gestione dei beni ricompresi nel proprio patrimonio disponibile: concederli in locazione, con conseguente acquisizione di entrate patrimoniali a bilancio, ovvero in comodato a organizzazioni non profit, rinunciando così alle potenziali entrate erariali sotto forma di canone locatizio.
Il Collegio, ancora, ritiene evidente come la suddetta scelta comporti chiare assunzioni di responsabilità, soprattutto amministrativa, da parte del decisore pubblico, il quale dovrà svolgere un'attività di ponderazione discrezionale tra le due richiamate possibilità normative tra loro antitetiche. Invero, per il Collegio, la questione non è nuova, dato che l'istituto della concessione in comodato di beni pubblici è stato oggetto di attento esame da parte della stessa Corte dei Conti, sia nell'esercizio della sua funzione consultiva che giurisdizionale, alla luce di una disposizione normativa di tenore sostanzialmente analogo all'odierno art. 71, comma 2, del nuovo Codice del Terzo settore. Il riferimento è all'abrogato art. 32, comma 1, della l. 7 dicembre 2000, n. 383, ove si prevedeva che « lo Stato, le regioni, le province e i comuni possono concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale e alle organizzazioni di volontariato previste dalla legge 11 agosto 1991, n. 266, per lo svolgimento delle loro attività istituzionali ». La frequente richiesta di pareri alla Corte dei Conti riguardanti questa fattispecie, proveniente da parte (soprattutto) degli amministratori locali, così come le elevate contestazioni di danno erariale ad opera delle competenti Procure della Repubblica comprovano, a dire della Corte, la delicatezza della questione e la sua difficile risoluzione secondo criteri certi e univoci.
La giurisdizione della Corte dei Conti, infatti, prosegue il Collegio, ha individuato una soluzione di ragionevole equilibrio tra le anzidette esigenze normative in contrapposizione. Difatti, si ammette che il principio di redditività sotteso alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico possa tollerare un'eccezione e, dunque, essere ‘mitigato' se non addirittura derogato del tutto, laddove la fattispecie concreta evidenzi un bisogno di protezione di un interesse pubblico (almeno) equivalente, o ancor meglio superiore a quello soddisfatto dal modello generale di sfruttamento economico del bene. In tal caso, la potenziale perdita economica dell'ente pubblico sarebbe compensata da un ‘guadagno' in termini di finalità sociali con una precisa copertura costituzionale negli artt. 2 e 118 Cost. Ex multis, Corte Conti, sez. giur. Molise, 31 gennaio 2017, n. 12, ove, in un caso di concessione in comodato gratuito di immobili di proprietà comunale in favore di una cooperativa locale, si è ritenuto che il Comune « pur a fronte del mancato introito del corrispettivo che sarebbe spettato all'ente proprietario se fosse stato concesso a titolo oneroso, abbia comunque conseguito una corrispondente utilità, identificabile nella innegabile finalità sociale che, attraverso la concessione in comodato gratuito ad una cooperativa composta da giovani del posto, si è voluta, nel caso di specie, conseguire ». Di talché, anche qualora l'Amministrazione avesse subito un danno «per effetto del mancato introito del corrispettivo che sarebbe spettato all'ente locale proprietario se gli immobili in questione fossero stati concessi a titolo oneroso, il danno in questione sarebbe comunque da ritenere compensato dalla suddetta utilità sociale conseguita dall'ente locale».
Gli enti pubblici, quindi, prima di ricorrere all'istituto del comodato ex art. 71, comma 2, del Codice del Terzo settore, afferma la Corte, devono svolgere un'adeguata analisi di mercato finalizzata a conoscere le ‘potenzialità' economiche e reddituali del singolo bene ricompreso nel proprio patrimonio disponibile. Questa forma di pre-istruttoria, infatti, potrebbe fornire gli elementi utili a soppesare i presumibili vantaggi economici per il bilancio dell'ente, in caso di ricorso a moduli negoziali onerosi, rispetto alle finalità pubblicistiche realizzabili mediante la concessione in comodato, quale misura di sostegno a organizzazioni del Terzo settore (alla quale peraltro si è deciso di aderire) e, al contempo, strumento per l'implementazione di specifiche politiche sociali dirette allo sviluppo della comunità amministrata. La scelta finale deve essere poi necessariamente tradotta sul piano motivazionale, così da giustificare l'iter logico-giuridico seguito dall'amministrazione e, di conseguenza, rendere esplicita l'assunzione di responsabilità del decisore pubblico, soprattutto per quanto concerne la compatibilità finanziaria dell'intera operazione alla luce della situazione economico-contabile dell'ente.
Una volta individuata politicamente la finalità o, se più d'una, le finalità sociali meritevoli di implementazione nella specifica realtà territoriale, per il Collegio, ci si può interrogare su come debba procedere l'amministrazione nella scelta dell'ente del Terzo settore con cui stipulare il contratto di concessione in comodato (gratuito) del bene pubblico: la domanda, implicitamente, richiama la questione di ordine più generale, ossia la presenza di forme peculiari di concorrenzialità anche nel settore del privato sociale, specialmente laddove una pluralità di organizzazioni aspirino a conseguire un'utilità ‘scarsa', qual è la messa a disposizione di un bene immobile di proprietà pubblica.
La Sezione rimarca come sia di tutta evidenza, infatti, come l'assunzione del ruolo di partner dell'amministrazione, nella forma della stipulazione del contratto di comodato, arrechi un indubbio vantaggio di natura economica: la disponibilità a ‘costo zero' di un immobile ove poter svolgere le proprie attività statutarie. Posto che i beni del patrimonio immobiliare pubblico non utilizzati per fini istituzionali sono un numero ampiamente inferiore rispetto agli enti del Terzo settore esistenti sul territorio italiano, precisa il Collegio, diviene dunque imprescindibile confrontarsi con la questione del ‘metodo di selezione' del contraente.
Posto che la concessione in comodato gratuito di un immobile di proprietà pubblica è qualificabile in termini di attribuzione di un vantaggio economico, inteso quest'ultimo nell'accezione dell'utilizzo a ‘costo zero' del bene, con evidente risparmio, apprezzabile economicamente, del canone medio per l'acquisizione di un bene analogo rivolgendosi al mercato, secondo la Corte, ciò impone alle pubbliche amministrazioni un obbligo generale di predeterminazione dei criteri e delle modalità di scelta dei soggetti destinatari dell'attribuzione di vantaggi economici di ‘qualunque genere' il che si traduce in una forma di autolimite della originaria discrezionalità spettante all'ente pubblico .
Di conseguenza, afferma la Corte, esso si sostanzia nel più semplice e informale onere di pubblicazione di un avviso con funzione notiziale delle intenzioni dell'amministrazione, in ordine al proprio bene, al fine di raccogliere eventuali diverse manifestazioni di interesse alla concessione in comodato del singolo bene rispetto alle quali poter svolgere successivamente una comparazione diretta alla selezione finale.
Secondo il Collegio, è da ritenersi preferibile una procedura selettiva di natura comparativa (definita “confronto concorrenziale lato sensu inteso” dalla sentenza n. 53/2019 della Sezione giurisdizionale per il Molise della Corte dei conti) ispirata ai princìpi generali di pubblicità, trasparenza e di imparzialità, che si concluda con una valutazione motivata della scelta effettuata, anche sulla base delle proposte progettuali presentate dai soggetti interessati; in effetti, prosegue la Sezione, questi ultimi devono necessariamente non perseguire scopi di lucro e tale qualità, sulla scorta della costante giurisprudenza contabile, va accertata in concreto, “verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione” (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 716/2012 e Sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione n. 106/2022).
In sostanza, alla luce di tale excursus normativo, la Corte mette in luce come, al fine di individuare se alla fattispecie si debba applicare un comodato ad uso gratuito ovvero, in alternativa, il regime privatistico della locazione, o il regime pubblicistico della concessione, si debba verificare in primo luogo la tipologia di bene pubblico, che l’ente locale concede in godimento all’ente del Terzo settore, se bene patrimoniale disponibile o indisponibile; in secondo luogo la destinazione, a cui il bene viene adibito dall’ETS, se esclusivamente per fini sociali, ovvero se promiscuamente per gli obiettivi istituzionali dell’ETS e per attività economiche; in terzo luogo, va esaminato quanto deciso dai regolamenti comunali sull’utilizzazione dei beni dell’ente locale da parte di soggetti privati.
La Corte, infine, analizza l’istituto di diritto privato del comodato, a cui fa riferimento l’art. 71, comma 2 del d.lgs. n. 117 del 2017 in esame. L’istituto del comodato d’uso è previsto all’art. 1803 del codice civile, il quale così recita: "Il comodato è il contratto col quale una parte consegna all'altra una cosa mobile o immobile, affinchè se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Il comodato è essenzialmente gratuito". In effetti, rileva la Corte, il carattere di essenziale gratuità dell’istituto non viene meno in caso di apposizione di un modus posto a carico del comodatario, purché esso non sia di consistenza tale da snaturare il rapporto ponendosi come un corrispettivo del godimento della cosa ed assumendo quindi la natura di una controprestazione (cfr. Cass., n. 13920/2005). In tali casi, aggiunge il Collegio, la dottrina parla di comodato d'uso oneroso. Ciò avviene, in particolare, quando il bene viene concesso ad un altro soggetto a fronte di una determinata prestazione. Si pensi, ad esempio, al caso in cui un immobile venga concesso in comodato ad un soggetto che, mentre lo avrà in uso, provvederà anche alla sua cura. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 3021/2001, ha sul punto affermato che "in presenza di un modus a carico del comodatario, il carattere di essenziale gratuità del comodato viene meno solo se il vantaggio conseguito dal comodante si pone come corrispettivo del godimento della cosa con natura di controprestazione (Cass., 25 settembre 1990, n. 9718) e non certamente allorché il comodatario si limiti al pagamento di una somma periodica a titolo di rimborso spese e si impegna ad occuparsi della cura dello stesso".
L’unico obbligo per il comodatario, prosegue il Collegio, è quello di utilizzare il bene rispettandone la destinazione e non danneggiandolo, provvedendo alla sua manutenzione ordinaria e comportandosi in modo diligente. Egli deve quindi restituire il bene per come gli è stato consegnato, salvo ovviamente la normale usura. Gli obblighi imposti al comodatario, tuttavia, devono assumere un peso minimo all’interno dell’economia del contratto e non possono essere equiparabili alla perdita della disponibilità del bene da parte del comodante. Diversamente, si snaturerebbe il comodato privandolo del requisito essenziale della gratuità (Cass. civ. sez. II, 15 ottobre 1973, n. 2591); requisito destinato a venire meno, tuttavia, quando il vantaggio conseguito dal comodatario “si pone come corrispettivo del godimento della cosa con natura di controprestazione” (Cass. civ. sez. III, 28 giugno 2005, n. 13920). Pertanto, la Sezione rileva che, da quanto indicato dalla Suprema Corte, la gratuità del comodato è compatibile solo con la previsione di un “modus” di entità modesta, tale da non assumere natura di controprestazione (Cass. civ. sez. III, 17 gennaio 2019, n. 1039; Cass. civ. sez. III, 11 febbraio 2010, 308). Diversamente, si dovrà applicare la disciplina della locazione.
Così chiarita la natura del contratto di comodato, per la Sezione occorre altresì precisare che la disposizione in esame dice “gli Enti locali possono concedere in comodato” e prosegue “l'ente concessionario ha l'onere di effettuare sull'immobile, a proprie cura e spese, gli interventi di manutenzione e gli altri interventi necessari a mantenere la funzionalità dell'immobile.” Altro istituto da esaminare nel caso in questione, per completezza espositiva, riguarda quindi, per il Collegio, la concessione, che è quel provvedimento in virtù del quale l’Amministrazione conferisce a terzi il godimento di utilità relative a beni pubblici ovvero la possibilità di erogare pubblici servizi o di realizzare opere pubbliche. Il rapporto di concessione in genere assume la forma della concessione-contratto. Tale istituto vede, accanto al provvedimento amministrativo di concessione, la presenza di un contratto ad esso collegato (contratto accessivo alla concessione). Pertanto, a seguito della motivata volontà da parte dell’Ente di dare in concessione un bene di proprietà, si procede di norma con un successivo contratto (di comodato, nel caso in esame) regolante la fattispecie oggetto della concessione.
Anche nel caso di concessione, specifica la Corte, per poter utilizzare gli immobili comunali, è comunque necessario -di norma- seguire una procedura concorrenziale, come dettato da numerose sentenze del giudice amministrativo ( cfr. TAR Sardegna, Sez. I, sent. 23 gennaio 2023, n. 30; TAR Liguria, Sez. I, sent. 30 gennaio 2023, n. 146; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, sent. 12 aprile 2021, n.2356; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, sent. 30 settembre 2020, n. 675; TAR Campania Salerno, Sez. I, sent. 19 marzo 2019, n. 413). In conclusione, afferma il Collegio, è possibile disporre liberamente dei beni patrimoniali disponibili, nei limiti delle buone regole di organizzazione amministrativa e dei principi di trasparenza contrattuale.
Al riguardo, evidenzia il Collegio, l’Amministrazione è libera di attribuire il bene anche al di fuori dell’istituto della locazione, nell’ipotesi in cui la concessione risulti più funzionale alla realizzazione di obiettivi pubblici, come nel caso di un’assegnazione in godimento di beni al gestore di un’opera o di un servizio, destinati alla collettività. In tale ultima ipotesi, al fine di stabilire la corretta procedura e normativa applicabile, occorrerà, di volta in volta, stabilire se la concessione abbia ad oggetto il bene, oppure il servizio. E sul punto l’ANAC con la delibera n. 556 del 12 giugno 2019, ha precisato che “le concessioni amministrative aventi ad oggetto beni demaniali o del patrimonio indisponibile possono essere serventi alla prestazione di un servizio alla collettività, e quindi configurare 15 una concessione di servizi, quando l’utilizzo del bene si estrinseca nell’esercizio di un servizio pubblico, ciò in quanto dette concessioni si atteggino a fattispecie complesse, in cui assumono rilievo non solo la messa a disposizione del bene pubblico, dietro corresponsione di un canone, ma anche gli aspetti convenzionali relativi all’attività di gestione e alla durata in funzione dell’equilibrio economico-finanziario dell’investimento. Più precisamente, la concessione di beni cela una concessione di servizi quando il bene pubblico avente una vocazione naturale ad essere impiegato in favore della collettività per attività di interesse generale e avente una struttura e una destinazione idonee a generare flusso di cassa è affidato in gestione al concessionario sul quale è traslato il rischio operativo in quanto da tale gestione trae la propria remunerazione, a fronte del pagamento di un canone da versare al concedente stabilito in funzione della previsione dei guadagni nell’arco temporale di riferimento”.
Quindi, specifica il Collegio, in base al criterio stabilito dall’ANAC, laddove la pubblica utilità del servizio prevalga sul carattere del bene, il regime normativo applicabile è la concessione, e non la locazione: quanto sopra esposto, pertanto, nel caso di una concessione in comodato di beni di proprietà degli enti locali, l’ente deve dimostrare - come meglio esposto sopra- il perseguimento dell’effettivo interesse pubblico, che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello meramente economico, fermo restando lo scopo non lucrativo di utilizzazione del bene. In secondo luogo, deve effettuare una necessaria ricognizione sui propri beni, valutando se risultino funzionali alle attività istituzionali degli ETS, tenendo in considerazione gli obiettivi sociali e le esigenze di tali enti, nonché i costi connessi all’utilizzo dei beni individuati, alle tipologie di attività da svolgere ed alle specifiche categorie di soggetti beneficiari degli interventi e delle azioni di tali organizzazioni. Inoltre, la disposizione in argomento impone ai soggetti no-profit, destinatari di una concessione in comodato, l’onere di effettuare gli interventi di manutenzione e quelli necessari alla funzionalità dell’immobile per la durata del comodato di 30 anni. Infine, in base al combinato disposto dell’art. 71, commi 2 e 3, del Codice stesso, l’ente pubblico, ai fini della concessione in comodato agli ETS, non è obbligato ad esperire procedure ad evidenza pubblica di natura competitiva, sebbene, in conformità ai principi di imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, è opportuno che l’affidamento venga preceduto da un avviso pubblico con conseguente procedura comparativa.
Il quadro normativo illustrato, conclude il Collegio, si fonda sempre su un logico rinvio della situazione, di volta in volta considerata, ai canoni costituzionali, di cui agli artt. 42 e 43 Cost., secondo cui lo Stato e gli enti pubblici possono sempre riservarsi l’utilizzo di determinati beni per ragioni di utilità generale a servizio della collettività, sempre nel rispetto del principio di legalità e buon andamento ex art. 97 Cost., e delle guarentigie di cui agli artt. 6 e 7 CEDU. Oltre al rispetto della normativa citata e del relativo regolamento comunale, poi, l’ente locale dovrà esplicitare nelle motivazioni dell’atto concreto che andrà a stipulare in primo luogo la compatibilità finanziaria dell’intera operazione posta in essere con la situazione economica dell’ente e poi le ragioni che consentono di ritenere recessivo l’interesse alla ordinaria fruttuosità di un bene rispetto al perseguimento di altri interessi pubblici, ritenuti prioritari dall’ente stesso (Corte dei Conti Sezione di controllo regionale della regione Puglia deliberazione n. 106 del 2022).
In materia, fa notare la Corte, è stato giustamente affermato che “la concessione in comodato di beni di proprietà dell’ente locale è da ritenersi ammissibile nei casi in cui sia perseguito un effettivo interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello meramente economico ovvero nei casi in cui non sia rinvenibile alcuno scopo di lucro nell’attività concretamente svolta dal soggetto utilizzatore di tali beni” (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 172/2014).
Naturalmente, precisa infine il Collegio, la valutazione/ponderazione tra i vari interessi (e la conseguente scelta di quelli prevalenti) nonché la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo, è rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, non potendo la Corte in sede consultiva interferire né con l’attività gestoria dell’Amministrazione né con eventuali iniziative giudiziarie che potrebbero essere intraprese da altri Uffici della Corte o da altre Magistrature.