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Anno XVII - n. 05 - Maggio 2025

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L’affidamento diretto alla luce del D.lgs. 209/2024: inquadramento normativo, profili di legittimità e prospettive applicative

Di Antonio Turtoro
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L’affidamento diretto alla luce del D.lgs. 209/2024: inquadramento normativo, profili di legittimità e prospettive applicative

 

Di Antonio Turtoro

 

Abstract

L’evoluzione del quadro normativo in materia di appalti pubblici ha portato a una riforma sostanziale degli affidamenti diretti, strumento attraverso il quale si seleziona il contraente senza ricorrere a procedure di gara. Le modifiche introdotte dai decreti legislativi D.Lgs. 36/2023 e D.Lgs. 209/2024 mirano a consolidare i principi di trasparenza, concorrenza e legalità, attraverso una serie di interventi normativi finalizzati a razionalizzare e semplificare la disciplina degli affidamenti sotto soglia. In particolare, l’abolizione del cottimo fiduciario e la revisione dei criteri di selezione, unitamente all’introduzione di misure più rigorose in tema di rotazione degli operatori economici, sono strumenti tesi a prevenire pratiche illecite e a garantire l’imparzialità delle procedure. Queste novità si inseriscono in un contesto più ampio di rafforzamento delle garanzie contro il rischio di conflitti di interesse e di abuso di potere, con un significativo ampliamento della responsabilità penale, in relazione non solo alla gestione dei contratti, ma anche alle ipotesi di proroghe illegittime e agli affidamenti diretti non adeguatamente giustificati. Il presente lavoro si propone di analizzare in profondità tali riforme, esplorando le implicazioni giuridiche connesse agli istituti modificati e offrendo una rassegna delle principali pronunce giurisprudenziali che continuano a influire sull'interpretazione e sull’applicazione delle norme. Viene inoltre tracciato un percorso interpretativo utile agli operatori del settore pubblico, per una corretta gestione delle procedure di affidamento diretto, nell'ambito di un sistema giuridico in continua trasformazione.

The evolution of the regulatory framework in public procurement has led to a substantial reform of direct awards, a method for selecting contractors without resorting to tender procedures. The amendments introduced by Legislative Decree No. 36/2023 and Legislative Decree No. 209/2024 aim to reinforce the principles of transparency, competition, and legality, through a series of regulatory interventions designed to streamline and simplify the regulation of under-threshold awards. Specifically, the abolition of the fiduciary contract and the revision of selection criteria, along with the introduction of more stringent measures regarding the rotation of economic operators, serve as mechanisms to prevent unlawful practices and ensure impartiality in the procurement process. These reforms are part of a broader effort to strengthen safeguards against the risk of conflicts of interest and abuse of power, with a notable expansion of criminal liability related not only to contract management but also to unlawful extensions and unjustified direct awards. This article aims to thoroughly analyze these reforms, exploring the legal implications associated with the modified institutions and providing a review of the key judicial rulings that continue to influence the interpretation and application of the law. Furthermore, it outlines an interpretive path useful for public sector operators, to ensure proper management of direct award procedures within a continuously evolving legal system.

 

  1. Inquadramento Normativo dell’Affidamento Diretto

L’istituto dell’affidamento diretto si configura quale meccanismo di aggiudicazione peculiare nell’ambito della contrattualistica pubblica, rappresentando una deroga rispetto al paradigma concorsuale che impronta il sistema degli appalti pubblici. La disciplina codicistica, consolidata nell’articolo 50 del d.lgs. 36/2023, recentemente oggetto di un significativo intervento riformatore mediante l’emanazione del D.lgs. 209/2024 (c.d. “Correttivo”), delinea con precisione i limiti e le condizioni di operatività di tale strumento, imponendo un equilibrio tra l’istanza di celerità amministrativa e il rispetto dei principi fondanti della materia.

Il carattere derogatorio dell’istituto non può, tuttavia, tradursi in un’incontrollata discrezionalità delle stazioni appaltanti, le quali restano vincolate ai principi di trasparenza, imparzialità, proporzionalità e non discriminazione, sanciti dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e trasposti nell’ordinamento nazionale attraverso la disciplina codicistica. L’assenza di un confronto competitivo formale, infatti, non esonera le amministrazioni dall’obbligo di garantire una selezione del contraente fondata su criteri oggettivi e verificabili, in modo da prevenire condotte elusive che possano alterare il regolare funzionamento del mercato degli appalti pubblici.

In tale prospettiva, la giurisprudenza ha più volte chiarito che l’affidamento diretto, pur essendo caratterizzato da una minore rigidità procedurale rispetto alle procedure di gara, non può essere inteso quale strumento di mera semplificazione burocratica, dovendo invece rispondere a requisiti di logicità, coerenza e congruità economica. Sul punto, il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza n. 503 del 15 gennaio 2024, ha affermato che:

“La mera procedimentalizzazione dell’affidamento diretto, con acquisizione di più preventivi e individuazione di criteri di selezione degli operatori, non lo trasforma in una procedura di gara.”.

A rafforzare tale orientamento, il TAR Lazio, Sez. II bis, con la sentenza n. 19840 dell’11 novembre 2024, ha ribadito che:

“L’affidamento diretto, anche se preceduto da un’indagine di mercato e dalla definizione di alcuni adempimenti procedurali, resta comunque una modalità di affidamento autonoma, distinta sia dalla procedura negoziata che dalle altre procedure ordinarie, caratterizzata da un elevato grado di informalità e semplificazione.”.

Questa impostazione giurisprudenziale trova pieno riscontro nella recente evoluzione normativa, che ha rafforzato gli obblighi di tracciabilità e pubblicità, al fine di scongiurare un uso distorto dell’istituto, volto a cristallizzare posizioni di rendita per determinati operatori economici.

L’intervento normativo operato dal D.lgs. 36/2023 ha inciso in modo rilevante sull’ambito applicativo dell’affidamento diretto, ridefinendo le soglie economiche entro cui le amministrazioni possono legittimamente ricorrere a tale modalità di aggiudicazione. L’attuale quadro normativo prevede che:

  • Per i lavori, l’affidamento diretto sia consentito fino alla soglia di 150.000 euro;
  • Per i servizi e le forniture, l’affidamento diretto sia ammesso sino all’importo di 140.000 euro.

L’innalzamento delle soglie rispetto alla disciplina previgente ha determinato un ampliamento delle fattispecie suscettibili di rientrare nell’ambito applicativo dell’affidamento diretto, consentendo alle amministrazioni di avvalersi di tale strumento in un numero significativamente maggiore di procedure. Tuttavia, con particolare riguardo al D.lgs. 209/2024, tale ampliamento è stato bilanciato dall’introduzione di maggiori vincoli motivazionali finalizzati a scongiurare la degenerazione dell’istituto in un meccanismo di assegnazione sistematica dei contratti pubblici in assenza di qualsiasi forma di concorrenzialità. L’affidamento diretto non può costituire una modalità ordinaria e generalizzata di selezione del contraente, dovendo le amministrazioni dimostrare in modo inequivocabile che la scelta dell’operatore economico sia giustificata da valutazioni di convenienza, economicità e specificità della prestazione richiesta (cfr., Consiglio di Stato, Sez. III, sent. 7896/2024).

In tale direzione si è espresso, il TAR Lombardia, Milano, con la sentenza n. 1778 dell’11 giugno 2024, evidenziando che (cfr., analogamente, Tar Lombardia, Milano, sez. IV, sent. n. 2968/2023):

“La chiara indicazione della norma applicata, l’importo del servizio oggetto di affidamento, inferiore alla soglia dei 140.000 euro, la previsione di un mero confronto tra preventivi e l’assenza di una commissione giudicatrice nominata per la valutazione delle offerte, palesano la volontà dell’amministrazione di ricorrere ad una modalità di affidamento diretto e non ad una procedura di carattere comparativo.”.

Al fine di garantire che l’affidamento diretto non si traduca in una modalità di gestione opaca e potenzialmente discriminatoria, il D.lgs. 209/2024 ha rafforzato gli obblighi di pubblicità e trasparenza.

Il TAR Campania, con la sentenza n. 3124/2024, ha evidenziato la stretta correlazione tra l’obbligo di pubblicità degli affidamenti diretti e il principio di trasparenza, chiarendo che:

“L’omessa pubblicazione degli atti di affidamento diretto integra una violazione dei principi di pubblicità e accessibilità dell’azione amministrativa, determinando l’illegittimità dell’atto e l’obbligo per la stazione appaltante di rinnovare la procedura.”

Inoltre, si evidenzia come il TAR Lombardia, Milano, con la sentenza n. 28/2025, abbia ribadito che:

“Laddove l’amministrazione, pur nell’ambito di un affidamento diretto, adotti strumenti di selezione formalmente aperti a più operatori economici, si configura una procedura negoziata e non un affidamento diretto, con conseguente necessità di applicare le regole proprie delle gare pubbliche.”

Dalle precedenti traiettorie argomentative emerge, dunque, che l’affidamento diretto, pur rappresentando un istituto di semplificazione, non può prescindere dal rispetto di regole stringenti in materia di trasparenza e motivazione, le quali si pongono come garanzia della correttezza dell’azione amministrativa e della tutela del principio di concorrenza nel mercato degli appalti pubblici.

 

  1. Il Principio di Rotazione e la Motivazione negli Affidamenti Diretti

L’articolo 49 del d.lgs. 36/2023, come successivamente integrato e modificato dal d.lgs. 209/2024, disciplina il principio di rotazione, imponendo alle stazioni appaltanti l’obbligo di non reiterare affidamenti in favore dello stesso operatore economico senza una adeguata e rigorosa motivazione. Tale previsione normativa trova la propria ratio nell’esigenza di garantire un’effettiva apertura del mercato, scongiurando il consolidamento di posizioni dominanti e assicurando un’equa distribuzione delle opportunità tra gli operatori economici qualificati.

Il principio di rotazione si configura, pertanto, non come un mero criterio di buona amministrazione, bensì come un vincolo procedimentale inderogabile, la cui violazione può determinare l’illegittimità dell’affidamento e l’annullabilità dell’atto, nonché eventuali profili di responsabilità erariale per il dirigente responsabile del procedimento.

Sul punto, la giurisprudenza ha costantemente affermato che la rotazione degli affidamenti non deve essere intesa come una limitazione ingiustificata della libertà di scelta dell’amministrazione, ma piuttosto come uno strumento di tutela della concorrenza e di prevenzione di fenomeni distorsivi, quali il favoritismo e il consolidamento di rapporti contrattuali esclusivi tra enti pubblici e singoli operatori economici.

Il principio di rotazione non si traduce in un automatismo tale da escludere ex ante la possibilità per un operatore economico già affidatario di ottenere un successivo incarico, bensì impone che, in tali ipotesi, l’amministrazione dia conto, con una motivazione puntuale e rigorosa, delle ragioni per le quali il rinnovo dell’affidamento risulti maggiormente conveniente e conforme all’interesse pubblico rispetto all’individuazione di un nuovo operatore. L’amministrazione, ad esempio, non può ritenere superato il principio di rotazione mediante un generico richiamo alla qualità delle prestazioni rese dall’affidatario uscente, dovendo invece dimostrare, sulla base di un’istruttoria dettagliata, l’insussistenza di alternative concretamente percorribili sul mercato e l’effettiva convenienza dell’affidamento reiterato rispetto a una nuova selezione.

Ne consegue che il principio di rotazione non si configura come un divieto assoluto di riaffidamento nei confronti del medesimo operatore economico, bensì come un criterio volto a razionalizzare l’assegnazione dei contratti pubblici, imponendo che ogni eventuale deroga sia sorretta da un’adeguata e verificabile motivazione.

L’articolo 49, comma 5, del D.lgs. 36/2023, nella sua attuale formulazione, chiarisce che il principio di rotazione non trova applicazione nei casi in cui la selezione dell’operatore economico avvenga mediante una procedura negoziata preceduta da un’indagine di mercato aperta a tutti gli operatori in possesso dei requisiti richiesti. Tale previsione è stata oggetto di interpretazione da parte della giurisprudenza, che ha individuato criteri stringenti per l’applicazione della deroga, evidenziando come l’adozione di un avviso pubblico non possa costituire un mero espediente per eludere l’obbligo di rotazione.

Il TAR Lombardia, Milano, Sez. I, con la sentenza n. 28/2025, ha affermato che:

“Laddove l’amministrazione avvii un’indagine di mercato mediante la pubblicazione di un avviso pubblico aperto, senza limitazioni di accesso per gli operatori economici qualificati, la logica della rotazione viene meno, in quanto la selezione avviene in un contesto di effettiva competizione. Tuttavia, l’utilizzo dell’avviso pubblico non deve tradursi in una simulazione di confronto concorrenziale finalizzata a giustificare affidamenti reiterati ai medesimi soggetti.”

Tale decisione si inserisce in un filone giurisprudenziale volto a contrastare il fenomeno della “procedimentalizzazione eccessiva” dell’affidamento diretto, ossia la tendenza delle amministrazioni ad adottare meccanismi selettivi formalmente aperti per legittimare il superamento del principio di rotazione, senza che ciò corrisponda a un’effettiva apertura del mercato. L’affidamento diretto, quindi, non può essere preceduto da un’indagine di mercato che, di fatto, assuma le caratteristiche di una selezione competitiva strutturata, pena la necessità di ricondurre l’intera procedura nell’ambito delle procedure negoziate con applicazione delle relative disposizioni di trasparenza e parità di trattamento.

In tale contesto, assume rilevanza l’obbligo, per le stazioni appaltanti, di effettuare un’adeguata istruttoria e di giustificare, in maniera dettagliata e documentata, le ragioni del mancato rispetto della rotazione, evitando che tale scelta sia frutto di una valutazione arbitraria o discrezionale.

L’inosservanza del principio di rotazione determina effetti invalidanti sull’affidamento, con ripercussioni di rilevante portata sotto il profilo della responsabilità amministrativa. La giurisprudenza amministrativa ha consolidato l’orientamento per cui la violazione del suddetto principio non costituisce una mera irregolarità procedurale, bensì un vizio di legittimità sostanziale, che travalica l’ambito della semplice irregolarità formale, incidendo direttamente sul principio di par condicio tra gli operatori economici, precludendo, al contempo, l’accesso al mercato da parte di nuovi soggetti e distorcendo il regolare svolgimento delle procedure di selezione. In tal modo, la ripetizione dell’affidamento a favore dello stesso operatore economico, in assenza di una motivazione adeguata e rigorosa, introduce un disvalore giuridico tale da compromettere la legittimità dell’atto amministrativo.

Parimenti, la reiterazione sistematica di affidamenti diretti, priva di giustificazione congruente, può costituire un danno erariale, laddove emerga che tale prassi abbia cagionato un pregiudizio economico per l’ente pubblico, ostacolando l’adozione di condizioni contrattuali più favorevoli rispetto a quelle che si sarebbero potute conseguire attraverso una nuova selezione di mercato, aperta e trasparente.

In questa prospettiva, la violazione del principio di rotazione non si configura quale mera irregolarità procedurale, ma come un vizio che incide sull’interesse pubblico, determinando l’invalidità dell’atto amministrativo in quanto contrario ai principi codicistici e giurisprudenziali che regolano le procedure di affidamento. È altresì pacifico che tale illegittimità può essere rilevata anche in sede di autotutela, senza che ciò comporti un pregiudizio sproporzionato per l’operatore economico, fermo restando che l’annullamento in autotutela deve rispondere a principi di ragionevolezza e proporzionalità, evitando il periculum in mora nei confronti dell'affidatario, senza trasgredire la tutela dell'affidamento legittimo.

 

  1. L’Equo Compenso e la sua Applicazione negli Affidamenti Diretti

L’introduzione del principio dell’equo compenso nell’ambito degli appalti pubblici, e segnatamente negli affidamenti diretti, ha rappresentato una novità normativa di fondamentale rilievo, seguita dall’introduzione delle disposizioni correttive contenute nel D.Lgs. 209/2024. Tale evoluzione legislativa si inserisce in un quadro più ampio di riforma della contrattualistica pubblica, volto a garantire non solo la sostenibilità economica delle prestazioni contrattuali, ma anche la tutela dell’operatore economico da potenziali forme di sfruttamento e da pratiche che possano alterare la concorrenza, generando effetti di distorsione del mercato. A tale riguardo, la materia dell'equo compenso assume un'importanza cruciale, poiché non si limita a configurarsi come un semplice parametro economico, bensì come un principio che riveste una funzione di ordine pubblico economico, funzionale alla tutela degli interessi pubblici e privati nel contesto dei contratti pubblici.

Il legislatore, infatti, nel suo intervento riformatore ha inteso porre rimedio a situazioni in cui l'assenza di parametri chiari e vincolanti per la determinazione del corrispettivo da parte delle stazioni appaltanti avrebbe potuto favorire, in assenza di adeguate salvaguardie, l’instaurarsi di pratiche di ribasso eccessivo, con il rischio di compromettere non solo la qualità dell’opera, ma anche la stessa sostenibilità economica dell’affidamento. L’equo compenso, come stabilito dalla Legge n. 49/2023, intende cristallizzare un principio che assicuri la proporzione tra il valore del servizio prestato e il compenso che l’operatore è chiamato a ricevere, garantendo al contempo il rispetto del principio di concorrenza previsto dal Codice dei Contratti Pubblici, nonché la regolarità e la trasparenza delle procedure di aggiudicazione.

L’equo compenso trova la sua radice nell’articolo 8 del Codice dei Contratti Pubblici, laddove si stabilisce che la pubblica amministrazione deve garantire un corrispettivo che sia “proporzionato alla qualità e alla quantità della prestazione prestata, nonché ai costi effettivamente sostenuti dal prestatore d’opera”. L'introduzione del D. Lgs. 209/2024, che ha modificato l’art. 41 del Codice, ha, però, reso necessaria una revisione delle disposizioni precedenti, introducendo meccanismi specifici per l’applicazione del principio dell’equo compenso nelle procedure di affidamento diretto. La questione dell’equo compenso non si limita a una mera determinazione economica del corrispettivo, bensì incide su un aspetto più ampio, ossia quello della sostenibilità dell’offerta economica presentata dai professionisti. L’obiettivo perseguito dal legislatore è duplice: da un lato, evitare che la pubblica amministrazione possa abusare della propria discrezionalità nell’imporre condizioni economiche gravose, talvolta inferiori al valore effettivo della prestazione; dall’altro, evitare che il mercato degli appalti si sviluppi secondo logiche distorsive, dove il ribasso dei compensi diventi un modus operandi eccessivo e dannoso per la qualità del servizio.

L’introduzione della Legge n. 49/2023, che pone al centro la determinazione del corrispettivo in base a parametri oggettivi, si traduce in una norma di ordine pubblico, la cui violazione potrebbe comportare la nullità delle clausole contrattuali non conformi. A tale proposito, l’art. 9 del D.L. n. 1/2012, come modificato dal Decreto Parametri del 17 giugno 2016, stabilisce con precisione i parametri minimi per il compenso di professionisti come ingegneri e architetti, indicando un limite inferiore al quale non è possibile scendere, pena il rischio di incorrere in sanzioni disciplinari o nella nullità del contratto. In questo modo, il legislatore intende evitare che le amministrazioni possano indurre i professionisti ad accettare condizioni di lavoro che, pur formalmente accettabili, risultano materialmente inadeguate e dannose per la qualità dell’opera.

Nel quadro degli affidamenti diretti, che per definizione sono caratterizzati da una procedura semplificata e rapida, l’obiettivo dell’equo compenso è particolarmente rilevante. Sebbene gli affidamenti diretti abbiano il vantaggio di accelerare i tempi di aggiudicazione, riducendo la complessità delle gare pubbliche, essi rischiano tuttavia di tradursi in distorsioni della concorrenza qualora le amministrazioni appaltanti non siano vincolate da specifici limiti economici nella determinazione dei corrispettivi. Infatti, la discrezionalità concessa alle amministrazioni nel fissare il corrispettivo potrebbe incentivare una sorta di “prezzo ribassato”, a discapito della qualità del servizio e della dignità economica del professionista.

Il legislatore, al fine di scongiurare tale rischio, ha introdotto nel D.Lgs. 209/2024, con l’aggiunta dell’art. 41, comma 15-bis, una previsione che stabilisce che per gli affidamenti diretti di importo superiore a 140.000 euro, i corrispettivi dovranno essere determinati in linea con i parametri fissati dal Decreto Ministeriale 17 giugno 2016, e che il valore a base di gara dovrà considerare l’intero importo comprensivo non solo del compenso, ma anche degli oneri e delle spese accessorie. In tal modo, pur consentendo una certa flessibilità nelle procedure, il legislatore ha inteso limitare la possibilità di “ribassi” non giustificabili eccessivamente sui corrispettivi professionali, stabilendo che la componente economica che costituisce l’importo a base di gara non possa essere ridotta a livelli tali da compromettere la qualità dell’opera o la sostenibilità economica del contratto.

L’adozione di un meccanismo che limiti il ribasso sui corrispettivi, pur consentendo una certa libertà di offerta economica, riflette il tentativo del legislatore di bilanciare due esigenze fondamentali: da un lato, garantire la concorrenza leale tra gli operatori economici, evitando che il meccanismo degli affidamenti diretti diventi un incentivo a pratiche di concorrenza sleale che si fondano esclusivamente sul prezzo; dall’altro, assicurare che l’operatore economico riceva un compenso che rispecchi in modo adeguato il valore della prestazione fornita. In tal senso, la previsione di un tetto massimo al ribasso per gli affidamenti diretti di importo inferiore a 140.000 euro, pari al 20% del corrispettivo, rappresenta un’importante garanzia per evitare che la concorrenza possa degenerare in una spirale di ribassi eccessivi che minano la qualità delle prestazioni.

Il Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 50/2016), all’art. 108, stabilisce che l’aggiudicazione degli appalti pubblici debba avvenire sulla base dell’offerta economicamente più vantaggiosa. In tale contesto, le offerte economiche possono essere oggetto di ribasso, ma non oltre determinati limiti, fissati dalla Legge n. 49/2023. Questo approccio evidenzia la volontà di tutelare un equilibrio giuridico tra il rispetto dei principi di concorrenza e l’esigenza di garantire la qualità delle prestazioni. In effetti, il sistema normativo recentemente riformato consente che, pur in presenza di concorrenza tra gli operatori, il compenso debba riflettere adeguatamente la qualità e la quantità della prestazione professionale.

Il sistema degli affidamenti diretti, seppur caratterizzato da procedure semplificate, non può essere esente da garanzie idonee a tutelare sia la concorrenza che la qualità delle prestazioni. Il principio dell’equo compenso si configura come un baluardo contro la distorsione del mercato e come strumento di riequilibrio nelle relazioni contrattuali tra la pubblica amministrazione e gli operatori economici. Il legislatore, attraverso il D.Lgs. 209/2024, ha saputo integrare le esigenze di sostenibilità economica, trasparenza e giustizia economica, promuovendo un sistema che non solo garantisce il giusto compenso per i professionisti, ma evita anche che la discrezionalità delle amministrazioni possa pregiudicare l’integrità e l’efficacia delle procedure di affidamento, senza compromettere il principio di concorrenza.

 

  1. Giurisprudenza recente: La Sentenza TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 28/2025.

L’ordinanza giurisprudenziale emessa dal TAR Lombardia, Milano, Sez. I, con la sentenza n. 28/2025, assume un ruolo di primaria rilevanza nell’ambito del dibattito giuridico sulla distinzione tra affidamento diretto e procedura negoziata, ponendo in evidenza le implicazioni derivanti dalla pubblicazione di un avviso pubblico a manifestare interesse. L’intervento giurisprudenziale in esame, infatti, si colloca in un contesto interpretativo volto a delineare i confini tra la semplificazione procedurale propria dell’affidamento diretto e l’obbligo di competizione tra operatori economici tipico della procedura negoziata, chiarendo in quali circostanze il principio di rotazione debba ritenersi derogabile o, al contrario, vincolante per l’amministrazione procedente.

Il caso sottoposto all’attenzione del giudice amministrativo riguardava l’indizione, da parte di un ente pubblico, di un avviso pubblico per la selezione di operatori economici nell’ambito di un affidamento sottosoglia, con la successiva esclusione di un operatore economico già affidatario del servizio sulla base del principio di rotazione, di cui all’articolo 49 del d.lgs. 36/2023. L’operatore escluso ha impugnato l’atto di esclusione, ritenendo che la pubblicazione dell’avviso pubblico avesse determinato il superamento del principio di rotazione, in quanto la selezione era avvenuta in un contesto di apertura al mercato e non mediante affidamento diretto in senso stretto.

Il TAR Lombardia, Milano, Sez. I, nel pronunciarsi sul ricorso, ha stabilito che:

“Qualora l’amministrazione avvii una procedura negoziata con avviso pubblico sostanzialmente aperto a tutti gli operatori economici in possesso dei requisiti richiesti, il principio di rotazione non trova applicazione, in quanto la mancanza di limitazioni alla partecipazione configura un meccanismo selettivo concorrenziale, incompatibile con la ratio dell’affidamento diretto.”

Dalla lettura del provvedimento emerge come l’emanazione di un avviso pubblico a manifestare interesse non possa essere considerata una mera formalità, bensì un elemento qualificante della procedura, idoneo a incidere sulla natura stessa dell’affidamento. Laddove, infatti, l’amministrazione opti per una modalità di selezione che, di fatto, consenta la partecipazione indiscriminata di tutti gli operatori economici in possesso dei requisiti richiesti, viene meno il presupposto fondante del principio di rotazione, ossia la necessità di favorire un avvicendamento degli operatori in contesti di assegnazione diretta del contratto.

In tale prospettiva, la pronuncia del TAR conferma un orientamento giurisprudenziale già consolidatosi in precedenza, secondo cui la rotazione rappresenta un criterio di equilibrio per gli affidamenti diretti, ma non si applica qualora la selezione avvenga mediante procedure che garantiscano un confronto concorrenziale effettivo tra gli operatori economici.

Alla luce di tale impostazione, il TAR Lombardia ha ritenuto illegittima l’esclusione dell’operatore economico ricorrente, stabilendo che la pubblicazione dell’avviso pubblico aveva determinato l’inapplicabilità del principio di rotazione, trattandosi di una procedura caratterizzata da elementi di competitività idonei a garantire un accesso paritario al mercato.

L’impatto di tale pronuncia si riflette direttamente sulla prassi amministrativa delle stazioni appaltanti, le quali sono chiamate a valutare con attenzione le implicazioni derivanti dall’adozione di avvisi pubblici a manifestare interesse nell’ambito degli affidamenti sottosoglia. In particolare, la sentenza pone in evidenza il rischio di una procedimentalizzazione eccessiva dell’affidamento diretto, che potrebbe determinare l’obbligo di applicazione delle regole proprie delle procedure negoziate, con conseguenti vincoli più stringenti in termini di trasparenza, motivazione e obblighi di pubblicità.

L’utilizzo improprio di avvisi pubblici negli affidamenti diretti può determinare la riconduzione della procedura nell’alveo delle gare informali, con conseguente necessità di applicare integralmente la disciplina della selezione competitiva.

Di conseguenza, la pubblicazione di un avviso pubblico in un contesto di affidamento diretto non deve essere intesa come una mera formalità procedurale, bensì come un elemento che incide sulla qualificazione giuridica dell’intera procedura, potendo comportare l’obbligo per l’amministrazione di applicare le disposizioni proprie delle gare competitive.

L’utilizzo distorto della procedimentalizzazione negli affidamenti diretti, mediante l’adozione di strumenti di selezione formalmente aperti, può determinare profili di responsabilità amministrativa, laddove emerga che tale pratica abbia comportato un’irregolare gestione della spesa pubblica o un’alterazione del principio di libera concorrenza.

L’orientamento espresso dal TAR Lombardia pone un quesito centrale nella disciplina degli affidamenti diretti ovverosia fino a che punto è possibile adottare strumenti di selezione aperta senza perdere la natura derogatoria della procedura.

La risposta fornita dalla giurisprudenza più recente evidenzia come il ricorso a procedure selettive aperte comporti inevitabilmente una transizione dell’affidamento diretto verso un modello più assimilabile alla procedura negoziata, con la conseguenza che la rotazione non può più essere considerata un vincolo inderogabile, bensì un principio recessivo rispetto alla necessità di garantire una selezione aperta e imparziale.

In tale prospettiva, la sentenza n. 28/2025 del TAR Lombardia, Milano rappresenta un’importante affermazione del principio secondo cui la trasparenza e la concorrenza effettiva costituiscono fattori idonei a superare la logica della rotazione, purché l’apertura al mercato sia reale e non fittizia.

L’applicazione di tale principio richiede, tuttavia, un’adeguata motivazione da parte delle amministrazioni, le quali sono tenute a dimostrare che l’indagine di mercato sia stata condotta senza restrizioni discriminatorie e che l’accesso alla procedura sia stato garantito a tutti gli operatori qualificati, affinché l’atto di affidamento risulti conforme ai principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa.

Il D.Lgs. 36/2023 ha inciso significativamente sul principio di rotazione, ridefinendolo in seno all’art. 49 del Codice dei contratti pubblici, con l’intento di mantenere la sua centralità quale principio fondante negli affidamenti diretti, pur introducendo una dimensione di maggiore flessibilità e adeguatezza alla specificità delle fattispecie concrete. In particolare, il comma 5 dell’art. 49 stabilisce, in modo inequivocabile, che il principio di rotazione non sia applicabile nel caso in cui l’indagine di mercato sia condotta senza limitare il numero di operatori economici che, in possesso dei requisiti previsti, possono essere invitati a partecipare alla successiva procedura negoziata.

Tale previsione normativa trova un esplicito e autorevole riscontro nella consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, che, con la sentenza n. 2160 del 2022, ha ribadito come l’applicazione del principio di rotazione sia strettamente connessa alle modalità di selezione degli operatori economici. In particolare, nelle procedure di selezione aperta, ove non siano imposte limitazioni soggettive specifiche, il principio di rotazione perde la sua pregnanza, giacché il confronto competitivo garantisce di per sé la parità di trattamento e previene il consolidarsi di posizioni dominanti, determinando una condizione di par condicio tra i partecipanti.

Nonostante ciò, sarebbe inopportuno ridurre il principio di rotazione a una mera condizione "recessiva", in quanto la giurisprudenza più recente, come messo in evidenza dal TAR Puglia nella sentenza n. 254 del 2024, impone un bilanciamento accurato tra le diverse esigenze, con particolare attenzione alla necessità di una motivazione rigorosa che giustifichi l’applicazione di deroghe al principio stesso, nonché alla sussistenza di presupposti oggettivi che ne giustifichino l'eventuale applicazione in senso restrittivo.

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1385 del 2024, ha ulteriormente chiarito che la circostanza determinante per l’applicazione del principio di rotazione non risiede tanto nella modalità di selezione degli invitati, bensì nel fatto che la procedura sia effettivamente aperta, ossia che non vi siano limitazioni alla partecipazione. Pertanto, anziché parlare di una "transizione verso un modello assimilabile alla procedura negoziata", è più appropriato affermare che la legislazione e la giurisprudenza abbiano delineato un sistema in cui il principio di rotazione conserva la sua valenza, ma viene modulato in relazione alle modalità concrete di svolgimento della procedura, con particolare riguardo al grado di apertura al mercato. Tale approccio trova pieno fondamento nell’art. 17 del nuovo Codice dei contratti, che regola le fasi delle procedure di affidamento in una logica di proporzionalità e adeguatezza, tenendo conto delle specificità e della dimensione della procedura stessa.

Pertanto, non è corretto parlare di un generale e definitivo recessus del principio di rotazione, ma piuttosto di un’applicazione più articolata e contestualizzata del medesimo, che tenga conto delle caratteristiche specifiche della procedura di affidamento e della concreta apertura al mercato, nonché dei principi di proporzionalità e ragionevolezza che governano l’intero processo di selezione.

In parallelo, la pronuncia del TAR Lombardia, Sezione I, con sentenza n. 28 del 2025, solleva interrogativi di non secondaria rilevanza riguardo ai confini operativi tra l’affidamento diretto e la procedura negoziata. La Corte, infatti, pone l'accento sulla necessità imprescindibile di preservare l’essenza semplificata dell'affidamento diretto, evitando che tale procedimento venga indebitamente alterato e travalichi i limiti imposti dalla normativa, nonché le finalità proprie del procedimento medesimo. La “procedimentalizzazione” di tale affidamento, se non opportunamente calibrata, rischia di compromettere l'efficacia del processo di selezione, trasformandolo in una vera e propria gara, con l’involontaria applicazione di tutte le formalità proprie delle procedure competitive, che ne minerebbero la semplificazione e l’agilità. Ciò potrebbe dar luogo a problematiche giuridiche ed operative, complicando ulteriormente l’esecuzione degli affidamenti diretti, in violazione dei principi di efficienza e snellezza che caratterizzano la disciplina degli affidamenti diretti stessi.

In questo contesto, emerge con chiarezza la necessità di un'interpretazione rigorosa, ma allo stesso tempo flessibile, delle norme, tale da garantire il rispetto dei principi fondamentali del diritto amministrativo, senza incorrere in eccessivi formalismi che, anziché agevolare, finirebbero per ostacolare la corretta applicazione della normativa sugli affidamenti pubblici.

 

  1. La responsabilità penale nell’ambito degli appalti pubblici con particolare riguardo alla tematica delle proroghe e degli affidamenti diretti.

L’esame della disciplina codicistica, e più in particolare dell’art. 353-bis c.p., non può che partire da una considerazione preliminare: il reato di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente si configura, per sua natura, quale reato di pericolo concreto. La sua realizzazione non presuppone la concreta alterazione del risultato finale del procedimento, ma piuttosto l’alterazione dei presupposti di legalità e imparzialità che devono presidiare l’intero iter amministrativo. È sufficiente che si verifichi il turbamento della regolarità del procedimento amministrativo, senza che sia necessario il conseguimento effettivo del fine illecito, vale a dire la corruzione del contenuto del bando e della scelta del contraente.

In tal senso, l’integrazione del reato è possibile anche qualora non si verifichi una modifica del bando in sé, ma solo una situazione di concreto pericolo che la correttezza del procedimento venga compromessa. Ne è testimonianza la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui “il reato di turbata libertà del procedimento si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine, dovendo esso solo essere stato posto in pericolo” (Cass. Penale, Sez. VI, 10 aprile 2019, n. 15849).

Il reato in esame presuppone un turbamento del procedimento amministrativo tale da compromettere la libertà di scelta del contraente. Non occorre una distorsione effettiva del contenuto del bando, né tantomeno la prova che la scelta finale sia stata effettivamente influenzata da condotte illecite. Ciò che è richiesto è un turbamento oggettivo della procedura, che possa pregiudicare il corretto svolgimento della stessa. In tale ottica, la Corte di Cassazione ha precisato che, per la configurabilità del delitto, è sufficiente l’esistenza di un "accordo collusivo finalizzato ad alterare il normale svolgimento del procedimento, e ciò anche sulla base di elementi indiziari quali i rapporti pregressi tra le parti, la falsa prospettazione dei presupposti per l’adozione di una procedura in deroga, l’affidamento diretto senza interpello di altri operatori" (Cass. Penale, Sez. VI, 28 ottobre 2021, n. 5536).

La previsione dell’art. 353-bis c.p. si applica a tutte le ipotesi in cui il procedimento amministrativo sia viziato da condotte fraudolente, che possano inquinare l’iter di selezione del contraente. Tale norma ha avuto una peculiare evoluzione interpretativa, come emerge dalla sentenza Cass. Penale, Sez. VI, 28 ottobre 2022, n. 45709, la quale ha delineato una distinzione importante: "non è configurabile il reato quando il procedimento di scelta sia svincolato da qualsiasi schema concorsuale, ovvero quando la decisione di procedere all’affidamento diretto sia il risultato di condotte perturbatrici volte a evitare la gara".

Anche nei casi di affidamenti sotto soglia, come prescritto dal Codice dei contratti pubblici, l’affidamento diretto non può prescindere dal rispetto dei principi di trasparenza e concorrenza. Il Codice dei contratti, e in particolare l’art. 49 del D.Lgs. n. 36 del 2003, sancisce l’obbligo di rotazione negli affidamenti, quale garanzia di non discriminazione e di equa concorrenza. In tale contesto, la decisione di procedere ad un affidamento diretto, senza il ricorso ad una procedura competitiva, deve essere giustificata dalla necessità di evitare danni o dispendi amministrativi ingiustificati. La violazione di tale principio costituisce una condotta illeceità che, qualora sia determinata da finalità clientelari, rischia di concretizzare una turbativa del procedimento di scelta del contraente.

A sostegno di questa impostazione, la giurisprudenza ha ulteriormente chiarito che l'affidamento diretto, quando non giustificato da circostanze oggettive, può configurare una condotta penalmente rilevante. La giurisprudenza, infatti, rileva che "la turbativa, ai sensi dell’art. 353-bis c.p., è configurabile ogniqualvolta la decisione di procedere ad un affidamento diretto possa essere frutto di condotte che abbiano come obiettivo l'elusione delle procedure concorsuali" (Cass. Penale, Sez. VI, 5 aprile 2018, n. 29267).

In un caso specifico, esaminato dalla Cassazione, si è giunti ad una pronuncia di grande rilievo in cui è stato sottolineato come la turbativa possa sussistere anche quando si provi la falsa attestazione della necessità di lavori supplementari al fine di legittimare un affidamento diretto. Il dirigente accusato avrebbe, infatti, falsificato la natura dei lavori per eludere l’obbligo di indire una gara, comportandosi in tal modo in palese contrasto con i principi della concorrenza e della trasparenza, che sono i cardini della disciplina degli appalti pubblici (Cass. Penale, Sez. VI, 10 aprile 2019, n. 15849).

Le questioni relative al principio di rotazione e alle modalità di affidamento degli incarichi "sotto soglia" sono centrali nella ricostruzione delle fattispecie incriminatrici. L’art. 49 del D.Lgs. n. 36/2003 prevede che, in caso di affidamento diretto, sia necessario rispettare un principio di rotazione in relazione a un arco temporale definito e a parità di settore merceologico. La violazione di questo principio costituisce un illecito in quanto impedisce il rispetto delle garanzie di imparzialità e concorrenza. In assenza di una procedura comparativa, quindi, il principio di rotazione non può ritenersi adempiuto, come evidenziato dalla giurisprudenza che ha escluso la configurabilità del reato in assenza di una reale procedura di selezione concorrenziale (Cass. Penale, Sez. V, 26 ottobre 2022, n. 45709).

L’impostazione della Corte di Cassazione è stata chiara nel confermare che non può configurarsi il reato quando la decisione di procedere all’affidamento diretto sia il risultato di condotte di tipo clientelare o corruttivo, volte a manipolare il corretto andamento del procedimento. È necessario, pertanto, che le autorità competenti compiano una rigorosa analisi delle modalità di affidamento, al fine di evitare che la discrezionalità amministrativa venga utilizzata come strumento di elusione delle procedure di gara, a danno della concorrenza e della buona amministrazione.

L’annullamento con rinvio dell’ordinanza in relazione agli addebiti provvisori solleva una questione cruciale: l'esigenza di una lettura integrata e non monodimensionale della partecipazione del soggetto indagato all’associazione per delinquere. La giurisprudenza ha, infatti, da tempo chiarito che la mera adesione a un sodalizio criminale non necessariamente si esplica in comportamenti penalmente autonomi, ma può configurarsi attraverso una relazione complessa di condotte e decisioni. In tale ottica, la mera “disponibilità ad assecondare” non può essere riduttivamente interpretata, ma deve essere vista come un elemento integrante di una trama più articolata di condizionamenti, che compromette la correttezza amministrativa e la libera concorrenza. L’ordinanza in oggetto, pur mettendo in evidenza la genericità delle intercettazioni, non può tuttavia ignorare il livello di gravità indiziaria, che, sebbene non determinato da prove univoche, non può essere ritenuto manifestamente irragionevole. La motivazione della sentenza, pur non fornendo una base solida in relazione all’adesione attiva e concreta del soggetto al sodalizio criminale, riconosce comunque l’esistenza di un sistema di condizionamenti clientelari che permea il funzionamento di varie amministrazioni pubbliche.

Il contesto normativo riguardante l’affidamento diretto deve essere letto alla luce dell’evoluzione normativa, che ha abolito il cottimo fiduciario e introdotto una procedura più rigida e formalizzata per l'affidamento degli appalti pubblici. La questione dell’illegittimità dei bandi di gara va al di là della semplice configurazione di atti fraudolenti, come nel caso del “bando fotografia”, che configura una situazione in cui il bando è pensato su misura per favorire un determinato operatore. In tal caso, non solo l'operatore economico danneggiato ha il diritto, ma l'onere di impugnare immediatamente il bando, contestando quelle clausole che possano precludere la partecipazione di altre imprese, o che introducano oneri manifestamente sproporzionati rispetto agli scopi della procedura concorsuale. La giurisprudenza amministrativa, in particolare, ha posto l’accento sulla necessità di salvaguardare la libera concorrenza e la trasparenza, tutelando chiunque si ritenga danneggiato da un procedimento viziato da simili irregolarità.

Un altro aspetto di fondamentale importanza è la configurazione del reato di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), che non richiede un danno concreto per poter essere integrato. La Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che il reato di turbativa della gara si configura non solo quando la gara stessa viene impedita, ma anche quando la sua regolarità viene turbata da comportamenti fraudolenti o collusivi. Non è necessario che si produca un danno immediato all’esito della gara, ma basta che vi sia una condotta idonea a inficiare l'integrità della competizione. La tutela dei principi di concorrenza e trasparenza, infatti, è ancor più importante di qualsiasi esito finale, poiché la violazione di tali principi altera il corretto funzionamento del mercato pubblico.

Relativamente ai preposti alle gare, la giurisprudenza ha esteso in modo significativo la nozione di “collusione”. Non è necessario un accordo esplicito tra il preposto e i concorrenti, ma basta che il preposto, pur avendo la consapevolezza di un’illecita influenza esterna, non intervenga per fermare la turbativa. Questo approccio giurisprudenziale amplia considerevolmente la responsabilità di coloro che sono preposti alla gestione delle gare pubbliche, poiché la semplice omissione di atti dovuti può risultare penalmente rilevante. Il preposto, infatti, ha il dovere giuridico di intervenire in caso di irregolarità, e la sua responsabilità penale si estende anche nel caso in cui non reagisca prontamente a condotte che pregiudichino la regolarità della procedura.

Il concetto di “mezzi fraudolenti”, ai sensi dell’art. 353 c.p., include ogni comportamento volto a falsare la competizione, sia tramite la collusione tra i partecipanti, che attraverso l’utilizzo di prestanomi o la fornitura di informazioni scorrette. La giurisprudenza ha sottolineato che ogni artificio, inganno o malafede che alteri la concorrenza o impedisca a un altro operatore economico di partecipare legittimamente alla gara deve essere considerato illecito, in quanto compromette i principi di trasparenza e imparzialità, cardini della concorrenza nei contratti pubblici.

L’elemento psicologico del reato, il dolo generico, si configura quando l’agente ha consapevolezza della propria condotta e la volontà di pregiudicare la regolarità della gara. Non è necessario che il risultato illecito venga concretamente raggiunto, ma la condotta deve essere idonea a turbare il normale svolgimento della gara stessa. In questo senso, l’influenza esercitata su una gara, pur se non tale da alterarne direttamente l’esito, costituisce comunque un reato penale, qualora tale influenza comprometta il principio di libera concorrenza.

Da ultimo, la recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 16659 del 19 aprile 2024) merita attenzione, in quanto ha ampliato i confini dell’abuso di ufficio legato all’affidamento diretto di appalti. In quel caso, infatti, l'amministratore di una società in house aveva affidato un contratto senza alcuna procedura di confronto concorrenziale, violando i principi di trasparenza e imparzialità che devono caratterizzare l'affidamento pubblico. La Cassazione ha ribadito che le modifiche normative introdotte successivamente, in particolare quelle relative all’innalzamento della soglia sotto la quale non è necessaria la procedura di evidenza pubblica, hanno retroattività ai fini della configurabilità dell’abuso di ufficio. Pertanto, l’affidamento di contratti senza procedura di gara, pur rientrando in un valore sotto la vecchia soglia, può ora essere penalmente sanzionato se la norma applicabile al momento dei fatti lo prevede.

In definitiva, la problematica dell’affidamento diretto e della validità delle gare pubbliche non si riduce a una mera applicazione meccanica delle norme, ma coinvolge la responsabilità di chi è preposto alla gestione delle gare, la trasparenza dei procedimenti e la corretta applicazione dei principi di concorrenza. La giurisprudenza, in tal senso, si fa interprete di una visione sistematica che mira a salvaguardare l'integrità del mercato pubblico e a reprimere con forza ogni forma di collusione o abuso.

Il contesto giuridico dell’affidamento diretto, che ha visto la sua evoluzione normativa soprattutto con l’abrogazione del cottimo fiduciario e l’introduzione di un meccanismo più articolato di procedimentalizzazione degli affidamenti, non si esaurisce in una valutazione puramente formale della condotta. È essenziale, infatti, interrogarsi sulla legittimità dei bandi e delle procedure adottate, in particolare quando si pongono dubbi circa l'invalidità stessa dei bandi di gara. A tal proposito, si è a lungo dibattuto sulla nozione di “bando fotografia”, utilizzato per delineare il caso in cui il bando stesso venga cucito su misura per favorire un concorrente specifico, il che di per sé preclude la genuinità della competizione. In un contesto siffatto, l’onere di impugnazione non è solo un diritto, ma un dovere per chiunque ritenga lesa la propria posizione giuridica, secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza amministrativa più recente.

Un altro aspetto da considerare riguarda la configurabilità del reato di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.). La Cassazione ha chiarito che tale reato non si concretizza solo nell’impedimento materiale della gara, ma anche in situazioni in cui l’illegittima influenza sul procedimento possa determinare un danno potenziale, cioè una turbativa nella regolarità della gara, anche in assenza di un danno effettivo. In particolare, la giurisprudenza evidenzia che un comportamento fraudolento o collusivo, anche se non risulta in un danno immediato, è penalmente rilevante se idoneo ad alterare i principi di concorrenza e trasparenza, tutelati dall’ordinamento.

In relazione ai preposti alle gare, il concetto di “collusione” assume una dimensione tanto ampia quanto pregnante. Non è necessario che vi sia un accordo esplicito tra il preposto e il concorrente, ma è sufficiente che il preposto, consapevole della violazione delle norme, non intervenga. Un’interpretazione che amplia considerevolmente la responsabilità di coloro che sono chiamati a gestire il procedimento, sia dal punto di vista della prevenzione, che della correzione delle irregolarità. La responsabilità penale, infatti, può insorgere anche per la semplice omissione di atti dovuti, qualora la condotta non venga tempestivamente corretta.

Inoltre, il concetto di “mezzi fraudolenti” ai sensi dell’art. 353 c.p. si estende ad ogni comportamento volto a falsare la competizione, sia attraverso manipolazioni dirette (come la collusione) che attraverso l’utilizzo di prestanomi o la fornitura di informazioni false. La giurisprudenza, infatti, ha sottolineato che l’utilizzo di artifici, inganni e simili non solo altera il normale svolgimento delle gare, ma mina il fondamentale principio della libera concorrenza. La condotta deve essere idonea a pregiudicare l’effettiva partecipazione di tutti gli operatori economici, nel rispetto dei criteri di trasparenza e imparzialità che devono caratterizzare ogni processo di aggiudicazione.

Il profilo psicologico richiesto dalla legge, il dolo generico, si configura quando l’agente ha coscienza e volontà di impedire o turbare il normale svolgimento della gara. Non è necessario il conseguimento del risultato, ma la semplice idoneità della condotta a compromettere la regolarità dell’esito della procedura.

Di grande interesse è, infine, la più recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 16659 del 19 aprile 2024) che, pur trattando un aspetto concernente l’affidamento diretto in un contesto di abrogazione della normativa sul contratto pubblico, evidenzia l’importanza di considerare l’evoluzione delle soglie e dei limiti imposti dalla legge. L’innalzamento della soglia al di sopra della quale è necessario il ricorso alla procedura ad evidenza pubblica ha modificato in modo sostanziale l’approccio alle violazioni in tema di abuso di ufficio, affermando un principio di retroattività che ha inciso anche sulle dinamiche di responsabilità. A seguito di tale modifica normativa, l’affidamento di contratti pubblici non può più essere considerato legittimo quando la soglia di valore supera il limite fissato dalla nuova disposizione, rendendo inefficace e sanzionabile ogni atto di affidamento non conforme alla nuova disciplina.

La questione dell’affidamento diretto e della correttezza delle gare pubbliche, quindi, non può essere letta come una mera applicazione formale delle norme, ma deve essere vista in una luce che comprenda la responsabilità e l’obbligo di vigilanza non solo da parte degli enti preposti, ma anche degli stessi partecipanti, ai fini della salvaguardia della legalità e della concorrenza.

 

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