Giurisprudenza Amministrativa
Anche gli atti stragiudiziali sono idonei a interrompere la prescrizione decennale di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a.
Di Daniela D'Amico
NOTA ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO SENTENZA del 4 dicembre 2020, n. 24
Anche gli atti stragiudiziali sono idonei a interrompere la prescrizione decennale di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a.
Di DANIELA D’AMICO
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia con ordinanza di rimessione n. 466 del 25 giugno 2020 ritiene di rimettere all’Adunanza Plenaria la questione preliminare sollevata nel giudizio incardinato dinanzi allo stesso e relativa all’esatta interpretazione dell’art. 114, comma 1, c.p.a. quanto agli atti idonei a interrompere il termine decennale per l’esercizio dell’actio iudicati.
Il Collegio, infatti, rileva che su tale questione si registrano diversi orientamenti in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato: in prevalenza nel senso che sono ammessi atti stragiudiziali di interruzione dell’actio iudicati (Cons. St., III, 28.2.2014 n. 945; Id., III, 22.12.2014 n. 6296; Id., VI, 30.12.2014 n. 6432; Id., III, 23.11.2017 n. 5448; CGARS, 11.12.2017 n. 544); mentre la tesi opposta è stata affermata anteriormente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (Cons. St., V, 16.3.1999 n. 274), e sembra trovare fondamento in una risalente pronuncia dell’Adunanza Plenaria (Cons. St., ad. plen. n. 5/1991).
Nello specifico, sebbene l’art. 114, comma 1, c.p.a. utilizzi l’espressione “prescrizione” con riferimento all’azione di ottemperanza, laddove per tutte le altre azioni davanti al giudice amministrativo è previsto un termine di decadenza (si pensi all’azione di annullamento ex art. 29 c.p.a. o all’azione di condanna ex art. 30 ,comma 3, c.p.a.), il Collegio remittente afferma che necessita stabilire se la prescrizione riguardi il diritto di azione e possa essere interrotta solo con l’esercizio dell’azione, o il diritto sostanziale riconosciuto dal giudicato, sicché il termine possa essere interrotto anche con atti stragiudiziali.
Pertanto, al fine di evitare il radicalizzarsi di un contrasto giurisprudenziale già parzialmente riscontrato, ad avviso del CGARS, è, dunque, indispensabile delineare l’esatta natura giuridica del termine cui è sottoposta l’azione di ottemperanza (decadenza o prescrizione, prescrizione sostanziale o processuale) ed occorre individuare gli atti che possano determinare l’eventuale interruzione del termine stesso, in ipotesi ritenuto prescrizionale (in quanto la natura giuridica decadenziale non ammette l’applicazione delle norme relative all’interruzione e alla sospensione della prescrizione ex art. 2964 c.c., quindi il problema non si porrebbe ab initio).
Il Collegio remittente rileva che le decisioni giurisprudenziali sono, allo stato, alquanto concordi nel definire il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. per la proposizione dell’azione di ottemperanza quale termine di prescrizione e non di decadenza, ma sceglie ugualmente di proporre il quesito.
Ex adverso, il medesimo Collegio, come già precisato, rileva la sussistenza di un evidente contrasto della giurisprudenza amministrativa quanto all’esatta individuazione degli atti idonei ad interrompere il termine decennale entro cui l’azione di ottemperanza deve essere proposta, che ha reso opportuna la rimessione della questione all’Adunanza Plenaria.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia nell’ordinanza di rimessione esprime e motiva, tuttavia, la propria posizione sulle questioni di diritto che la causa pone.
In particolare, il Collegio remittente osserva che non è convincente la tesi che ammette atti interruttivi stragiudiziali dell’actio iudicati, per le plurime ragioni di seguito indicate:
- a) sarebbe una soluzione del tutto eccentrica e distonica rispetto al sistema delle azioni nel processo amministrativo in cui il termine per l’azione è interrotto solo ed esclusivamente dall’esercizio dell’azione e non da atti stragiudiziali;
- b) l’art. 114, comma 1, c.p.a., laddove afferma che “l’azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza” si riferisce chiaramente alla prescrizione dell’azione e non del diritto sottostante;
- c) l’art. 2953 c.c., a tenore del quale “i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”, si riferisce ai diritti sostanziali e non all’azione processuale, e non pare applicabile nel processo amministrativo, dato che esiste la norma specifica e speciale dell’art. 114, comma 1, c.p.a.;
- d) poco rileva che sia previsto per l’actio iudicatiun termine di prescrizione e non di decadenza; infatti, gli atti interruttivi della prescrizione dei diritti devono concretarsi in atti di esercizio dei diritti medesimi che siano pertinenti e idonei ad esercitare i diritti stessi; e quando si tratta del diritto di azione processuale, l’unico atto di esercizio del diritto pertinente e appropriato è l’esercizio dell’azione stessa;
- e) e, invero, la stessa Adunanza Plenaria n. 5/1991 dà per presupposto che solo l’esercizio dell’actio iudicati(anche dinanzi ad un giudice incompetente o privo di giurisdizione e fatti salvi gli effetti della translatio iudicii) può interrompere il relativo termine (il quale per le restanti ipotesi resta interrompibile); altri precedenti del Consiglio di Stato, pur ammettendo atti interruttivi del termine decennale dell’actio iudicati,si riferiscono ad atti interruttivi giudiziali, mediante azione di ottemperanza o altro tipo di azione processuale (Cons. St., V, 18.10.2011 n. 5558; Id., V, 16.11.2018 n. 6470);
- f) anche quando l’actio iudicatideve essere preceduta da una previa diffida o da un previo termine dilatorio, non si dubita che tali atti o termini non impediscano il decorso del termine di prescrizione e dunque non hanno effetto interruttivo;
- g) dirimente parrebbe la considerazione che i termini processuali sono ordinariamente perentori, e come tali, sottratti alla disponibilità delle parti.
Pertanto, ad avviso del Collegio remittente non è concepibile un atto stragiudiziale interruttivo del termine del diritto di azione processuale: la concezione estensiva degli atti interruttivi è stata sovente agganciata a due interessi che l’ordinamento riterrebbe degni di prevalente tutela, ossia l’interesse a che le disposizioni del giudice amministrativo debbano comunque essere eseguite e la tutela dei diritti del ricorrente, la quale è imposta da una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme oggetto del giudizio.
Il CGARS afferma, altresì, che non può sottacersi come sia maturata, anche nella giurisprudenza amministrativa, la consapevolezza della necessità di operare un adeguato bilanciamento tra gli interessi appena enunciati e gli interessi sempre più ritenuti degni di considerazione: tra questi quello che occupa una posizione preminente è certamente quello della certezza e stabilità delle relazioni giuridiche.
Tuttavia, il Collegio remittente sottolinea che, nonostante l’importanza riconosciuta dall’ordinamento giuridico e dal diritto vivente al detto principio di certezza dei rapporti giuridici, il primo principio da osservare secondo gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale è il principio di ragionevolezza, il quale viene applicato dalla Consulta per sindacare le scelte del Legislatore.
Nel caso di specie, nell’accedere alla tesi estensiva degli atti idonei all’interruzione della prescrizione dell’actio iudicati, sul piano pratico si esporrebbe un settore in cui le situazioni soggettive sono indisponibili (perché è in gioco l’interesse pubblico) al rischio che l’azione amministrativa sia condizionata da iniziative private per un lasso temporale lunghissimo e, nei fatti, nella disponibilità di una sola delle parti processuali.
Pertanto, la soluzione che ammette atti stragiudiziali interruttivi dell’actio iudicati può condurre al paradossale risultato di una serie di atti interruttivi stragiudiziali fatti nell’imminenza dello scadere dei dieci anni, reiterati ogni dieci anni, per un tempo potenzialmente indefinito: una esegesi che conduce a un risultato paradossale e, perciò, da rigettare, secondo la posizione assunta sulla questione dal CGARS.
Inoltre, il Collegio remittente afferma che la suddetta tesi estensiva esporrebbe l’art. 114, comma 1, c.p.a. anche a dubbi di legittimità costituzionale quantomeno in relazione agli artt. 111 e 97 Cost., sotto il profilo della ragionevole durata dei processi e del buon andamento della pubblica amministrazione.
Per quanto detto, all’esito dell’udienza di trattazione del ricorso, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia ha rimesso all’esame dell’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:
“a) se il termine di prescrizione decennale dell’actio iudicati previsto dall’art. 114 c. 1 c.p.a. riguardi il diritto di azione o il diritto sostanziale riconosciuto dal giudicato;
- b) se, ritenuta la prescrizione riferita all’azione processuale, secondo il chiaro tenore letterale dell’art. 114 c. 1 c.p.a., il termine di prescrizione possa essere interrotto esclusivamente mediante l’esercizio dell’azione (come sembra desumersi dall’Adunanza Plenaria n. 5/1991 resa anteriormente all’entrata in vigore del c.p.a. del 2010, anche davanti a giudice incompetente o privo di giurisdizione e fatti salvi gli effetti della translatio iudicii)o anche mediante atti stragiudiziali volti a conseguire il bene della vita riconosciuto dal giudicato;
- c) se, pertanto, al di là del nomen iurisdi prescrizione utilizzato dall’art. 114 c. 1 c.p.a., il termine di esercizio dell’actio iudicatioperi, nella sostanza, come un termine di decadenza, al pari di tutti gli altri termini previsti dal c.p.a. per l’esercizio di azioni davanti al giudice amministrativo, e si presti, pertanto, ad una esegesi sistematica e armonica con l’impianto del c.p.a.;
- d) se, in subordine, ove si ritenesse che l’art. 114, c. 1, c.p.a. vada interpretato nel senso di consentire atti stragiudiziali di interruzione dell’actio iudicati, non si profili un dubbio di legittimità costituzionale della previsione quantomeno in relazione agli artt. 111 e 97 Cost., per violazione dei principi di ragionevole durata dei processi e di buon andamento dell’amministrazione.
L’Adunanza Plenaria con sentenza n. 24 del 4 dicembre 2020 ritiene che le questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione vadano esaminate tenendo conto della evoluzione della normativa nazionale in tema di giudizio di ottemperanza e di prescrizione, nonché del principio di pari dignità della tutela dei diritti e degli interessi legittimi.
Il Supremo Collegio ritiene, tuttavia, opportuno effettuare un excursus storico della normativa del giudizio di ottemperanza, al fine di meglio comprendere la ratio sottesa a tale giudizio, introdotto dal Legislatore post-unitario per dare effettiva esecuzione ai giudicati.
Il giudizio d’ottemperanza è stato per la prima volta disciplinato dall’art. 4, n. 4, l. n. 5992 del 31 marzo 1889, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato.
Tale articolo - poi trasfuso nei testi unici sul Consiglio di Stato approvati con i regi decreti n. 6166 del 1889, n. 638 del 1907 e n. 1054 del 1924 – ha testualmente ammesso la proponibilità del rimedio solo per eseguire il “giudicato dei tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico”.
L’art. 90, comma 2, del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (di approvazione del “regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato”), ha disposto che i ricorsi d’ottemperanza, di cui al testo unico n. 638 del 1907 e quindi quelli di cui all’art. 27, n. 4, del testo unico n. 1054 del 1924, “possono essere proposti finché duri l’azione di giudicato”.
L’art. 90 ha così richiamato le allora vigenti disposizioni del codice civile del Regno d’Italia del 1865, il quale:
- all’art. 2135, disponeva che, salvi i più brevi termini previsti dagli articoli 2137-2148, “tutte le azioni tanto reali quanto personali si prescrivono col decorso di trent’anni”, e dunque anche l’actio iudicati, in assenza di una specifica disciplina di tale azione;
- all’art. 2123, ammetteva che “la prescrizione può essere interrotta … civilmente”, cioè, tra gli altri atti, con una domanda giudiziale o un atto di costituzione in mora.
Il ricorso d’ottemperanza, che nell’originaria intenzione del Legislatore riguardava l’esecuzione del giudicato civile a tutela dei diritti, poteva dunque essere proposto entro il termine di trent’anni, di per sé interrompibile.
Il Consiglio di Stato ha poi ammesso il ricorso d’ottemperanza anche nel caso di mancata esecuzione di proprie decisioni, dapprima nel caso di lesione di un diritto soggettivo di un dipendente, nel sistema della giurisdizione esclusiva prevista dalla legge n. 2840 del 1923 (Sez. IV, 2 marzo 1928, n. 181), e poi nel caso di mancata emanazione di un atto ulteriore dopo l’annullamento di un diniego (Sez. V, 12 maggio 1937, n. 616) o di mancata esecuzione della sentenza d’annullamento di un titolo abilitativo rilasciato ad un terzo (Ad. Plen., 3 luglio 1952, n. 13, sulla mancata chiusura di una farmacia, dopo l’annullamento del suo atto istitutivo).
Con l’entrata in vigore del codice civile del 1942, vi è stata una profonda modifica della disciplina della prescrizione.
Oltre alla disciplina sul termine ordinario in dieci anni ex art. 2946 e sui termini più brevi, anche presuntivi (artt. 2948-2952; 2954-2957), il codice del 1942:
- all’art. 2953, ha specificamente disciplinato l’actio iudicati, disponendo che “i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”.
- all’art. 2943, comma 4, ha previsto che la prescrizione è interrotta “da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore”.
Sotto il profilo lessicale, la sentenza in commento rimarca che – mentre l’art. 90 del regio decreto n. 642 del 1907 e l’art. 2135 del codice civile del 1865 si sono riferiti all’‘azione’ e alle ‘azioni’ e dunque a nozioni processuali - l’art. 2953 del codice civile del 1942 si è, invece, riferito ai ‘diritti’ e, dunque, ad una nozione sostanziale, facendo sorgere la perdurante discussione se l’istituto della prescrizione riguardi il diritto o l’azione.
Al di là degli aspetti lessicali delle sopra richiamate disposizioni, è invece indubbio che - con l’entrata in vigore del codice civile del 1942 - il richiamo all’actio iudicati, contenuto nell’art. 90 del regio decreto n. 642 del 1907, abbia comportato l’applicazione del termine di dieci anni, per la proposizione del ricorso d’ottemperanza per l’esecuzione di un giudicato civile.
Nella giurisprudenza del Consiglio di Stato - prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo – non si è mai dubitato della applicabilità degli articoli 2953 c.c. e 2943, comma 4, c.c. per la proponibilità di ricorsi d’ottemperanza nel caso di mancata esecuzione dei giudicati civili o di mancata esecuzione dei giudicati amministrativi riguardanti posizioni di diritti.
Infatti, la giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria ha costantemente rilevato che la tutela dei diritti soggettivi deve essere effettiva e che essa – quando sia proposta un’azione di cognizione, cautelare o d’esecuzione in una materia devoluta in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva - non possa essere inferiore a quella prospettabile innanzi al giudice civile (ex multis, Ad. Plen., 18 dicembre 1940, n. 1; Ad. Plen., 26 ottobre 1979, n. 25; Ad. Plen., 30 marzo 2000, ord. n. 1; anche Corte Cost., 28 giugno 1985, n. 190).
Al contrario, quanto ai giudicati amministrativi di annullamento di atti lesivi di interessi legittimi, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato si è posta effettivamente la questione se l’actio iudicati fosse proponibile improrogabilmente entro il termine di dieci anni (decorrente dalla formazione del giudicato d’annullamento) o anche dopo la scadenza di tale termine, qualora vi fossero state iniziative stragiudiziali degli interessati, volte ad ottenere l’esecuzione del giudicato.
Poiché gli interessi legittimi (come i poteri autoritativi) per definizione non sono soggetti a prescrizione, era sostenibile la tesi secondo cui in ogni tempo il vincitore della lite avrebbe potuto agire col giudizio d’ottemperanza, per far emanare le misure volte alla esecuzione del giudicato.
Tuttavia, in considerazione dell’esigenza per la quale i rapporti di diritto pubblico non possono restare a lungo in una situazione di incertezza, anche dopo la legge n. 1034 del 1971 (che per la prima volta ha ammesso espressamente il giudizio d’ottemperanza delle sentenze del giudice amministrativo) la giurisprudenza ha prevalentemente seguito la tesi per la quale il termine richiamato dall’art. 90 del regio decreto del 1907 – divenuto di dieci anni dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942 - si dovesse intendere non interrompibile quando si agiva in ottemperanza per la tutela di un interesse legittimo, con il corollario della necessaria proposizione del ricorso entro il termine decennale, pena la conseguente prescrizione.
A tale principio, si è implicitamente conformata la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 26 agosto 1991 (richiamata dall’ordinanza di rimessione), la quale ha ritenuto interrompibile il termine soltanto nel caso di adizione di un giudice (anche incompetente o privo di giurisdizione e fatti salvi gli effetti della translatio iudicii) in implicita adesione al principio previsto per tale adizione dall’art. 2125, primo comma, del codice civile del 1865.
In questo quadro normativo e giurisprudenziale, nel codice del processo amministrativo è stato inserito l’art. 114, comma 1, che in tema di giudizio d’ottemperanza dispone: “l’azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza”.
Sotto il profilo lessicale, va sottolineato come l’art. 114, comma 1, c.p.a. abbia sancito la regola della prescrizione decennale, riferendosi – come l’art. 90 del regio decreto n. 642 del 1907, ma in un ben diverso contesto normativo - alla proponibilità dell’azione di esecuzione del giudicato e non al rilievo del decorso del tempo sulle posizioni giuridiche oggetto del giudicato, a differenza di quanto ha previsto l’art. 2953 del codice civile.
Per quanto riguarda l’actio iudicati, concernente il giudicato (del giudice civile o del giudice amministrativo) avente per oggetto diritti, l’Adunanza Plenaria afferma che non vi era alcuna lacuna da colmare, proprio perché già gli articoli 2953 e 2943, comma 4, del codice civile del 1942 hanno sancito le regole della prescrizione decennale e della sua interrompibilità.
Per quanto concerne, invece, l’actio iudicati riguardante il giudicato avente per oggetto interessi legittimi, il Legislatore – nel tenere conto del precedente dibattito – ha ritenuto di non trasporre in legge il principio che, in particolare, la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 1991 sopra richiamata aveva enunciato in assenza di una specifica disposizione di legge e ha ritenuto di rendere interrompibile il termine decennale di cui all’art 114, comma 1, c.p.a.
Infatti, l’art. 114, comma 1, c.p.a. ha introdotto la diversa regola per la quale in ogni caso è interrompibile il termine di prescrizione decennale, quando si agisce con l’actio iudicati: non rileva sotto tale profilo la posizione soggettiva di cui si chieda tutela al giudice dell’ottemperanza.
Da tale comma, il Supremo Collegio desume chiaramente la determinazione del Legislatore di qualificare come termine di prescrizione e non di decadenza quello entro il quale è proponibile il ricorso d’ottemperanza: non si può ritenere che il Legislatore abbia utilizzato termini aventi un significato diverso da quello attribuibile in base alle nozioni generali, effettuando, dunque, una scelta linguistica del tutto consapevole delle sue ricadute giuridiche.
Con riferimento ai diritti, tale determinazione risultava del resto costituzionalmente obbligata, poiché – per il principio di uguaglianza e per i principi fondanti la giustizia amministrativa (artt. 3, 103 e 113 Cost.) – di certo non si sarebbe potuto introdurre per essi un termine decennale di decadenza, tale da rendere del tutto incoerente la disciplina processuale sull’actio iudicati con quella sostanziale prevista dall’art. 2953 del codice civile (che consente di interrompere la prescrizione anche quando si tratti di un diritto che abbia dato luogo ad un giudicato favorevole).
L’Adunanza Plenaria rileva che una specifica ed autonoma portata applicativa dell’art. 114, comma 1, c.p.a. ha allora riguardato proprio l’actio iudicati riguardante i giudicati aventi per oggetto posizioni di interesse legittimo, nel senso che il Legislatore ha espressamente ammesso, in ogni caso, che il termine decennale, proprio perché è di prescrizione e non di decadenza, possa essere interrotto e possa essere interrotto anche con idonei atti stragiudiziali, senza la necessità che entro il termine decennale sia notificato il ricorso d’ottemperanza.
La scelta del Legislatore è stata, dunque, quella di disporre regole unitarie per l’actio iudicati, quanto al tempo della proposizione del ricorso d’ottemperanza, con riferimento sia ai diritti che agli interessi: ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus.
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria in commento, tale scelta risulta pienamente coerente con il principio di effettività della tutela e con la giurisprudenza costituzionale, poiché:
- a) l’art. 1 del codice del processo amministrativo dispone che “la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”, senza distinguere i diritti dagli interessi, aventi pari dignità ai sensi degli artt. 24 e 103 Cost., sicché ben si regge su tale principio la regola per la quale in ogni caso chi abbia ottenuto un giudicato favorevole possa sollecitare l’amministrazione soccombente anche in sede stragiudiziale, affinché ci sia l’esecuzione, con la conseguente interruzione del termine di proposizione dell’actio iudicati;
- b) più volte la Corte Costituzionale, anche con le sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, ha evidenziato lo stretto intreccio che talvolta vi è tra gli interessi e i diritti devoluti dalla legge alla giurisdizione amministrativa esclusiva, sicché si giustifica un regime giuridico unitario (e dunque semplificato) dell’actio iudicati, che ai fini della proponibilità del rimedio – in presenza di atti stragiudiziali volti all’esecuzione del giudicato – renda irrilevante l’esame della natura della posizione fatta valere nel giudizio di cognizione.
In particolare, pare opportuno soffermarsi sul caso concreto oggetto del giudizio dinanzi al CGARS, il quale riguarda la notifica della sentenza (ormai passata in giudicato) all’amministrazione soccombente con annessa diffida ad adempiere a ridosso dello scadere del termine decennale dal passaggio in giudicato della pronuncia giudiziale, il cui superamento avrebbe fatto maturare la prescrizione dell’azione d’ottemperanza.
I ricorrenti hanno, infatti, notificato all’amministrazione resistente la sentenza, di cui si chiede l’ottemperanza nel giudizio da cui proviene l’ordinanza di rimessione, apponendovi in calce un’intimazione ad adempiere, con la testuale formula: “si notifichi al fine della esatta ottemperanza ed a tutti gli effetti, compreso quello interruttivo della prescrizione”.
A tal punto, pare doveroso soffermarsi sull’istituto della mora per meglio comprendere il caso concreto sottoposto al giudizio dell’Adunanza Plenaria e le sue statuizioni, poiché la notifica della sentenza contiene la riportata intimazione ad adempiere, non potendosi qualificare, dunque, come notifica cd. secca, al contrario di quanto sostenuto dall’amministrazione resistente.
Nello specifico, la mora del debitore consiste nel ritardo di questi nell’adempiere la prestazione dovuta.
Il termine mora è tradizionalmente impiegato per indicare un ritardo qualificato, colposo, in altri termini, un ritardo di cui il debitore è responsabile.
In particolare, sussiste un discrimen tra il ritardo semplice e la mora, trattandosi di due concetti differenti: il primo attiene all’inosservanza oggettiva del termine dell’adempimento; la seconda individua il ritardo imputabile al debitore, poiché dovuto a sua colpa.
La mora è, dunque, un’ipotesi peculiare di ritardo.
Tale ritardo costituisce la violazione della modalità temporale di esecuzione dell’obbligazione, ponendosi come una delle modalità di estrinsecazione dell’inesatto adempimento di cui all’art. 1218 c.c.
Pur essendo il ritardo una species dell’inadempimento, il codice civile ne effettua un’autonoma trattazione, in ragione delle particolarità del suo accertamento, nonché delle sue conseguenze.
La funzione della mora debendi ha natura essenzialmente cautelativa, in quanto opera al fine di circoscrivere l’aggravio del rischio nella sfera del debitore.
In altri termini, dal momento della costituzione in mora, il rischio del perimento del bene o dell’eccessiva onerosità (per le obbligazioni pecuniarie) sono a carico del debitore, in base al principio della perpetuatio obligationis.
L’istituto della mora si suddivide in due tipologie: la mora ex re, prevista dall’art. 1219, comma 2, c.c. e intesa come mora prodotta automaticamente dall’inadempimento senza che sia necessaria la costituzione in mora per iscritto, e la mora ex persona, determinata dalla richiesta o intimazione scritta di adempimento ex art. 1219, comma 1, c.c., le quali costituiscono espressione di un ritardo divenuto ormai intollerabile per il creditore.
Tale tradizionale distinzione risale al diritto romano ed è stata mantenuta nell’ordinamento giuridico contemporaneo per giustificare i casi in cui la suddetta richiesta è necessaria, benché il ritardo, quale inesatta esecuzione della prestazione, già configuri l’inadempimento a livello logico, ma non giuridico.
La sopravvivenza della costituzione in mora è il retaggio dell’antico favor debitoris: il ritardo del debitore s’intendeva tollerato dal creditore, sul quale incombeva l’onere, per vincere tale presunzione, di formulare al debitore formale richiesta.
Pertanto, nei casi di mora ex re, il ritardo integra ope legis l’inadempimento, mentre nei casi di mora ex persona, il detto ritardo assurge ad inadempimento solo a condizione che il creditore abbia formulato la richiesta o l’intimazione scritta al debitore, vigendo una presunzione di tolleranza all’adempimento dilazionato a favore del debitore. In giurisprudenza, si è osservato che tale presunzione è talvolta imposta al creditore quale espressione del generale dovere di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c.
Ebbene, il codice civile non prevede particolari forme sacramentali o l’osservanza di particolari adempimenti, ma richiede la necessità di una intimazione o di una richiesta nella forma scritta.
Sul contenuto della richiesta non vengono indicati dalla legge specifici requisiti, poiché ciò che rileva è che risulti sufficientemente chiaro l’intento del creditore di ottenere la prestazione e di non tollerare una dilazione di tempo.
Il codice civile connette alla mora del debitore, sia essa ex re, sia ex persona, i seguenti effetti: il rischio dell’impossibilità sopravvenuta ex art. 1221 c.c., secondo il detto principio della perpetuatio obligationis; il risarcimento del danno ex art. 1223 c.c., in quanto la mora s’inquadra nell’ambito della responsabilità per inadempimento, ma si tratta di una conseguenza ulteriore rispetto a quelle che derivano dall’inadempimento stesso (quali la risoluzione del contratto o la previsione di una penale) e che va, pertanto, ad aggiungersi ad essi, ragion per cui, il risarcimento è comunque dovuto anche se al ritardo consegua poi l’adempimento (poiché il ritardo non comporta necessariamente la definitività dell’inadempimento); l’interruzione della prescrizione ex art. 2943, comma 4, c.c.
Proprio tale ultimo effetto accordato dalla legge all’istituto della mora è oggetto di interesse centrale tra le questione di diritto poste all’esame dell’Adunanza Plenaria.
Pertanto, si ritiene opportuno approfondire anche l’istituto della prescrizione e della sua interruzione, raffrontandolo con quello della decadenza, al fine di meglio comprendere la posizione assunta dal Supremo Collegio.
La prescrizione è l’estinzione del diritto, quale effetto del mancato esercizio dello stesso per il tempo determinato dalla legge ex art. 2934 c.c.
I presupposti perché operi la prescrizione sono: l’esistenza di un diritto esercitabile e non imprescrittibile; l’inerzia, ossia il mancato esercizio del diritto da parte del titolare; il decorso di un periodo di tempo previsto dalla legge.
La ratio sottesa all’istituto della prescrizione è quella di garantire l’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici (principio richiamato anche dall’ordinanza di rimessione).
Il dies a quo, ossia il momento dal quale inizia a decorrere il lasso di tempo idoneo alla maturazione della prescrizione, corrisponde al momento in cui il diritto può essere fatto valere ai sensi dell’art. 2935 c.c., il quale, nel caso di specie, si identifica col passaggio in giudicato della sentenza che vede soccombente l’amministrazione pubblica.
La formula legislativa deve essere intesa con riferimento alla possibilità legale, non influendo sul corso della prescrizione, salve le eccezioni stabilite dalla legge, l’impossibilità di fatto di agire in cui venga a trovarsi il titolare del diritto.
L’effetto interruttivo del corso della prescrizione va ricondotto ad un necessario, quanto sufficiente, comportamento dell’avente diritto volto, non equivocamente, a manifestare il proprio intendimento di esercitare quel diritto.
Comportamento che, come tutti gli altri giuridicamente rilevanti, può assumere la duplice forma della dichiarazione espressa o della manifestazione tacita di volontà, quest’ultima efficace a condizione che la volontà stessa sia inequivocabilmente e irredimibilmente riconducibile al comportamento che ne inferisca l’esistenza.
Per quanto concerne l’aspetto processuale dell’interruzione della prescrizione, la relativa eccezione non è rilevabile d’ufficio, ma può essere opposta solo dalla parte interessata, essendo, quindi, un’eccezione in senso stretto ex art. 2938 c.c.
A differenza della prescrizione, la decadenza si riferisce a termini perentori, trascorsi i quali non vi è tecnicamente l’estinzione del diritto, ma vi è l’estinzione di far valere il medesimo diritto di cui il soggetto è titolare (ossia il diritto continua a sussistere, ma non può essere esercitato).
In merito alle norme dettate sull’interruzione della prescrizione, il codice civile non le estende alla decadenza, stabilendo all’art. 2964 c.c. in modo espresso e preciso che non vi si applicano: il precetto è assoluto e non lascia spazio ad alcuna eccezione.
Mentre nella prescrizione, il fenomeno dell’interruzione - conseguente all’esercizio del diritto – è volto ad eliminare gli effetti economico-sociali che derivano dal protrarsi della situazione di fatto e dall’inerzia del titolare del diritto medesimo, nella decadenza, stante la rilevata rigidità e improrogabilità del termine, l’effetto preclusivo può essere impedito unicamente con il compimento dello specifico atto richiesto ex art. 2966 c.c.
Compiuto tale atto, la decadenza è impedita, lo stato di incertezza eliminato e non vi è più alcuna ragione perché un nuovo termine, previsto a pena di decadenza, inizi a decorrere: da qui la ratio dell’inapplicabilità delle norme sull’interruzione della prescrizione.
Dopo tali precisazioni, occorre riportare l’attenzione sulla pronuncia in commento con la quale l’Adunanza Plenaria afferma a più riprese che la scelta del Legislatore di qualificare il termine decennale per l’azione di ottemperanza quale prescrizionale costituisca espressione di una scelta precisa e consapevole, di talché non può considerarsi un termine che di fatto opera come decadenziale (risolvendo, così, uno dei quesiti sottoposti dall’ordinanza di rimessione), e che gli atti di impulso, anche stragiudiziali, univocamente rivolti ad ottenere l’esecuzione del giudicato sono stati evidentemente ritenuti idonei dal Legislatore ad interrompere il termine di prescrizione dell’actio iudicati, non potendo essere premiata l’amministrazione - con una regola della non interrompibilità della prescrizione – quando, malgrado tali atti, non vi sia stata né la unilaterale esecuzione del giudicato, né una soluzione consensuale.
L’Adunanza Plenaria evidenzia, altresì, che l’amministrazione risultata soccombente nel giudizio di cognizione ha il dovere di dare esecuzione d’ufficio al giudicato: la mancata esecuzione del giudicato si pone ex se in contrasto con il principio del buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost.
Il rimedio del ricorso d’ottemperanza va visto, infatti, come extrema ratio per ottenere in sede di giurisdizione di merito l’esecuzione del giudicato, qualora in sede amministrativa non vi sia stata una definizione della questione conforme al giudicato stesso, a seguito dei contatti eventualmente intercorsi tra le parti.
Tali contatti vanno considerati consentiti dal sistema e, in particolare, dall’art. 11 della legge n. 241 del 1990, il quale va interpretato anche nel senso che ben può essere concluso un accordo di natura transattiva, volto a definire una volta per tutte la controversia (Cons. St., sez. IV, 11 agosto 2020, n. 4990).
E’, pertanto, del tutto fisiologico che nel corso del tempo il vincitore del giudizio di cognizione solleciti l’amministrazione ad eseguire il giudicato, prospettando se del caso soluzioni che possano essere concordate, prima di proporre il giudizio d’ottemperanza (anche in un’ottica deflattiva del contenzioso).
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la regola generale della interrompibilità del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati neppure risulta in contrasto col principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., come paventato dall’ordinanza di rimessione.
Infatti, tale principio riguarda di per sé il periodo di tempo entro il quale deve esservi da parte del giudice la risposta di giustizia e non può essere inteso nel senso che vi siano preclusioni per il Legislatore nel fissare una regola generale, per la quale – una volta ottenuto un giudicato favorevole – chi ha titolo ad ottenere l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto preferisca anche periodicamente sollecitare l’amministrazione soccombente a dare esecuzione al giudicato, senza ricorrere al giudice dell’ottemperanza e confidando che l’amministrazione stessa, nel rispetto dei propri doveri istituzionali, dia finalmente esecuzione al giudicato.
Sulla base di tale quadro normativo desumibile dall’art. 114, comma 1, del c.p.a., ed in risposta ai quesiti sollevati dall’ordinanza di rimessione, l’Adunanza Plenaria ritiene di enunciare il seguente principio di diritto: “il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, del c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato”.
Ai sensi dell’art. 99 c.p.a., la causa viene rimessa al Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana, il quale ne valuterà le concrete ricadute al fine di deciderla con la sentenza definitiva, anche in ordine alle spese di giudizio.
A parere di chi scrive, da codesta pronuncia dell’Adunanza Plenaria, oltre al principio di diritto enunciato e ben motivato nel corpo della sentenza, può desumersi anche che è poco funzionale alla piena ed effettiva comprensione dell’istituto della prescrizione effettuare la distinzione tra prescrizione processuale e prescrizione sostanziale, poiché è opportuno guardare il diritto sottostante e il suo esercizio in giudizio mediante apposita azione in un’ottica di un continuum necessario, così come ritiene la dottrina più avveduta.
D’altronde, la legge non fa menzione di tale distinzione (maturata essenzialmente in seno agli interpreti con l’avvento del codice civile del 1942) con la conseguenza che il termine prescrizionale dell’azione di ottemperanza di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a. è idoneo ad essere interrotto non soltanto mediante atti giudiziali (ossia l’esercizio della relativa azione giudiziale), ma anche attraverso atti stragiudiziali, come la costituzione in mora ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1219, comma 1, e 2943, comma 4, c.c