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Anno XVII - n. 05 - Maggio 2025

  Studi



"Whistleblowing". Nuovo strumento di lotta alla corruzione

A cura di Gianluca Rossitto e Melita Manola
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Indice: 1. Inquadramento normativo - 2. Il dovere di vigilanza del responsabile della prevenzione della corruzione nel pubblico impiego - 3. Brevi riflessioni a margine. “Whistleblowing” e diritto di critica del lavoratore: profili costituzionali - 4. Due modelli a confronto: Italia/Stati Uniti d’America

1. Inquadramento normativo

L’articolo 1, comma 51, della legge 190/2012 (cosiddetta legge “Anticorruzione”) ha inserito un nuovo articolo (54-bis) nell’ambito del decreto legislativo 165/2001, rubricato “tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”, in virtù del quale è stata introdotta nel nostro ordinamento una misura finalizzata a favorire l’emersione di fattispecie di illecito, nota nei paesi anglosassoni come “whistleblowing” (letteralmente il “soffiatore di fischietto”).

L’articolo 54-bis del decreto legislativo 165/2001 in particolare, prevede(va) che “…1. fuori dei  casi  di  responsabilità  a  titolo  di  calunnia  o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia  all'autorità giudiziaria o alla  Corte  dei  conti,  o  all'Autorità  nazionale anticorruzione  (ANAC)  ovvero  riferisce  al  proprio   superiore gerarchico condotte illecite  di  cui  sia  venuto  a  conoscenza  in ragione  del  rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura  discriminatoria,  diretta  o indiretta, avente effetti  sulle  condizioni  di  lavoro  per  motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. 2. Nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata  su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato. 3. L'adozione di misure discriminatorie è segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. 4. La denuncia è sottratta all'accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto  1990,  n.  241,  e  successive modificazioni…”.

L’Autorità Nazionale Anticorruzione, dal canto suo, con la determinazione numero 6 del 28 aprile 2015, ha emanato delle linee guida per le pubbliche amministrazioni auspicando un intervento del legislatore volto per un verso ad una maggiore ed efficace tutela del “segnalatore”, finalizzata ad evitare al dipendente una esposizione a misure discriminatorie in conseguenza della sua denuncia; e per altro verso incentivando una tutela anche per i lavoratori e/o dipendenti operanti nel settore privato.  
Da ultimo, la Camera dei Deputati ha approvato in prima lettura (con 281 “si”, 71 “no” e 18
“astenuti”), la proposta di legge numero 3365 sulla protezione dei dipendenti che segnalano illeciti. Il nuovo testo in particolare è composto da 2 articoli, l’uno con riferimento alla tutela dei dipendenti operanti nel settore pubblico (adesso altresì estesa agli enti pubblici economici ed agli enti di diritto privato sotto controllo pubblico), l’altro con riferimento ai dipendenti operanti nel settore privato. 

  • Il primo dei predetti articoli sostituisce l'articolo 54-bis del testo unico del pubblico impiego (d.lgs. 165/2001) stabilendo che colui che denuncia in buona fede al responsabile della prevenzione della corruzione dell'ente ovvero all'Autorità Nazionale Anticorruzione, all'Autorità giudiziaria o alla Corte dei Conti le condotte illecite o di abuso di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di lavoro non può essere - per motivi collegati alla segnalazione - soggetto a sanzioni, licenziato o sottoposto a misura comunque discriminatoria che abbia effetto sulle condizioni di lavoro.
    Numerose sono le novità introdotte rispetto al vigente articolo 54-bis del decreto legislativo
    165/2001:
    a) si rileva anzitutto che l'ambito della segnalazione - rimasta comunque sottratta al diritto d'accesso previsto dalla legge 241 del 1990 - risulta più ampio atteso che, mentre l'illiceità della condotta sembra prefigurare un rilievo penale o amministrativo, il riferimento all’“abuso” appare connotato da un’estensione maggiore¹; 
    b) altra novità introdotta concerne il ruolo del responsabile della corruzione, in sostituzione del “superiore gerarchico” previsto dall’articolo 54-bis, che il legislatore ha voluto esplicitamente riconoscere tra i soggetti cui il dipendente può rivolgersi nel segnalare le condotte illecite cui sia venuto a conoscenza (come meglio vedremo al paragrafo successivo);
    c) parimenti innovativa è poi l’applicazione della disciplina alle segnalazioni fatte dal dipendente pubblico in buona fede (quest’ultima esclusa nell’ipotesi in cui il dipendente abbia agito con colpa grave), ritenendo tali quelle circostanziate, per le quali il pubblico dipendente che segnali un fatto illecito abbia una “ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto, che la condotta illecita segnalata si sia verificata”; 
    d) è infine confermato il divieto di rivelare l'identità del segnalante: il “whistleblower” non potrà perciò essere noto e si potrà ricorrere, per la protezione della sua identità, anche a strumenti di crittografia (sul punto, spetterà all’ANAC predisporre delle nuove linee guida al fine di garantire la riservatezza del dipendente segnalante).
    Tuttavia, se la contestazione disciplinare è fondata, anche solo parzialmente, l'identità della “gola profonda” potrà essere rivelata ove assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato. In ogni caso, è esclusa la possibilità di segnalazioni in forma anonima; 
    e) vengono infine introdotti specifici meccanismi sanzionatori: qualora fosse accertata, nell'ambito dell'istruttoria condotta dall'ANAC, l'adozione di misure discriminatorie da parte dell'ente di appartenenza del lavoratore, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’Autorità Anticorruzione applicherà al responsabile che ha adottato tale misura una sanzione amministrativa pecuniaria da cinquemila a trentamila euro.  
    Ove fosse invece accertata l'assenza e/o l’adozione di procedure per l'inoltro e la gestione delle segnalazioni non conformi al divieto di accesso agli atti, l'ANAC applicherà al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da cinquemila a ventimila euro;
    f) un’altra novità è rappresentata dall’esclusione dell’applicazione delle nuove disposizioni alle segnalazioni che costituiscano reati di calunnia o diffamazione, o comunque reati commessi con la denuncia, accertati anche dalla sola sentenza di condanna in primo grado (rispetto al previgente articolo 54-bis quindi, non è più necessario attendere la definitività della sentenza).  
    Se al termine del procedimento (penale, civile o contabile) o all'esito dell'attività di accertamento dell'ANAC, risulti l'infondatezza della segnalazione e la carenza della buona fede da parte del segnalante, quest’ultimo sarà sottoposto a procedimento disciplinare, che può anche concludersi con il licenziamento senza preavviso (il passaggio in Aula a Montecitorio ha escluso invece il riconoscimento di un “premio” al segnalante, anche in relazione alla valutazione di professionalità, nel caso la segnalazione risultasse fondata). 
  • Il secondo articolo attiene invece alla tutela del “whistleblower” nel settore privato, con la previsione che nei modelli organizzativi e di gestione, predisposti dalle società ai sensi del decreto 231/2001 per prevenire la commissione di reati, siano inserite anche norme specifiche a tutela della riservatezza di chi segnala illeciti e contro eventuali misure ritorsive e discriminatorie.
    Il predetto articolo, in particolare: 1) obbliga la società ad adottare misure idonee a tutelare l’identità del segnalante e dunque, a tal fine, canali alternativi di segnalazione (anche per via informatica) per la tutela della riservatezza; 2) vieta alla società di adottare qualsivoglia atto ritorsivo o sanzionatorio, prescrivendo, altresì, la nullità del licenziamento discriminatorio (spetterà inoltre al datore di lavoro l’onere di provare un eventuale mutamento di mansioni o altre analoghe misure). 

2. Il dovere di vigilanza del responsabile della prevenzione della corruzione nel pubblico impiego. 

La ratio della riforma, per quel che concerne il pubblico impiego, consiste d’un canto, nel voler tutelare ampiamente il dipendente, assicurandogli di poter segnalare, senza temere “ritorsioni”, al responsabile della prevenzione della corruzione le condotte illecite di cui è venuto a conoscenza durante lo svolgimento della sua attività lavorativa; dall’altro ascrivere al predetto responsabile uno specifico dovere di vigilanza “ … sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazione…”².

La figura del responsabile della prevenzione della corruzione è contemplata dal settimo comma dell’articolo 1 della legge numero 190 del 6 novembre 2012 (già citata legge “Anticorruzione”). Ed invero il predetto articolo reca la previsione per cui “ (…) 5. Le pubbliche amministrazioni centrali definiscono e trasmettono al Dipartimento della funzione pubblica: a) un piano di prevenzione della corruzione che fornisce una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione e indica gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio; b) procedure appropriate per selezionare e formare, in collaborazione con la Scuola superiore della pubblica amministrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi settori, la rotazione di dirigenti e funzionari…”.

In questo ambito “ … l'organo di indirizzo politico individua, di norma tra i dirigenti amministrativi di ruolo di prima fascia in servizio, il responsabile della prevenzione della corruzione. Negli enti locali, il responsabile della prevenzione della corruzione è individuato, di norma, nel segretario, salva diversa e motivata determinazione …” (cfr. articolo 1, comma 7, legge 190/2012).

Il responsabile della prevenzione della corruzione svolge pertanto le seguenti attività: a) propone il piano triennale di prevenzione della corruzione che viene adottato dall’organo di indirizzo politico entro il 31 gennaio di ogni anno; b) definisce procedure appropriate per selezionare e formare i dipendenti destinati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione (sempre entro il 31 gennaio di ogni anno)³; c) verifica l’efficace attuazione del piano e la sua idoneità, proponendone la modifica in caso di accertamento di significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività dell'amministrazione; d) verifica, d’intesa con il dirigente competente, l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione; e) individua il personale da inserire nei programmi di formazione.

Si tratta dunque di un ruolo centrale all’interno dell’amministrazione di appartenenza, cui sono correlate importanti responsabilità connesse con lo svolgimento di detto incarico.

Il responsabile della prevenzione della corruzione, infatti, nel caso di commissione di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, risponderà ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo 165/2001⁴, nonché sul piano disciplinare, oltre che per il danno erariale e all’immagine della pubblica amministrazione, salvo che provi di avere predisposto, prima della commissione del fatto, il piano di cui al comma 5 e di aver osservato le prescrizioni di cui ai commi 9 e 10 dell’articolo 1 della legge 190/2012 ed inoltre di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza del piano medesimo (cfr. comma 12 dell’articolo 1 della legge 190/2012).

La sanzione disciplinare a carico del responsabile non può essere inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di 6 mesi (ex comma 13 legge 190/2012), mentre in caso di ripetute violazioni delle misure di prevenzione previste dal piano, il responsabile risponde ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo 165/2001, nonché per omesso controllo, sul piano disciplinare (ex comma 14 legge citata 190/2012).

La normativa “Anticorruzione” prevede infine che entro il 15 dicembre di ogni anno, il dirigente individuato come responsabile pubblichi sul sito web dell’amministrazione una relazione recante i risultati dell’attività svolta e la trasmetta all’organo di indirizzo politico dell’amministrazione. 

La riforma di legge in materia di “whistleblowing” pone pertanto l’accento anche sul ruolo assunto dal responsabile della prevenzione della corruzione all’interno della pubblica amministrazione, dovendo egli vigilare sul buon funzionamento della stessa e coadiuvare coloro i quali intendono porsi al suo fianco nella lotta, dall’interno, alla corruzione e agli abusi dell’apparato pubblico.

3. Brevi riflessioni a margine
“Whistleblowing” e diritto di critica del lavoratore: profili costituzionali

Il “whistleblowing” è riconducibile al cosiddetto “diritto di critica” del dipendente, pacificamente considerato quale espressione della libertà di manifestazione del pensiero e, pertanto, quale specificazione del più generale diritto di opinione sull’altrui operato.

La tutela del cosiddetto “diritto di critica”, garantita nel nostro ordinamento dall’articolo 21 della Costituzione, è senz’altro funzionale alla dialettica democratica⁵.

Ricondurre l’istituto all’ambito della libertà d’espressione consente di interpretare il “dissenso” quale momento dinamico e costruttivo, funzionale al miglioramento dell’organizzazione dell’attività e della qualità dei risultati raggiunti dall’ente e/o dall’impresa⁶.

Un primo importante precedente sull’istituto, che ci consente di leggerlo attraverso la lente costituzionale, è dato da una sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 1986, riguardante una vicenda certamente ascrivibile al più recente “whistleblowing”.

Il fatto è incentrato sul licenziamento di due lavoratori accusati di aver diffuso notizie ritenute potenzialmente lesive dell’immagine dell’Istituto datore di lavoro (i lavoratori avevano, nello specifico, denunciato deficienze di organico ed inefficienze della struttura sia alla Magistratura, sia rendendo pubbliche dichiarazioni attraverso i mass media).

La motivazione della sentenza suscita interesse laddove la Suprema Corte osserva che il cosiddetto “diritto di critica” (ascrivibile al ben più ampio diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, costituzionalmente garantito dall’articolo 21 della Costituzione) “…deve essere giustificato dal soddisfacimento di interessi di rilievo, sul piano giuridico, almeno pari a quello del bene leso … ”.

I Giudici pertanto, operano un attento bilanciamento degli interessi in gioco, valutando sia gli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione del prestatore di lavoro, sia, mutuandoli dalla giurisprudenza creatasi sul punto in materia di responsabilità del giornalista, una serie di elementi specifici volti all’accertamento della liceità/illiceità della condotta del “delatore”, quali la sussistenza di una vera e propria lesione alla reputazione del datore di lavoro causata dal denunciante, la funzionalità e l’adeguatezza delle accuse rispetto alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti, la veridicità e l’obiettività dei fatti denunziati.

La sentenza della Suprema Corte (così come la giurisprudenza formatasi successivamente sul tema) impone infine al lavoratore di dover provare e dimostrare i fatti denunciati, non essendo ammessa la “verosimiglianza” o la “seria attendibilità” dei fatti e delle notizie divulgate.

Elementi di “rigore” questi presenti anche nel nuovo disegno di legge. 

4. Due modelli a confronto: Italia/Stati Uniti d’America

Lo strumento del “whistleblowing” è già da tempo collaudato, anche se con modalità diverse, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna⁷.

Ronald Reagan introdusse l’istituto nel 1986 con il “False Claims Act”: chiunque può fare causa contro chi tradisce il suo incarico presso la pubblica amministrazione, ricevendo un compenso pari al 15%-25% dei rimborsi ottenuti dallo Stato⁸. Il meccanismo scoraggia dunque i falsi delatori (su cui incomberanno le spese processuali), incoraggiando, di contro, il detentore di una reale notizia di frode. 

Il carattere premiale riconosciuto al “whistleblowing” ha, negli Stati Uniti, d’un canto, stimolato la denuncia della frode sospetta, dall’altro avuto forti impatti positivi anche sulle finanze della Federazione (ove sono stati registrati - dall’entrata in vigore del “False Claims Act” - risparmi valutati in milioni di dollari, per il semplice ridursi degli sprechi dovuti alla corruzione).

In Italia, la Camera ha invece approvato quasi all’unanimità cinque emendamenti che eliminano dalla proposta di legge ogni forma di premialità (denaro e/o scatti contrattuali) per gli autori delle segnalazioni, puntando invece sulla “protezione” del delatore: niente premio, dunque, ma più tutele per chi denuncia presunti comportamenti corruttivi.