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Anno XVI - n. 12 - Dicembre 2024

  Giurisprudenza Amministrativa



Revoca illegittima di convenzione e diritto al risarcimento del danno.

Di Valentina Cappannella
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO – SEZIONE SESTA,

SENTENZA 30 agosto 2021, n. 6111

 

Revoca illegittima di convenzione e diritto al risarcimento del danno

 

Di VALENTINA CAPPANNELLA

 

Premessa

La sentenza in commento riveste particolare interesse perché esamina i presupposti e le condizioni per addivenire ad una condanna della P.A. al risarcimento del danno riconducibile all’adozione di atti amministrativi illegittimi.

La comprensione del tema affrontato richiede di effettuare un breve esame della fattispecie concreta da cui è scaturita la domanda risarcitoria.

 

fattispecie concreta

Nel caso di specie, il ricorso è stato instaurato per ottenere la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti all’adozione di atti amministrativi già dichiarati illegittimi dal giudice amministrativo e, pertanto, annullati in un precedente giudizio.

In particolare, l’azione di risarcimento dei danni è stata intrapresa contro l’Università degli Studi di Udine a seguito della sentenza del TAR competente, confermata dal Consiglio di Stato, la quale ha annullato l’atto amministrativo dell’Università medesima con cui sono state risolte due convenzioni temporanee (della durata di cinque anni) stipulate con l’Università di Ferrara per il conseguimento di obiettivi comuni al fine di ovviare alla scarsità di docenti.

Nello specifico, in virtù di tali convenzioni, il ricorrente, in qualità di professore associato, avrebbe dovuto svolgere la propria attività didattica e di ricerca presso l’Università di Ferrara. Senonché, per sopravvenute esigenze didattiche, il Consiglio di Amministrazione dell’Università di Udine ha risolto entrambe le convenzioni.

A ciò è seguito il ricorso proposto avverso simile atto dinanzi al giudice amministrativo, il quale ha ravvisato, sia in primo grado, che in appello, l’illegittimità della citata risoluzione unilaterale delle convenzioni.

A tale giudizio, ne è seguito un altro con cui il citato ricorrente ha chiesto la condanna dell’Università di Udine al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’illegittima revoca della convenzione tra i due atenei e, quindi, dei danni conseguenti all’impossibilità di proseguire nell’insegnamento a Ferrara per la residua durata della convenzione.  

In primo grado, il ricorso è stato rigettato, in quanto il TAR ha ritenuto insussistente l’elemento dell’ingiustizia del danno – essendo stato annullato l’atto di di risoluzione per vizi meramente formali -, nonché l’elemento soggettivo della colpa in ragione della “complessità e incertezza della fattispecie, il che giustificava la scusabilità della condotta dell’amministrazione”.

Tale decisione è stata impugnata dal ricorrente, deducendone l’erroneità sotto diversi profili.

 

La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato accoglie il ricorso effettuando un’interessante ricostruzione del tema della responsabilità civile della P.A..

Principio cardine della materia, assunto a punto di partenza dai Giudici di Palazzo Spada, è quello secondo cui la parte che afferma di aver subito un danno in conseguenza della condotta altrui è tenuta a provare gli elementi costitutivi dell’illecito, nonché a dimostrare il pregiudizio subito.

A tale proposito, affinché sia configurabile in capo all’Amministrazione una responsabilità civile conseguente all’esercizio di attività autoritative, occorre:

  1. A) su un piano oggettivo, la presenza di un provvedimento illegittimo che sia causa di un danno ingiusto;
  2. B) su un piano soggettivo, l’integrazione del necessario coefficiente di colpevolezza.

 

Un volta effettuato l’esame circa la sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito, è necessario verificare la sussistenza di conseguenze dannose, “da accertare secondo un (distinto) regime di causalità giuridica che ne prefigura la ristorabilità solo in quanto si atteggino, secondo un canone di normalità e adeguatezza causale, ad esito immediato e diretto della lesione del bene della vita ai sensi degli artt. 1223 e 2056 Cod. civ. (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 4 agosto 2015, n. 3854). Peraltro, ove non sia possibile accertare con certezza la spettanza in capo al ricorrente del bene della vita ambito, il danno patrimoniale potrebbe, comunque, liquidarsi ricorrendo alla tecnica risarcitoria della chance, previo accertamento di una <probabilità seria e concreta> o anche <elevata probabilità> di conseguire il bene della vita sperato, atteso che <al di sotto di tale livello, dove c'è la <mera possibilità>, vi è solo un ipotetico danno non meritevole di reintegrazione poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto> (Consiglio di Stato Sez. V, 15 novembre 2019, n. 7845)” (v. punto 8.2. della sentenza in esame).

 

Passando all’esame della fattispecie concreta esaminata, il Consiglio di Stato analizza le peculiarità del caso concreto, rappresentate, da un lato, dalla fonte della posizione giuridica azionata dal ricorrente, vale a dire, la convenzione amministrativa conclusa tra due Università; dall’altro, vi è la tipologia dell’atto lesivo assunto dall’Amministrazione, riconducibile alla categoria dell’autotutela decisoria.

A tale proposito, viene assunta come punto di riferimento la precedente decisione del Consiglio di Stato (sentenza n. 1794/2018) di annullamento delle citate convenzioni, costituente il titolo giudiziale regolante, con autorità di giudicato, il rapporto amministrativo.

In tale sede, la convenzione è stata ritenuta illegittima per omessa comunicazione di avvio del procedimento di revoca nei confronti del ricorrente, nonché per difetto di motivazione.

Sulla base degli accertamenti conclusi nel precedente giudizio sopra citato, si ritiene pacifico che (v. 8.3 della decisione in esame):

  1. a) la convenzione conclusa tra le due Università rappresenta “un atto consensuale implicante l’esercizio di un pubblico potere, suscettibile di incidere altresì sull’altrui posizione giuridica, in specie dei docenti contemplati nella relativa pattuizione, incaricati dello svolgimento della propria attività di ricerca e didattica presso un Ateneo diverso da quello di appartenenza”;
  2. b) “tali docenti, pur non partecipando alla convenzione, risultavano comunque coinvolti nell’esercizio del pubblico potere, subendo una modificazione nella propria posizione lavorativa in conseguenza dell’atto convenzionale (...)”;
  3. c) “l’idoneità di tale convenzione ad incidere sulla posizione del docente incaricato era confermata pure dalla necessità di assicurare la partecipazione del privato al procedimento di secondo grado, essendo un’eventuale revoca dell’atto convenzionale – comunque ammissibile nell’esercizio del potere di autotutela spettante all’Amministrazione procedente – idonea ad influire sulla prestazione lavorativa del docente interessato (…)”;
  4. d) la revoca della convenzione è illegittima.

 

In ragione di tali considerazioni, il Consiglio di Stato ritiene che la revoca della convenzione abbia determinato, per il ricorrente, “la lesione di un interesse legittimo oppositivo, in ragione dell’illegittima sottrazione di un’utilità già compresa nel proprio patrimonio; il che consente di ritenere integrato, sul piano oggettivo, un illecito civile ascrivibile in capo all’Amministrazione appellata” (v. punto 8.4 della decisione in commento).

 

Secondo i Giudici di Palazzo Spada, la decisione dell’Università di risolvere anticipatamente la convenzione “ha inciso sulla sfera giuridica dell’odierno ricorrente, cui è stata preclusa la possibilità di proseguire la propria attività didattica e di ricerca presso l’Università di Ferrara” (v. punto 8.5 della sentenza in esame).

La convenzione, in pratica, aveva natura pubblicistica ed era tale da incidere sulla sfera giuridica dei docenti trasferiti, i quali, sul piano sostanziale, sono titolari di una posizione di interesse legittimo. Nello specifico, in capo al ricorrente, interessato a proseguire l’attività didattica presso l’Università di Ferrara, è configurabile un’utilità riconosciuta dall’atto convenzionale, preesistente all’esercizio del potere amministrativo di revoca e, quindi, già compresa nel patrimonio giuridico del ricorrente.

Simile posizione giuridica è configurabile alla stregua di un interesse legittimo oppositivo, in quanto il ricorrente era coinvolto nella regolazione stabilita dall’atto convenzionale, oltre che interessato alla conservazione del bene della vita che già gli era stato riconosciuto in via amministrativa.

Nel caso di specie, quindi, il Consiglio di Stato ritiene che “il mutamento della sede di servizio influisca comunque su una situazione giuridica soggettiva del lavoratore meritevole di tutela”, per cui il lavoratore risulta titolare di un interesse - di tipo oppositivo – alla conservazione della posizione lavorativa riconosciuta in via convenzionale, per il periodo temporale prestabilito, così da legittimare la sua opposizione ad eventuali provvedimenti di autotutela adottati dalle parti pubbliche firmatarie della convenzione.

Tra l’altro, la convenzione in questione, abilitando i professori a svolgere la propria attività presso un altro Ateneo, finiva per realizzare anche un “interesse del singolo docente ad arricchire il proprio patrimonio professionale attraverso un’esperienza lavorativa presso un’Università diversa da quella di appartenenza”.

Cosicché, “una revoca della disciplina convenzionale avrebbe infatti imposto un anticipato rientro del docente presso l’Ateneo di appartenenza, con conseguente lesione dell’affidamento individuale a proseguire l’attività didattica e di ricerca presso l’Università ricevente, fino al termine naturale della relativa convenzione” (v. punto 8.5 della decisione in esame).

 

Una volta chiarito che il ricorrente è titolare di un interesse legittimo oppositivo, il Consiglio di Stato ritiene che, in caso di lesione di una simile posizione giuridica in ragione dell’adozione di un provvedimento illegittimo, non è necessario, a fini risarcitori, svolgere un giudizio prognostico di spettanza del bene della vita. Viene infatti, richiamato, un costante orientamento secondo cui “vero è che… l’obbligazione risarcitoria affonda le sue radici nella verifica della sostanziale spettanza del bene della vita ed implica un giudizio prognostico in relazione al se, a seguito del corretto agire dell’amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente o probabilmente (cioè secondo il canone del <più probabile che non>) spettato al titolare dell’interesse (Sez. IV, 14 giugno 2018, n. 3657).

Tuttavia la responsabilità si atteggia diversamente a seconda che, oggetto della lesione sia un interesse oppositivo ovvero pretensivo.

Nel primo caso, occorre infatti accertare soltanto se l’illegittima attività dell’amministrazione abbia leso l’interesse alla conservazione di un bene o di una situazione di vantaggio già acquisita, mentre è in relazione al diniego o alla ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo che occorre valutare, a mezzo di un giudizio prognostico, la fondatezza o meno della richiesta della parte, onde stabilire se la medesima fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole (cfr. Cass. civ., Sez. I, 13 ottobre 2011, n. 21170) (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 gennaio 2019, n. 536)”.

 

Così, come è dato leggere nella decisione in esame (punto 8.6), A fronte di un interesse legittimo oppositivo, l’invalidità dell’atto lesivo e la lesione dell’interesse privato alla conservazione dell’utilità negata dall’organo procedente sono, dunque, sufficienti per riscontrare sul piano oggettivo una responsabilità civile dell’Amministrazione procedente.

In siffatte ipotesi, non occorre svolgere in sede giurisdizionale alcun giudizio prognostico di spettanza del bene della vita ambito dal ricorrente – come tipicamente avviene in caso di atti lesivi di un interesse pretensivo, all’acquisizione di un’utilità ancora non compresa nel patrimonio giuridico individuale, attribuibile soltanto per effetto dell’intermediazione amministrativa -, tenuto conto che il bene della vita a tutela del quale agisce la parte privata preesiste all’esercizio del potere censurato in giudizio, venendo riacquisito dal ricorrente per effetto dell’annullamento dell’atto sacrificativo.

Tali principi operano anche qualora il bene della vita sia riconosciuto, anziché direttamente da una norma giuridica, da un pregresso atto amministrativo, successivamente revocato in sede di autotutela: anche in tale ipotesi, per effetto dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento di autotutela, si determina una reviviscenza dell’atto amministrativo originario e, dunque, si ricostituisce in capo al ricorrente la posizione di vantaggio originariamente vantata”.

 

Facendo applicazione dei suddetti principi, il Consiglio di Stato ritiene che, nel caso di specie, risultino integrati gli elementi costitutivi oggettivi dell’illecito civile ascritto in capo all’Università resistente.

In particolare, premesso che, nel giudizio in questione, si tratta di verificare la sussistenza dei presupposti per il risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima revoca di un atto convenzionale che consentiva al ricorrente lo svolgimento di attività lavorativa presso l’Ateneo di Ferrara per un periodo di cinque anni, si ritiene che “La risoluzione anticipata (rectius revoca) della convenzione ha determinato la violazione di un interesse legittimo oppositivo, avendo il ricorrente interesse a conservare l’utilità riconosciuta dalla convenzione, permanendo presso l’Università ricevente per il periodo temporale all’uopo predefinito.

L’annullamento della revoca ha comportato la riviviscenza della convenzione e, dunque, la ricostituzione, senza soluzione di continuità, in capo al ricorrente dell’originaria posizione lavorativa, che lo abilitava a svolgere attività didattica e di ricerca presso l’Ateneo di Ferrara.

Ne deriva che il docente, per il periodo in cui ha avuto materiale attuazione il provvedimento di revoca (successivamente annullato ex tunc) è stato illecitamente richiamato a svolgere la propria attività lavorativa presso l’Ateneo di appartenenza, quando, invece, avrebbe avuto titolo ad operare presso l’Ateneo di Ferrara in virtù di un atto convenzionale comunque efficace (stante il successivo annullamento retroattivo del provvedimento di autotutela)” (v. punto 8.7 della sentenza in esame).

 

Nella fattispecie esaminata, quindi, il Consiglio di Stato reputa integrati gli elementi costitutivi oggettivi dell’illecito ascritto all’Ateneo resistente, considerato che l’illegittima attività amministrativa ha leso l’interesse alla conservazione di un bene della vita già acquisito al patrimonio giuridico del ricorrente.

 

Sul piano dell’elemento soggettivo necessario per poter configurare una responsabilità civile dell’Amministrazione, la decisione in esame è interessante anche per la ricostruzione dei principi affermati in merito ai presupposti per ritenere integrato il necessario coefficiente psicologico di colpevolezza.

Innanzitutto, è confermato “l’indirizzo giurisprudenziale, per cui il riscontrato illegittimo esercizio della funzione amministrativa non integra di per sé la colpa dell'Amministrazione, dovendo anche accertarsi se l'adozione o la mancata o ritardata adozione del provvedimento amministrativo lesivo sia conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede - alle quali deve essere costantemente ispirato l'esercizio dell'attività amministrativa - e si sia verificata in un contesto di fatto ed in un quadro di riferimento normativo tale da palesare la negligenza e l'imperizia degli uffici o degli organi dell'amministrazione ovvero se per converso la predetta violazione sia ascrivibile all'ipotesi dell'errore scusabile, per la ricorrenza di contrasti giurisprudenziali, per l'incertezza del quadro normativo o per la complessità della situazione di fatto (Consiglio di Stato, Stato, V, 9ottobre 2013, n. 4968; VI, 14 novembre 2014, n. 5600).

Per la configurabilità della colpa dell'Amministrazione assume rilievo, altresì, la tipologia di regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere sia stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità.

A fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione può, infatti, essere affermata nei soli casi in cui l'azione amministrativa abbia disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 05 giugno 2019, n. 3799)”.

Sul piano processuale di riparto dell’onere della prova, inoltre, si chiarisce che, in caso accertata illegittimità di un atto amministrativo da cui sia derivato un danno, il privato che agisce per ottenere il risarcimento non è tenuto ad un particolare sforzo probatorio sotto il profilo dell’elemento soggettivo della fattispecie. Nello specifico, il privato può limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto, mentre spetta alla Pubblica Amministrazione dimostrare di essere incorsa in errore scusabile. Al fine di riconoscere una simile presunzione di colpa in capo all’Amministrazione, però, occorre che sussista un contesto di fatto e un quadro di riferimento normativo tale da palesarne la negligenza e l’imperizia; è necessario, cioè, che l’Amministrazione abbia agito intenzionalmente o in violazione delle regole di correttezza, imparzialità e buona fede nell’assunzione del provvedimento viziato. D’altro canto, la responsabilità della P.A. deve essere negata ove sia riconoscibile un errore scusabile per l’esistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto. 

 

L’applicazione dei suddetti principi al caso in esame conduce all’affermazione della sussistenza di una condotta colposa in capo all’Amministrazione universitaria.

Nel caso di specie, infatti, la violazione che era stata riscontrata nelle sentenza conclusiva del giudizio di annullamento della risoluzione adottata, passata in giudicato, riguardava “disposizioni dal chiaro contenuto precettivo, riguardanti la comunicazione di avvio del procedimento e l’adeguata motivazione della scelta amministrativa” (v. punto 8.9 della sentenza in esame).

Il Consiglio di Stato, inoltre, attribuisce natura pubblicistica all’atto lesivo, il quale risulta regolato da una “disciplina speciale conosciuta dall’Ateneo procedente (…) o, comunque, nei limiti della compatibilità, da disposizioni generali (ex art. 15 L. n. 241/90) da ritenersi conoscibili dal soggetto pubblico”.

Così, come si legge nella sentenza in commento, “la violazione in cui è incorsa l’Amministrazione non poteva giustificarsi per la complessità della situazione fattuale, l’oscurità della normativa applicata o l’emersione di contrasti di giurisprudenza, derivando, invece, dall’inosservanza di disposizioni dal chiaro contenuto precettivo - attinenti alla comunicazione di avvio del procedimento e al dovere motivazionale -, operanti per qualsivoglia intervento di autotutela decisoria, discendenti dai principi del buon andamento e dell’imparzialità amministrativa, prescrittivi di canoni di comportamento suscettibili di imporsi a tutte le parti pubbliche nei rapporti con i privati amministrati. In siffatte circostanza, l’illegittimità provvedimentale, foriera di un danno ingiusto, non potrebbe ritenersi scusabile, con conseguente integrazione, anche sul piano soggettivo, degli elementi costitutivi dell’illecito civile della pubblica amministrazione” (v. punto 8.9 della sentenza).

 

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Sulla base delle suddette considerazioni, la decisione in esame perviene alla conclusione che l’illegittima risoluzione anticipata della convenzione, che abilitava il ricorrente allo svolgimento della propria attività presso un’Università diversa da quella di appartenenza, “ha effettivamente causato un danno ingiusto, fonte di obbligazione risarcitoria in capo alla parte appellata, stante l’integrazione degli elementi costitutivi, sul piano oggettivo e soggettivo, dell’illecito civile della pubblica amministrazione” (v. punto 8.9 della sentenza oggetto di nota).