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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Penale



Osservatorio sulla Giurisprudenza Penale al 30 novembre 2016. A cura di Loretta Rapisarda

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  • Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 3 novembre 2016, n. 46170

     

    Elementi costitutivi del nuovo delitto di inquinamento ambientale

    Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione analizza per la prima volta gli elementi costitutivi del nuovo reato di «inquinamento ambientale».

    La fattispecie criminosa prevista dall’art.452bis c.p. è stata introdotta dalla legge 22 maggio 2015 n. 68, la quale ha comportato un’ampia revisione nel settore del diritto penale ambientale italiano, adeguandolo al panorama normativo europeo e, in particolare, alla direttiva 2008/99/CE.

    L’art. 452bis punisce “chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell‟aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”.

    La disposizione presa in esame dalla sentenza n. 46170 del 3 novembre 2016 reca con sé un profondo mutamento rispetto al passato, posto che l’oggetto del rimprovero non è più l’aver tenuto una condotta pericolosa per il bene giuridico ambiente, bensì l’aver cagionato un danno vero e proprio a tale bene giuridico.

    Nella pronuncia in commento la Corte di Cassazione sofferma la propria attenzione sugli elementi costitutivi della nuova fattispecie di reato.

    Il primo di tali requisiti è l’abusività della condotta. A tale proposito la sentenza condivide i principi elaborati dalla giurisprudenza con riferimento alla diversa fattispecie di traffico illecito di rifiuti.

    In particolare, la giurisprudenza ha affermato che “sussiste il carattere abusivo dell'attività organizzata di gestione dei rifiuti - idoneo ad integrare il delitto - qualora essa si svolga continuativamente nell'inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, il che si verifica non solo allorché tali autorizzazioni manchino del tutto (cosiddetta attività clandestina), ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati”.

    Tale interpretazione è stata inoltre condivisa dalla dottrina, la quale ha adottato “un concetto ampio di condotta «abusiva», comprensivo non soltanto di quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali, ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale, ma anche di prescrizioni amministrative”.

    Il reato in esame individua, pertanto, una fattispecie a forma libera: è incriminata ogni condotta cui sia causalmente riconducibile la realizzazione dell’evento, purché posta in essere in contrasto con norme di legge o prescrizioni amministrative.

    La Consulta si sofferma poi sulle nozioni di compromissione e deterioramento.

    Ed invero, la previsione normativa risulta costruita come delitto di evento, per cui ai fini della qualificazione giuridica dei fatti come delitto di inquinamento ambientale è necessario che la condotta abbia effettivamente determinato la compromissione o il deterioramento dei beni ambientali specificamente indicati.

    Ritiene la Cassazione che i due termini “indicano fenomeni sostanzialmente equivalenti negli effetti, in quanto si risolvono entrambi in una alterazione, ossia in una modifica dell'originaria consistenza della matrice ambientale o dell'ecosistema caratterizzata, nel caso della “compromissione”, in una condizione di rischio o pericolo che potrebbe definirsi di “squilibrio funzionale”, perché incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell'ecosistema ed, in quello del deterioramento, come “squilibrio strutturale”, caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di questi ultimi”.

    Non assume rilievo, invece, secondo la pronuncia in esame, l'eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale di cui all'art. 452-quater c.p.

    Sia la compromissione che il deterioramento per essere penalmente rilevanti devono inoltre essere significativi e misurabili.

    Con la specificazione di tali requisiti, afferma la Corte, il legislatore ha inteso delimitare l’ambito di operatività dell’art. 452bis c.p. elevando il livello di lesività della condotta ed escludendo i fatti di minore rilievo.

    In particolare, a parere della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione “il termine “significativo” denota senz'altro incisività e rilevanza, mentre “misurabile” può dirsi ciò che è quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile”.

    Partendo da tali considerazioni la Cassazione non ritiene condivisibili le conclusioni a cui giunge il Tribunale del riesame, a parere del quale compromissione e deterioramento sono penalmente rilevanti solo quando connotate dalla tendenziale irreversibilità del danno, insussistente nel caso di specie.

    Secondo la sentenza in commento, invece, “Tali conclusioni non convincono, perché, in primo luogo, paiono riferirsi ad una individuazione dei termini “compromissione” e “deterioramento” che concentra l'attenzione su una condizione di “tendenziale irrimediabilità” che, per le ragioni in precedenza indicate, la norma non prevede”.

     

  • Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 7 novembre 2016, n. 46688

     

    D.Lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 e poteri del giudice dell’impugnazione in ordine alle statuizioni civili.

    Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 46688 del 7 novembre 2016, hanno definitivamente risolto il contrasto sorto in tema di poteri del giudice dell’impugnazione in ordine alle statuizioni civili eventualmente espresse nelle sentenze di condanna relative ad un reato successivamente abrogato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016 n. 7.

    Ed invero, nelle ipotesi di reato abrogate dal D.lgs. n. 7 del 2016 se non è in discussione il dovere del giudice penale di concludere il processo pendente dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, “dubbi e contrapposizioni si sono venuti a determinare, nella giurisprudenza di legittimità, non meno che nella dottrina, sulla sorte dei capi della sentenza di condanna, già eventualmente pronunciata, contenenti statuizioni civili”.

    Il problema affrontato attiene dunque ai profili di diritto intertemporale generati dall’applicazione delle norme contenute nel D.lgs. n. 7/2016.
    In particolare, a differenza del d.lgs. n. 8/2016 che contiene una disciplina specifica sul punto, il decreto in esame non contiene una norma che disciplini la sorte delle statuizioni civili nel giudizio di impugnazione. È proprio questo vuoto legislativo che ha fatto sorgere contrasti interpretativi.

    La sentenza in esame è pertanto chiamata a risolvere la seguente questione di diritto: “se, in caso di condanna pronunciata per un reato successivamente abrogato e configurato quale illecito civile ai sensi dell'art. 4 D.Lgs. n. 7 del 2016, il giudice dell'impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, possa decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili ovvero debba revocare le statuizioni civili”.

    Sul punto si sono formati due orientamenti discordanti.
    Un primo indirizzo interpretativo è favorevole al mantenimento, in capo al giudice dell’impugnazione, del potere di decidere sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.
    Un secondo orientamento, invece, giunge a conclusioni contrapposte basandosi su quanto affermato da un recente intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 12 del 2016) che, nell’affrontare i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 538 c.p.p., ha ritenuto tale norma in linea “con la scelta di rendere tendenzialmente autonomo il giudizio penale da quello civile sullo stesso fatto”.

    Le Sezioni Unite accolgono tale secondo indirizzo interpretativo ritenendo che la questione “è destinata a trovare soluzione nei principi generali in tema di attivazione dell'azione civile nel processo penale”.

    In particolare, l’abrogazione del reato oggetto del provvedimento prima del passaggio in giudicato della sentenza determina, per il Supremo Consesso, la caducazione delle statuizioni civili.

    La pronuncia rileva come tale soluzione al problema trova conferma nella scelta del legislatore di non prevedere e regolare espressamente nel D.lgs. n.7/2016 (diversamente dal gemello D.lgs. n.8/2016) la sorte degli interessi civili.

    Il significato di tale scelta, secondo le Sezioni Unite, non può che essere interpretato alla luce del canone dell’ubi noluit non dixit.

    Poiché l’orientamento disatteso aveva sollevato il dubbio di incostituzionalità di una tale interpretazione, i giudici di legittimità si preoccupano anche di esaminare il problema dell’eventuale contrasto dell’interpretazione accolta con i principi costituzionali, con particolare riferimento a quelli di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost.

    A tale proposito le Sezioni Unite prendono le mosse da quanto sostenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza richiamata e rilevano che “I principi declinati dal Giudice delle leggi nella più recente pronuncia n. 12 del 2016 valgono anche per il caso che direttamente ci occupa, poiché abbracciano in radice la questione dei rapporti fra l'azione civile incardinata nel processo penale e quest'ultimo e ne indicano le ragioni ispiratrici”.

    I giudici di legittimità ribadiscono l’assunto per cui l’azione civile “assume carattere accessorio e subordinato rispetto all'azione penale ed è perciò destinata a subire «tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi»”, “sicchè, una volta che il danneggiato, previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli, scelga di esercitare l'azione civile nel processo penale anziché nella sede propria, non gli è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono”.

    D’altra parte, “l'eventuale impossibilità, per il danneggiato, di vedere esaminata la propria domanda di risarcimento non incide neppure in modo apprezzabile sul diritto di difesa e prima ancora sul diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l'azione di risarcimento del danno nella sede civile”.

    Sulla base di tali argomentazioni le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ritengono del tutto superato il profilo del dubbio di incostituzionalità della interpretazione accolta e affermano il seguente principio di diritto: “in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice della impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili”.

  • Corte di Cassazione, Sezione VI, ordinanza 9 novembre 2016, n. 47174

     

    Rapporto tra truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e malversazione a danno dello Stato

    Con ordinanza del 9 novembre 2016 la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha affidato alla decisione delle Sezioni Unite il contrasto sorto in dottrina e giurisprudenza circa i rapporti tra il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e quello di malversazione a danno dello Stato.

    La vicenda processuale oggetto dell’ordinanza di rimessione riguarda la condotta di due imputate che, attraverso la costituzione di una fittizia società, ottengono illecitamente un’erogazione pubblica e, successivamente, non destinano il denaro ricevuto alla finalità cui l’erogazione era rivolta.

    La condotta contestata è in astratto riconducibile sia al reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p., sia al reato di malversazione a danno dello Stato ex art. 316-bis c.p.

    Le due fattispecie sono parallele poiché entrambe prendono in considerazione prestazioni pubbliche, qualificabili come sovvenzioni, contributi e finanziamenti, tuttavia se la truffa opera nel momento precettivo, la malversazione reprime invece condotte successive al conseguimento delle prestazioni pubbliche.

    La Sesta Sezione rileva come in tema di rapporti tra le due fattispecie si registra un contrasto in giurisprudenza, che riproduce analogo contrasto presente in dottrina. Secondo un primo filone giurisprudenziale il fatto che i comportamenti descritti dalle due norme possono sommarsi non esclude in sè la possibilità di concorso.

    Ed invero, afferma la giurisprudenza, “non si verte su una stessa materia regolata da più disposizioni penali, per cui possa valere il criterio di specialità di cui all'art. 15 cod. pen.; la concomitanza dei comportamenti è solo eventuale e non vale a qualificare una delle condotte come speciale rispetto all'altra”.

    A tale considerazione deve inoltre aggiungersi che “Diversi sono i beni protetti: la truffa tutela il patrimonio da atti di frode, aggravata nel caso di conseguimento di erogazioni pubbliche; la malversazione tutela la P.A. da atti contrari agli interessi della collettività, anche di natura non patrimoniale”.

    In senso contrario altre sentenze ritengono, riflettendo un maggioritario orientamento dottrinario, che “tra le due norme intercorra un rapporto di sussidiarietà, alla stregua del quale il reato di malversazione di cui all'art. 316-bis cod. pen. ha natura sussidiaria e residuale, rispetto alla truffa di cui all'art. 640-bis, cod. pen.”.

    Tale secondo orientamento, contrario al concorso tra i due reati, fa riferimento, piuttosto che ad un rapporto di specialità, al rapporto di sussidiarietà, applicabile in presenza di comportamenti che offendono stadi o gradi diversi dello stesso bene giuridico.

    Ed invero, rileva la giurisprudenza come nel caso di condotta riconducibile alle suddette fattispecie “è indubbio che il bene sia offeso fin dal momento consumativo della truffa, cioè da quello realizzativo del profitto con altrui danno, e che la diversa destinazione impressa rappresenti la fase esecutiva del medesimo progetto criminoso, tanto nell'ipotesi in cui esso sia programmato fin dall'inizio o quanto in quella in cui abbia preso corpo dopo l'erogazione. Pertanto il diverso impiego del finanziamento non è che una conseguenza naturale del conseguimento dell'erogazione con artifici e raggiri, per cui non possono sottoporsi a sanzione due comportamenti offensivi dello stesso bene in due diversi momenti”.

    L’ordinanza, dopo aver riassunto le contrapposte argomentazioni che giurisprudenza e dottrina hanno seguito per giungere agli opposti esiti, ritiene necessarie alcune precisazioni.

    Innanzitutto sottolinea come debba escludersi che possa assumere rilievo dirimente la diversità o meno del bene protetto: da una parte “alla base delle due norme vi è un'erogazione, che nel caso della truffa è di per sé lesiva del patrimonio dello Stato o dell'ente pubblico e che nel caso della malversazione va correlata alla concreta destinazione conferitale, fermo restando che anche la distrazione dalle finalità risulta comunque tale da incidere sul patrimonio dell'ente erogatore”, dall’altra “l'erogazione di un contributo vincolato, dovuta a fraudolenta rappresentazione dei presupposti, e lo sviamento dell'erogazione dalle vincolate finalità parimenti offendono il buon andamento della Pubblica Amministrazione”.

    Ai giudici di legittimità non sembra nemmeno decisivo, ai fini della risoluzione del problema, “il fatto che possano ravvisarsi condotte distinte che prescindono dal compimento dell'altra, giacché il problema si pone proprio quando quella condizione si verifichi, quando cioè la distrazione almeno parziale dell'erogazione dalle sue finalità intervenga con riguardo a provvidenze ottenute di per sé con mezzi fraudolenti”.

    Tuttavia, anche a voler accogliere l’orientamento giurisprudenziale che ammette il concorso apparente di norme tra le due fattispecie di reato si porrebbe il problema del contrasto dei criteri dell’assorbimento e della consunzione con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza a tassatività, poiché si farebbe dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l’applicazione di una norma penale.

    Ed allora sembra alla Corte di Cassazione che la questione posta nel caso in esame assuma un rilievo strutturale più ampio, coinvolgendo il tema della sfera di residua applicabilità di nozioni quali quelle di sussidiarietà o assorbimento.

    Pertanto la questione di diritto rimessa al giudizio delle Sezioni Unite è stata enunciata nei seguenti termini: “se nel caso di erogazione da parte di ente pubblico di contributo o finanziamento, ottenuto fraudolentemente, il delitto di cui all'art. 640-bis, cod. pen. concorra con quello di cui all'art. 316- bis, cod. peri., ove il contributo finalizzato a favorire attività di interesse pubblico sia destinato almeno in parte ad altre finalità, ovvero assorba tale ultimo delitto, nel presupposto che esso realizzi uno stadio minore dell'offesa al medesimo bene protetto”.

  • Corte di Cassazione, Sezione V Penale, sentenza 14 novembre 2016, n. 48001

     

    Reato di associazione con finalità di terrorismo: la condotta di indottrinamento non integra un atto terroristico

    La pronuncia che si annota intende ricondurre l’applicazione dell’art. 270 bis c.p. nell’alveo del principio di offensività.

    In particolare, la sentenza afferma che la semplice condotta di proselitismo non è di per sé sufficiente ai fini della sussistenza della fattispecie, essendo necessario che tale condotta venga accompagnata da propositi concreti ed attuali di violenza tali da attribuire all’attività di esaltazione della morte in nome della guerra santa, tipica dell’indottrinamento, “caratteristiche di materialità”.

    Secondo i giudici di legittimità il reato di cui all'art. 270 bis c.p. (associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico) è “indubbiamente” un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità è sufficiente l'esistenza di una struttura organizzata che si propone il compimento di atti finalizzati a sovvertire violentemente l'ordinamento dello Stato.

    Tuttavia, sottolineano gli stessi giudici, la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato.

    Ciò posto, la sentenza rileva come in diverse occasioni la Suprema Corte ha precisato che “la ravvisabilità della condotta associativa, se non richiede la predisposizione di un programma di azioni terroristiche, necessita tuttavia della costituzione di una struttura organizzativa con un livello di effettività che renda possibile la realizzazione del progetto criminoso”.

    La V sezione penale, con la sentenza in commento, mette in evidenza come “nella previsione normativa, la rilevanza penale dell‟associazione sia legata non alla generica tensione della stessa verso la finalità terroristica o eversiva, ma al proporsi il sodalizio la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità”.

    In particolare, i giudici di legittimità individuano due requisiti, entrambi indispensabili per la configurabilità di una struttura associativa riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 270 bis c.p.

    In primo luogo obiettivo della associazione deve essere il compimento di atti di violenza terroristica o eversiva.

    Osserva la Corte come la semplice attività di indottrinamento, finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, non è da sola sufficiente ai fini della configurabilità del reato.

    Potrà assumere rilevanza, invece, laddove sia affiancata dalla condotta di addestramento al martirio degli adepti, poiché tale ultima condotta attribuisce a quella di esaltazione della morte in nome della guerra santa, propria dell’indottrinamento, “caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l‟associazione, secondo il dettato normativo già ricordato, si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo”.

    In secondo luogo, la struttura criminale deve essere idonea al raggiungimento della finalità programmata, ossia a realizzare atti anche astrattamente definibili come terroristici secondo la previsione dell’art. 270 sexies c.p.

    La Suprema Corte rileva come nel caso di specie dalle indagini non emergono atti “che creino la concreta possibilità di un grave danno per uno Stato, nei termini di un reale impatto intimidatorio sulla popolazione dello stesso, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza dell‟intera collettività, ovvero di un determinante esito costrittivo o destabilizzante nei confronti dei pubblici poteri”.

    Pertanto la Corte di Cassazione conclude con l’assoluzione degli imputati dal reato di associazione con finalità di terrorismo ritenendo che gli elementi considerati dai giudici di merito “danno conto della limitazione dell‟operatività del gruppo, del quale gli imputati erano ritenuti componenti, ad un‟attività di proselitismo e indottrinamento, finalizzata ad inculcare una visione positiva del combattimento per l‟affermazione dell‟islamismo e della morte per tale causa. Attività che può costituire senza dubbio una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un‟associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma che non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito; al più realizzando presupposti di pericolosità dei soggetti interessati valutabili ai fini dell‟applicazione di misure di prevenzione”.

  • Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, sentenza 16 novembre 2016, n. 48544

     

    L’elemento oggettivo del reato di peculato

    La Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 48544 del 16 novembre 2016 si è pronunciata sulla condotta di un soggetto, Presidente del Consiglio di un Comune, il quale utilizzava le somme ricevute a titolo di anticipo per spese di trasferta per finalità diverse da quella istituzionale.

    Innanzitutto, la Cassazione chiarisce che la condotta dell’imputato non configura il delitto di abuso d’ufficio bensì il reato di peculato ex art. 314 c.p.

    In particolare, ritiene la Cassazione che il giudice di primo grado ha correttamente operato la diversa qualificazione giuridica del fatto, discostandosi dalla originaria imputazione di abuso d’ufficio.

    La sentenza annotata, infatti, ribadisce il potere-dovere del giudice di merito di effettuare la riqualificazione giuridica del fatto senza per questo incorrere nella violazione della regola del contraddittorio.

    Ed invero, precisa la Sesta Sezione che la stessa giurisprudenza di legittimità più volte “si è pronunciata nel senso che „in tema di correlazione tra accusa e sentenza, il rispetto della regola del contraddittorio – che deve essere assicurato all'imputato, anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, conformemente all'art. 111 Cost., comma 2, integrato dall'art. 6 Convenzione Europea, come interpretato dalla Corte EDU – impone esclusivamente che detta diversa qualificazione giuridica non avvenga „a sorpresa' e cioè nei confronti dell'imputato che, per la prima volta e, quindi, senza mai avere la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali rispetto all'originaria imputazione, di cui rappresenti uno sviluppo inaspettato”.

    Di conseguenza “non sussiste la violazione dell'art. 521, comma 1, c.p.p., qualora la diversa qualificazione giuridica del fatto appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e l'imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell'imputazione, anche attraverso l'ordinario rimedio dell'impugnazione, nella specie proposta avverso la sentenza di primo grado contenente la diversa qualificazione giuridica del fatto”.

    Tanto premesso, la pronuncia procede con l’analizzare l’elemento oggettivo del reato di peculato.

    In particolare, la fattispecie ex art. 314 c.p. è configurabile quando si accerta la condotta appropriativa di un bene appartenente alla pubblica amministrazione.

    L’elemento oggettivo del reato in esame, secondo la Cassazione, è costituito “esclusivamente dall'appropriazione che si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per il quale si possiede, da cui deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio dell'avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte dell'agente”.

    La Corte rileva come a seguito della legge n. 86 del 1990 “per aversi appropriazione fosse necessaria una condotta che non risultasse giustificata o giustificabile come pertinente all'azione della pubblica amministrazione; e che pertanto fosse configurabile la distrazione quando in presenza di pagamenti indebiti in favore di terzi, operati pur sempre in nome e per conto della pubblica amministrazione e, dunque, senza negare l'appartenenza pubblica del danaro, utilizzato nell'apparente rispetto di finalità istituzionali”.

    Sulla base di tali considerazioni la sentenza ritiene di dover rigettare il ricorso e, di conseguenza, conferma la penale responsabilità dell’imputato considerato che con la sua condotta si è appropriato di denaro pubblico per effettuare pagamenti di spesa non rientranti nella finalità pubblica dichiarata.

  • Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, sentenza 16 novembre 2016, n. 48544

     

    L’elemento oggettivo del reato di peculato

    La Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 48544 del 16 novembre 2016 si è pronunciata sulla condotta di un soggetto, Presidente del Consiglio di un Comune, il quale utilizzava le somme ricevute a titolo di anticipo per spese di trasferta per finalità diverse da quella istituzionale.

    Innanzitutto, la Cassazione chiarisce che la condotta dell’imputato non configura il delitto di abuso d’ufficio bensì il reato di peculato ex art. 314 c.p.

    In particolare, ritiene la Cassazione che il giudice di primo grado ha correttamente operato la diversa qualificazione giuridica del fatto, discostandosi dalla originaria imputazione di abuso d’ufficio.

    La sentenza annotata, infatti, ribadisce il potere-dovere del giudice di merito di effettuare la riqualificazione giuridica del fatto senza per questo incorrere nella violazione della regola del contraddittorio.

    Ed invero, precisa la Sesta Sezione che la stessa giurisprudenza di legittimità più volte “si è pronunciata nel senso che „in tema di correlazione tra accusa e sentenza, il rispetto della regola del contraddittorio – che deve essere assicurato all'imputato, anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, conformemente all'art. 111 Cost., comma 2, integrato dall'art. 6 Convenzione Europea, come interpretato dalla Corte EDU – impone esclusivamente che detta diversa qualificazione giuridica non avvenga „a sorpresa' e cioè nei confronti dell'imputato che, per la prima volta e, quindi, senza mai avere la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali rispetto all'originaria imputazione, di cui rappresenti uno sviluppo inaspettato”.

    Di conseguenza “non sussiste la violazione dell'art. 521, comma 1, c.p.p., qualora la diversa qualificazione giuridica del fatto appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e l'imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell'imputazione, anche attraverso l'ordinario rimedio dell'impugnazione, nella specie proposta avverso la sentenza di primo grado contenente la diversa qualificazione giuridica del fatto”.

    Tanto premesso, la pronuncia procede con l’analizzare l’elemento oggettivo del reato di peculato.

    In particolare, la fattispecie ex art. 314 c.p. è configurabile quando si accerta la condotta appropriativa di un bene appartenente alla pubblica amministrazione.

    L’elemento oggettivo del reato in esame, secondo la Cassazione, è costituito “esclusivamente dall'appropriazione che si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per il quale si possiede, da cui deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio dell'avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte dell'agente”.

    La Corte rileva come a seguito della legge n. 86 del 1990 “per aversi appropriazione fosse necessaria una condotta che non risultasse giustificata o giustificabile come pertinente all'azione della pubblica amministrazione; e che pertanto fosse configurabile la distrazione quando in presenza di pagamenti indebiti in favore di terzi, operati pur sempre in nome e per conto della pubblica amministrazione e, dunque, senza negare l'appartenenza pubblica del danaro, utilizzato nell'apparente rispetto di finalità istituzionali”.

    Sulla base di tali considerazioni la sentenza ritiene di dover rigettare il ricorso e, di conseguenza, conferma la penale responsabilità dell’imputato considerato che con la sua condotta si è appropriato di denaro pubblico per effettuare pagamenti di spesa non rientranti nella finalità pubblica dichiarata.