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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Giurisprudenza Civile delle Corti Supreme
  A cura di Anna Laura Rum



Per le Sezioni Unite, la meritevolezza del contratto va valutata con esclusivo riguardo allo scopo perseguito dalle parti.

Di Anna Laura Rum
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NOTA A CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE,

SENTENZA 23 FEBBRAIO 2023, N. 5657 

Per le Sezioni Unite, la meritevolezza del contratto va valutata con esclusivo riguardo allo scopo perseguito dalle parti. 

Di ANNA LAURA RUM

 

 

Sommario: 1. I fatti di causa 2. Le argomentazioni delle Sezioni Unite 3. I principi di diritto

 

  1. I fatti di causa

I fatti di causa vedono una società di leasing, concedente, stipulare con una società utilizzatrice un contratto di leasing avente ad oggetto un immobile. Il debito della società utilizzatrice venne garantito da cinque persone fisiche.

Sei anni dopo la stipula del contratto, la società concedente, lamentando l’inadempimento della società utilizzatrice, chiese ed ottenne dal Tribunale un decreto ingiuntivo, pronunciato nei confronti della debitrice e dei suoi garanti, a titolo di canoni scaduti e non pagati.

Tutti gli intimati proposero, congiuntamente, opposizione al decreto. A fondamento dell’opposizione dedussero l’invalidità del contratto di leasing, nella parte in cui conteneva una clausola di variabilità del canone, dovendosi, dunque, qualificare come “strumento finanziario implicito”, e doveva ritenersi perciò nullo, in quanto stipulato senza che fossero stati assolti da parte della banca i preventivi obblighi di informazione imposti dal d. lgs. 58/98. Chiesero perciò la revoca del decreto ingiuntivo e, in via riconvenzionale, la condanna della società concedente alla restituzione di tutte le somme pagate a titolo di indicizzazione del canone, nonché la condanna dell’intermediario al risarcimento del danno.

Il Tribunale ritenne che la clausola che prevedeva la variazione del canone contenesse in realtà due strumenti finanziari derivati, autonomi rispetto al contratto di leasing e ne dichiarò quindi la nullità, poiché la società utilizzatrice non aveva ricevuto le informazioni precontrattuali prescritte dalla legge prima della stipula di contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari. Ridusse di conseguenza il credito della concedente e la condannò a risarcire il danno patito dall’utilizzatrice.

La sentenza fu appellata e la Corte d’appello rigettò il gravame, adottando però una motivazione diversa rispetto a quella del Tribunale: infatti, la Corte d’appello ha definito l’intero contratto sottoposto al suo esame come “una sorta di swap”, lo ha qualificato “aleatorio” e lo ha dichiarato rientrante nel genus delle scommesse. Secondo la Corte d’Appello, l’opposizione al decreto ingiuntivo andava accolta in quanto la sola clausola di rischio cambio era “invalida ex art. 1322, secondo comma, c.c.”, e non già perché il contratto fosse nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d. lgs. 58/98.

La sentenza d’appello, in seguito, è stata impugnata per cassazione dalla società concedente e l’utilizzatrice ed i suoi cinque fideiussori hanno resistito con controricorso.

Con ordinanza interlocutoria, la Terza Sezione civile della Corte di Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché fosse valutata l’opportunità di assegnazione del ricorso alle  Sezioni Unite, rilevando contrastanti decisioni della stessa Corte, circa la validità di clausole come quella oggetto del giudizio, ponendo le seguenti questioni di diritto: “a) se la clausola di cui si discorre sia un mero meccanismo di indicizzazione, oppure costituisca una “scommessa”, o comunque abbia una finalità speculativa; b) se la suddetta clausola muti la causa del contratto di leasing, “inquinandola”, ed in questo caso con quali effetti; c) se la relativa pattuizione, a causa della sua oscurità, violi i doveri di correttezza e buona fede da parte del predisponente”.

 

  1. Le argomentazioni delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, preliminarmente, ritengono fondata la censura di violazione dell’articolo 1322, secondo comma, c.c., sostenendo che il giudizio di “meritevolezza” di cui all’art. 1322, comma secondo, c.c., non coincide col giudizio di liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa. Infatti, viene rilevato che secondo la Relazione al Codice civile, la meritevolezza è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico o causa concreta. Dunque, il risultato del contratto dovrà dirsi immeritevole solo quando sia contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume od all’ordine pubblico.

Secondo il Collegio, questo principio, se pur anteriore alla promulgazione della Carta costituzionale, è stato da questa ripreso e consacrato negli artt. 2, secondo periodo, 4, secondo comma, e 41, secondo comma, Cost e un contratto non può dirsi “immeritevole” solo perché poco conveniente per una delle parti.

Per le Sezioni Unite, quindi, affinché un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà non del patto, ma del risultato cui esso mira con i princìpi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.

Scendendo all’analisi del caso concreto, il Collegio osserva che la Corte d’appello ha reputato che la clausola di “rischio cambio” fosse “immeritevole” ex art. 1322 c.c. spendendo tre argomenti, e cioè: 1) il calcolo della variazione del saggio di interesse dovuto dall’utilizzatrice era “astruso e macchinoso”; 2) la clausola che disciplinava il “rischio cambio” era caratterizzata da aleatorietà e squilibrio, in quanto prevedeva una differente base di calcolo dell’indicizzazione, a seconda che l’euro si fosse apprezzato o deprezzato rispetto alla valuta di riferimento; 3) il c.t.u. aveva accertato che fin dalla stipula del contratto era prevedibile un costante apprezzamento del franco svizzero sull’euro.

Secondo le Sezioni Unite, tuttavia, tutti e tre gli argomenti sono erronei in punto di diritto, in quanto né singolarmente, né complessivamente, sono idonei a giustificare un giudizio di “immeritevolezza” ex art. 1322 c.c., alla luce dei princìpi stabiliti dalla Corte di Cassazione.

In particolare, il primo argomento è erroneo perché una clausola contrattuale “astrusa” od inintelligibile non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex 1322 c.c. e, dunque, dinanzi a clausole contrattuali oscure il giudice deve ricorrere agli strumenti legali di ermeneutica (artt. 1362-1371 c.c.), e non ad un giudizio di immeritevolezza. La clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (artt. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.). Quanto, poi, all’affermazione secondo cui una clausola “macchinosa” sarebbe di per sé immeritevole, secondo il Collegio essa non può essere condivisa per due ragioni, ovvero che, da un punto di vista epistemologico, non esistono concetti “facili” e concetti “difficili”, ma esistono concetti noti e concetti ignoti: i primi sono comprensibili ed i secondi no, se non vengano spiegati. Una clausola contrattuale non può dirsi dunque mai “macchinosa” in senso assoluto. Può esserlo in senso relativo, per esempio se contenuta in un testo contrattuale predisposto unilateralmente e sottoposto a persona priva delle necessarie competenze per comprenderlo, ma in quest’ultima ipotesi non si dirà che quel contratto è “immeritevole”, bensì che il contratto è annullabile poiché il consenso del contraente è stato dato per errore o carpito con dolo, oppure si dirà che il proponente è tenuto al risarcimento del danno per non avere fornito alla controparte le necessarie informazioni precontrattuali, ove imposte dalla legge o dal dovere di buona fede.

Si aggiunge, al proposito, che molti contratti contengono per necessità clausole assai articolate e complesse, come, ad esempio, i contratti di handling aeroportuale, le assicurazioni dei rischi agricoli, il noleggio di piattaforme off-shore, il project financing di opere pubbliche, ma anche i contratti di massa come quelli di somministrazione di energia elettrica. Il Collegio conclude, quindi, che l’equazione stabilita dalla Corte d’appello, per cui “macchinosità della clausola = immeritevolezza” è erronea in punto di diritto.

La seconda ragione, per le Sezioni Unite, è che nel caso di specie la pretesa “macchinosità” consisteva in una banale moltiplicazione d’un rapporto per una differenza, e, cioè un’operazione puramente aritmetica, e niente affatto “macchinosa”.

Ancora, il Collegio rileva che il secondo argomento speso dalla sentenza impugnata per pervenire al giudizio di immeritevolezza della clausola (“la clausola è caratterizzata da aleatorietà e squilibrio”) è erroneo in punto di diritto sotto due profili: in primo luogo, la sentenza impugnata mostra di confondere l’alea economica, insita in ogni contratto, con l’alea giuridica, che del contratto forma invece oggetto e ne è elemento essenziale e cioè la susceptio periculi. Si nota che, nel caso di specie, causa del contratto era il trasferimento della proprietà di un immobile, non il trasferimento di un rischio dietro pagamento di un prezzo e, in ogni caso, un contratto aleatorio non è, per ciò solo, immeritevole di tutela ex articolo 1322 c.c. La vendita del raccolto futuro (emptio spei), l’assicurazione sulla vita a tempo determinato per il caso di morte, la rendita vitalizia sono tutti contratti aleatori e se la legge ne consente la stipula, l’aleatorietà non può ritenersi di per sé una caratteristica tale da rendere “immeritevole” di giuridica esistenza il contratto, né è inibito alle parti stipulare contratti aleatori atipici, e neppure è vietato inserire elementi di aleatorietà in un contratto commutativo: le parti d’un contratto infatti, nell’esercizio del loro potere di autonomia negoziale, ben possono prefigurarsi la possibilità di sopravvenienze che incidono o possono incidere sull'equilibrio delle prestazioni, ed assumerne, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in tal modo lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, con l'effetto di escludere, nel caso di verificazione di tali sopravvenienze, l’applicabilità dei meccanismi riequilibratorii previsti nell'ordinaria disciplina del contratto (art. 1467 e 1664 cod. civ.). E l'assunzione del suddetto rischio, secondo le Sezioni Unite, può risultare, anche per implicito, dal regolamento convenzionale che le parti hanno dato al rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro obbligazioni

Il Collegio evidenzia, poi, come la Corte d’appello abbia ritenuto che la clausola di indicizzazione sarebbe “immeritevole” perché le contrapposte obbligazioni delle parti erano “squilibrate”, in quanto la misura della variazione del saggio degli interessi non era simmetrica.

Per la Corte di Appello, una pari variazione del rapporto di cambio tra il franco svizzero e l’euro avrebbe infatti comportato variazioni diverse del saggio di interessi, a seconda che la variazione fosse stata a favore del concedente o dell’utilizzatore. Secondo le Sezioni Unite, la Corte d’appello ha, così, mostrato implicitamente di ritenere che il concetto di “equilibrio delle prestazioni” di un contratto sinallagmatico consista in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni e che ogni minimo disallineamento tra questa perfetta parità possa essere sindacato dal giudice, amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità.

Secondo le Sezioni Unite, entrambe queste affermazioni sono tuttavia erronee, per più ragioni. La prima ragione è che il diritto dei contratti non impone l’assoluta parità tra le parti su condizioni, termini e vantaggi contrattuali: la libertà negoziale è principio cardine del nostro ordinamento e del diritto dei contratti e l’ordinamento garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. La seconda ragione è che lo squilibrio delle prestazioni non può farsi coincidere la convenienza del contratto. Pertanto, secondo il Collegio, l’intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale. La terza ragione è che lo squilibrio economico tra le prestazioni, se è genetico, legittima il ricorso alla rescissione per lesione, se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta e l’esistenza di tali rimedi esclude la necessità di ricorrere al concetto di “immeritevolezza” d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate”. La quarta ragione è che, anche ad ammettere che il calcolo del conguaglio degli interessi, per come previsto dal contratto, fosse più vantaggioso per il concedente rispetto all’utilizzatore, questa circostanza non basta di per sé a rendere “immeritevole” ex art. 1322 c.c.: secondo le Sezioni Unite, si potrà discutere se questa clausola sia valida ex art. 1341 c.c., oppure se sia frutto dell’approfittamento d’uno stato di bisogno, od ancora se non sia stata adeguatamente illustrata in sede precontrattuale, ma nel primo caso soccorrerà il rimedio della nullità, nel secondo quello della rescissione, nel terzo quello dell’annullamento del contratto per errore o del risarcimento del danno.

Ancora, le Sezioni Unite rilevano come la Corte d’appello abbia giudicato immeritevole un patto contrattuale, limitandosi a registrare un dato puramente esteriore: la differenza della formula di calcolo del conguaglio degli interessi, evidenziando che, tuttavia, qualsiasi valutazione circa la validità o la meritevolezza di un patto contrattuale non potrebbe mai limitarsi all’esame del suo contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano sorretti da una giusta causa.

Dopo tali considerazioni, le Sezioni Unite affermano che il giudizio di “immeritevolezza” di un contratto, ex art. 1322, secondo comma, c.c., non può essere formulato in astratto ed ex ante, limitandosi a considerare il solo contenuto oggettivo dei patti contrattuali, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando lo scopo perseguito dalle parti.

Dunque, il Collegio procede all’esame del contrasto segnalato dalla Terza Sezione rilevando come, in realtà, sul tema della qualificazione e della validità di clausole che prevedano la variazione degli interessi dovuti dall’utilizzatore d’un bene concesso in leasing, in funzione delle oscillazioni d’un indice, sia finanziario che monetario, non possa propriamente parlarsi dell’esistenza d’un contrasto nella giurisprudenza della Corte.

Sulla distinzione tra “derivati impliciti” e clausole di indicizzazione, le Sezioni Unite affermano che una clausola inserita in un contratto di leasing, la quale faccia dipendere gli interessi dovuti dall’utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario, non è uno strumento finanziario derivato, né un “derivato implicito”. Infatti, gli “strumenti finanziari derivati” sono accordi negoziali definiti dall’art. 1 d. lgs. 58/98, mentre la clausola del contratto in esame non è uno strumento finanziario derivato in base alla normativa vigente ratione temporis, posto che “Strumento finanziario derivato”, per la legge vigente, è solo l’operazione che rientra tra quelle definite come tali dal d. lgs. 58/98, e concordate nell’ambito delle operazioni previste dal suddetto testo unico. Questi “strumenti finanziari derivati” sono: -) o quelli previsti dall’Allegato I al d. lgs. 58/98, Sezione “C”, punti 4-10 [art. 1, comma 2 ter, lettera (a), d. lgs. 58/98]; -) o quelli individuati dal Ministro dell’economia con proprio decreto (art. 1, comma 2 bis, d. lgs. 58/98). Tuttavia, nessuna delle previsioni contenute nelle suddette norme è tale da includere, senza residui, la clausola di “rischio cambio” concordata dalle parti del giudizio.

Quindi, le Sezioni Unite escludono la ricorrenza nel caso di specie d’una ipotesi di “derivati connessi a merci” (d. lgs. 58/98, Allegato I, Sezione C. nn. 5, 6 e 7), di “derivati per il trasferimento del rischio di credito” (Allegati I, cit., n. 8), di derivati connessi a “variabili climatiche, tariffe di trasporto, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali” (Allegato I, cit., n. 10).

Resterebbero dunque soltanto le ipotesi di cui ai nn. 4 e 9, e cioè: -) n. 4: Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti; -) n. 9: contratti finanziari differenziali. Tuttavia, secondo il Collegio, la clausola in esame non è sussumibile in alcuna di queste categorie, per la semplice ragione che attraverso essa le parti non hanno scambiato nulla, né hanno inteso trarre frutto da uno scambio di valori comunque determinati.

Il contratto aveva infatti ad oggetto “la locazione finanziaria dell’immobile ivi catastalmente indicato”.

Per effetto di esso, la società concedente ha assunto l’obbligo di acquistare l’immobile, la società utilizzatrice quello di goderne e restituire le rate e nessun “reciproco scambio di flussi di denaro” era previsto tra le parti, né fu interesse delle parti concludere quel contratto per lucrare sulle previste fluttuazioni valutarie, e per coprire un rischio di credito.

Infine, secondo la Corte, la clausola di “rischio cambio” inserita nel contratto di leasing oggetto del giudizio non può qualificarsi “strumento finanziario derivato” nemmeno facendo ricorso all’analogia, per due ragioni: sia perché la sua causa - per quanto dedotto dalle parti - nulla ha in comune con quella degli “strumenti finanziari derivati” elencati dalla legge; sia perché è privo di alcuni elementi essenziali che accomunano la maggior parte degli strumenti finanziari derivati tipici.

Ancora, le Sezioni Unite hanno evidenziato che il contratto di leasing ha sempre una funzione anche di finanziamento, ed un finanziamento può legittimamente essere concesso in valuta nazionale od in valuta estera. In particolare, un finanziamento in valuta estera ha lo scopo di evitare i rischi connessi alla svalutazione della moneta nazionale e cioè il rischio della svalutazione per il creditore, e il rischio della rivalutazione per il debitore. Per il Collegio, un finanziamento (non importa se in forma di mutuo o di leasing) il cui importo è parametrato ad un rapporto di cambio, è un debito di valore e non di valuta, pertanto, l’aleatorietà del contratto, lungi dal costituire un indice della presenza d’un “derivato implicito”, non è che un effetto naturale d’una altrettanto normale clausola-valore, la previsione che eventuali conguagli a favore dell’una o dell’altra parte fossero regolati a parte, e non incidessero sul valore della rata che restava costante non è che una modalità esecutiva delle reciproche obbligazioni, insuscettibile di riverberare effetti di sorta sulla qualificazione del contratto. Il titolo dell’obbligazione, infatti, non muta solo perché cambi il termine di adempimento e il creditore ha facoltà di accettare un adempimento parziale (art. 1181 c.c.) o di rinunciare al termine stabilito a suo favore (art. 1185 c.c.), e ciò dimostra che la possibilità di regolare a parte alcune delle obbligazioni e non altre, oppure una aliquota dell’unica obbligazione, è un effetto normale dello statuto delle obbligazioni civili.

Le Sezioni Unite aggiungono, poi, che le considerazioni sin qui svolte non mutano per il fatto che il contratto prevedeva una doppia indicizzazione, agganciando le variazioni del canone sia alle variazioni del tasso LIBOR, sia alle variazioni del rapporto di cambio franco/euro, infatti: a) l’indicizzazione del canone al tasso LIBOR costituisce una normale clausola onnipresente nei finanziamenti a tasso variabile; essa è pacificamente lecita e non costituisce un derivato; b) l’indicizzazione del canone alle fluttuazioni del rapporto di cambio costituisce una clausola-valore, secondo quanto appena esposto; così inquadrata, per il Collegio, anch’essa è pacificamente lecita e non costituisce un derivato.

Si afferma, in conclusione, sostenibile che dalla combinazione di due clausole, tutte e due lecite e non costituenti uno strumento finanziario derivato, possa sorgere un contratto illecito e che costituisca uno strumento finanziario derivato.

Per le Sezioni Unite, la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti, rispetto a quelli scaturenti dallo schema contrattuale tipico, non è di per sé sufficiente a concludere che quel contratto, mercé la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato causa e natura. Questo è il principio che emerge, inequivoco, anche dall’analisi della giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale - ad esempio - ha ritenuto che: -) il contratto di concessione del diritto d’uso (art. 1021 c.c.) non muta causa sol perché sia imposto un facere a carico del proprietario della cosa (Sez. 2, Sentenza n. 462 del 17/02/1955, Rv. 880375 - 01); -) il contratto di associazione tra professionisti (ex lege 1815/1939) non muta causa sol perché preveda la possibilità che il singolo associato sia escluso e, dunque, l’applicazione di questo principio alle clausole di “rischio cambio” come quelle oggetto del caso di specie, impone di concludere che esse non mutano la causa del contratto di leasing. Infatti, la presenza della suddetta clausola non basta per sostenere che fosse volontà del concedente concludere il contratto al solo fine di speculare sul tasso di cambio.

Infine, le Sezioni Unite si soffermano sui concetti di meritevolezza e rispetto dei doveri di buona fede, affermando essere questioni distinte e separate, in quanto un contratto invalido può essere eseguito in buona fede, così come uno valido può essere eseguito in mala fede e il giudizio di meritevolezza serve a stabilire se il contratto possa produrre effetti, mentre il giudizio sul rispetto della buona fede serve a stabilire molte cose: prima della stipula può servire a stabilire se il consenso di una delle parti sia stato carpito con dolo o dato per errore; dopo la stipula, può servire a stabilire come debba interpretarsi il contratto (art. 1366 c.c.); dopo l’adempimento, può servire a stabilire se questo sia stato inesatto (art. 1375 c.c.). Ancora, si evidenzia che il contratto immeritevole è improduttivo di effetti, mentre il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno.

Alla luce di questi princìpi, il Collegio conclude che la sola pattuizione di una clausola di rischio cambio come quella oggetto del giudizio non può costituire, da sola, violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario e, in ogni caso, anche l’eventuale violazione dei suddetti doveri di correttezza nella fase delle trattative e di buona fede nell’esecuzione del contratto, non potrebbe condurre ad una dichiarazione di “immeritevolezza” del contratto. Quelle violazioni potrebbero condurre teoricamente solo all’annullamento del contratto per vizio del consenso (errore o dolo), oppure all’affermazione di una responsabilità precontrattuale, od ancora al risarcimento del danno.

 

  1. I principi di diritto

In definitiva, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione cassano la sentenza impugnata ed enunciano i seguenti principi di diritto:

  • il giudizio di “immeritevolezza” di cui all’art. 1322, secondo comma, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà”;
  • la clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d. lgs. 58/98”.