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Anno XVI - n. 12 - Dicembre 2024

  Giurisprudenza Amministrativa



Sul discrimine tra la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e l'attività di laboratorio.

Di Andrea Ippoliti
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO – SEZIONE QUINTA, SENTENZA 8 aprile 2019, n. 2280

Di ANDREA IPPOLITI

Sul discrimine tra la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e l'attività di laboratorio

Il Consiglio di Stato, con la prima sentenza in materia in Italia, ha preso in maniera netta posizione sul discrimine tra la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e l'attività di laboratorio e di vicinato, statuendo che questo sia dato dalla presenza di servizio assistito ossia dai camerieri che servono ai tavolini. Il Consiglio di Stato ha quindi deciso favorevolmente per il privato, dirimendo un lunghissimo contrasto insorto sin dal 1998, con il Decreto Bersani, e le successive modifiche intervenute. Infatti, l’art. 3, comma 1, lettera f-bis) del d.l. 4 aprile 2006, n. 223 così dispone: “1. Ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m),della Costituzione, le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande, sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni: [...]f-bis) il divieto o l'ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l'esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie”. In merito all'interpretazione di tale disposizione normativa si sono succedute numerose circolari del Ministero dello Sviluppo Economico che, in varie e diverse modalità, hanno sostenuto che la summenzionata normativa, nonostante non prevedesse espressamente alcunchè in tal senso, dovesse interpretarsi nel senso che non potessero utilizzarsi, all'interno di laboratori ed esercizi di vicinato, tavoli e sedie abbinabili. 2 Per l'effetto di tali circolari, in pratica, gli avventori di laboratori ed esercizi di vicinato, ossia a titolo esemplificativo paninerie, gelaterie, pizzerie a taglio, rosticcerie, dovevano mangiare in piedi oppure seduti scomodamente, ossia in piedi appoggiandosi a mensole oppure seduti su sgabelli alti che non consentissero loro di appoggiare le pietanze. L'abbinabilità tra arredi doveva quindi essere esclusa, ritenendosi in dette circolari che la stessa fosse esclusiva prerogativa degli esercizi di somministrazione. Ebbene, in accoglimento dell'impianto argomentativo del ricorso, ripercorrendo l'iter normativo in subiecta materia, il Consiglio di Stato ha nettamente stabilito che "Invero – ferma restando, come già detto, l’irrilevanza degli “abbinamenti” tra tavoli e sedie – ritiene il Collegio che la mera presenza, sui primi, di stoviglie e sottopiatti (così come, in ipotesi, di tovaglie o altri accessori atti a preservare l’igiene e la pulizia degli arredi) non fornisca un univoco indice dell’attualità di un servizio al tavolo ad opera del gestore del locale, presupposto ineludibile perché possa esorbitarsi dal contesto dell’esercizio di vicinato. D’altro canto, la semplice disposizione degli arredi, di per sé neutra ai fini che qui rilevano, non può definirsi, in quanto tale e di per sé sola, una “componente organizzativa ed aziendale tipicamente destinata alla somministrazione”, riducendosi tale espressione, in mancanza di una precisa ed argomentata contestualizzazione, ad una mera petizione di principio. Le considerazioni sopra esposte hanno poi trovato eco anche nella segnalazione S2605 del 27 ottobre 2016 dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, resa nell’esercizio dei poteri ad essa conferiti dall’art. 21 della l. 10 ottobre 1990, n. 287, avente ad oggetto “Distorsioni concorrenziali nel settore della vendita di alimenti e bevande con consumo sul posto”: richiamate infatti alcune risoluzioni ministeriali presupposte dal provvedimento impugnato, la detta segnalazione evidenzia come “esse incentrano l’elemento distintivo tra l’attività di somministrazione di alimenti e bevande (definita dall’art. 1, comma 1, della legge n. 287/91) e l’attività di vendita (di cui all’art. 3, comma 1, D.L. n. 223/2006) sulla modalità di consumo offerta, in termini di attrezzatura utilizzabile per consentire il consumo sul posto. Tale impostazione, che rievoca i termini impiegati dalla legge n. 287/1991 sulla somministrazione, appare idonea a limitare significativamente l’attività degli esercizi di vicinato non autorizzati alla somministrazione di alimenti e bevande, in assenza di giustificazioni obiettive. A ciò si aggiunga che, oltre a risultare non aderente alle nuove abitudini di consumo e suscettibile di limitare le possibilità di scelta dei consumatori, tale interpretazione crea un’indebita discriminazione fra i vari operatori del settore. Ne deriva un approccio che risulta in palese contrasto nel suo complesso con i principi posti dal legislatore”. 3 Invero, rileva l’Autorità garante, “Le richiamate Risoluzioni non tengono […] conto del fatto che già il D.L. n. 223/2006 aveva inteso superare o quantomeno coordinare con i principi di concorrenza tutte le attività di consumo sul posto di alimenti e bevande, individuando il discrimen tra l’attività di somministrazione e quella di vendita da parte degli esercizi di vicinato unicamente nella presenza o meno del servizio assistito. Esse, inoltre, non basano l’interpretazione offerta su quanto strettamente necessario a tutelare le esigenze di interesse generale tipizzate dal citato D.L. n. 201/2011, quali la «tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali» […]”......Deve pertanto concludersi – alla luce della testuale previsione normativa – che in assenza di un vero e proprio servizio al tavolo da parte di personale impiegato nel locale, il mero consumo in loco del prodotto acquistato, sia pure servendosi materialmente di suppellettili ed arredi – anche dedicati – presenti nell’esercizio commerciale (ossia, in primis, tavoli e sedie, ma a rigore anche tovaglioli o stoviglie, la cui generale messa a disposizione per un uso autonomo e diretto di per sé non integra un servizio di assistenza al tavolo, ben potendo essere utilizzati anche dagli acquirenti che decidano di non fermarsi nel locale), non comporta un superamento dei limiti di esercizio dell’attività di vicinato". La sentenza ha enorme impatto nel nostro Paese perchè, appunto, l'interpretazione del Ministero ha condizionato regolamenti comunali, specie quello capitolino, e dalla stessa sono scaturiti nel corso degli anni sequestri di arredi, provvedimenti amministrativi recanti l'ordine di cessazione della somministrazione abusiva, che hanno costretto una miriade di esercizi ad eliminare financo mensole e sgabelli e a non dotarsi di arredi abbinabili, costringendo sostanzialmente i clienti a "stare scomodi" durante la consumazione sul posto. La decisione del Superiore Consesso, quindi, appare come un toccasana per laboratori artigianali ed esercizi di vicinato, la piccola imprenditoria locale volano del Nostro Paese, consentendo loro di porre in essere il consumo sul posto, normativamente loro consentito, nelle modalità migliori possibili, con l'esclusione del servizio assistito.