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Anno XVI - n. 07 - Luglio 2024

  Giurisprudenza Amministrativa



Sui limiti al diritto d’acceso documentale, con particolare riferimento alla clausola di riservatezza nell’ambito degli accordi negoziali stipulati tra l’AIFA e Aziende farmaceutiche relativi ai medicinali di importazione parallela con classe di rimborsabilità “A".

Di Massimiliano Maitino
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO – SEZIONE TERZA,

SENTENZA 31 dicembre 2020, n. 8543

 

Sui limiti al diritto d’acceso documentale, con particolare riferimento alla clausola di riservatezza nell’ambito degli accordi negoziali stipulati tra l’AIFA e Aziende farmaceutiche relativi ai medicinali di importazione parallela con classe di rimborsabilità “A”

Di MASSIMILIANO MAITINO

 

La questione processuale ha ad oggetto l’impugnazione, da parte di AIFA, della sentenza con la quale il TAR ha accolto in parte il ricorso ex art. 116 c.p.a. proposto da una società farmaceutica per l’accertamento del diritto di accesso agli accordi negoziali ed alla relativa documentazione procedimentale e per la conseguente condanna dell’AIFA all’esibizione degli accordi negoziali perfezionati con altre società concorrenti e relativi ai medicinali di importazione parallela cui è stata attribuita la classe di rimborsabilità “A” a tali farmaci, nonché è stata prevista la corresponsione da parte delle prime di un payback, aggiuntivo rispetto a quelli previsti per legge.

Nello specifico, l’art. 48, comma 33, del d.l. n.269/2003, conv. in legge 326/2003, stabilisce che “i prezzi dei prodotti rimborsati dal SSN sono determinati mediante contrattazione tra Agenzia e Produttori secondo le modalità e i criteri indicati nella Delibera CIPE 1 febbraio 2001, n. 3, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 73 del 28 marzo 2001”.

Tale ultima delibera, a sua volta, detta analitiche disposizioni aventi ad oggetto i medicinali autorizzati all'immissione in commercio secondo le procedure centralizzate e di mutuo riconoscimento, e riguardanti in particolare il procedimento di contrattazione del prezzo di medicinali idonei all'inclusione nella lista dei medicinali  rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale. Nell’ambito di tale attività negoziata, ma procedimentalizzata, è previsto che: l’impresa farmaceutica proponga un prezzo sulla base di una circostanziata documentazione alla luce di un criterio costo/efficacia per i pazienti; l’amministrazione compia speculari valutazioni, anche attraverso l’ausilio di organi interni specializzati, al fine di una controproposta; la procedura negoziale si concluda con un accordo tra le parti con la fissazione di un prezzo valutato congruo dalle parti sulla base dei volumi di vendita, della disponibilità del prodotto per il Servizio sanitario, degli sconti per le forniture agli ospedali e alle strutture sanitarie pubbliche, dei volumi e dei prezzi di altri medicinali della stessa impresa. E’ in particolare espressamente previsto che, in sede di definizione contrattuale, possa essere definita una relazione funzionale tra prezzo e intervalli di variazione dei volumi di vendita.

La valutazione di congruità del prezzo, per la parte pubblica non potrà che esser vagliata, in aggiunta ai criteri di complessiva convenienza economica presi in considerazione dalla parte privata quale operatore di mercato, anche alla stregua della finalizzazione all’interesse pubblico per la cura il legislatore ha attribuito il relativo potere esercitato dall’AIFA.

L’accordo è un passaggio obbligatorio ed ineludibile, poiché, in mancanza, il prodotto è classificato nella fascia C di cui al comma 10, dell'art. 8 della legge del 24 dicembre 1993, n. 537.

Il prezzo contrattato rappresenta per gli ospedali e le ASL il prezzo massimo di cessione al Servizio sanitario nazionale. Su tale prezzo essi devono, in applicazione di proprie procedure, contrattare gli sconti commerciali.

Relativamente al segmento di mercato che transita attraverso il canale della distribuzione intermedia e finale, al prezzo ex-fabrica contrattato sono aggiunte, per la definizione del prezzo al pubblico, l’IVA e le quote di spettanza per la distribuzione (si vedano in proposito il comma 5 e seguenti dell’art.1 della deliberazione citata).

Ciò sinteticamente posto, non è infrequente che, per una tutela dell’interesse individuale alla concorrenza, le aziende farmaceutiche operanti sul mercato abbiano un interesse strumentale (pretensivo all’ostensione) a conoscere gli accordi negoziali intercorsi tra l’AIFA e altre aziende concorrenti che, invece, vantano un interesse (oppositivo all’ostensione) opposto a tutela della riservatezza commerciale. In tale situazione di contrapposizione di interessi è posta l’AIFA quale amministrazione pubblica onerata di svolgere le valutazioni compositive del predetto conflitto di interessi in sede di applicazione della normativa in tema di diritto di accesso laddove alla documentazione negoziale chiesta in ostensione sia stata posta una clausola di riservatezza.

Così, con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ha statuito che “è legittimo negare l'accesso per la conoscenza dell'accordo sulla rimborsabilità e il prezzo relativo ad un farmaco stipulato tra l'industria produttrice e l'AIFA (Agenzia italiana per il farmaco), quando è prevista una clausola di riservatezza (C.d.S., Sez. III, 17 marzo 2017, n. 1213)”. Conseguentemente il Collegio ha ritenuto che “alla luce dei precedenti richiamati, che nel caso in esame, non sussiste l’interesse concreto e attuale di …omissis... a conoscere tanto il contenuto degli accordi negoziali intervenuti con società terze, quanto gli atti prodromici alla loro sottoscrizione”.

Dunque la questione giuridica ha ad oggetto i limiti, sia giuspubblicistici che privatistici, opponibili al diritto di accesso ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge 241/1990.

Appare utile fare cenno al tema del “diritto” (termine contenuto nell’art. 22 della legge 241/1990 cui però non può attribuirsi automaticamente effetto qualificante della natura della situazione giuridica soggettiva in termini di diritto soggettivo) di accesso documentale così come disciplinato dagli artt. 22 e ss. della legge 241/1990. La natura giuridica dell’interesse materiale sotteso alla richiesta di accesso documentale di cui alla prefata normativa “speciale” (nel senso di blocco normativo autonomo inserito in una legge generale sul procedimento amministrativo per mera scelta di politica legislativa non sussistendo alcuna ragione, sia di tipo logico sistematico, sia di tipo ontologico dogmatico, che rendesse “obbligato” tale inserimento), non è stata ancora definitivamente risolta, essendo recentemente riaffiorata la tesi dell’interesse legittimo, dopo che le Ad. Pl. 6 e 7 del 2016, a seguito dell’introduzione della giurisdizione esclusiva in materia di accesso, lo avevano definito come una posizione strumentale tesa alla difesa di un interesse e conseguentemente la sua natura giuridica dipende dalla singola posizione alla cui tutela è finalizzato l’accesso. Quindi oggi l’accesso, secondo il cennato orientamento giurisprudenziale, avrebbe una natura ancillare rispetto alla posizione giuridica tutelata. L’accoglimento dell’una o dell’altra tesi non è irrilevante rispetto alle differenti conseguenze che, sia dal punto di vista sostanziale che processuale, si riverberano sul piano della tutela giurisdizionale. Tuttavia, si tralascia la vexata questio sulla natura giuridica dell’interesse all’accesso documentale non assumendo la stessa questione un’immediata e diretta rilevanza rispetto al tema posto dalla sentenza del Consiglio di Stato n.  8543 del 31 dicembre 2020.

L’art. 22 della legge 241/1990 subordina, innanzitutto, il “diritto” di accesso alla sussistenza di  “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”. Ciò, anche a prescindere dall’ulteriore ed eventuale condizione della sussistenza di un giudizio, instaurato o instaurando, essendo sufficiente la dimostrazione del grado di protezione che l’ordinamento accorda alla posizione base, ossia al bene della vita dal quale scaturisce l’interesse ostensivo. In altri termini, la legittimazione all'accesso documentale va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto dell'accesso abbiano spiegato, o siano idonei a spiegare, effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del “diritto” di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto (in tali termini, da ultimo Consiglio di Stato, Sez. IV, 20 ottobre 2016, n. 4372).

Le norme “imperative” (della cui imperatività si dovrà tener adeguato conto nello scrutinio di liceità di eventuali clausole negoziali, ivi compresa quella di riservatezza) in tema di accesso qualificato (ossia sorretto da uno specifico interesse) ai documenti amministrativi sono quindi contenute nel capo V della legge generale sul procedimento. La legge, pur chiarendo in via generale che “l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza” (art. 22, comma 2) e disponendo conseguentemente che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili.....”, ha comunque cura di individuare alcune eccezioni in cui il diritto di accesso è escluso o può essere escluso (art. 22, comma 3, e art. 24).

Al riguardo rileva, in particolare, l’art. 24, comma 6 lett. d), sulla base del quale il “diritto” d’accesso può essere escluso “quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commercialedi cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono”.

L’esigenza di riservatezza delle imprese in ordine all’interesse commerciale è dunque idoneo, in astratto, a giustificare esclusioni o limitazioni della pretesa ostensiva. E’ evidente che deve trattarsi di un’esigenza oggettivamente apprezzabile, lecita e meritevole di tutela in quanto collegata a potenziali pregiudizi derivanti dalla divulgazione, secondo un nesso di proporzionalità.

Un punto di equilibrio tra esigenze di riservatezza “commerciale” e trasparenza nell’ambito delle procedure di evidenza pubblica finalizzata alla stipula di contratti di appalto si rinviene nella disciplina di settore dettata dal D.Lgs 50/2016, la quale fa prevalere le ovvie esigenze di riservatezza degli offerenti durante la competizione, prevedendo un vero e proprio divieto di divulgazione, salvo ripristinare la fisiologica dinamica dell’accesso a procedura conclusa, con espressa eccezione per “le informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali”.

Il contesto in cui si muovono i contendenti nella causa oggetto dell’odierno esame è però radicalmente diverso dal procedimento di evidenza pubblica.

La pubblica amministrazione, nel procedimento di negoziazione per la fissazione del prezzo dei farmaci coperti da brevetto, punta a perseguire contemporaneamente una pluralità di obiettivi, quali, da un lato, la salute della popolazione, il suo accesso effettivo ai farmaci, il contenimento della spesa farmaceutica, dall’altro il supporto alle aziende che investono in farmaci innovativi.

Questi obiettivi possono, e devono, invero, essere raggiunti (per gli acquisti da parte di enti del SSN) attraverso la competizione sui prezzi per il tramite di procedure di evidenza pubblica, qualora il segmento di mercato sia quello comprendente le specialità originali contenenti il principio attivo il cui brevetto è scaduto (i cosiddetti prodotti generici branded) e le specialità vendute con il nome del principio attivo (i cosiddetti generici unbranded).

Le procedure proconcorrenziali per converso non sono applicabili ed utili per il raggiungimento degli obiettivi sopra indicati, quando il segmento di riferimento è quello dei farmaci coperti da brevetto che hanno già ottenuto l’autorizzazione alla immissione in commercio e che richiedono di poter essere prescritti a carico del Servizio Sanitario Nazionale, sulla base di un prezzo di rimborso che tenga anche conto del loro potenziale terapeutico innovativo. In tale segmento non c’è concorrenza fra i produttori perché ci sono situazioni di monopolio, sia pur transitorie, legate alla protezione brevettuale, indi non vi sarebbe il presupposto logico per l’applicazione del principio della gara, e non v’è il presupposto economico per giustificarla, id est la tendenziale uguaglianza tra costo marginale e beneficio marginale per l’acquirente. Infatti, da una lato il monopolista può portare il prezzo al di sopra del livello di equilibrio senza con ciò subire la sanzione da parte del mercato, come avverrebbe in un sistema competitivo, dall’altro il consumatore che ha un problema di salute potenzialmente risolvibile con un farmaco non è interessato a ricercare il punto di ottimo tra benefici e costi, e soprattutto – con specifico riferimento ai farmaci in fascia A rimborsabili – non è indotto a cercare il prodotto che minimizza i costi, poiché l’onere finanziario per l’acquisto è sostenuto dal Sistema sanitario pubblico sulla base di una decisione pubblica di protezione della salute collettiva.

Escluso dunque che, nel caso di specie, si tratti di una procedura di evidenza pubblica, si può sottoporre la fattispecie de qua al vaglio dell’art. 24, comma 6 lett. d), che fornisce tutela alla “riservatezza commerciale”, senza ulteriori specificazioni di cui all’art. 53 del D.Lgs 50/2016. In altri termini non v’è una norma che direttamente o indirettamente vieti, chiaramente e nettamente, la stipula di accordi di riservatezza in relazione agli interessi commerciali di un’impresa.

Tuttavia, ancorché astrattamente sussumibile la fattispecie de qua nell’art. 24, comma 6 lett. d), ne va verificata l’applicabilità in concreto alla luce dei principi di proporzionalità e mitigazione dell’accesso documentale, quali criteri di legittimità nell’individuazione del punto di equilibrio tra accesso documentale e riservatezza, ancorché sotto il profilo dell’interesse alla riservatezza commerciale nella fattispecie concreta oggetto di scrutinio.

Ciò impone all’operatore giuridico di effettuare uno scrutinio analitico sul bilanciamento degli opposti interessi in gioco ed approdare, così ex post, ad una conseguente valutazione in punto di ostensibilità o meno, e a quali condizioni eventualmente ammetterla, del documento richiesto senza accogliere aprioristicamente, ossia ex ante, un giudizio negativo sull’inammissibilità dell’ostensione.

Il bilanciamento si sviluppa mediante la verifica dell’assenza dei presupposti di accesso documentale che, se sussistenti, inducono la PA a cancellare i dati ultronei alla cura dell’interesse del richiedente o alle finalità dell’accesso (ai sensi dell’art. 5 del GDPR, principio di minimizzazione dei dati).

Nella fattispecie concreta scrutinata dal Consiglio di Stato, negli accordi negoziali oggetto di richiesta ostensiva risulta apposta una clausola di riservatezza in riferimento alla quale il giudice di seconde cure ha espressamente condiviso l’orientamento della medesima sezione III, espresso nella sentenza 17 marzo 20217, n. 1213, con cui aveva sinteticamente statuito che “Tale clausola deve ritenersi valida e vincolante in relazione agli interessi commerciali dell'impresa controinteressata, in quanto utile all'ottenimento dei risparmi conseguiti, con la conseguenza della opponibilità ai fini della preclusione all’accesso da parte dell’operatore economico che potrebbe avvalersi a fini concorrenziali della conoscenza delle condizioni economiche praticate. L'apposizione della clausola di riservatezza operante nei rapporti con le imprese, consente al negoziatore pubblico di tenere celati i risultati economici raggiunti nella negoziazione (C.d.S., sez. III, 17.3.2017, n.1213)”.

Punto saliente del percorso logico seguito dal Consiglio di Stato ha ritenuto valida la clausola di riservatezza in quanto “oltre che rispondere ad un interesse commerciale privato, persegua anche un concomitante interesse pubblico” rappresentato dalla strumentalità a “spuntare tutti gli sconti che il produttore sia oggettivamente e soggettivamente in grado di concedere in base ai suoi costi ed alle sue aspettative di profitto”.

Con la clausola di riservatezza le parti si impegnano a non divulgare il contenuto del regolamento contrattuale cui la clausola accede quale elemento accidentale al contratto stipulato. Pertanto, l’oggetto della clausola è rappresentato dall’obbligo reciproco delle parti (o di una sola delle parti se è di tipo unilaterale) a non divulgare il programma contrattuale avente  solitamente natura sinallagmatica come nel caso de quo, cui la clausola accede. Le ragioni giustificative della predetta clausola possono consistere in qualsiasi interesse meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322, comma 2, del codice civile perseguito dalle parti e dalle stesse condiviso e fatto proprio nell’assetto complessivo del programma contrattuale su cui si è raggiunto l’accordo. In tal senso, la PA può valutare utile, sotto il profilo della massimizzazione dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio del potere (vincolo teleologico), ancorché in modalità consensuale e non autoritativa, gli eventuali risparmi conseguibili da un concreto assetto d’interessi che tenga altresì conto, in ottica sinallagmatica, dell’interesse di controparte alla non divulgabilità del programma contrattuale. Alla luce di questi differenti interessi individuali, le parti vi potranno dare un assetto compositivo reciprocamente soddisfacente mediante il ricorso ad un elemento accidentale quale la clausola di riservatezza. E così concepita la clausola di riservatezza è da ritenersi ammissibile e, quindi, valida in quanto non violativa di alcuna norma imperativa, dell’ordine pubblico o del buon costume ai sensi dell’art. 1343 cc. Passando, dal piano strutturale a quello degli effetti, va evidenziato che la clausola di riservatezza produce effetti esclusivamente obbligatori ai sensi dell’art. 1173 c.c., nonché effetti limitati alle sole parti del rapporto contrattuale ai sensi dell’art. 1372 c.c. senza possibilità che tale clausola ex sé sia opponibile ai terzi. Quindi per all’inopponibilità a terzi della clausola di riservatezza depongono sia il principio di “esclusività” (in senso relativo in quanto, in talune situazione specifiche sulla base di norme derogatorie a tale principio, i terzi possono intaccare la signoria delle parti nel proprio rapporto obbligatorio, come ad esempio l’adempimento del terzo di cui all’art. 1180 cc.) del rapporto obbligatorio ai sensi dell’art. 1173 cc., sia il principio di relatività del rapporto contrattuale di cui all’art. 1372 cc. laddove il contratto costituisca il titolo, ossia la fonte, del rapporto obbligatorio. Dalla natura esclusivamente obbligatoria degli effetti della clausola di riservatezza, va da sé che, una volta accertata la validità della clausola, lo la funzionalità del rapporto contrattuale in parte qua non può che attenere alla fase esecutiva del contratto presidiato, tra l’altro, dall’obbligo legale di buona fede di cui all’art. 1375 cc.  

Pertanto, qualsiasi lesione della clausola di riservatezza va qualificata come comportamento inadempitivo dell’obbligo di non divulgare il contenuto del contratto coperto dalla clausola medesima e, per tale ragione, espone l’inadempiente alla responsabilità di cui all’art. 1218 cc. Anche soggetti pubblici, quale l’AIFA, possono ricorrere, nell’esercizio di attività  negoziale, alla clausola di riservatezza. Le ragioni sottese al ricorso ad una clausola di riservatezza, nel caso di parte pubblica, restano libere nel caso di attività cd. iure privatorum, mentre, nel caso di attività amministrativa esercitata secondo un modello cd. consensuale (in alternativa a quello cd. autoritativo) ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 241/1990, devono risultare funzionali al perseguimento dell’interesse pubblico che sta alla base dell’attribuzione della potestà pubblica esercitata. L’ambito di applicazione della clausola di riservatezza è limitato ai comportamenti spontanei o liberi delle parti, ma non sicuramente a quelli cui le parti sono tenute in forza di norme imperative, quali quelle sul diritto di accesso documentale ai sensi degli  artt. 22 e ss. della legge 241/1990.

In tale senso il diritto di accesso ai documenti amministrativi, avente a oggetto atti negoziali intervenuti tra la PA e i terzi, non può esser limitato tout court dall’esistenza di una clausola di riservatezza pattuita dalla PA e il terzo (rispetto al richiedente l’accesso). Ciò, sia perché tale clausola ha effetti obbligatori limitati alle parti e non opponibili ai terzi (quale sarebbe il richiedente l’ostensione documentale), sia perché il diritto di accesso ai documenti amministrativi non può esser “inattuato” o paralizzato da una clausola contrattuale che, tra l’altro, ove fosse diversamente intesa contrasterebbe con l’art. 22 della legge 241/1990 e quindi andrebbe dichiarata nulla ai sensi dell’art. 1418 c.c. data la natura imperativa della norma attributiva del diritto di accesso documentale. Sotto altro profilo, l’eventuale pretesa della controparte nei confronti della PA a opporre al terzo la clausola di riservatezza inter alios intervenuta contrasterebbe con l’obbligo legale di buona fede di cui all’art. 1375 cc e pertanto non potrebbe ottenere alcuna tutela dall’ordinamento giuridico.

Ora, benché sia ammissibile, come detto, in astratto il ricorso di una PA alla clausola di riservatezza, va altresì evidenziato che la stessa non è opponibile ai terzi, sia in quanto avente effetti esclusivamente obbligatori, sia per il principio di relatività del titolo contrattuale, ma soprattutto laddove il terzo vanti una posizione giuridica soggettiva attiva nei confronti della PA all’ostensione degli atti negoziali. A fronte di tale posizione giuridica soggettiva di tipo attivo, corrisponde in capo alla PA quella di obbligo di ostensione nei modi e nelle forme previste in tema di bilanciamento in concreto tra interesse all’ostensione ed interesse alla riservatezza.

Quindi l’esistenza di un interesse alla riservatezza commerciale di una controparte contrattuale, ancorché fatto proprio dalla PA (allo scopo di ottenere risparmi di spesa conseguenti a concessioni della controparte che, in assenza di tale clausola, non avrebbe accettato) con l’accettazione di una clausola di riservatezza, non può rappresentare tout court legittimo motivo di diniego dell’istanza di un terzo all’ostensione dell’atto negoziale senza cioè svolgere uno scrutinio in concreto tra gli opposti interesse mediante lo svolgimento di un giudizio di bilanciamento degli stessi ai sensi dell’art 5 del GDPR ferma restando la supremazia dell’interesse all’ostensione.

Ciò, in quanto all’esito del cennato giudizio di bilanciamento, la PA può concedere l’ostensione ai documenti richiesti adottando gli accorgimenti valutati in concreto adeguati a contemperare gli opposti interessi.

Pertanto, non si può condividere, per le ragioni ut supra esplicate, la sentenza de qua nella parte in cui il Consiglio di Stato ha statuito che “Tale clausola deve ritenersi valida e vincolante in relazione agli interessi commerciali dell'impresa controinteressata, in quanto utile all'ottenimento dei risparmi conseguiti, con la conseguenza della opponibilità ai fini della preclusione all’accesso da parte dell’operatore economico che potrebbe avvalersi a fini concorrenziali della conoscenza delle condizioni economiche praticate. L'apposizione della clausola di riservatezza operante nei rapporti con le imprese, consente al negoziatore pubblico di tenere celati i risultati economici raggiunti nella negoziazione (C.d.S., sez. III, 17.3.2017, n.1213)”.

L’inammissibilità, in senso assoluto, della clausola di riservatezza quale limite al diritto di accesso risulta ancor più evidente nell’ipotesi – diversa da quella oggetto di thema decidendum della sentenza de qua – di cui all’art. 24, comma 7, alla stregua della quale l’interesse alla riservatezza risulterebbe comunque recessivo rispetto alla finalità dell’interesse all’ostensione teso alla cura e alla difesa di propri interessi giuridici.

In definitiva, nei confronti di una istanza di accesso di atti negoziali della PA, a prescindere dalla sussistenza o meno di una clausola di riservatezza, la PA ha un dovere di valutare in concreto l’ostensibilità o meno dell’atto negoziale, effettuando un bilanciamento degli opposti interessi anche alla luce del principio di minimizzazione dei dati di cui all’art 5 del GDPR, senza poter opporre un diniego in via automatica, ancorché fondato su una clausola di riservatezza che non può che avere effetti obbligatori tra le parti peraltro limitatamente all’ambito dei comportamenti liberi e non di quelli imposti ex lege.