Giurisprudenza Amministrativa
La Corte di Cassazione sul sistema europeo di riconoscimento dei titoli professionali esteri in Italia. Tra libertà di stabilimento, libertà di circolazione e garanzia delle necessarie attitudini e capacità tecniche “perché dell’esercizio pubblico della attività professionale i cittadini possano giovarsi con fiducia”
Di Elide De Vita
Nota a sentenza della Cassazione civile, sez. II, del 10 settembre 2024, n. 24339
La Corte di Cassazione sul sistema europeo di riconoscimento dei titoli professionali esteri in Italia. Tra libertà di stabilimento, libertà di circolazione e garanzia delle necessarie attitudini e capacità tecniche “perché dell’esercizio pubblico della attività professionale i cittadini possano giovarsi con fiducia”.
Di Elide De Vita*
Abstract
Il presente contributo affronta il tema del riconoscimento dei titoli professionali esteri nell’ordinamento italiano – alla luce della recentissima pronuncia della Cassazione dell’11 settembre 2024, n. 24339 – in una singolare congiuntura temporale, in un clima di crescente “sovranazionalizzazione” dell’ordinamento interno, in cui, cioè, si manifesta un variegato, composito scenario di competenze e di rapporti di forza tra istituzioni nazionali ed europee. L’esame condotto invita ad una riflessione più ampia sugli scenari che si profilano – in una società fluida, globalizzata e multilivello – nel quadro comunicativo dei rapporti biunivoci tra libertà di stabilimento e di circolazione delle persone, da una parte, e garanzia del possesso delle necessarie competenze professionali a tutela di chi si avvale dell’opera del professionista, dall’altra.
This contribution faces the issue of the recognition of foreign professional qualifications in the Italian legal system - in light of the very recent ruling of the Supreme Court of 11 September 2024, n. 24339 - in a singular temporal conjuncture, in a climate of growing "supranationalization" of the internal system, in a variegated, (un)composite scenery of competences and relations between national and European institutions. The conducted examination quietly invites to a reflection on relationships between freedom of establishment and movement of people, on the one hand, and possession of the necessary professional skills to protect those who make use of the the work of the professional, on the other.
Massima
“Deve ritenersi legittima l’iscrizione all’albo professionale senza superare l’esame di Stato per colui che ha conseguito la laurea nella Svizzera italiana, in forza dell’allegato III dell’Accordo bilaterale tra la Comunità europea ed i suoi Stati membri, da una parte, e la Confederazione svizzera, dall’altra, come ratificato ed eseguito dall’Italia, secondo la modifica operata dalla decisione n. 2/2011 del Comitato misto Ue/Svizzera: l’automatico riconoscimento consegue
all’applicazione diretta dell’articolo 21 della Direttiva 2005/36/Ce e del punto 5.7.1 dell’allegato, in forza della legge n. 364 del 15/11/2000 di ratifica e recepimento dell’accordo, così come ulteriormente ribadito dall’articolo 2, comma 3 del decreto legislativo n. 206/2007”.
Il Fatto
La vicenda trae origine dalla presentazione di una domanda di iscrizione all’Albo professionale del Consiglio Provinciale dell’Ordine degli Architetti di Rimini da parte di un dottore in architettura (che aveva conseguito un master in Science in architetture USI/Diploma di architetto) presso l’Università di Mendrisio della Svizzera Italiana, Accademia di Architettura, con valore, in Svizzera, di titolo abilitante all’esercizio della professione. La domanda viene respinta sulla scorta della asserita necessità, in Italia, del superamento dell’apposito esame di abilitazione all’esercizio della professione. A questo punto, il richiedente insorge avverso tale decisione del Consiglio Provinciale presentando ricorso al Consiglio nazionale che – sulla scorta di un precedente decreto del MIUR nel quale, in applicazione del D.Lgs. n. 206/2007, si riconosceva al richiedente ai fini dell’accesso alla professione il titolo professionale di architetto conseguito in Svizzera – accoglie la domanda di iscrizione, non avanzando differente alternativa all’infuori della presa d’atto del decreto del Ministero ovvero della sua impugnazione in sede giurisdizionale. Il Consiglio provinciale dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Rimini opta per la seconda opzione, proponendo ricorso per cassazione.
La decisione
La laurea in architettura (master in Science in architetture USI/Diploma di architetto) ha valore, in Svizzera, di titolo abilitante all’esercizio della professione.
I rapporti con la Svizzera, paese non aderente all’Unione europea, sono regolati, anche quanto al riconoscimento dei titoli di studio, dalla Legge del 15 novembre 2000, n. 364, di “ratifica ed esecuzione dell’accordo tra la Comunità europea ed i suoi Stati membri, da una parte e la Confederazione svizzera, dall’altra, sulla libera circolazione delle persone, con allegati, atto finale e dichiarazioni, concluso a Lussemburgo il 21 giugno 1999”.
Con la decisione n. 2/2011 del Comitato misto UE/Svizzera, come istituito dall’articolo 14 del suddetto Accordo, è stata ribadita l’applicabilità anche ai rapporti con la Svizzera della Direttiva 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. Soprattutto, con la decisione suddetta, è stato modificato l’allegato III dell’Accordo, avente ad oggetto il riconoscimento delle qualifiche professionali (artt. 2 della decisione e 1 dell’Allegato III). Alla sezione A, lett. 0, è stato proprio stabilito che nell’allegato V, punto 5.7.1 della Direttiva n. 36/2005, fosse aggiunto, quale titolo di formazione, proprio il “diploma di architettura (Arch. Dipl. USI), rilasciato dall’Accademia di Architettura dell’Università della Svizzera Italiana con anno di riferimento 1996/1997”.
All’art. 2, comma 3, D.Lgs. 206/2007, di attuazione della Direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, è stato esplicitamente previsto che “per il riconoscimento dei titoli di formazione acquisiti dai cittadini dei Paesi aderenti allo Spazio economico europeo e della Confederazione Svizzera, si applicano gli accordi in vigore con l’Unione europea”.
In ragione del quadro delineato, l’esame della Cassazione si è concentrato sulla richiamata Direttiva, in quanto direttamente operante in Italia - nei rapporti con la Svizzera - in forza della Legge n. 364 del 15/11/2000 di “ratifica e recepimento dell’accordo bilaterale tra la Comunità europea ed i suoi Stati membri, da una parte e la Confederazione svizzera, dall’altra, così come ulteriormente ribadito dall’art. 2, comma 3 del D.Lgs. n. 206/2007”.
Tale disciplina viene letta dalla Cassazione (Cassazione civile, sez. II, 10/09/2024, n. 24339), alla luce della interpretazione offerta dalla CGUE, sez. IX, 30/04/2014, nella causa C-365/13, nel senso che il sistema di riconoscimento automatico delle qualifiche professionali previsto, per quanto riguarda la professione d’architetto, agli articoli 21, 46 e 49 della Direttiva 2005/36, non lascia alcun margine di discrezionalità agli Stati membri. Quindi, il cittadino di uno Stato membro, se titolare di uno dei titoli di formazione e dei certificati complementari che figurano al punto 5.7.1 dell’allegato V o all’allegato VI di detta direttiva, deve poter esercitare la professione d’architetto in un altro Stato membro senza che quest’ultimo possa imporgli di ottenere o dimostrare che abbia ottenuto qualifiche professionali supplementari. Secondo la Cassazione, infatti, “non sussistono limitazioni collegate al possesso della cittadinanza in ordine alla scelta del luogo ove svolgere il percorso di studio e di qualificazione, dipendendo da tale scelta, rimessa al singolo, sia esso italiano, svizzero o cittadino di un diverso stato membro, gli effetti che ne conseguono sul piano della disciplina e della necessità o meno dell’esame abilitante. Il diritto di scegliere, da un lato, lo Stato membro nel quale si desidera acquisire il titolo professionale e, dall’altro, quello in cui si ha intenzione di esercitare la professione è inerente all’esercizio, in un mercato unico, delle libertà fondamentali garantite dai Trattati (così, CGUE, Seconda sezione, del 23 ottobre 2008, Commissione delle Comunità europee contro Regno di Spagna, C-286/06, punto 72). Pertanto, il fatto che un cittadino di uno Stato membro che ha conseguito una laurea in tale Stato si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale e faccia in seguito ritorno nello Stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione, con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui tale qualifica è stata acquisita, non può costituire, di per sé, un abuso del diritto di stabilimento, né una pratica illecita di qualification shopping, neppure se il cittadino di uno Stato membro abbia scelto di acquisire un titolo professionale in un altro Stato membro, diverso da quello in cui risiede, allo scopo di beneficiare di una normativa più favorevole (CGUE, Grande sezione, sentenza del 17.7.2014, cause C- 58/2013 e C-59/2013. To.An. e To.Pi./Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Macerata)”.
In merito ai dubbi di legittimità costituzionale della suddetta normativa per violazione degli artt. 3, 9, 33, comma 5, e 117 Cost., prospettati dal ricorrente Consiglio Provinciale di Rimini, la Cassazione, richiama l’orientamento della Consulta secondo cui il legislatore, sempreché le sue scelte non siano irragionevoli, può considerare altri esami equipollenti a quello per l’abilitazione all’esercizio professionale, come pure può unificare quest’ultimo con l’esame di Stato conclusivo del corso di studi (Corte cost., n. 26/1990). Il percorso di qualificazione professionale estero, attraverso il riconoscimento automatico, è stato giudicato di pari livello, quanto al possesso di conoscenze e di esperienze, a quello ottenuto in Italia all’esito del superamento dell’esame di Stato, in quanto si fonda sulla valutata armonizzazione delle condizioni minime di formazione.
Conclusioni e spunti di riflessione
Dall’esame della sentenza della Cassazione, si evince che la Suprema Corte ha preso atto dell’esistenza di un sistema di riconoscimento dei titoli professionali che è frutto della normativa europea - come interpretata dalla Corte di Giustizia, le cui sentenze, come noto, sono vincolanti[1] - ed internazionale pattizia, nonché della trasposizione della stessa nell’ordinamento interno.
Più che fornire risposte certe, si intende, in questa sede, stimolare il lettore ad una riflessione di più ampio respiro sui seguenti profili: disparità di trattamento tra chi si forma in Italia e chi, invece, all’estero, equa concorrenza tra professionisti formati in Italia e professionisti formati all’estero, possibile incremento di laureati all’estero e correlativa diminuzione dei laureati italiani… viene da chiedersi se questo sistema non dia luogo un vero e proprio “qualification shopping”, contrariamente a quanto asserito dal Giudice della nomofilachia, che esclude la configurabilità di un abuso del diritto di stabilimento anche nell’ipotesi in cui il cittadino di uno Stato membro abbia scelto di acquisire un titolo professionale in un altro Stato membro, diverso da quello in cui risiede, allo scopo esclusivo di beneficiare di una normativa più favorevole (cfr. supra).
La pronuncia ha portato alla luce un dibattito avente ad oggetto la possibilità che l’esistenza e l’operatività di tale sistema debba condurre l’Italia a rivedere, modificare o eliminare i propri percorsi formativi. Sul punto, la scrivente ritiene che i percorsi formativi dell’ordinamento italiano siano pienamente conformi al dettato costituzionale (art. 33, comma 5, Cost.), e pienamente rispondenti all’esigenza di verificare l’esistenza di un “serio ed oggettivo accertamento del grado di maturità del discente e del concreto possesso da parte dello stesso della preparazione, attitudine e capacità tecnica necessarie perché dell’esercizio pubblico della attività professionale i cittadini possano giovarsi con fiducia”[2].
*Dottoressa in giurisprudenza, collaboratrice di cattedra di Diritto amministrativo, Diritto processuale amministrativo e Diritto tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Salerno, praticante avvocato.
[1] Le pronunce della Corte di giustizia, infatti, creano l’obbligo in capo al giudice nazionale di uniformarsi ad esse e l’eventuale violazione di tale obbligo vizierebbe la sentenza dando luogo ad una procedura di infrazione nei confronti dello Stato di cui il giudice è organo (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 3 maggio 2019, n. 2890).
[2] Corte costituzionale, sent. n. 111/1973