ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Giurisprudenza Penale



Il "grado di sufficienza" del metodo mafioso

A cura di Giovanni Samuele Foderà
   Consulta il PDF   PDF-1   

1 – Nell’annotare Cass. pen., sez. II, 12 marzo 2018 n. 10976 non si può nascondere un certo imbarazzo dato dal confronto con  Cass. pen., Sez. VI, 23 marzo 2017, n. 14249. Entrambe esaminano l’aggravante del “metodo mafioso”  (art. 7 d.l. 152/1991, conv. in l. 201/1991, che oggi, in attuazione del d.lgs. 21/2018, si ritrova riportato nell’art. 416-bis1 c.p.), ma giungono a risultati distanti a fronte di una stessa prassi. Nella seconda sentenza si coglie un maggior oggettivismo e garantismo probatorio reso manifesto dalla necessità di vagliare più di un’evenienza empirica disponibile. La prima pronuncia pare invece incline a valutazioni più ambigue e a maglie ristrette, tali da legittimare il dubbio dell’esistenza di una pena del sospetto([1]) dipendente da ragioni più preventive che repressive quante volte si faccia riferimento, anche in modo contratto o implicito, al potere criminale di un’associazione criminale radicata su un dato territorio.

Un contrasto che è però solo apparente e che necessità al più di un dialogo tra sezioni della Corte di Cassazione, perché il discrimen investe il rilievo probatorio in termini di grandezza necessario al fine di configurare o meno l’ipotesi de qua

 

2 – La questione annotata trae origine da una condanna in grado d’Appello per il reato di estorsione con le aggravanti ex art. 7 L. 203/1991 e 628, co. 3, n.1 c.p.. Proposto ricorso avverso delle anzidette aggravanti, il ricorrente deduceva l’insufficienza dell’impianto probatorio posto alla base della decisione di condanna, tanto con riferimento al riconoscimento del cd. “metodo mafioso”, quanto all’insufficienza dell’allusione all’esistenza di un gruppo criminale non meglio identificato. Né miglior sorte, a detta del ricorrente, avrebbe la contestazione riferita alla presenza dell’imputato sul luogo del delitto di estorsione, in quanto detta condotta era priva di efficacia causale o agevolatrice e, dunque, inidonea a fondare una responsabilità concorsuale.  

 

3 – Il Collegio in punto di diritto richiamando altri precedenti chiarisce il concetto di “metodo mafioso” affermatosi all’interno  della sez. II di Cassazione.

È sufficiente, sostiene la Corte, che «in un territorio in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica […] il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività»([2]).

La giustificazione secondo la Corte sarebbe data dal fatto che «nei luoghi di radicata infiltrazione delle mafie storiche i codici di comunicazione degli affiliati sono noti ed è sufficiente un richiamo anche implicito per suscitare il timore dell’esercizio di note forme di violenza, la cui diffusa conoscenza fonda il potere di intimidazione e dì controllo delle organizzazioni criminali riconducibili alle mafie storiche». Sicché, l’aver «fatto esplicito riferimento “agli amici di Quagliano” ed avevano adoperato le “modalità tipiche del metodo mafioso, oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone”, è ritenuto argomento probatorio idoneo e sufficiente a suffragare l’aggravante in questione.

 

4 – L’ambiguità ermeneutica, qui, è figlia di una disposizione assai elastica([3]); ambiguità resa ancor più manifesta laddove si rapporti la circostanza aggravante all’art. 416-bis, anch’esso espressivo, secondo alcuni, di eccessiva vaghezza([4]). È stato però anche sostenuto che l’aggravante in questione prescinde dalla formale contestazione del reato di associazione mafiosa, in quanto, in realtà, ad essere incriminata è qualsiasi manifestazione di mafiosità([5]). Quindi, è possibile applicare l’aggravante in questione anche nel caso, come nella specie, di delitto estorsivo.

Venendo all’esame della circostanza aggravante citata è opportuno ricordare quanto segue.

L’art. 7 – oggi riproposto quasi pedissequamente nell’art. 416-bis1 c.p. – prescrive al comma 1, per ciò che rileva qui rileva, che «Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà»([6]).

La disposizione enuclea una circostanza aggravante ad effetto speciale destinata, secondo una certa dottrina, «[…] ai soggetti estranei all’associazione, [ed] indica chiaramente la volontà legislativa di “coprire” penalmente, con l’applicazione di una sanzione più grave, i comportamenti dei “fiancheggiatori” dell’associazione»([7]).

La giurisprudenza, dal canto suo, tende ad ampliare la ratio cui la norma è sottesa. Si sostiene, infatti, che essa «non è solo quella di punire più severamente coloro che commettono reati con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, data la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di quei soggetti che, partecipi o non di reati associativi, utilizzano metodi mafiosi, cioè si comportino come mafiosi oppure ostentino, in maniera evidente e provocatoria, una condotta idonea a esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione che sono proprie delle organizzazioni della specie considerate»([8]).

Insomma, la ratio va individuata nella finalità di reprimere il metodo delinquenziale mafioso utilizzato anche dal singolo agente non partecipante al sodalizio sul presupposto dell’esistenza in un determinato territorio di associazioni di stampo mafioso([9]).

La tipicità dell’aggravante in questione e, dunque, dell’atto intimidatorio è ricollegabile non già alla natura ed alle caratteristiche dell’atto violento in sé, ma al “metodo” utilizzato. È il metodo, difatti, a costituire l’atto tipico([10]). Ciò postula che la violenza con cui esso è compiuto deve essere concretamente collegata alla forza intimidatrice del vincolo associativo([11]).

Strutturalmente la disposizione si articola in due distinte ipotesi, ancorché connesse: si tratta di un caso paradigmatico di “disposizione a più fattispecie”([12]). L’una è quella che si manifesta quando l’agente si avvale delle “condizioni previste dall’art. 416-bis”. Essa ha carattere oggettivo e ricorre ogni qualvolta venga posta in essere nei confronti di un soggetto, o di più soggetti, un’azione tale da limitarne la volontà attraverso il mezzo della intimidazione.

L’altra è riferita alla condotta finalizzata ad “agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo”. Sicché, ha carattere soggettivo e si sostanzia nella volontà specifica di facilitare, con l’attività posta in essere, l’egemonia del gruppo.

 

4.1 – Più precisamente, la prima ipotesi richiama alla mente il comma 3 dell’art. 416-bis, vale a dire quella condotta caratterizzata per la «forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne deriva[no]». Detta forza intimidatrice si caratterizza per essere capace di «piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con l’agente»([13]). L’assoggettamento, invece, è quella «condizione di essere esposti al pericolo senza possibilità di difesa, in stato di soggezione e di soccombenza di fronte alla forza della prevaricazione»([14]). L’omertà, infine, è quella situazione ricollegabile «essenzialmente alla forza intimidatrice dell’associazione»([15]).

Un modus, dunque, che non necessita di un concreto atto violento([16]), ma richiede semplicemente una modalità d’azione, un comportamento mafioso da valutarsi però oggettivamente e non soggettivamente([17]). Il che postula evidentemente un accertamento in concreto della condotta dell’agente al fine di contestare e imputare l’aggravante citata. L’offensività va quindi apprezzata in concreto, tant’è che taluni parlano di “effettività” del metodo mafioso([18]). Per questa ragioni talvolta si sostiene che «non è sufficiente il mero collegamento con contesti di criminalità organizzata o la “caratura mafiosa” degli autori del fatto, occorrendo invece, la concreta realizzazione di una condotta secondo le modalità tipizzate dall’art. 416-bis c.p.»([19]).

Nel coordinare l’art. 416-bis con l’aggravante in questione, alcuni hanno sostenuto che poiché il concetto “si avvalgono” del cd. metodo mafioso non è sufficientemente tipizzato, il deficit di tassatività, si trasla anche sull’aggravante ex art. 7 cit.([20]). Per questa  ragione, secondo l’A., la giurisprudenza sostiene che «la sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso non implica che sia stata dimostrata la sussistenza di un’associazione mafiosa»([21]).

In realtà, il ragionamento deduttivo è mal posto. Come è stato già detto, è il “metodo” a costituire l’atto tipico. Il concetto di “avvalersi” allora esprime una connotazione delle caratteristiche della condotta del reo in una proiezione di similitudine rispetto al modus([22]), sicché non è necessaria la dimostrazione, quale presupposto logico, dell’esistenza nella realtà fenomenica di un’associazione di stampo mafioso([23]). È questa la ragione per cui la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto sussistere l’aggravante nel caso di un gruppo criminale dedito alle estorsioni, che era stato ricondotto all’art. 416 c.p., piuttosto che all’art. 416-bis c.p., in quanto non aveva conseguito l’egemonia sul territorio([24]).

Infine, come è stato fatto notare dalla dottrina, la circostanza aggravante de qua, postulando la capacità di intimidazione del reo e la conseguente condizione di assoggettamento e di omertà in capo alla persona offesa, può comportare «l’assorbimento o addirittura il superamento delle caratteristiche sintomatiche dei reati-fine su cui si innesta»([25]). A tal proposito si è, ad esempio, ritenuto non concretato il reato ex art. 513-bis allorquando gli atti di violenza o minaccia non siano stati posti materialmente ma siano stati realizzati attraverso il “metodo mafioso”. Questa tesi però non è seguita dalla giurisprudenza di legittimità, la quale nell’esaminare un caso posto al suo vaglio, in relazione al rapporto tra “metodo mafioso” e delitto di di illecita concorrenza con violenza o minaccia (art. 513-bis c.p.), valorizzando profili storici e sistematici dell’istituto ha ritenuto configurabile quest’ultimo. Infatti, dice la Corte,  posto che  513-bis punisce «la turbativa arrecata al libero mercato in un clima di intimidazione e con metodi violenti», l’utilizzo del metodo mafioso in quanto idoneo a condizionare le attività commerciali, industriali o produttive di terzi, lede il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice e, in particolare, integra quell’atto di violenza o minaccia richiesti dalla norma incriminatrice per la configurazione del delitto in questione([26]).

 

4.2 – Quanto alla seconda fattispecie, ossia alla finalità di agevolare l’associazione mafiosa, l’art. 7 cit. non richiede che l’agente agisca necessariamente con “metodo mafioso”. La disposizione, come già detto, prevede un’ipotesi alternativa, sanzionando con l’aggravante anche i delitti commessi «al fine di agevolare l’attività» di un’associazione per delinquere di stampo mafioso.

Come già accennato, questa ipotesi pone rilievo gli scopi avuti di mira dall’agente e non già come la prima ipotesi alle modalità oggettive della condotta.  Per la contestazione e l’imputazione dell’aggravante de qua è necessario, allora, che si ravvisi, oltre al fine tipico del reato commesso, anche quello ulteriore di agevolare l’associazione per delinquere. Solo il tal caso il reato è aggravato.

Sul punto è utile ricordare che secondo la giurisprudenza la finalità di agevolare l’associazione di stampo mafioso «costituisce una caratteristica solo eventuale di un concreto episodio delittuoso, ben potendo succedere che un associato attui una condotta penalmente rilevante, e pur costituente reato fine, senza avvalersi del potere intimidatorio del clan»([27]).

L’ipotesi in questione postula, dunque, che l’associazione criminale esista effettivamente e che sia in qualche modo collegata all’agente. Ciò, di contro, significa anche che non è configurabile l’aggravante nel caso in cui si agevoli un’associazione solo supposta o fittizia.

Accedendo, poi, sempre ad una valutazione in concreto, è dato osservare che il fine di agevolare l’associazione deve essere direttamente provato. Non può, cioè, discendere dalla semplice appartenenza dell’agente alla medesima([28]). In proposito, il dolo deve essere specifico: il fine di agevolare un’associazione esistente([29]).

 

5 – Chiarito che trattasi di disposizione a più fattispecie, le due ipotesi previste dall’art. 7 cit. inerendo a due ambiti applicativi differenti possono essere ravvisate anche contemporaneamente nella medesima condotta.

Non vi è, dunque, incompatibilità e l’eventuale contestazione di entrambe, ancorché assunta in modo generico dalla pubblica accusa, permette una difesa totalizzante([30]).

La sussistenza di entrambi, infine, secondo la giurisprudenza comporta un unico aumento della pena. Mentre, l’eventuale esclusione di uno solo in sede di legittimità non determina l’annullamento della sentenza con rinvio([31]).

 

6 – In posizione antitetica rispetto a quanto sostenuto dalla giurisprudenza maggiormente garantista([32]) si pone la pronuncia commentata.

È opportuno chiarire qual è la posizione assunta dalla Sezione II e qual è quella della Sezione VI, che si ritiene preferibile.

Giova, peraltro, fare alcune puntualizzazioni con riferimento alla pronuncia in commento.

Taluno dalla lettura di questa pronuncia in commento ha tratto la conclusione che «la sentenza […] è da collocarsi, insieme ad altre, nel solco di un filone giurisprudenziale che, mano a mano, sta andando oramai sempre più consolidandosi»([33]). In realtà questa tesi, espressa dalla Sezione II della Cassazione, oltre a correre il rischio di divenire un precedente tralatizio, mostra tutta la sua deficitarietà se solo si confronti con la posizione assunta dalla Sezione VI.

Erra, dunque, chi sostiene che un orientamento si sta sempre più consolidando. A parte le oscillazioni qualitative che si traggono dal confronto tra le pronunce citate, resta il fatto che per potersi parlare di orientamento consolidato o se si preferisce di “diritto vivente” è necessario una certa univocità a livello dottrinale e giurisprudenziale; un approdo interpretativo stabilizzato nella giurisprudenza reso possibile qualora si ravvisino sempre le stesse condizioni in presenza delle quali è possibile ritenere che una determinata esegesi costituisca, appunto, diritto vivente([34]).

Il conflitto, come detto, è però solo apparente perché è necessario procedere con una lettura costituzionalmente orientata dell’aggravante e soprattutto perché nella materia è chiara la stretta connessione tra i profili sostanziali e quelli processuali.

La lettura costituzionalmente orientata porta a vagliare in concreto e non in termini astratti ed ipotetici l’offensività del fatto. La questione allora investe il “quando” e correlativamente il “grado di sufficienza” per poter contestare la circostanza. Il che passa, evidentemente, facendo chiarezza sui presupposti applicativi della figura in questione.

 

6.1. – Ciò detto in punto di ermeneutica forense, la Cass. pen., sez. II, 12 marzo 2018 n. 10976 ritiene, come chiarito, che «ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del metodo mafioso […] è sufficiente – in un territorio in cui è radicata un'organizzazione mafiosa storica – che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività».

A livello probatorio, dunque, per tale indirizzo è richiesto solo di accertarsi il mero radicamento territoriale di un associazione e il richiamo ad esso, anche implicito o contratto, da parte dell’agente([35]).

Questa soluzione però rischia di divenire un precedente assai tralatizio. È stato chiarito infatti che la circostanza è configurabile anche a carico di soggetto estraneo all’associazione di tipo mafioso; costui, tuttavia, deve porre in essere un «comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale evocata». È stato, altresì, chiarito che il “carattere mafioso” del comportamento del soggetto agente non possa essere desunto dalla mera reazione della vittima([36]).

Inoltre, non mancano pronunce che in modo più o meno equivoco ritengano sussistente l’aggravante de qua dal fatto che il soggetto agente appartenga, ex se, ad un sodalizio camorristico([37]); questa soluzione mette in luce, secondo taluna dottrina, problemi di possibile violazione del ne bis in idem sostanziale([38]).

Si è sostenuto, infine, che l’aggravante del “metodo mafioso” potrebbe concorrere con l’aggravante speciale di cui all’art. 629, co. 2, c.p. ed all’art. 628, co. 3, n. 2, c.p., «se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’articolo 416 bis»([39]). La tesi per parte della dottrina e della giurisprudenza non può essere condivisa, perché le aggravanti in tema di rapina ed estorsione devono intendersi necessariamente speciali ed assorbenti rispetto a quella prevista dall’art. 7, d.l. n. 152/1991([40]). Ragionare diversamente invece darebbe luogo a una violazione del principio del ne bis in idem([41])

Indipendentemente dai profili di criticità segnalati, è dato osservare che se questi sono i presupposti di base che devono esistere e che postulano evidentemente un innegabile carattere intimidatorio, è anche vero che gli stessi non paiono bastevoli. Sono necessarie «ulteriori evidenze oggettive»([42]), ossia fatti e circostanze che siano «oggettivamente idonei ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone, avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale»([43]). Ne consegue, secondo parte della dottrina, che «[…] non sussisterà la circostanza aggravante de qua nei casi in cui l’associato ponga in essere le condotte di c.d. “minaccia implicita”, ossia di estorsione perpetrata solo in modo “velato” e profittando delle condizioni ambientali “in cui si opera”, senza un’ulteriore fattiva condotta intimidatoria»([44]).

Così ragionando tanto la dottrina quanto la giurisprudenza sposano una concezione più garantista della norma e, dunque, maggiormente rispettosa del principio di offensività([45]).

È curioso, peraltro, notare come la sentenza che si annota non richiami alcuni precedenti di Sezione, che invece confortano la tesi di cui alla Sezione VI. In tali precedenti si dà atto della necessaria verifica di una condotta intimidatoria oggettivamente idonea ad ingenerare nella vittima la percezione che l’agente goda di legami con la criminalità organizzata di tipo mafioso([46]). Il che esprime che anche all’interno della stessa Sezione II non vi è unanimità d’intenti e che parlare di orientamento in via di consolidamento è ancor di più errato.

 

6.2 – Se è vero che la tesi da preferire è quella Cass. pen., sez. VI, 23 marzo 2017, n. 14249, rispetto a quella che si annota, occorre, come accennato, svolgere un’ulteriore considerazione; è necessario verificare il “quando” una condotta è «oggettivamente idonea ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone, avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale»([47]).

Espunte ragioni soggettive([48]), che paiono pure trapelare dalla sentenza annotata,  la giurisprudenza di legittimità della Sezione VI individua, a mo di catalogo esemplificativo ancorché non esaustivo, alcuni indici rilevatori di carattere oggettivo del “metodo mafioso”.

Questi indici, secondo parte della dottrina, possono essere suddivisi in due categorie: da un lato quelli  attinenti al “contenuto della minaccia”, dall’altro quelli riferiti alle “modalità della condotta” dell’agente e alle peculiarità del contesto in cui tali manifestazioni minacciose vengono poste in essere([49]). Anche se si potrebbe sostenere che tanto la prima quanto la seconda categoria siano fra loro inscindibilmente concatenate. Ragionare diversamente potrebbe anche portare ad ammettere che forme larvate di minaccia siano bastevoli per contestare ed applicare l’aggravante de qua, e ciò legittimerebbe la tesi qui annotata ma criticata.  

Il catalogo giurisprudenziale, frutto di un esame attento di più pronunce, porta la Corte a ritenere che il “metodo mafioso” sia ravvisabile quando vengano utilizzate «eventuali ulteriori espressioni minacciose spese in danno delle persone offese. Il tutto, in un certo «[…] contesto e [secondo certe date] modalità della condotta»([50]). Queste possono distinguersi in relazione alle qualità del soggetto attivo o all’entità cui si riferiscono. In particolare, a livello di qualità del reo, rileva l’atteggiamento e la gestualità dell’agente durante la consumazione del reato([51]) o il coinvolgimento di questi in un procedimento per fatti di criminalità organizzata([52]); i suoi rapporti con esponenti della consorteria criminale([53]).

Sul piano della vittima, e sembra alla luce di valutazioni oggettive e mai soggettive, rileva l’eventuale conoscenza da parte delle vittime della vicinanza del prevenuto rispetto ai locali clan mafiosi([54]).

Viene richiamato anche il contesto ambientale ove sono perpetrati i fatti di intimidazione e dove sono presenti le infiltrazioni mafiose([55]).

Infine con clausola aperta, espressiva della ratio sottesa all’art. 7 volta a incriminare qualsivoglia condotta mafiosa, la Corte ritiene che possa rilevare anche «qualunque ulteriore elemento atto a conferire al comportamento l’idoneità ad evocare, con efficienza causale, l’esistenza di un sodalizio ed incutere un timore aggiuntivo di una ritorsione mafiosa […]».

Questo è il quadro espresso dalla giurisprudenza maggiormente riflessiva sull’argomento. L’ulteriore quesito che l’interprete deve porsi è se, a fronte di tale elenco, sussista una gerarchia di indici o se godano, tutti, di pari importanza.

Il che pone un ulteriore interrogativo, se cioè debbano sussistere tutti o è sufficiente che ne esista anche uno solo. A ben vedere, esaminando la sentenza 23 marzo 2017 n. 14249 ci si rende conto che la Cassazione pur riconoscendo la valenza intimidatoria della minaccia posta in essere dal ricorrente, non la considera sufficiente, ma richiede ulteriori evenienze probatorie. Resta da capire quale sia il grado di sufficienza necessario perché possa imputarsi l’aggravante de qua.

A questi interrogativi la giurisprudenza dovrebbe dare soluzione di ragione, che consenta al meglio di contemperare il nesso tra profili sostanziali e processuali. Si crede, comunque, che ragioni sostanzialistiche inducano a ricercare più di un elemento a livello di fattispecie concreta. Detti elementi devono essere tutti vagliati in contradditorio tra le parti, onde apprezzarne l’intensità. D’altronde nella realtà fenomenica è forse assai raro che una condotta intimidatoria non sia accompagnata da altri presupposti, con la conseguenza che, avuto riguardo al caso concreto, è inopportuno trinciarsi su valutazioni che possano risultare astratte e metodologicamente non ravvisanti un’autentica responsabilità penale.

______________________________

([1]) MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 2001, 390.

([2]) Cass. pen., sez. II, 30 marzo 2017, n. 19245; Cass. sez. II, 02 gennaio 2017, n. 32.

([3]) RECCIA, L’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 13 maggio 1991: una sintesi di “inafferabilità del penalmente rilevante”, in Riv. pen. cont., 2015, 251 ss., la quale ritiene che essendo l’incriminazione “tipicamente imprecisa” la condotta è tendenzialmente “inafferrabile”. Da qui il difetto di determinatezza.

([4]) RECCIA, op. ult. cit..

([5]) Cass. pen. S.U., 28 marzo 2001, n. 10.

([6]) Il comma 2 dell’art. 7 cit. stabilisce poi che «Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l'aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante»: l’articolo è stato abrogato dall'articolo 7, co. 1, lett. i), del D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, v. oggi l’art. 416-bis.1 c.p..

([7]) RONCO, L’art. 416 bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in Il diritto penale della criminalità organizzata, (a cura di) B. Romano e C. Tinebra, Milano, 2013, 92.

([8]) Cass. Pen., sez. II, del 3 aprile 2014, n. 16365; Cass. pen., sez. I, 9 aprile 2004, n. 16486;

([9]) MAIELLO, La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione e armi, in Trattato teorico pratico di diritto penale (diretto da F. Palazzo e C. E. Paliero), Torino, 2015, 78.

([10]) Cass. pen., sez. I, 13 aprile 2010, n.16883.

([11]) ALMA, L’aggravante dell’art. 7 d.l. 152/1991 come strumento di qualificazione di condotte “neutre”, in Relazione inaugurazione anno giudiziario, presso Il Consiglio Superiore della Magistratura il 31 gennaio 2011, 4; Trib. Catanzaro, sez. II, 15 maggio 2008 secondo cui il metodo mafioso esprime il «clima di palpabile terrore diffuso nella popolazione del luogo, consapevole della “fama criminale” acquisita dalla consorteria e della sua capacità di attuare facilmente rappresaglie letali in caso di denunce o delazioni».

([12]) VASSALLI, Le norme penali a più fattispecie e l’interpretazione della «legge Merlin», in Studi in onore di Franscesco Antolisei, Milano, 1965, vol. III, 394; PALAZZO - PALIERO, Commentario breve alle leggi complementari, Padova, 2007, 817.

([13]) Cass. pen., sez. I, 16 maggio 2011, n. 25242

([14]) Cass. pen., sez. I, 23 aprile 2010, n. 29924.

([15]) Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 18459.

([16]) Cass. pen., sez. I, 17 maggio 2005, n.  30246; Cass. pen., sez. II, 27 settembre 2004, n. 44402.

([17]) Cass. pen., sez. VI, 26 maggio 2011, n. 28017; Cass. pen., sez. VI, 2 aprile 2007, n. 21342.

([18]) DE ROBBIO, La c.d. «aggravante mafiosa»: circostanza prevista dall'art. 7 del d.lgs. n. 152 del 1991, in Giurisprudenza di Merito, fasc.7-8, 2013, 1616.

([19]) Cass. pen., sez. VI, 4 luglio 2011, n. 27666.

([20]) RECCIA, op. cit., 253.

([21]) Cass. pen., sez. I, 13 aprile 2010, n.16883.

([22]) Corte Cost.. 23 marzo 2013, n. 57, la quale in punto di diritto ritiene che «è consolidato l’indirizzo secondo cui la circostanza aggravante in esame, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, “è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi”, sia che essi siano “partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che risultino ad esso estranei” (sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 2 aprile 2012, n. 17532)».

([23]) Corte Cost.. 23 marzo 2013, cit., ove si legge in punto di fatto che «l’elemento costitutivo previsto dall’art. 416-bis cod. pen. e la circostanza aggravante ex art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 si collocherebbero in ordini di grandezza incommensurabili, tali da imporne una ricostruzione in termini di reciproca autonomia»; detta previsione non è smentita nelle considerazioni di diritto. Infatti, «il semplice impiego del cosiddetto “metodo mafioso” o la finalizzazione della condotta criminosa all’agevolazione di un’associazione mafiosa […] non sono necessariamente equiparabili, ai fini della presunzione in questione, alla partecipazione all’associazione […]»; in dottrina v. DE VERO, I reati associativi nell’odierno sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 385il quale espone che l’elemento del “metodo mafioso” «[…], necessiterebbe di essere inteso, in relazione alla norma incriminatrice dell’associazione mafiosa, come la connotazione strutturale di un fenomeno associativo complesso, contemplato dalla norma incriminatrice dal momento della genesi a quello del consolidamento»; ma «come modalità concreta della realizzazione di un circoscritto fatto delittuoso, di modo che è nell’attualità del singolo episodio criminoso che vanno ricercati i connotati più coerenti con la definizione letterale del requisito tipico». 

([24]) Cass. pen., sez. I, 13 aprile 2010, cit.; Cass. pen., sez. fer., 9 settembre 2009, n. 35116 in cui in tema di intimidazione, è stata riconosciuta la sussistenza della circostanza aggravante in esame nell'atteggiamento tenuto da un gruppo di aggressori, caratterizzato da una crescente spirale di violenze ed intimidazioni e culminato nella forzata sottoscrizione di una confessione, in quanto comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sui soggetti passivi, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall'organizzazione criminale di tipo mafioso

([25]) DE ROBBIO, op. ult. cit.

([26]) Cass. pen., sez. II, 16 dicembre 2010, n. 6462, in cui è stato evidenziato che il reato «è configurabile anche allorquando un imprenditore, avvalendosi della forza di intimidazione di un sodalizio criminale dominante in un determinato territorio, riesca ad imporre sul mercato la propria attività d’impresa in modo esclusivo o prevalente, pur senza aver mai direttamente compiuto alcun atto di violenza fisica o minaccia esplicita»

([27]) Cass. pen. S.U., 28 marzo 2001, n. 10.

([28]) DE ROBBIO, op. ult. cit.; TOMBESI, Illecita concorrenza con violenza o minaccia ed utilizzo del metodo mafioso, in Riv. pen. cont., 2011, come non ha mancato di rilevare l’A. «il rischio […] è che l’utilizzo del metodo mafioso, venga, in modo improprio, valutato al fine di giustificare una moltiplicazione delle risposte sanzionatorie, originate, in concreto, dal medesimo fatto e, di conseguenza, al fine di dilatare, in spregio alla disciplina dettata dall'art. 297 comma 3 c.p.p., anche i termini massimi di custodia cautelare».

([29]) Cass. pen., sez. I, 18 marzo 1994, n. 1327; mentre come pare chiaro da quanto fin qui detto, con riguardo alla prima ipotesi la Cass. pen., sez. II, 20 settembre 2013 n. 41003 ha chiarito che «l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di un’associazione di stampo mafioso, prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, convertito in legge n. 203 del 1991, postula l’esistenza effettiva di un’associazione che abbia i caratteri indicati dall’art.  416  bis  c.p., a differenza dell’altra ipotesi aggravante, pure prevista dal medesimo art. 7, che richiede soltanto che i reati siano commessi avvalendosi del metodo mafioso».

([30]) Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2011, n. 11742.

([31]) Cass. pen., sez. VI, 4 luglio 2012, n. 36573.

([32]) v. nt 18; Cass. pen, sez. VI, 23 marzo 2017, n. 14249.

([33]) ROVINI, La cassazione sulla configurabilità dell'aggravante del 'metodo mafioso' nei luoghi dove è radicata un'associazione mafiosa storica, in Riv. pen. cont., 2018.

([34]) SALVATO, Profili del «diritto vivente» nella giurisprudenza costituzionale, in www.cortecostituziona.it, 2015, il quale espone che «il diritto vivente è stato ritenuto sussistente qualora siano “numerose e distribuite nell’arco di un lungo periodo le pronunce della Corte di cassazione” che hanno accolto una data interpretazione, ovvero sussistano “una serie di decisioni” della stessa, valorizzando peculiarmente “il numero elevato, la sostanziale identità di contenuto [delle medesime] e la funzione nomofilattica dell’organo decidente”. […] L’esistenza di un diritto vivente è stata negata nel caso in cui era stata prospettata un’interpretazione solo”piuttosto diffusa sia nell’ambito della giurisprudenza sia nell’ambito della dottrina”, oppure era stata accertata l’emanazione di “poche pronunce del giudice di legittimità, delle quali quelle più recenti […] fanno propri in modo acritico principi enunciati in sentenze risalenti a circa mezzo secolo”».

([35]) Cass. pen., sez. V, 6.10.2010, n. 3101; oltre che la pronuncia annotata.

([36]) Cass. pen., sez. VI, 23 marzo 2017, cit..

([37]) Cass. pen., sez. II, 30 novembre 2011, n. 47404.

([38]) CIVELLO, Il sistema delle circostanze e il complessivo carico sanzionatorio detentivo, in Le associazioni di tipo mafioso (a cura di B. Romano), Torino, 2015, 187.

([39]) Cass. pen., sez. I, 18 ottobre 2007, n.  43663; Cass. pen., sez. V, 20 ottobre 2003, n. 46156; Cass., S.U., 28 marzo 2001, n. 10.

([40]) Cass. pen., sez. VI, 23 gennaio 1997, n. 2724.

([41]) CIVELLO, op. ult. cit..

([42]) Cass. pen., sez. VI, 23 marzo 2017, cit..

([43]) Cass., sez. VI, 2.4.2007, n. 21342.

([44]) GATTA, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013, 267; CIVELLO, op. cit., 186.

([45]) NINNI, Aggravante del metodo mafioso: la suprema corte propone una sintesi degli elementi probatori rilevanti per l’integrazione della circostanza di cui all’art. 7 d.l. 152/1991, in Riv. dir. pen. cont., 2017.

([46]) Cass. pen., sez. II, 14 ottobre 2015, n. 45321; Cass. pen., sez. II, 27.04.2017, n. 20197 secondo cui  correttamente il «Tribunale del riesame ha escluso la ricorrenza dell'aggravante mafiosa, contestata sotto il profilo del metodo, osservando che “mai, in occasione delle condotte minacciose perpetrate dai coindagati è stata evocata appartenenza a clan né la riferibilità dei comportamenti posti in essere a qualsivoglia associazione criminale. Non è sufficiente invero, ai fini dell'integrazione del metodo mafioso, perpetrare minacce gravi […] né che le minacce provengano da soggetti appartenenti ad un sodalizio criminale […] o aventi spiccata caratura delinquenziale. Occorre invero in generare nella vittima attraverso la condotta minacciosa la consapevolezza che l'agente appartenga ad un 'associazione di stampo mafioso ed è necessario che vi sia esteriorizzazione del metodo”».

([47]) Ex multis Cass. pen., sez. VI, 23 marzo 2017, cit..; Cass. pen., sez. VI,  02 aprile 2007 n. 21342; Cass. pen., sez. VI,  26 maggio 2011, n. 28917; Cass. pen., sez. II, 14 ottobre 2015, cit.

([48]) Contra Cass. Sez. II, 17 aprile 2015, n. 16053.

([49]) NINNI, op. ult. cit..

([50]) Corsivo nostro.

([51]) Cass. pen., sez. V, 19 giugno 2014, n. 42818.

([52]) Cass. pen., Sez. II, 11 giugno 2013,. n. 37516.

([53]) Cass. pen., sez. VI, 23 marzo 2017, cit.

([54]) Cass. pen., sez. II, del 10 febbraio 2016, n. 10467.

([55]) Cass. pen., sez. II, 2 gennaio 2017, n. 32.