Giurisprudenza Amministrativa

Annullamento in autotutela per intervenuta comunicazione antimafia.
Di Emanuela Porcelli
Nota a sentenza Tar Campania n. 5036 del 18 settembre 2024- sezione seconda
Annullamento in autotutela per intervenuta comunicazione antimafia
Di Emanuela Porcelli
Abstract
L’annullamento in autotutela di un permesso a costruire, per intervenuta comunicazione antimafia, è un atto di ritiro vincolato ed accertativo della temporanea incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ampliativi, che prescinde, dunque, dall’operatività dei presupposti nonché dei limiti applicativi dell’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990. A seguito della comunicazione antimafia, la pubblica amministrazione non può, pertanto, rilasciare alcun titolo legittimante lo svolgimento di una qualsiasi attività economica o commerciale e, allorchè già emesso, è ineludibile il suo ritiro, stante la sua sostanziale incompatibilità con lo status di destinatario di una interdittiva antimafia.
The self-defense cancellation of a building permit, for anti-mafia communication, is an act of binding and ascertaining the temporary legal inability to be the recipient of extended administrative measures, which regardless of the operation of the prerequisites and the application limits of the art. 21-novies of l. 241/1990. Following the anti-mafia communication, the public administration cannot, therefore, issue any title legitimizing the carrying out of any economic or commercial activity and, when already issued, its withdrawal is unavoidable, given its substantial incompatibility with the status of recipient of an anti-mafia interdiction.
Sommario: 1. La comunicazione antimafia; 1.1. l’annullamento in autotutela 2. la questione sottoposta al Tar Campania.
- La comunicazione antimafia
La legislazione antimafia oggi confluisce nel Codice antimafia (D.lgs. 6 ottobre 2011, n. 159), finalizzato all’aggiornamento e alla semplificazione della documentazione antimafia.
Il Codice antimafia contiene la disciplina delle misure di prevenzione e la disciplina della documentazione antimafia, cioè: della comunicazione antimafia e della informazione antimafia.
L’informativa antimafia, a differenza della comunicazione antimafia, si fonda su una valutazione ampiamente discrezionale circa la sussistenza o meno di tentativi di infiltrazione mafiosa, che muove dall’analisi e dalla valorizzazione di specifici elementi fattuali i quali rappresentano obiettivi indici sintomatici di connessioni o collegamenti con associazioni criminali. Ai sensi dell’art. 84, d.lgs. n. 159 del 2011, la documentazione antimafia è costituita dalla “comunicazione antimafia” e dalla “informazione antimafia”. La prima consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all'art. 67 del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011; la seconda, oltre a queste circostanze, può rappresentare anche la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di un’impresa soggetta ai controlli in materia
Ai fini dell'interdittiva antimafia il Prefetto può e deve basarsi su fatti ed episodi i quali, seppure non assurgano al rango di prove o indizi di valenza processuale, nel loro insieme configurino un quadro indiziario univoco e concordante avente valore sintomatico del pericolo di infiltrazioni mafiose nella gestione dell'impresa esaminata.
Il sistema rappresenta una forma di tutela avanzata avverso il fenomeno della penetrazione della mafia nell’economia legale. L’emissione dei provvedimenti comporta l’esclusione di un imprenditore dalla titolarità di rapporti contrattuali con le Pubbliche amministrazioni determinando a suo carico una particolare forma di incapacità giuridica (v. sentenza Cons. St., Ad. Plen., 6 aprile 2018, n. 3). L’interdittiva antimafia costituisce una misura volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione e si pone a tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
L’informazione, a differenza della comunicazione, si fonda su una valutazione ampiamente discrezionale circa la sussistenza o meno di tentativi di infiltrazione mafiosa, che muove dall’analisi e dalla valorizzazione di specifici elementi fattuali i quali rappresentano obiettivi indici sintomatici di connessioni o collegamenti con associazioni criminali. L’art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011 prevede che tali elementi vengano desunti dal contenuto di atti giudiziari; da accertamenti di polizia o da vicende imprenditoriali particolarmente sintomatiche di un intento elusivo; l’art. 91, comma 6, del medesimo decreto prevede poi che il Prefetto possa desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa anche da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all'attività delle organizzazioni criminali, unitamente ad altri elementi dai quali emerga che l'attività d'impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata.
Il giudizio deve essere prognostico, secondo la logica del "più probabile che non", anche se non necessariamente fondato su elementi certi come la condanna per reati associativi di tipo mafioso di componenti o organi della società, ma basato su indizi la cui valutazione faccia ragionevolmente ritenere che l’attività imprenditoriale venga condizionata da soggetti mafiosi, anche se per interposta persona (cfr. sentenza Cons. St., sez. III, 28 dicembre 2016, n. 5509).
La discrezionalità amministrativa è particolarmente ampia, ma non può essere esercitata sulla base del mero sospetto bensì attraverso l’enucleazione di idonei e specifici elementi di fatto i quali, nel loro complesso, siano obiettivamente sintomatici e rivelatori del rischio di collegamenti con la criminalità (v. sentenza Cons. St., sez. III, 29 febbraio 2016, n. 868). La valutazione giudiziale di questi elementi deve essere particolarmente attenta poiché il provvedimento de quo, crea una speciale incapacità incidente sulla libertà di impresa che è valore costituzionalmente garantito.
Dunque, l’informazione antimafia ha natura cautelare e preventiva. È volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione, diretta ad impedire che un imprenditore che sia comunque coinvolto, colluso o condizionato dalla delinquenza organizzata possa essere titolare di rapporti, specie contrattuali, con la Pubblica Amministrazione.
Il soggetto preposto all’adozione della certificazione è il Prefetto che, nell’adottare l’informazione antimafia nei confronti di un soggetto, esprime il suo giudizio basato su una serie di elementi sintomatici che riflettono il pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa. L’informazione, dato il suo carattere preventivo, interdice all’impresa l’inizio di qualsivoglia rapporto contrattuale o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione. Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva sono previsti dal legislatore e sono quindi tipicizzati. Si parla in questo caso dei cosiddetti “delitti spia” previsti dall’art. 84 comma 4: dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti; dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione; salvo che ricorra l’esimente di cui all’articolo 4 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall’omessa denuncia all’autorità giudiziaria dei reati di cui agli articoli 317 e 629 del codice penale, aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, da parte dei soggetti indicati nella lettera b) dell’articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o di una causa ostativa ivi previste; dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno ai sensi del decreto-legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726, ovvero di quelli di cui all’articolo 93 del presente decreto; dagli accertamenti da effettuarsi in altra provincia a cura dei prefetti competenti su richiesta del prefetto procedente ai sensi della lettera d); dalle sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari dei provvedimenti di cui alle lettere a) e b), con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti coinvolti nonché le qualità professionali dei subentranti, denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia. Altri criteri alla base dell’adozione dell’informativa antimafia sono a condotta libera e sono lasciati infatti al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata. A tal proposito, il Consiglio di Stato con sentenza n. 383 dell’11.01.21 stabiliva che ai fini della adozione dell’informativa antimafia, “da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri”. L’informazione antimafia deve essere acquisita dai soggetti indicati all’art. 83 commi 1 e 2, cioè dalle pubbliche amministrazioni e dagli enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, dagli enti e dalle aziende vigilanti dallo Stato o da altro ente pubblico e dalle società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché dai concessionari di lavori o servizi pubblici prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti relativi ai lavori, servizi e forniture pubblici, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti previsti dall’art. 67. Secondo quanto previsto dall’art. 86 del Codice Antimafia, la validità dell’informazione antimafia acquisita dai soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione è di 12 mesi dalla data di acquisizione, salvo che ricorrano alcune modificazioni previste dal comma 3 dell’art. 86. L’informazione antimafia viene conseguita attraverso la consultazione della banca dati nazionale unica da parte di soggetti, che devono essere debitamente autorizzati, previsti dall’art. 97 del Codice Antimafia e dunque soggetti indicati dall’art. 83 commi 1 e 2, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, gli ordini professionali, l’autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Il Codice ha infatti anche istituito, con l’art. 96, una Banca dati nazionale unica presso il Ministero dell’interno, Dipartimento per le politiche del personale dell’amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie. Quando dalla consultazione della banca dati nazionale unica emerge la sussistenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84 comma 4, l’informazione antimafia è rilasciata dal prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale ovvero dal prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato per le società di cui all’articolo 2508 del codice civile o dal prefetto della provincia in cui i soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, hanno sede per le società costituite all’estero, prive di una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato.
Quanto alla motivazione della informativa, il prefetto procedente deve scendere nel concreto cioè indicare gli elementi di fatto posti a base delle relative valutazioni e le ragioni in base alle quali gli elementi emersi siano tali da indurre a concludere in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti della perdita di fiducia che le istituzioni nutrono nei confronti dell’imprenditore. Il sistema dell’informativa antimafia è completamente estraneo alla logica penalistica del principio che la prova deve essere raggiunta oltre ogni ragionevole dubbio, questo vanificherebbe la ratio preventiva della informativa antimafia: prevenire un grave pericolo, non quella di punire una condotta penalmente rilevante. Infatti è ormai consolidato il principio in base al quale il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato sul criterio del “più probabile che non” integrato dai dati di comune esperienza derivati dall’osservazione del fenomeno mafioso.
La valutazione prefettizia mantiene una sua autonomia rispetto all’eventuale assoluzione in sede penale, sicché gli elementi posti a base dell’informativa, oltre a potere essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione (cfr. C.d.S., sez. III n. 8738/2023).
L’interdittiva antimafia, quale provvedimento amministrativo, può essere impugnato dall’impresa destinataria dinanzi il G.A. L’impresa, mediante il ricorso di cui all’art. 29 c.p.a., può impugnare il provvedimento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere, auspicandone l’annullamento. In particolare, la motivazione che giustifica l’interdittiva può configurare gli estremi dell’eccesso di potere laddove risulti scarna, illogica e contraddittoria. Con riferimento all’impugnazione dell’informativa antimafia, rilasciata a seguito dell’accertamento discrezionale del prefetto dei tentativi di infiltrazione mafiosa, ci si è chiesti quale fosse l’entità del sindacato giudiziale ed in che termini il giudice potesse vagliare il giudizio del prefetto, ai fini dell’annullamento per eccesso di potere. Posto che il giudizio amministrativo è volto a garantire la tutela dei diritti dell’interessato, quale la libertà di iniziativa economica, e la stessa deve essere effettiva, il G.A. affinchè possa annullare il provvedimento, dovrà verificare il tentativo di infiltrazione sulla base di un quadro indiziario grave, preciso e concordante, desumibile anche mediante l’accertamento della commissione di “delitti spia”. Il nesso causale tra le condotte dell’impresa ed il tentativo di infiltrazione mafiosa deve essere provato secondo il criterio del più probabile che non. Il deficit di partecipazione procedimentale, in definitiva, viene colmato mediante un sindacato totale del giudice amministrativo che consente al G.A. di analizzare tutti gli elementi dai quali desumere la contiguità dell’imprenditore ai sodalizi mafiosi.
- L’annullamento in autotutela
L’autotutela è un procedimento di secondo grado che ha ad oggetto provvedimenti già emessi da parte della Pubblica Amministrazione mediante il quale la stessa torna sui suoi passi attraverso un intervento successivo, che può risultare in una conferma o nel ritiro di un provvedimento precedente.
Tale procedimento comporta quindi un riesame da parte della PA circa la validità degli atti della medesima. È importante sottolineare che anche in questa seconda, fase l’amministrazione deve guardare alla conformità dell’interesse pubblico.
In particolare, l’annullamento in autotutela, anche detto annullamento d’ufficio, è disciplinato dall’art. 21 nonies L. 241/90.
La competenza ad agire in autotutela è individuata in capo all’organo che ha emanato il provvedimento originario. Il primo elemento fondamentale per l’applicazione dell’annullamento d’ufficio è la sussistenza di un vizio di legittimità che quindi rende illegittimo il provvedimento di primo grado emesso dall’amministrazione, al tempo stesso il suddetto elemento non è sufficiente per poter procedere all’annullamento in autotutela, essendo necessario l’ulteriore requisito dell’interesse pubblico. L’interesse pubblico deve essere diverso, concreto e attuale, infatti, l’atto non viene annullato solo in quanto illegittimo, ma occorre effettuare una valutazione e ponderazione degli interessi in gioco. Tale decisione è quindi il risultato del bilanciamento tra l’interesse pubblico alla base del provvedimento, oggetto di annullamento d’ufficio, cioè l’interesse che giustifica tale annullamento e l’interesse alla conservazione dell’atto da parte di coloro che avevano ricevuto un vantaggio, nonché l’eventuale posizione di terzi che potrebbero avere un interesse all’annullamento d’ufficio dell’atto. Con riguardo alle conseguenze dell’annullamento in autotutela, occorre rilevare che l’effetto principale, prodotto dallo stesso, consiste nella definitiva rimozione dell’atto con efficacia retroattiva operando quindi con effetto ex tunc. È interessante osservare che l’annullamento d’ufficio ha sollevato la questione della qualificazione come potere discrezionale o vincolato. Secondo la clausola generale sancita dall’art. 21 nonies della Legge 241/90 rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
L’annullamento d’ufficio è un potere a connotazione discrezionale come affermato anche dalla giurisprudenza; a tal proposito vi ritroviamo un diverso ordine di presupposti: un presupposto rigido e un altro flessibile. Nell’art. 21 nonies, il presupposto rigido, rimanda alla previsione di cui all’articolo 21 octies commi 1 e 2. Tali previsioni risultano del tutto oggettive, in quanto non dipendendo dalla volontà dell’amministrazione.
Per quanto riguarda invece gli elementi flessibili è possibile constatare come proprio all’interno del medesimo articolo si faccia menzione della locuzione: “il termine ragionevole”.
Il termine ragionevole ha diverse interpretazioni riconducibili a due orientamenti. Secondo il primo orientamento, quello maggioritario, tale espressione costituirebbe un presupposto relativo e la sua valutazione dovrebbe essere contestualizzata alla fissazione del valore dell’interesse pubblico e dell’interesse privato. L’orientamento minoritario, invece, lo definisce come un presupposto di tipo assoluto e la sua valutazione dovrebbe essere parametrata a termini legislativamente previsti per l’annullamento.
Sul punto si è pronunciato il Consiglio di Stato con Ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8 con cui ha dichiarato che l’espressione “termine ragionevole” è stato interpretato come il complesso delle circostanze rilevanti caso per caso e coincide con il momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili illegittimi dell’atto. La Legge 124 del 2015 oltre a riconfermare la previsione del termine ragionevole ha introdotto un limite temporale pari a 18 mesi decorrente dalla data di emanazione del provvedimento illegittimo entro cui l’amministrazione potrà esercitare il proprio potere in relazione a provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.
Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento o, salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Trattasi della c.d. “revoca in autotutela” che determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre effetti ulteriori.
Nella disposizione indicata vengono in rilievo tre ipotesi alternative che rappresentano la base al fine di disporre un provvedimento di revoca, ovvero, la sopravvenienza di ragioni di pubblico interesse, ovvero una diversa valutazione di quello originariamente dedotto nell’atto, oppure laddove a mutare sia la situazione di fatto. Inoltre, si evince che l’oggetto della revoca possono essere solamente i provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole al fine di impedire che gli stessi possano produrre ulteriori effetti. Va detto, inoltre, che laddove dalla revoca del provvedimento derivino pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di indennizzarli. La revoca in autotutela agisce senza una vera e propria categorizzazione dietro, ovvero bisogna porre in essere la valutazione dell’interesse pubblico che, in quanto mutevole, fa sì che l’atto revocato al momento della sua adozione era strettamente collegato all’interesse pubblico, che è potenzialmente mutevole. Inoltre, la revoca, diversamente dall’annullamento d’ufficio, risponde a norme non giuridiche quali eticità, equità, economicità, opportunità e convenienza. Oggi, la legge limita la revocabilità ai soli atti “ad efficacia durevole” tale da considerare che la revoca opera ex nunc e, quindi, l’atto revocato non può produrre effetti ulteriori. Invece, gli elementi dell’annullamento d’ufficio sono illegittimità del provvedimento annullato, ragioni di interesse pubblico e termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
- La questione sottoposta al Consiglio di Stato
Di recente, il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania è intervenuto poiché sollecitato da parte di una società (privato) che proponeva ricorso contro il Comune di …omissis…, chiedendo anche l’intervento di un privato, per l’annullamento del provvedimento del responsabile comunale del settore ufficio tecnico che disponeva l’annullamento d’ufficio del permesso di costruire e della SCIA.
Il ricorrente impugnava con ricorso il provvedimento di annullamento in autotutela del permesso di costruire e della SCIA del Comune di …omissis... La vicenda nasce da un atto preliminare di permuta mediante il quale alcuni privati promettevano la cessione degli immobili oggetto di intervento in cambio della cessione in loro favore di abitazioni e box auto da realizzare alla società ricorrente. A luglio 2017, i privati, in qualità di comproprietari presentavano istanza di permesso di costruire per lavori di demolizione e ricostruzione del complesso immobiliare residenziali.
Nel 2020 in seguito al contratto preliminare la società ricorrente presentava istanza per subentrare al permesso di costruire ed in data 28 luglio 2020 il Comune di …omissis… rilasciava permesso di costruire e la società avviava i lavori. Successivamente, nel 2021 i comproprietari e la società ricorrente stipulavano un contratto di compravendita con il quale trasferivano la proprietà degli immobili in questione. Con decreto del maggio 2021, la Procura della Repubblica del Tribunale di Nola ordinava il sequestro preventivo del cantiere. Il provvedimento veniva emesso a seguito di segnalazione del Comando di Polizia Municipale del Comune di …omissis…, il quale rappresentava l’illegittimità di numerosi titoli edilizi per violazione della normativa del cd. Piano Casa della Regione Campania e della legislazione regionale e nazionale in generale. La società ricorrente presentava una SCIA contenente alcuni correttivi al progetto iniziale, che comprendevano la riduzione del numero degli appartamenti da costruire che passavano dai 28 originari a 22. Il Comune, notificava l’avviso di avvio del procedimento volto all’annullamento in autotutela ai sensi degli artt. 7 e 21 nonies della L. 241/90 del permesso di costruire e della variante SCIA, invitando gli interessati a presentare proprie osservazioni. Sia i precedenti proprietari che la società ricorrente presentavano le deduzioni. In data 19 ottobre 2022 il Comune di …omissis… adottava il provvedimento di annullamento in autotutela del permesso e degli effetti della SCIA .
La società ricorrente ha impugnato il provvedimento di annullamento, deducendo i vari motivi di illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere e ha depositato una relazione tecnica per illustrare le illegittimità del provvedimento impugnato, tra cui l’incapacità giuridica ex lege ad essere titolare di rapporti giuridici con la PA per comunicazione interdittiva antimafia.
Si è costituito il Comune di …omissis… che ha chiesto il rigetto del ricorso e l’interventore ad adiuvandum che invece ne ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Con ordinanza collegiale dell’11 marzo 2024 è stata disposta l’acquisizione dell’informativa antimafia di conferma ostativa. Il Comune depositava la nota con la quale la Prefettura di Napoli comunicava l’esistenza di un’informativa antimafia di conferma ostativa emessa a carico della società ricorrente.
Il Tar subito respinge il ricorso perchè l’informativa antimafia ostativa intera una causa di incapacità giuridica del destinatario ad essere titolare di provvedimenti amministrativi ampliativi. Secondo l’orientamento giurisprudenziale anche del Tar Napoli le conseguenze decadenziali sulle autorizzazioni dei provvedimenti interdittivi antimafia discendono dall’esigenza di elevare il livello della tutela dell’economia legale dall’aggressione criminale. Ciò attraverso la sottoposizione delle attività al controllo preventivo della PA. Infatti, l’esistenza delle infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale e altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica.
Anche l’articolo 89 bis del dlgs n. 159/11 si interpreta nel senso che l’informazione antimafia produce i medesimi effetti della comunicazione antimafia anche nelle ipotesi in cui manchi un rapporto contrattuale con la PA. La revoca delle autorizzazioni, anche se abilitanti l’esercizio dell’attività imprenditoriale nei confronti dei privati discende direttamente, secondo il meccanismo ex art. 67, dall’adozione dell’informazione interdittiva antimafia ed è legata alla perduranza di quest’ultima, non trovando applicazione quindi il meccanismo della riabilitazione, propriamente ricollegabile alle misure di prevenzione aventi natura e finalità eterogenea. L’informativa antimafia ostativa, emessa ai sensi degli artt. 84 e 91 dlsg 159/11, ha effetto su tutte le richieste di certificazione antimafia provenienti dai soggetti di cui all’art. 83 dlgs 159/11.
A seguito dell’emanazione di un’informativa antimafia, la pubblica amministrazione non può rilasciare alcun atto abilitativo per lo svolgimento di qualsiasi attività economica o commerciale e, se è stato già emanato un atto abilitativo, deve esservi il suo ritiro, trattandosi di tipologie di atti i cui effetti sono radicalmente incompatibili con lo status di destinatario di una interdittiva antimafia.
Ergo, in presenza di interdittiva antimafia, la revoca delle autorizzazioni commerciali di cui sia titolare il soggetto attinto dalla medesima costituisce per l’Amministrazione un atto dovuto (v. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 510/21).
Nel caso di specie, l’incontestata sussistenza a carico della società titolare del permesso di costruire di un’informativa di conferma ostativa, imponeva al Comune di privare di effetti il permesso di costruire e la successiva SCIA, trattandosi di atti a contenuto abilitativo conseguiti dalla società nell’ambito dell’esercizio della propria attività imprenditoriale. Secondo il Collegio, va disattesa la tesi di parte ricorrente secondo la quale il mero rilascio del permesso di costruire non ricadrebbe in alcuna delle ipotesi per le quali sia richiesta la comunicazione antimafia. Infatti, l’attività edificatoria attiene all’attività imprenditoriale della società ricorrente e non è riconducibile a mera attività privatistica rientrante nell’esercizio del diritto di proprietà. Peraltro, già precedentemente, il Consiglio di Stato con la sentenza n. 2751/22 ha chiarito che nell’attività imprenditoriale vi rientrino tutte le iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo per lo svolgimento delle attività imprenditoriali, comunque denominate.
Per di più, il Tar ha ritenuto infondata anche la doglianza relativa alla qualifica di soggetto attuatore poiché ne ha svolto i lavori di demolizione. Dunque, il provvedimento impugnato va qualificato come un atto di ritiro vincolato ed accertativo della temporanea incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ampliativi che prescinde dai presupposti e limiti applicativi dell’art. 21 nonies L. 241/90. Per tale ragione, il rigetto delle suddette censure consente di pronunciare l’improcedibilità dei primi tre motivi di ricorso, volti a contestare la violazione dell’articolo 21 nonies . 241/90 e il superamento del termine per l’esercizio dell’autotutela nonchè la violazione del principio dell’affidamento.
Anche il motivo di ricorso per asserita violazione dell’articolo 10 bis della L. 241/90 per la mancata confutazione delle osservazioni presentate da parte ricorrente va respinto. Infatti, secondo consolidato principio, l’onere di prendere in considerazioni le osservazioni dei privati dedotte nel procedimento amministrativo non comporta una confutazione analitica di ciascuna argomentazione, ben potendo essere adempiuto in modo unitario e sintetico in rapporto alle risultanze istruttorie complessivamente acquisite, purchè sia consentito al destinatario del provvedimento di far valere le proprie ragioni e al giudice di svolgere il controllo giurisdizionali cui è demandato.
In conclusione, l’annullamento dei titoli edilizi è stato disposto dal Comune per la sopravvenuta conoscenza di circostanze ostative alla loro perdurante efficacia e non potendo riconoscersi né illegittimità né sussistenza di contegno colposo dell’Amministrazione, il ricorso viene respinto.
Nel caso che ci occupa, il Tar ribadisce l’annullamento in autotutela di un permesso a costruire, per intervenuta comunicazione antimafia, è un atto di ritiro vincolato ed accertativo della temporanea incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ampliativi, che prescinde, dunque, dall’operatività dei presupposti nonché dei limiti applicativi dell’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990. A seguito della comunicazione antimafia, la pubblica amministrazione non può, pertanto, rilasciare alcun titolo legittimante lo svolgimento di una qualsiasi attività economica o commerciale e, allorchè già emesso, è ineludibile il suo ritiro, stante la sua sostanziale incompatibilità con lo status di destinatario di una interdittiva antimafia.