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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Giurisprudenza Civile delle Corti Supreme
  A cura di Anna Laura Rum



È costituzionalmente illegittimo l’automatismo che prevede l’attribuzione del cognome del padre ai figli: i cognomi dei genitori devono attribuirsi nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, o al riconoscimento o nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto.

Di Anna Laura Rum
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NOTA A CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 31 MAGGIO 2022, N. 131

È costituzionalmente illegittimo l’automatismo che prevede l’attribuzione del cognome del padre ai figli: i cognomi dei genitori devono attribuirsi nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, o al riconoscimento o nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto.

 

Di ANNA LAURA RUM

 

Sommario: 1. I fatti di causa 2. Le argomentazioni della Corte Costituzionale 3. Il dispositivo

 

  1. I fatti di causa

I fatti di causa vedono il Tribunale ordinario di Bolzano sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi del riconoscimento contemporaneo del figlio (secondo periodo del primo comma) – non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno.

In particolare, ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

Successivamente, la Corte d’appello di Potenza ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 cod. civ., dell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), nonché degli artt. 33 e 34 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno.

Tali ordinanze di rimessione si riferiscono a norme che, pur avendo un differente ambito applicativo – rispettivamente l’attribuzione del cognome al figlio nato fuori del matrimonio o nel matrimonio – presentano il medesimo contenuto sostanziale e sollevano analoghe questioni di legittimità costituzionale.

Alla luce di questa considerazione, la Corte Costituzionale ha disposto la riunione dei giudizi, perché fossero definiti con un’unica pronuncia.

 

  1. Le argomentazioni della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, preliminarmente, dichiara fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., sollevate con l’ordinanza del Tribunale di Bolzano: si richiamano i tratti della norma censurata, la radice legislativa a essa sottesa e i precedenti interventi della Corte Costituzionale, interpellata più volte in merito alla sua legittimità costituzionale.

L’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., nel regolare l’attribuzione del cognome al figlio nato fuori del matrimonio, prevede che «[s]e il riconoscimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre».

La Corte osserva che la norma riflette la disciplina sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio, che è l’istituto nell’ambito del quale si rinviene la matrice legislativa della regola e che la sua fonte si ravvisa, infatti, nella formulazione, antecedente alla riforma del 1975 (legge 19 maggio 1975, n. 151, recante «Riforma del diritto di famiglia»), dell’art. 144 cod. civ., il quale (con un testo identico a quello dell’art. 131 del codice civile del Regno d’Italia del 1865) disponeva che: «[i]l marito è capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la residenza».

Si considera come la riforma del diritto di famiglia del 1975 abbia novellato l’art. 144 cod. civ. e abbia introdotto l’art. 143-bis cod. civ., prevedendo l’aggiunta e non più la sostituzione del cognome del marito a quello della moglie, disposizione univocamente interpretata nel senso che attribuisca a quest’ultima una facoltà e non un obbligo. Ancora, si osserva che la nuova disciplina, pur evidenziando un persistente riflesso della vecchia potestà maritale, ha reso meno nitida l’immagine del cognome del marito quale cognome di famiglia e che, tuttavia, nel contempo, la norma sull’attribuzione del cognome del padre ai figli è rimasta solidamente radicata su un complesso di disposizioni (punto 14.1), alle quali si ascrive anche quella censurata, che non è stata scalfita neppure dalla riforma della filiazione, introdotta dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali) e dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219).

La Corte Costituzionale, nel 1988, con riferimento al cognome del figlio nato nel matrimonio, ha rilevato che «sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concili i due principi sanciti dall’art. 29 della Costituzione, anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro» (ordinanza n. 176 del 1988).

Successivamente, la Corte, nel 2006 e 2007, ha ribadito che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».

Infine, con sentenza n. 286 del 2016, la Corte, «in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità», ha accolto le questioni di legittimità costituzionale, che le erano state sottoposte, negli stretti limiti tracciati dal petitum e ha, dunque, dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, nella parte in cui non consente «ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno», e ha esteso, in via consequenziale, i suoi effetti sia alla disposizione oggi censurata (l’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ.), sia a quella sull’attribuzione del cognome all’adottato (maggiore d’età) da parte di coniugi (art. 299, terzo comma, cod. civ.).

Dunque, la Corte Costituzionale si riconosce oggi chiamata nuovamente a giudicare la legittimità costituzionale della norma, trasfusa nell’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., sotto un duplice profilo: con l’ordinanza del Tribunale di Bolzano, viene denunciata la sua illegittimità costituzionale, nella parte in cui non consente di attribuire, con l’accordo fra i genitori, il solo cognome della madre. Si invoca, dunque, un intervento additivo avente un contenuto radicalmente derogatorio della regola generale sull’automatica trasmissione del cognome paterno.

Con l’ordinanza iscritta al n. 25 del reg. ord. 2021, la stessa Corte Costituzionale, quale giudice a quo, ha prospettato, in via pregiudiziale, un intervento sostitutivo della norma, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’attribuzione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi.

Dunque, si osserva che i parametri costituzionali, sui quali si incentrano le comuni censure delle due ordinanze, sono l’art. 2 Cost., in relazione alla tutela dell’identità del figlio, e l’art. 3 Cost., invocato a difesa del principio di eguaglianza nei rapporti fra i genitori.

Ancora, la Consulta nota che, analogamente, il contrasto con gli obblighi internazionali, di cui all’art. 117, primo comma, Cost., si focalizza, sulla scorta della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sulla protezione dell’identità personale del figlio, mediata dall’art. 8 CEDU, e sul divieto di discriminazioni, di cui all’art. 14 CEDU.

Allora, la Corte procede ad evidenziare l’intreccio, nella disciplina del cognome, fra il diritto all’identità personale del figlio e l’eguaglianza tra i genitori: il cognome, insieme con il prenome, rappresenta il nucleo dell’identità giuridica e sociale della persona, le conferisce identificabilità, nei rapporti di diritto pubblico, come di diritto privato, e incarna la rappresentazione sintetica della personalità individuale, che nel tempo si arricchisce progressivamente di significati.

La Corte considera che la norma censurata riguarda, in particolare, il momento attributivo del cognome, che, di regola, è legato all’acquisizione dello status filiationis: ne consegue che il cognome, quale fulcro – insieme al prenome – dell’identità giuridica e sociale, collega l’individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis. Il cognome deve, pertanto, radicarsi nell’identità familiare e, al contempo, riflettere la funzione che riveste, anche in una proiezione futura, rispetto alla persona. Così, già si è pronunciata, con la sentenza n. 286 del 2016.

Si conclude che sono proprio le modalità con cui il cognome testimonia l’identità familiare del figlio a dover rispecchiare e rispettare l’eguaglianza e la pari dignità dei genitori.

La Corte, poi, considera che nella fattispecie disegnata dall’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., l’identità familiare del figlio, che preesiste all’attribuzione del cognome, può scomporsi in tre elementi: il legame genitoriale con il padre, identificato da un cognome, rappresentativo del suo ramo familiare, il legame genitoriale con la madre, anche lei identificata da un cognome, parimenti rappresentativo del suo ramo familiare e la scelta dei genitori di effettuare contemporaneamente il riconoscimento del figlio, accogliendolo insieme in un nucleo familiare. Dunque, la selezione della sola linea parentale paterna oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre: a fronte del riconoscimento contemporaneo del figlio, il segno dell’unione fra i due genitori si traduce nell’invisibilità della donna.

La Corte Costituzionale afferma che l’automatismo imposto reca il sigillo di una diseguaglianza fra i genitori, che si riverbera e si imprime sull’identità del figlio, così determinando la contestuale violazione degli artt. 2 e 3 Cost. e che questo non trova alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., sul quale si fonda il rapporto fra i genitori, uniti nel perseguire l’interesse del figlio, né nel coordinamento tra principio di eguaglianza e finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost.

Secondo la Corte, la stessa riforma del diritto di famiglia del 1975, che pure non è intervenuta sulla disciplina dell’attribuzione del cognome ai figli, aveva, tuttavia, contribuito a mettere a fuoco il senso del rapporto fra eguaglianza e unità familiare. L’unità della famiglia fondata sul matrimonio si basa sugli stessi diritti e sui medesimi doveri dei coniugi (art. 143 cod. civ.), sulla reciproca solidarietà e sulla condivisione delle scelte (fra le tante disposizioni, si veda la nuova formulazione dell’art. 144 cod. civ.). Parimenti, l’assunzione di responsabilità in capo ai genitori, dentro e fuori il matrimonio, si radica nell’eguaglianza fra di loro e nell’accordo sulle decisioni che riguardano il figlio. Lo hanno sottolineato sempre la novella del 1975 e la riforma della filiazione del 2012-2013, anch’essa silente rispetto alla norma censurata, ma fautrice della rimozione di un altro residuo storico della disparità fra i genitori, che si rinveniva nell’originario quarto comma dell’art. 316 cod. civ. (in forza del quale era il solo padre a poter adottare «i provvedimenti urgenti ed indifferibili» per porre riparo a «un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio»).

La Corte Costituzionale è netta nel dire che a fronte dell’evoluzione dell’ordinamento, il lascito di una visione discriminatoria, che attraverso il cognome si riverbera sull’identità di ciascuno, non è più tollerabile.

Ancora, si afferma che l’«importanza di un’evoluzione nel senso dell’eguaglianza dei sessi» viene, del resto, sottolineata anche dalla Corte EDU, che invita alla «eliminazione di ogni discriminazione […] nella scelta del cognome», sul presupposto che «la tradizione di manifestare l’unità della famiglia attraverso l’attribuzione a tutti i suoi membri del cognome del marito non può giustificare una discriminazione nei confronti delle donne» (Corte EDU, sentenza 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia, paragrafo 66).

Per la Corte, si deve dichiarare costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, l’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto. Si aggiunge, poi, che l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ. determina, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), quella di ulteriori norme.

Innanzitutto, comporta l’illegittimità costituzionale della norma che disciplina l’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio: essa si inferiva implicitamente dall’art. 144 cod. civ., nella formulazione antecedente alla riforma del diritto di famiglia del 1975, e veniva presupposta da un complesso di disposizioni, alcune delle quali modificate o abrogate, altre tutt’ora vigenti e costituenti l’attuale ossatura della norma di sistema.

Alle disposizioni modificate si ascrive l’art. 237, secondo comma, cod. civ., il quale, nel testo antecedente alla riforma della filiazione (art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 154 del 2013), prevedeva che il possesso di stato potesse rinvenire, tra i suoi fatti costitutivi, l’aver «sempre portato il cognome del padre». È stato, invece, del tutto abrogato l’art. 33, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000 – ad opera dell’art. 1, comma 1, lettera e), punto 1), del decreto del Presidente della Repubblica 30 gennaio 2015, n. 26 (Regolamento recante attuazione dell’articolo 5, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di filiazione) – il quale, nella disciplina sull’ordinamento dello stato civile, disponeva che «[i]l figlio legittimato ha il cognome del padre».

Venendo alle disposizioni ancora vigenti, secondo la Corte deve evocarsi, innanzitutto, l’art. 299, terzo comma, cod. civ., sull’adozione da parte dei coniugi del maggiore d’età, il quale disponeva e dispone attualmente, anche dopo la sua sostituzione ad opera dell’art. 61 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), che «l’adottato assume il cognome del marito».

Parimenti, sottende la medesima norma anche l’art. 27, comma 1, della legge n. 184 del 1983, relativo all’adozione di cui al Titolo II della citata legge, il quale stabilisce che l’adottato assume e trasmette il cognome degli adottanti. Tale cognome, in conformità allo stato di figlio nato nel matrimonio dei coniugi adottanti, viene univocamente riferito a quello del marito, tant’è che il comma 2 della medesima disposizione prevede che, solo se l’adozione è disposta nei confronti della moglie separata, «l’adottato assume il cognome della famiglia di lei».

Ancora, nella disciplina sull’ordinamento dello stato civile, risultava e risulta tuttora presupposta l’attribuzione del cognome del padre dalla norma che vieta di assegnare al bambino lo stesso nome del padre o del fratello o della sorella viventi (tale disciplina si rinviene attualmente nell’art. 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, mentre in origine era contenuta nell’art. 72 del r.d. n. 1238 del 1939, poi abrogato dall’art. 109, comma 2, del citato d.P.R. n. 396 del 2000).

Infine, deve ascriversi alle disposizioni che presuppongono la norma di sistema lo stesso art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ.

La Corte Costituzionale afferma che la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma relativa all’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio discende, in via consequenziale, dalla illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., in ragione della loro sostanziale identità di contenuto, tant’è che la disposizione censurata è fra quelle da cui si evince la norma di sistema.

Ne deriva, per la Corte, che la norma sull’attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio è costituzionalmente illegittima, nella parte in cui prevede l’attribuzione del cognome del padre al figlio, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto.

Per le medesime ragioni esposte con riferimento alla norma sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., il quale, nell’ambito della disciplina sull’adozione del maggiore d’età da parte dei coniugi, dispone che «l’adottato assume il cognome del marito»: l’art. 299, terzo comma, cod. civ. è, dunque, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui prevede che l’adottato assume il cognome del marito, anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dagli stessi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire all’adottato il cognome di uno di loro soltanto.

Sempre per le stesse ragioni illustrate relativamente alla norma sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 27 della legge n. 184 del 1983, secondo cui, per effetto dell’adozione, l’adottato «assume e trasmette il cognome» degli adottanti, univocamente interpretato con riferimento al cognome del marito: anche l’art. 27 della legge n. 184 del 1983 è, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui prevede che l’adottato assume il cognome degli adottanti, anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dagli stessi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire all’adottato il cognome di uno di loro soltanto.

Successivamente, a corollario delle declaratorie di illegittimità costituzionale, la Corte formula un duplice invito al legislatore: di un intervento finalizzato a impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome e di valutare l’interesse del figlio a non vedersi attribuito un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle. Ciò potrebbe ben conseguirsi riservando le scelte relative all’attribuzione del cognome al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia (o al momento della sua nascita nel matrimonio o della sua adozione), onde renderle poi vincolanti rispetto ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori (o nati nel matrimonio o adottati dalla medesima coppia).

La Corte Costituzionale, infine, precisa che tutte le norme dichiarate costituzionalmente illegittime riguardano il momento attributivo del cognome al figlio, sicché la presente sentenza, dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, troverà applicazione alle ipotesi in cui l’attribuzione del cognome non sia ancora avvenuta, comprese quelle in cui sia pendente un procedimento giurisdizionale finalizzato a tale scopo. Si specifica che il cognome, una volta assunto, incarna in sé il nucleo della nuova identità giuridica e sociale, il che comporta che possibili vicende che incidano sullo status filiationis o istanze di modifica dello stesso cognome siano regolate da discipline distinte rispetto a quelle relative al momento attributivo.

La Corte conclude specificando che eventuali richieste di modifica del cognome, salvo specifici interventi del legislatore, non potranno, dunque, che seguire la procedura regolata dall’art. 89 del d.P.R. n. 396 del 2000, come sostituito dall’art. 2, comma 1, del d.P.R. n. 54 del 2012.

 

  1. Il dispositivo

In definitiva, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 131/2022, dichiara l’illegittimità costituzionale di talune delle norme censurate e l’inammissibilità delle questioni sollevate rispetto ad altre norme censurate, enunciando il seguente dispositivo:

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;

2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;

3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui prevede che «l’adottato assume il cognome del marito», anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;

4) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui prevede che l’adottato assume il cognome degli adottanti, anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;

5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità degli artt. 237, 262 e 299 cod. civ., dell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e degli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Potenza con l’ordinanza in epigrafe.”.