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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Giurisprudenza Amministrativa



Ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia di procedimento d’espropriazione.

Di Jacopo Sportoletti.
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 20 gennaio 2020, n. 2

Ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia di procedimento d’espropriazione

Di JACOPO SPORTOLETTI

Sommario: 1. L’istituto della rinuncia abdicativa tra diritto civile e amministrativo 2. Il fatto 3. Le motivazioni del Consiglio di Stato

  1. L’istituto della rinuncia abdicativa tra diritto civile e amministrativo.

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta sulla questione di diritto inerente la configurabilità della rinuncia abdicativa quale “atto implicito ed implicato nella proposizione” di una domanda di risarcimento del danno da parte di un soggetto illegittimamente espropriato del suo bene immobile irreversibilmente trasformato.

L’analisi delle motivazioni sottese alla sentenza necessitano di una preliminare ricostruzione dell’istituto della rinuncia abdicativa.

La rinuncia abdicativa rientra all’interno dei modi di dismissione del diritto di proprietà[1].

Essa si estrinseca in un atto giuridico unilaterale non recettizio con cui il rinunciante, titolare di una data posizione giuridica di diritto reale, esclude dal suo patrimonio giuridico la proprietà di un dato bene.

L’istituto non rinviene una sua statuizione generale all’interno del Codice civile. Tuttavia, emergono dalla disciplina codicistica singoli casi che regolano ipotesi peculiari di rinuncia. In conseguenza di tali precipue statuizioni, dottrina e giurisprudenza ammettono l’operatività di siffatta figura giuridica in via generale.

Le norme che sono state individuate quale base legale per l’ammissibilità dell’istituto sono gli artt. 1350, 2643 c.c., relativi agli atti che devono necessariamente compiersi per iscritto e soggetti a trascrizione tra i quali si annoverano, al n.5) di entrambe le disposizioni, gli atti tra vivi di rinuncia ai diritti di proprietà e ai diritti reali ivi indicati.

Altra norma dirimente che determina le conseguenze dell’operatività della rinuncia è l’art.827 c.c. Quest’ultima statuisce che i beni immobili vacanti, ovvero sprovvisti di proprietario, spettano allo Stato. In tal modo si vuole tutelare la certezza giuridica dei rapporti di proprietà inerenti i beni immobili i quali non sono suscettibili di mero abbandono per il tramite della manifestazione dell’animus derelinquendi e successiva occupazione, diversamente dai beni mobili.

Per questi ultimi, infatti, l’art.923 c.c. dispone che le res mobili sprovviste di titolari, una volta divenute res nullius, sono suscettibili di occupazione.

Si mette in evidenza che per “abbandono” si intende la volontà del soggetto di perdere il possesso del bene. Tale manifestazione volitiva, se riferita ai beni immobili, determina un abbandono “de facto” dello stesso, senza alcuna conseguenza giuridica relativa alla titolarità formale della res. L’abbandono “semplice”, unito alla volontà dismissiva, determina esclusivamente la perdita del possesso del bene immobile e non ne consente l’acquisto mediante occupazione, stante il sistema della pubblicità immobiliare previsto per quest’ultimo. E' infatti necessario un atto scritto soggetto a pubblicazione.

Attenta dottrina[2] ha evidenziato, all’interno dell’istituto generico della rinuncia, la sussistenza di una sostanziale bipartizione tra la rinuncia abdicativa o “mera” e quella liberatoria.

La prima determina la semplice fuoriuscita della res dalla sfera giuridica del rinunciante e costituisce dunque l’ipotesi generale di “abbandono”.

La seconda determina il perseguimento di effetti “ulteriori” rispetto alla semplice dismissione di un bene patrimoniale. 

Dunque con il termine derelictio ci si riferisce esclusivamente al semplice abbandono dei beni mobili[3]. L’abbandono “mero” è invece riferibile alla rinuncia abdicativa ove il proprietario persegue esclusivamente il fine di liberarsi della proprietà.

L’abbandono liberatorio, diversamente, integra un’ipotesi di rinuncia liberatoria con la quale il proprietario dell’immobile vuole liberarsi del diritto reale oltre ad esimersi dal pagamento delle spese inerenti la gestione e il mantenimento del bene.

Costituiscono esempi di rinuncia liberatoria l’abbandono del fondo servente ex art.1070 c.c. e la rinuncia da parte del singolo comunista al suo diritto sul bene in comune ex art.1104 c.c.

Con la prima disposizione il proprietario del fondo servente si libera delle spese necessarie per l’uso e la conservazione della servitù mediante atto scritto conforme agli artt. 1350,2643 c.c.

Discussa è la possibilità per il proprietario del fondo dominante di impedire l’acquisto del bene, al fine di vedersi tutelato da eventuali ingerenze nella sua sfera giuridica.

Alcuni in dottrina sostengono che l'operatività della rinuncia necessiti dell'accettazione del proprietario del fondo dominante, con sospensione della sua efficacia fino alla determinazione di quest'ultimo. In tale modo, tuttavia, si farebbe dipendere l’efficacia di un atto personale, quale quello della dismissione di un bene immobile, dal benestare di un terzo soggetto, mettendo in discussione l'esistenza stessa della rinuncia.

Una prospettiva contrattualistica, invece, rinviene nell’art.1070 c.c., una forma di “abbandono bivalente”.

La tesi maggioritaria propende, invece, per l’immediato trasferimento della proprietà successivamente alla dichiarazione di abbandono. Si evidenzia che il titolare del fondo dominante sia sufficientemente tutelato dalla possibilità di rinunciare a sua volta al bene. In tale situazione la res spetterà allo Stato ex art. 827c.c.

Nell’art.1104 c.c., invece, si determina, per effetto della rinuncia scritta, un automatico accrescimento delle quote degli altri comunisti con liberazione delle spese, anche già deliberate, relative alla gestione del bene in capo al rinunciante, salvo sua tacita approvazione.

Diversamente dall’abbandono del fondo servente, l’attribuzione della proprietà della quota oggetto di rinuncia agli altri comunisti avviene per “espansione” delle loro quote ed è frutto del “modo d’essere” della comunione. I comunisti non possono opporsi alla rinuncia altrimenti si vanificherebbe la stessa essenza e operatività dell’istituto, dipendendo dalla loro volontà la produzione della vicenda di dismissione del bene del rinunciante.

L’effetto immediato della rinuncia è costituito dall’automatico aumento della quota degli altri comunisti. Nell’abbandono del fondo servente, invece, è la legge a prevedere il soggetto destinatario del bene oggetto di rinuncia.

Dalla precedente analisi si può concludere che nel diritto civile non sarebbe ammissibile una rinuncia tacita della proprietà di un immobile. La tradizione romanistica della derelictio, infatti, deve essere coniugata con il principio consensualistico e con il meccanismo di circolazione dei beni immobili. Per questi ultimi, diversamente dai beni mobili, è necessaria la forma scritta[4].

Occorre mettere in risalto che l’istituto della rinuncia abdicativa è stato individuato dalla giurisprudenza come una delle forme di tutela del titolare di un bene immobile in presenza di casi di espropriazione indiretta[5].

Per espropriazione indiretta si intendeva sia il meccanismo, delineato in giurisprudenza, dell’occupazione acquisitiva, in base al quale in presenza di una trasformazione irreversibile del fondo da parte della pubblica amministrazione in assenza del decreto di esproprio quest’ultimo passava nella titolarità dell’amministrazione in virtù dell’istituto dell’accessione invertita ex artt. 934, 938 c.c., sia la presenza di un atto di acquisizione da parte dell’amministrazione ex art. 43 DPR n.327/2001[6].

Si osserva che la Cassazione[7] aveva delineato il meccanismo dell’accessione invertita per permettere al proprietario, in presenza di una condotta illegittima dell’amministrazione che aveva occupato e trasformato il fondo in assenza di un decreto d’esproprio o con provvedimento annullato o decorso il termine per la sua emanazione, di ottenere il risarcimento del danno conseguente a siffatta attività. In tal modo si garantiva il perseguimento dell’interesse pubblico sotteso all’intervento d’esproprio garantendo il ristoro dei danni patiti dal titolare della res.

Prima di tale intervento, infatti, il privato espropriato illegittimamente subiva un illecito senza poter ottenere l’integrale risarcimento dei danni patiti, qualora l’amministrazione avesse emanato il decreto d’esproprio nel corso del giudizio risarcitorio. In tale caso si sarebbe determinato un effetto sanante ex nunc dell’attività dell’amministrazione che avrebbe iniziato ad operare nel solco della legalità provvedimentale, con conseguente riconoscimento del solo indennizzo relativo alla perdita temporanea del godimento del bene durante la condotta illecita della pubblica amministrazione.

L’accessione era “invertita” in quanto in deroga al principio superficies solo cedit, non era il proprietario del fondo ad acquisire la proprietà di ciò che su di esso veniva edificato, ma la pubblica amministrazione che aveva costruito l’opera ad acquisire anche la titolarità del terreno[8].

La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha censurato l’operatività di siffatto istituto in quanto lesiva del principio di legalità statuito dall’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della Cedu[9], in base al quale eventuali lesioni del diritto di proprietà devono essere legittimi, dovendo trovare un loro fondamento legale o giurisprudenziale prevedibile e accessibile.

Per quanto concerne l’utilizzazione sine titulo del bene, il legislatore, recependo gli orientamenti della Corte Edu, ha introdotto l’art. 43 del DPR n. 327/2001 con il quale ha disposto un meccanismo sanante dell’attività illegittima dell’amministrazione che abbia modificato un fondo in assenza di un valido titolo di esproprio o dichiarativo di pubblica utilità, adottando un provvedimento di acquisizione sanante ex tunc, previa ponderazione degli interessi in conflitto.

La norma è stata dichiarata incostituzionale per eccesso di delega[10] e sostituita con l’art.42-bis.

Si evidenzia che la ricostruzione delle vicende relative all’espropriazione indiretta sopra effettuata è funzionale all’analisi della questione di diritto risolta dal Consiglio di Stato nella pronuncia in epigrafe.

L’Adunanza plenaria è intervenuta sulla questione, sopra accennata, della possibilità da parte del soggetto illegittimamente espropriato di ricorrere alla rinuncia abdicativa del diritto di proprietà "implicita" nella proposizione della domanda risarcitoria al fine di liberarsi del bene immobile, negando siffatta possibilità.

 

  1. Il fatto.

Il soggetto titolare di un fondo aveva presentato ricorso al Tar chiedendo il ristoro dei danni subiti per l’illegittima occupazione del suolo e per la sua irreversibile trasformazione da parte della pubblica amministrazione che aveva tenuto la predetta condotta illecita al fine di costruire una strada a scorrimento veloce.

Il giudice di prime cure aveva accolto l’eccezione di prescrizione del diritto del ricorrente al risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, rilevando che il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c. era già decorso alla data di notifica del ricorso di primo grado.

Parte ricorrente, soccombente in primo grado, ha impugnato la sentenza contestando l’accertata prescrizione. Sosteneva, inoltre, di aver perduto la titolarità del bene, il quale sarebbe passato nel patrimonio dell’amministrazione.

Il Collegio della Sezione semplice del Consiglio ha emesso sentenza parziale e contestuale ordinanza di rimessione all'Adunanza plenaria.

La sezione semplice si è interrogata sull’eventualità che la domanda risarcitoria degli appellanti potesse essere qualificata come dichiarazione di ‘rinuncia abdicativa’ del bene immobile e se una tale rinuncia fosse giuridicamente ammissibile. Inoltre, ha rilevato l’infondatezza dell’accoglimento dell’avvenuta prescrizione della pretesa risarcitoria.

  1. Le motivazioni del consiglio di Stato.

L’Adunanza plenaria è intervenuta a dirimere il contrasto sorto in giurisprudenza tra due orientamenti.

Il primo è favorevole all’ammissibilità della rinuncia abdicativa implicita nella domanda risarcitoria proposta nel giudizio conseguente all’espropriazione illegittima.

Vengono richiamati, a sostegno di siffatta tesi, una serie di principi, quale quello di concentrazione delle tutele ex art.111 Cost. In base ad esso il privato espropriato potrà ottenere sia l’annullamento di atti amministrativi illegittimi, sia il riconoscimento di un quantum risarcitorio innanzi allo stesso giudice, nel rispetto della ragionevole durata del processo.

Inoltre è dal momento della proposizione della domanda risarcitoria, implicante la rinuncia abdicativa, che si verifica un debito di valore con tutte le relative conseguenze in termini di interessi e rivalutazioni.

Il Consiglio di Stato non condivide il suesposto orientamento e nega l’ammissibilità di tale istituto nello specifico settore delle tutele riservate al privato espropriato illegittimamente per una serie di motivazioni di carattere "strutturale".

La prima obiezione è relativa alla mancata spiegazione, da parte della predetta tesi, della vicenda traslativa del bene rinunciato implicitamente nel patrimonio dell’amministrazione.

Il Consiglio di Stato, infatti, mette in evidenza che la rinuncia abdicativa determinerebbe il passaggio del bene al patrimonio dello Stato ex art. 827 c.c. e non in quello della specifica amministrazione espropriante che resterebbe esclusa dall’operazione traslativa pur avendone costituito la "causa originaria".

Inoltre l’eventuale ordine di trascrizione della sentenza di condanna risarcitoria non sortirebbe alcun effetto sulle vicende traslative del diritto reale, operando, la trascrizione, in via esclusiva sul piano dell’opponibilità verso terzi degli atti dispositivi di diritti reali.

La seconda obiezione è relativa all’assenza dei requisiti essenziali per poter configurare un atto come “implicito”.

La dottrina e la giurisprudenza ammettono l’eventualità che il provvedimento amministrativo possa sussistere anche implicitamente in un determinato comportamento, espressione di una data volontà dell’amministrazione, o per implicito promanare quale effetto di un provvedimento posto “a monte” dal quale si desuma la volontà amministrativa di disporre in tal senso.

Non sussisterebbero ostacoli all’ammissibilità di tale figura nel diritto amministrativo in quanto l’art.2 l.n.241/1990 fa riferimento alla necessità che il procedimento si concluda con un provvedimento espresso e non “esplicito”. Inoltre l’obbligo di motivazione dei provvedimenti ex art. 3 della suddetta legge non sarebbe violato sussistendo la possibilità di ricostruire le ragioni dell’amministrazione, sottese al provvedimento implicito, in base all’attività amministrativa presupposta[11].

Non sussisterebbe alcuna preclusione alla suesposta tipologia provvedimentale nell’art.21- septies l.n.241/1990 che non annovera, tra le forme di nullità, l’assenza della forma, salvo che essa sia testualmente richiesta per una serie precipua di atti o imposta dalla natura del provvedimento stesso. Siffatta norma, dunque, sembrerebbe aver accolto il principio di “aformalità” nel diritto amministrativo[12].

In base a tale ricostruzione si evince che nel diritto civile non vi sarebbe spazio per l’ammissibilità di tale categoria che avrebbe come sua unica sedes quella amministrativa, mancando, diversamente dal diritto amministrativo, un "atto formale" dal quale far discendere una volontà implicita.

Il meccanismo sotteso alla teoria dell’atto implicito, dunque, non potrebbe essere trasposto nel diritto privato, cosicchè alcuna volontà implicita di rinunciare alla proprietà potrebbe desumersi dalla domanda giudiziale di risarcimento del danno per illegittima espropriazione. La domanda risarcitoria, infatti, denuncia esclusivamente la sussistenza di un illecito e da essa non può ricavarsi alcuna “altra” volontà.

In adesione alle regole civilistiche, dunque, la rinuncia abdicativa richiede la sussistenza di un atto scritto unilaterale e non recettizio[13] anche nel settore dell’espropriazione.

L’Adunanza plenaria, inoltre, mette in evidenza che dal punto di vista formale la domanda risarcitoria è sottoscritta dal difensore e non dal soggetto proprietario del bene legittimato a rinunciarvi. In tal modo, in assenza di una valida procura a vendere nel mandato difensivo, non potrebbe esprimersi alcuna volontà indiretta ad esercitare la rinuncia abdicativa.

La terza obiezione è quella di maggiore pregnanza e determina il definitivo rifiuto del ricorso alla rinuncia abdicativa.

Il Consiglio di Stato ritiene che il principio di legalità, il quale deve governare nella sua accezione della legalità indirizzo e della legalità garanzia l’esercizio dell’attività amministrativa, manifesti tutta la sua rilevanza fondamentale nel settore dell’espropriazione pubblica.

L’art. 42 comma quarto Cost, infatti, statuisce che la proprietà privata può essere soggetta a limitazione solo nei "casi espressamente previsti dalla legge". Tra questi non sembra rientrarvi la rinuncia abdicativa.

Quest’ultima sembrerebbe evocare, dunque, la stessa problematica inerente il deficit di previsione legale insita nel ricorso all’istituto dell’occupazione acquisitiva.

Tale figura, come sopra delineato, è stata elaborata dalla giurisprudenza per disciplinare il rapporto di proprietà in presenza di un’illegittima occupazione del suolo da parte dell’amministrazione che abbia determinato una sua irreversibile trasformazione.

Come per l’occupazione appropriativa anche per la rinuncia abdicativa mancherebbe un fondamento normativo.

Il legislatore ha infatti previsto esclusivamente un meccanismo di acquisizione del bene illegittimamente occupato sine titulo nell’art. 42-bis DPR 327/2001 da parte dell’amministrazione, previa valutazione dei contrapposti interessi.

L’art.42-bis legittima la pubblica amministrazione ad acquisire la proprietà dell’immobile ex nunc mediante un atto di acquisto soggetto a motivazione rinforzata relativamente alle ragioni sottese all’occupazione del bene, nonché alle esigenze eccezionali di interesse pubblico che giustifichino l’apprensione della res.

Inoltre il passaggio della proprietà è sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento dell’indennità, che deve comprendere anche il danno non patrimoniale, entro trenta giorni dall’emanazione dell’atto di acquisizione.

La legge non consente né al giudice né alla parte privata, in via potestativa, di imporre all’amministrazione mediante la proposizione della domanda risarcitoria l’obbligo di acquisire il bene, trattandosi di un potere discrezionale.

L’amministrazione, dunque, deve decidere se restituire il bene o acquisirlo nel proprio patrimonio. In caso di inerzia il giudice potrà nominare nel giudizio sul silenzio ex art.117 c.p.a., un commissario ad acta che eserciti tale potere sostituendosi all’amministrazione stessa.

Il Consiglio di Stato ritiene che la disciplina dell’art.42-bis sia esaustiva, volta a superare le problematiche poste dall’espropriazione indiretta.

In presenza di una base legale che disciplini il potere dell’amministrazione nel caso delle occupazioni illegittime e nell’assenza di un vuoto legislativo, non potrebbero legittimarsi meccanismi di origine pretoria, quale quello della rinuncia abdicativa implicita nella domanda risarcitoria, volti a offrire forme di tutela ulteriore.

In conclusione l’Adunanza plenaria ritiene che se si ammettesse un trasferimento della proprietà del bene, in via automatica, nella proposizione di una domanda risarcitoria si violerebbe il principio di legalità, avendo il legislatore disciplinato le vicende successive all'occupazione illegittima mediante l'esercizio della facoltà di scelta discrezionale dell’amministrazione.  

 

 

 NOTE:

[1] R.Rolli, La proprietà come diritto dell'uomo?, Contratto e Impr., 2011, 4-5, 1014. Si mette in rilievo la diversa accezione del diritto di proprietà contenuta nell'art.42 Cost., in base al quale emergerebbe una connotazione "sociale" dello stesso, diversamente dall'art. 1 Protocollo addizionale della CEDU che disciplina il diritto di proprietà nell'ambito dei diritti fondamentali dell'uomo.

[2] V.Brizzolari, La rinuncia alla proprietà immobiliare, in Riv. Dir. Civ., 2017.

[3] Ibidem.

[4] L. A. Caloiaro, La rinuncia alla proprietà immobiliare tra principio di tipicità e funzione sociale, in, Nuova Giur. Civ., 2018,11, 1547.

[5] Cons.Stato, Ad. Plen., n.2 del 2016.

[6] La Corte Edu ha messo in rilievo che l’espropriazione indiretta potrebbe ricorrere anche in presenza di una previsione normativa che statuisca l’acquisizione del bene al patrimonio della stessa mediante l’emanazione di un successivo atto di acquisto. In tale evenienza l’amministrazione trarrebbe un vantaggio da una condotta "a monte" illecita, ovvero l'illegittima occupazione del bene che verrebbe sanato "a valle" dalla previsione normativa di un atto d'acquisto con effetto ex tunc. Tale situazione sarebbe venuta meno inseguito all’introduzione dell’art. 42-bis, ritenuto conforme dalla Corte costituzionale nella sentenza n.71 del 2015 alle previsioni della Corte Edu.

[7] Cass. civ., sez. un., 26 febbraio 1983 n.1463.

[8] V. Lopilato, Manuale di diritto amministrativo, II ed., Torino 2019, 1283.

[9] Corte Edu, 30 maggio 2000, ric. N. 24638 del 1994 e n. 31524 del 1996.

[10] Corte cost. n. 293 del 2010.

[11] F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2018, 1200.

[12] A diversa conclusione dovrebbe giungersi qualora si accettasse la tesi del principio del formalismo “di funzione” e non “di struttura”, di recente accolto dalle sezioni unite della Corte di Cassazione n.18214 del 2015, per il quale, anche in assenza di una forma scritta imposta ex lege, potrebbe concludersi per la nullità dell’atto che ne sia sprovvisto. L’eventuale nullità virtuale formale, dunque, potrebbe essere desunta in base all’analisi funzionale del ruolo che la forma assume in dati casi, ovvero per il tramite di una valutazione dell’assetto dinamico degli interessi sottesi all’atto. La forma, infatti, può essere funzionale al controllo sul contenuto del contratto, alla certezza giuridica dell’esistenza dello stesso e alla sua opponibilità e pubblicità. Ancora può svolgere una funzione di tutela per il contraente che tramite essa viene reso edotto delle obbligazioni assunte.

[13] L.A. Caloiaro, La rinuncia alla proprietà immobiliare tra principio di tipicità e funzione sociale, cit.