ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Penale



Osservatorio sulla Giurisprudenza Penale al 31 ottobre 2016. A cura di Epifania Ferro

   Consulta il PDF   PDF-1   

  • Corte di Cassazione, Sezione I penale, Ordinanza 5 ottobre 2016, n. 42043

    E’ giuridicamente ammissibile il c.d. concorso esterno nel reato di associazione per delinquere? 

    Il quesito giuridico che il Collegio rimette alla superiore lezione interpretativa è il seguente: “se sia logicamente compatibile e giuridicamente ammissibile il c.d. concorso esterno nel reato di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p., considerato che tra il reato di cui all’art. 416-bis c.p., per il quale il concorso eventuale è ormai diritto vivente, e quello di cui all’art. 416 c.p. sussistono sostanziali ed incisive differenze di tipizzazione giuridica”. 

    In particolare, le ragioni del dubbio ermeneutico scaturiscono da valutazioni alquanto complesse.

    Invero, l’art. 416 c.p., come è noto, “punisce più persone, almeno tre, che si associano allo scopo di commettere più delitti. Tale fattispecie tipica si distingue dall’art. 418 c.p., che punisce invece chi presta assistenza agli associati ed in particolare chi, fuori dalla ipotesi di concorso e secondo la esemplificazione contenuta nella norma, dà rifugio, fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione (appare opportuno richiamare tale norma attesa l’importanza in più pronunce data ad essa ai fini di ritenere risolta la questione di cui si sta trattando; cfr. da ultimo Cass. sez. II, 18.5.2016, Spinoccia + 7, ancora da massimare e Cass., sez. II, 21.4.2015' n. 34147, rv. 264624). Va qui immediatamente, e rapidamente, appuntato, con la pressoché concorde accademia, che appare non facilmente distinguibile l’ipotesi del concorso eventuale, la prestazione di assistenza ex art. 418 c.p. che non integri concorso eventuale ed il concorso necessario, fondamento concettuale dell’associazione data dall’accordo per commettere delitti, difficoltà vieppiù accentuata dalla legge del 2001, con la quale, come è noto, è stata introdotta una ipotesi aggravata del reato ex art. 418 c.p., quella che si realizza quando le condotte agevolatrici (di assistenza) si protraggono nel tempo ('se l’assistenza è prestata in continuazione'; così la norma)”. 

    La Suprema Corte precisa, inoltre, che il “delitto di cui all’art. 416 c.p. è reato tipizzato secondo gli schemi noti del concorso di persone nel reato (così la più accreditata dottrina) concorso che si distingue dal reato associativo in esame perché limitato l’accordo alla consumazione di uno o più delitti nettamente individuati, commessi i quali, l’accordo medesimo si esaurisce. Nell’associazione viceversa il vincolo permane. Il reato, quindi, si realizza con l’accordo associativo (reato a concorso necessario) e per esso è richiesto il dolo specifico e cioè la volontà di entrare a far parte dell’associazione (della quale fanno parte almeno altre due persone) per commettere più delitti”.

    Ebbene, “in relazione alla figura sin qui commentata non risulta per decenni mai contestato il concorso c.d. esterno e cioè il concorso eventuale collegato a quello necessario proprio del reato del quale la Suprema Corte si è occupato per la prima volta, ma non in riferimento al reato in parola ma a quello ex art. 416-bis c.p.) soltanto nel 1987, con la sentenza Cillari, sfavorevole alla ipotizzabilità del concorso esterno e con la sentenza Altivalle, viceversa favorevole)”.

    Ebbene, “il reato in parola, in quanto non più adeguato come strumento penale di contrasto alla criminalità organizzata, triste specificità italiana (d’altra parte si sta trattando di una tipizzazione di reato risalente al codice Zanardelli) indusse il legislatore all’approvazione della legge 13 settembre 1982, n. 646 con il quale, art. 1 della legge, è stato introdotto nel codice il reato di cui all’art. 416-bis c.p.. Tale norma, come è noto, punisce l’associazione per delinquere di tipo mafioso e precisamente 'chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone'; per la prima volta inoltre si provvide alla descrizione normativa dell’associazione di tipo mafioso (operazione legislativa non necessaria per la figura parallela dell’art. 416 c.p.) e questo fu reso possibile perché ampiamente utilizzata la giurisprudenza che, dopo l’approvazione della legge 31.5.1965, n. 575, aveva inaugurato e promosso la elaborazione interpretativa dei contenuti con i quali dare concretezza alla tutela previdenziale di contrasto alla mafia”.

    Ciò posto, “occorre ora mettere a confronto le due fattispecie associative, preliminarmente ed opportunamente annotando, ancora una volta richiamando una unanime dottrina, che tra le due norme, per quanto ampiamente detto sul piano sistematico e storico, vi è un rapporto di indipendenza e non una relazione di specialità: senza il delitto di cui all’art. 416-BIS c.p. non tutte le ipotesi ivi previste sarebbero punibili ex art. 416 c.p. (d’altra parte fu questa la ragione politica che indusse il legislatore alla rilevante novella). Con essa, con la fattispecie successivamente introdotta, la rilevanza penale della condotta passa dalla necessità di un accordo criminale a quello della semplice partecipazione all’associazione criminale, per la quale non è certamente previsto il dolo specifico”. 

    Alla luce di tutti i dati innanzi evidenziati, della diversa condotta tipizzata, della piena autonomia delle due fattispecie, del diverso dolo per esse richiesto ed del diverso rapporto che per tali differenze i due reati hanno, sul piano puramente giuridico, con l’istituto del concorso nel reato, “appare al Collegio di non soddisfacente congruità ritenere la ipotizzabilità logica e giuridica di un concorso eventuale nel reato di cui all’art. 416 c.p. al pari di quanto ormai ritenuto in riferimento al delitto di cui all’art. 416-bis c.p.. Aggiungere il concorso eventuale a quello necessario caratterizzante l’ipotesi tipica ex art. 416 c.p. integra una illogica duplicazione di quest’ultima, nel senso che, per la tipicità del delitto in esame, tipicità data dall’accordo per commettere delitti, il concorso eventuale è destinato sempre (e necessariamente) a confondersi con esso. A parte la considerazione che, al di fuori del concorso necessario, l’ordinamento appresta altresì la operatività dell’art. 418 c.p., descrittivo di condotte atipiche di assistenza al concorso necessario ex art. 416 c.p. (quelle indicate dalla norma devono infatti intendersi come esemplificative)”.

    Siffatta problematica di ordine logico (e quindi giuridico) “non si pone con il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., in cui la condotta incriminata, giova ribadirlo, è data dalla semplice partecipazione associativa, punita anche in relazione a condotte non dirette a finalità illecite (acquisire appalti o attività economiche, controllare maggioranze politiche) per le quali possono intervenire (e concretamente quanto diffusamente intervengono) contiguità non strettamente partecipative ma essenziali per la operatività, l’affermazione, il consolidamento del sodalizio mafioso”.

    D’altra parte, “e veniamo ora ad un profilo storico certamente utile per l’approfondimento della questione, in relazione allo stesso reato di cui all’art. 416-bis c.p., per oltre un decennio dalla sua introduzione nell’ordinamento penale, si sono nutriti seri dubbi circa la ipotizzabilità del c.d. concorso esterno (per la soluzione negativa sentenza Cillari, 1 sez. del 1987, sentenza Agostani del 1989, n.8864 sempre della 1 sez.; per quella positiva la sentenza Altivalle, 1987 n. 3492 e quella Altomonte, 1992 n. 4805) e la materia è stata per questo più volte rimessa alla superiore conoscenza delle ss.uu., le quali soltanto con la sentenza Demitry del 5.10.1994 (quell’anno ben tre sentenze della prima sezione depositate il 30.6.1990 avevano negato la ipotizzabilità del concorso esterno nel reato ex art. 416-bis c.p., cfr. per tutte la sentenza Mattina n. 2343) stabilirono il principio di diritto secondo cui è ammissibile il concorso esterno nell’ipotesi di associazione di tipo mafioso, nozione definitivamente riconosciuta sul piano interpretativo dalla successiva sentenza a ss.uu. del 30.10.2002, Carnevale, rv. 224181, ed infine complessivamente definita, sul piano giuridico, dalla fondamentale sentenza, sempre delle ss.uu., del 12.7.2005 (la n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231671) nota agli operatori come sentenza Mannino, con la quale i superiori giudici definirono la consistenza giuridica della condotta del concorrente esterno ed i criteri ai quali il giudice deve attenersi per la sua concreta individuazione, in particolare richiamando la necessità di un giudizio ex post sulla effettiva incidenza causale della condotta riferita al concorrente esterno. Di tale sentenza giova riportare la principale massima elaborata per il CED: In tema di associazione di tipo mafioso, assume il ruolo di 'concorrente esterno' il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo dell’”affectio societatis', fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala come 'Cosa nostra', di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. (In motivazione la Corte, rilevando come la efficienza causale in merito alla concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo costituisca elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale, ha specificato che non è sufficiente una valutazione 'ex ante' del contributo, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene giuridico protetto, ma è necessario un apprezzamento 'ex post', in esito al quale sia dimostrata, alla stregua dei comuni canoni di 'certezza processuale', l’elevata credibilità razionale dell’ipotesi formulata in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente)”. 

    Pertanto, “sembra al Collegio di poter cogliere nella riferita descrizione dei contenuti del concorso esterno, il dato che tale nozione trovi coerente e naturale adesione concettuale a quella condotta genericamente definita dalla norma incriminatrice come 'far parte' ed ai contesti entro i quali siffatta partecipazione è destinata a trovare concreta attuazione: avvalersi della forza intimidatoria del vincolo associativo, strumentalizzare la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva non solo per commettere delitti, ma anche per acquisire il controllo, direttamente ovvero anche indirettamente di settori produttivi importanti delle zone territoriali interessate dall’azione dell’associazione. Giova ancora una volta sottolinearlo, in tali ultime ipotesi siamo al di fuori di attività tipicamente delittuose e si concretizzano in esse situazioni nelle quali agevolmente possono esprimersi contiguità associative non caratterizzate dall’affectio societatis, ma cionondimeno utili al gruppo per il perseguimento delle sue finalità (tipicamente delittuose e più spesso delittuose nel fine ma non sempre nei mezzi utilizzati per raggiungerlo)”.

    Del tutto diverso, ad avviso del Collegio, “l’area fattuale coperta dal quadro normativo riferito agli artt. 416 e 418 c.p., dove lo schema oggettivo del reato è specificamente delineato da un accordo per commettere delitti particolari, là dove le possibilità concrete sono presto delineate e per nulla atipiche, partecipare all’accordo o non parteciparvi, partecipare al delitto fine o non parteciparvi. Oltre tali delimitazioni normative non sussistono aree di contiguità nel cui ambito chiamare in causa la nozione di concorso esterno, non casualmente evocato, discusso ed applicato quasi esclusivamente nelle ipotesi di cui all’art. 416-bis c.p.. Si consideri, infine, che l’elemento psicologico ritenuto necessario per la configurabilità del concorso esterno è dato (cfr. Cass., ss.uu., 27.9.1995, rv. 202904) dal dolo generico e cioè nella coscienza e volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell’associazione. Orbene, risulta all’evidenza assai arduo concepire siffatta genericità dolosa diretta agli scopi dell’associazione in costanza di un accordo per commettere delitti”.

    Insomma ed in termini, si auspica, più precisi, “nel reato di cui all’art. 416 c.p. non è configurabile responsabilità a titolo di concorso esterno giacché o il presunto concorrente (esterno), nel porre in essere la condotta oggettivamente vantaggiosa per l’associazione è animato dal dolo specifico proprio di chi voglia consapevolmente contribuire a realizzare i fini per i quali il sodalizio stesso è stato costituito ed opera, ed allora egli non potrà in alcun modo distinguersi dal partecipante a pieno titolo; ovvero, mancando nell’agente il dolo specifico detto, la condotta dal medesimo posta in essere, favoreggiatrice ovvero agevolatrice, dovrà necessariamente essere riguardata come strutturalmente e concettualmente distinta e separata dal reato associativo (semplice)”.

    Occorre, dunque, “tener conto della peculiare struttura del reato ex art. 416 c.p. e di quello di cui all’art. 416-bis c.p. (Cass. 1976, n. 1205). La tipizzazione di figure criminose concorsuali attraverso la coniugazione dell’art. 110 c.p. con la singola fattispecie di reato è una operazione normativa di dubbia legittimità in relazione ai principi di legalità, in quanto finisce per parificare le condotte ascrivibili a ciascun concorrente senza descriverle, dilatando la sfera di punibilità in contrasto col principio di offensività, attesa la difficoltà di ipotizzare una condotta concorsuale che non corrisponda ad una attività di partecipazione all’associazione”.

    Né può ignorarsi che, nonostante la corte di legittimità insista nell’affermazione che la nozione di concorso esterno nel reato associativo non sia di creazione giurisprudenziale, (così ancora da ultimo Sez. 2, 18132 del 13.4.2016, rv. 266908; Sez. 5, 2653 del 13.10.2015, rv. 265926) “tale tesi risulta contraddetta dalla Corte EDU la quale, come è noto, con sentenza del 14 aprile 2015, Contrada c/o Italia, nel condannare il nostro Paese per violazione dell’art. 7 della CEDU (quello che fissa il principio di legalità e di irretroattività della incriminazione penale) ha sostenuto, senza che le parti contraddicessero l’assunto, che la figura in discussione sia di origine giurisprudenziale”. 

    Non ignora certo il Collegio che “il concorso esterno è stato riconosciuto a margine di altri reati associativi, quello di cui all’art. 270 c.p. (Sez. 1, Sentenza n. 1072 del 11/10/2006, Rv. 235290) ed in passato, nella giurisprudenza degli anni ‘80, in relazione ai reati di terrorismo ex artt. 305 e 306 c.p. (reati di eversione politica e di terrorismo). Va però sul punto considerato che in ordine al reato di cui all’art. 270 c.p. la condotta incriminata è quella di 'far parte', analogamente alla tipizzazione ex art. 416-bis c.p., mentre per le figure di reato riferibili al terrorismo politico il problema non ha assunto caratteri di sostanziale criticità applicativa giacché, senza ricorrere alla nozione di concorso esterno, sono stati comunque assicurati accettabili livelli di punibilità nell’ambito del sistema con il ricorso ad una serie di figure di reato applicabili alle varie fattispecie concrete venutesi a realizzare nella pratica”.

    Ritiene ancora utile il Collegio richiamare “la recente problematica di respiro Europeo volta alla creazione di un vero e proprio diritto della criminalità organizzata, auspicato dalla risoluzione Europea del 23.10.2013 sul crimine organizzato e sul riciclaggio, la quale fa posto l’esigenza di definire una nozione giuridica di associazione di stampo mafioso comune a tutti gli stati dell’unione (in tali sensi anche risoluzione 25.10.2011- in questo contesto si pensa ad un nuovo modello tipico, fondato sul metodo mafioso); non solo, il Parlamento Europeo, nella richiamata risoluzione del 25.10.2011, ha chiesto anche alla Commissione 'che venga esaminata con maggior rigore la questione della criminalizzazione di qualsiasi forma di sostegno alle organizzazioni criminali' (da ciò si deduce che l’opzione politica penale del parlamento Europea in riferimento alla aree di contiguità mafiosa va inquadrata nell’ampia formula del 'sostegno')”.

    Si è espressa per la configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione per delinquere di cui “all’art. 416 c.p. Cass., sez. III, 9.7.2008, rv. 241274; Barretta; mentre nel senso della loro incompatibilità logica e giuridica può richiamarsi Cass., sez. 1, 18.5.1994, n. 2343, rv. 198338. Appare utile altresì richiamare Cass. sez. II, 29.11.2012, n. 47602, rv. 254105, la quale, pur non affrontando ex professo la questione in discorso, evidenzia sostanzialmente la difficoltà di configurare il concorso esterno in ipotesi di associazione per delinquere semplice ex art. 416 c.p.”.

  • Corte di Cassazione, Sezione III penale, Sentenza 6 ottobre 2016, n. 42063

    Le emissioni sonore prodotte dalla musica diffusa nelle pertinenze del locale integrano la contravvenzione di cui all’art. 659, co. 1, c.p.. 

    La questione posta all’attenzione dei Giudici di Piazza Cavour è la seguente: le emissioni sonore prodotte dalla musica diffusa nelle pertinenze del locale integrano la contravvenzione di cui all’art. 659, co. 1, c.p. o il mero illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447?

    Giova, preliminarmente, porre in luce come “l’art. 659, inserito nel codice penale tra le contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica, preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui al primo comma, la quale punisce il comportamento di colui il quale "mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici"; nonché quella di cui al secondo comma, che invece punisce il fatto di "chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità". Dunque, mentre la prima fattispecie, contemplata dal comma 1, punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque cagionato, peraltro con modalità espressamente e tassativamente determinate, la seconda, disciplinata dal comma 2, punisce le attività rumorose, industriali o professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell’autorità” (Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez, Rv. 259194). 

    E’, invero, controverso il rapporto tra le due ipotesi di reato, così come quello tra le stesse e la disciplina dettata dall’art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447 (cd. legge quadro sull’inquinamento acustico), la quale prevede un’ipotesi di illecito amministrativo nel caso in cui "nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore" si superino "i valori limite di emissione o di immissione" fissati in conformità al disposto dell’art. 3, comma 1, lettera a) della stessa legge.

    Secondo un primo indirizzo, "il mancato rispetto dei limiti di emissione del rumore stabiliti dal D.P.C.M. 1 marzo 1991 può integrare la fattispecie di reato prevista dall’art. 659, comma secondo, cod. pen., allorquando l’inquinamento acustico è concretamente idoneo a recare disturbo al riposo e alle occupazioni di una pluralità indeterminata di persone, non essendo in tal caso applicabile il principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689 del 1981 in relazione all’illecito amministrativo previsto dall’art. 10, comma secondo, della legge n. 447 del 1995" (Sez. 3, n. 15919 in data 8/04/2015, CO.NA.VAR. S.r.l., Rv. 266627; Sez. 3 n. 37184 del 3/07/2014, Torricella, non massimata; Sez. 1, n. 4466 del 5/12/2013, Giovanelli e altro, Rv. 259156; Sez. 1, n. 33413 del 7/06/2012, Girolimetti, Rv. 253483; Sez. 1, n. 1561 del 5/12/2006, Rey ed altro, Rv. 235883; Sez. 1, n. 25103 del 16/04/2004, Amato, Rv. 228244, relativa ad un caso di superamento dei valori-limite di rumorosità prodotta nell’attività di esercizio di una discoteca). Ciò in quanto “le due disposizioni sarebbero poste a protezione di beni giuridici diversi: mentre le fattispecie previste dall’art. 659 cod. pen. tutelerebbero la tranquillità pubblica, evitando che le occupazioni e il riposo delle persone possano venire disturbate con schiamazzi o rumori o con altre attività idonee ad interferire nel normale svolgimento della vita privata di un numero indeterminato di persone, con conseguente messa in pericolo del bene della pubblica tranquillità, viceversa, la fattispecie contemplata dall’art. 10, comma 2, della legge n. 447 del 1995, tutelerebbe genericamente la salubrità ambientale e la salute umana, limitandosi a stabilire i limiti di rumorosità delle sorgenti sonore, oltre i quali debba ritenersi sussistente l’inquinamento acustico, sanzionato in via amministrativa in considerazione dei danni che il rumore può produrre sia sul fisico che sulla psiche delle persone”. 

    Secondo un opposto orientamento, invece, “il superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall’esercizio di mestieri rumorosi configurerebbe l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, legge n. 447 del 1995 (cfr. Sez. 1, n. 530 del 3/12/2004, P.M. in proc. Termini e altro, Rv. 230890; Sez. 3, n. 2875 del 21/12/2006, Roma, Rv. 236091; Sez. 1, n. 48309 del 13/01/2012, Carrozzo e altro, Rv. 254088; Sez. 3, n. 13015 del 31/01/2014, Vazzana, Rv. 258702), atteso che a seguito dell’entrata in vigore della cd. legge quadro sull’inquinamento acustico il comma 2 dell’art. 659 cod. pen. sarebbe stato sostanzialmente abrogato, in applicazione del principio di specialità contenuto nell’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, data la perfetta identità dell’ambito delineato dalla norma codicistica e di quello, di contenuto più ampio, sanzionato, solo in via amministrativa, in forza dell’altra disposizione”.

    Secondo un indirizzo intermedio, infine, “è configurabile l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge n. 447/1995 ove si verifichi soltanto il superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia; la contravvenzione di cui al comma 1 dell’art. 659, cod. pen., ove il fatto costituivo dell’illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato; quella di cui al comma 2 dell’art. 659 cod. pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all’esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustiche” (Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non massimata; Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885; Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino, Rv. 260658; Sez. 1, n. 25601 del 19/04/2013, Casella, non massimata; Sez. 1, n. 39852 del 12/06/2012, Minetti, Rv. 253475; Sez. 1, n. 48309 del 13/11/2012, Carrozzo, Rv. 254088; Sez. 1, n. 44167 del 27/10/2009, Fiumara, Rv. 245563; Sez. 1, n. 23866 del 9/06/2009, Valvassore, Rv. 243807). 

    A favore di questo indirizzo si è rilevato, infatti, come l’affermazione secondo cui l’illecito amministrativo tuteli genericamente la salubrità ambientale sia smentito dal tenore letterale delle disposizioni contenute nella legge n. 447/1995, le quali, secondo l’art. 1, sono dettate per la "tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico". Tali disposizioni, all’art. 2, comma 1, lett. a), identificano l’inquinamento acustico nella "introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell’ambiente abitativo o dell’ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi"; e ancora, alla lettera b) del medesimo comma, identificano l’ambiente abitativo con "ogni ambiente interno ad un edificio destinato alla permanenza di persone o di comunità ed utilizzato per le diverse attività umane, fatta eccezione per gli ambienti destinati ad attività produttive per i quali resta ferma la disciplina di cui al D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, salvo per quanto concerne l’immissione di rumore da sorgenti sonore esterne ai locali in cui si svolgono le attività produttive".

    In questa prospettiva, il bene giuridico tutelato dalla "legge-quadro (deve considerarsi) ben più ampio, in quanto il legislatore non si è limitato a prendere in esame esclusivamente la tutela dei singoli individui, perché la sua attenzione risulta focalizzata verso un ben più ampio contesto, valutando ogni possibile effetto negativo del rumore, inteso, appunto, come fenomeno inquinante, tale cioè, da avere effetti negativi sull’ambiente, alterandone l’equilibrio ed incidendo non soltanto sulle persone, sulla loro salute e sulle loro condizioni di vita, facendo la norma riferimento, come si è detto, anche agli ecosistemi, ai beni materiali ed ai monumenti".

    Pertanto, secondo questo indirizzo, “una piena sovrapponibilità tra le due fattispecie dell’art. 659, comma 2 e dell’art. 10 citato, deve aversi soltanto nel caso in cui l’attività rumorosa si sia concretata nel mero superamento dei valori limite di emissione specificamente stabiliti in base ai criteri delineati dalla legge quadro, causato mediante l’esercizio o l’impiego delle sorgenti individuate dalla legge medesima. Ed in tali casi, sulla base dei principi enunciati dalle Sezioni Unite n. 1963/2011 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722, il concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, deve essere risolto a favore della disposizione speciale, costituita dalla fattispecie amministrativa”. 

    Viceversa, “restano esclusi dall’ambito comune delle due ipotesi di illecito sia il superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti, sia l’insieme delle condotte che si estrinsecano nell’esercizio di attività rumorose svolte in violazione di altre disposizioni di legge o delle prescrizioni dell’autorità, trovando pacifica applicazione, in tali casi, l’art. 659, comma 2, cod. pen.”. 

    Quando poi le attività di cui sopra vengano svolte “eccedendo dalle normali modalità di esercizio, rivelandosi idonee a turbare la pubblica quiete, sarà invece configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659, comma 1, cod. pen.” (per questo indirizzo si vedano: Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non massimata; e, soprattutto, Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885).

    Orbene, il Collegio ritiene che “il fatto ricostruito dai giudici di merito debba essere certamente sussunto entro la fattispecie incriminatrice contemplata dal comma 1 dell’art. 659 cod. pen., essendo stata specificamente contestata la realizzazione di condotte tali da determinare il disturbo del riposo e dell’occupazione delle persone e rientrando la diffusione, mediante altoparlanti esterni, di musica ad un volume particolarmente elevato, tra le condotte certamente "eccedenti le normali attività di esercizio" del locale”.

    In conclusione, deve rammentarsi che la fattispecie uti supra ha “natura di reato di pericolo, sicché deve ritenersi sufficiente, ai fini della sua integrazione, il compimento di condotte idonee, secondo una valutazione da compiere in concreto ed ex ante, a recare pregiudizio alla quiete pubblica ovvero al riposo delle persone”. Ed a tal fine, come già rilevato, non è affatto necessario che si dimostri l’avvenuto superamento dei limiti positivamente determinati, potendo tale valutazione essere compiuta alla stregua di un parametro di comune esperienza, purché idoneo a "dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete" (così, ancora, Sez. 3, n. 11031 del 5/02/2015, Montoli e altro, Rv. 263433).

     

  • Corte di Cassazione, Sezione I penale, Ordinanza 14 ottobre 2016, n. 43564

    Sul discrimen tra omicidio preterintenzionale e omicidio volontario. 

    Con la pronuncia in esame, la Cassazione si esprime sul discrimen intercorrente tra omicidio preterintenzionale e volontario. 

    Orbene, “nell’omicidio preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo concorrono un dato positivo e uno negativo: la volontà di offendere (con percosse o lesioni) e la mancanza dell’intenzione di uccidere; mentre, invece, l’elemento psicologico che connota l’omicidio volontario è proprio l’intenzione di cagionare la morte della vittima.

    Quando il complesso delle circostanze non evidenzia ictu oculi l’animus necandi, per le difficoltà di riconoscere per via diretta il proposito dell’agente, sorreggono il ragionamento fatti certi che consentono di provare l’esistenza o meno di altri fatti (ignoti) attraverso un procedimento logico d’induzione. 

    Fatti tesi a individuare la volontà omicida sono precipuamente i mezzi usati, l’intensità e la reiterazione dei colpi, la parte del corpo colpita, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscono l’azione cruenta”.

    Alla luce di quanto suddetto, gli Ermellini avallano l’elaborazione della giurisprudenza della Corte (Sez. 1, sentenza n. 25239 del 20/5/2001, Rv. 219433), secondo cui "il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale risiede nell’elemento psicologico, nel senso che nell’ipotesi della preterintenzione la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta".

    Infine, i Giudici osservano che "l’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell’ eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio ex ante calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto e astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali" (Sez. 1, n. 13370 del 05/03/2013, Rv. 255268). 

  • Corte di Cassazione, Sezione V penale, Sentenza 18 ottobre 2016, n. 44103

    E’configurabile il delitto di bancarotta patrimoniale se la condotta si risolve in un’ingiustificata e volontaria sottrazione dei beni dell’impresa alla loro naturale funzione di garanzia. 

    Con la sentenza indicata in epigrafe, la Suprema Corte conferma “il consolidato insegnamento giurisprudenziale e dottrinario per cui, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta patrimoniale, è necessario che la condotta addebitata sia in grado di determinare quantomeno il pericolo di una effettiva diminuzione della garanzia patrimoniale che non trovi una sua giustificazione in una scelta gestionale compatibile con la logica d’impresa. I confini del sindacato sulla gestione dell’impresa sono dunque determinati dall’oggetto della tutela (l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia), ma soprattutto dalle stesse modalità di aggressione selezionate per l’incriminazione (distrazione, dissipazione, dissipazione e occultamento) ed individuate attraverso il ricorso ad una terminologia immediatamente evocativa del disvalore intrinseco del fatto tipizzato e che altrettanto immediatamente rivela come oggetto di rimprovero non siano le scelte imprenditoriali dannose in sé (eventualmente rilevanti, in determinati casi, ai sensi dell’art. 217 legge fall.), bensì e per l’appunto quelle che si risolvono in una ingiustificata e volontaria sottrazione dei beni dell’impresa alla loro naturale funzione di garanzia delle passività della medesima”.  

    Inoltre, il Consesso, confutando l’isolato precedente (Sez. 5, n. 3506 del 23 febbraio 1995, Barducco ed altri, Rv. 201057), esclude la configurabilità del “concorso formale tra il reato di bancarotta fraudolenta e quello di bancarotta impropria da operazioni dolose, che deve considerarsi assorbito nel primo quando l’azione diretta a causare il fallimento sia la stessa sussunta nel modello descrittivo della bancarotta fraudolenta” (Sez. 5, n. 35066 del 5 luglio 2007, P.M. in proc. Ascone, Rv. 237716; Sez. 5, n. 34559 del 19 maggio 2010, Biolè e altro, Rv. 248167; Sez. 5, n. 24051 del 15 maggio 2014, Lorenzini e altro, Rv. 260142).

  • Corte di Cassazione, Sezione II penale, Sentenza 24 ottobre 2016, n. 44659

    Il vizio del gioco d’azzardo integra il vizio totale o parziale di mente se sussiste un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa. 

    La questione posta al vaglio del Giudice di Legittimità riguarda la possibilità di riconoscere il vizio totale o parziale di mente in capo ad un giocatore d’azzardo. 

    A tal uopo, i Giudici richiamano le Sezioni Unite, secondo cui "Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i "disturbi della personalità", che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale" (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005, Raso, Rv. 230317); di guisa che tale regola “è stata ritenuta in tempi più recenti applicabile anche al vizio del gioco d’azzardo” (Sez. 1, n. 52951 del 25/06/2014, Guidi, Rv. 261339).

    Deve, altresì, ricordarsi che la Corte Suprema con una decisione condivisa anche dall’odierno Collegio (cfr. Sez. 2, n. 24535 del 22/05/2012, Bonadio, Rv. 253079) “ha escluso che il vizio del gioco di azzardo potesse comportare la diminuente del vizio parziale di mente in relazione al reato di rapina commesso da persona continuamente compulsata dall’esigenza di trovare denaro per poter far fronte ai debiti derivanti dalle frequenti giocate”.

    Pertanto, il Consesso esclude la sussistenza del nesso di causalità con la condotta criminosa allorquando non tutto il denaro provento delle truffe è stato utilizzato dall’imputato per giocare immediatamente e le azioni delittuose poste in essere sono state realizzate mediante condotte caratterizzate da connotati incompatibili con la spiegazione patologica del movente.