ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 07 - Luglio 2024

  Tributario



Osservatorio sulla Giurisprudenza Tributaria aggiornato al 31 ottobre 2018. A cura di Giuseppe Lonero

  • Cassazione civile, Sezione tributaria, sentenza n. 21809 del 07 settembre 2018: sul mutamento dei criteri di valutazione delle rimanenze, in riferimento al reddito di impresa.

    Gli Ermellini si pronunciano sulla problematica legata al mutamento dei criteri di valutazione delle rimanenze in relazione al reddito d’impresa.

    La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso, proposto dalla società contribuente, avverso l’avviso di accertamento, a mezzo del quale l’Amministrazione finanziaria richiedeva una maggiorazione del reddito IRPEG e IRAP dichiarato ai sensi e per gli effetti dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973.

    La CTP rigetta il predetto ricorso e medesima decisione viene adottata dalla CTR del Lazio. Nello specifico, il giudice di appello adotta la predetta decisione sulla base delle seguenti osservazioni in punto di fatto: “rispetto alla chiara e dettagliata esposizione di cui all’avviso di accertamento delle circostanze che avevano condotto l’Ufficio finanziario alla ripresa a tassazione, la società contribuente aveva opposto ragioni solo verbali non suffragate da idonea documentazione e che, per quanto riguardava la questione della sottovalutazione delle merci, la società contribuente aveva omesso di inserire nella nota integrativa al bilancio e nei verbali delle assemblee qualsiasi indicazione e motivazione della minore valutazione delle rimanenze finali, circostanza che legittimava l’esclusione di tale valutazione dalle risultanze contabili e fiscali operata dall’Ufficio anche se era stata accertata una qualche presenza di merce scaduta o in scadenza.

    La società contribuente decide, pertanto, di proporre ricorso per cassazione.

    I giudici della Suprema Corte di Cassazione rigettano il ricorso proposto dal contribuente.

    Preliminarmente, gli Ermellini osservano che il fatto non contestato dalle parti attiene al prezzo di vendita delle macchine da caffè, ma la questione di fondo, che il giudice di appello ha ritenuto di dovere valutare, è il seguente: se la vendita delle macchine da caffè avveniva a un prezzo maggiorato al fine di coprire la vendita sottocosto delle capsule da caffè. L’asserita maggiorazione della vendita delle macchine da caffè appare, invece, non provata e non rientrante nei limiti dei fatti non contestati. Il giudice di secondo grado ritiene la predetta condotta della contribuente contraria alla prassi commerciale di settore, secondo la quale, il prezzo di vendita delle macchine da caffè è contenuto nell’ottica di una fidelizzazione della clientela per gli acquisti successivi delle capsule da caffè.

    L’aspetto di maggiore criticità è rappresentato inoltre dalla violazione e falsa applicazione dell’art. 2426 c.c., comma 1, n. 9) e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, commi 1 e 2 in rapporto al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, n. 6), per non avere valutato che sussiste un obbligo della società contribuente ad effettuare, ai sensi del suddetto art. 110, la comunicazione all’Agenzia delle entrate del mutamento del criterio di valutazione delle rimanenze di magazzino e che il predetto adempimento sopperiva all’omessa indicazione della svalutazione delle merci nel bilancio redatto per il medesimo anno di imposta, in quanto l’Agenzia delle entrate appare avere la possibilità di essere, sempre e comunque, a conoscenza dell’operato della società, a prescindere dalla dedotta irregolarità nella redazione del bilancio.

    Gli Ermellini sostengono di non poter accogliere favorevolmente la tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, secondo la quale, nell’ipotesi di mancata indicazione nel bilancio di esercizio della intervenuta svalutazione del valore delle merci e nella nota integrativa, viene superata dalla successiva comunicazione, da essa compiuta, di cui all’art. 110, comma 6, del Tuir.

    Sul punto, il Collegio ricorda quanto prevede l’art. 110, comma 6, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917: “In caso di mutamento totale o parziale dei criteri di valutazione adottati nei precedenti esercizi il contribuente deve darne comunicazione all’agenzia delle entrate nella dichiarazione dei redditi o in apposito allegato”.

    I giudici del Collegio osservano che la norma presuppone l’avvenuta modifica dei criteri di valutazione e sancisce conseguentemente un obbligo di comunicazione. Ne consegue che “non può ad essa attribuirsi una valenza sostitutiva della necessaria specifica indicazione, in sede di redazione del bilancio e della nota integrativa, dei criteri di valutazione secondo quanto previsto dall’art. 2426 cod. civ. nonchè, eventualmente, dei diversi criteri seguiti in considerazione della ritenuta riduzione del valore delle merci in rimanenza.

    Sul punto, gli Ermellini rammentano che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, le risultanze del bilancio civilistico possono valere anche ai fini delle determinazioni fiscali, “a meno che non si dimostri che le stesse contrastano “con i principi di corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale ed economica dell'impresa stabiliti dal codice civile” (Cass. 23 novembre 2011, n. 23608; Cass. 23 luglio 2011, n. 16429), in tal modo ponendo in specifico rilievo che solo le risultanze del bilancio, ivi compresi i criteri indicati per la valutazione delle merci, debitamente approvato, assumono rilevanza ai fini fiscali, costituendo, quindi, quanto risultante dal bilancio, ove regolarmente tenuto, presupposto necessario ai fini della corretta considerazione di quanto in esso rappresentato.

    Alla luce delle predette considerazioni, i giudici del Collegio ritengono in conclusione che: “non può ritenersi che la comunicazione, cui fa riferimento la ricorrente, abbia valore al fine della corretta individuazione dei criteri di valutazione delle merci, non essendo stata la stessa preceduta dalla specifica indicazione in bilancio e nella nota integrativa, debitamente approvati dall’assemblea.

  • Cassazione civile, Sezione tributaria, sentenza n. 23269 del 27 settembre 2018: sul condono fiscale.

    Una società contribuente propone ricorso avverso le cartelle di pagamento emesse dall’Amministrazione finanziaria, a seguito di controllo automatizzato, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36bis e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54bis, in relazione alle dichiarazioni fiscali relative agli anni 2002-2003, per disconoscimento dei crediti Iva che si assumevano maturati nel 2001 e nel 2002, in relazione alle erano state omesse le relative dichiarazioni  e che erano stati riportati nelle annualità successive nonchè per omessi versamenti Irap per le medesime annualità.

    La CTP accoglie il ricorso proposto dalla società contribuente; la CTR si esprime in maniera conforme al giudice id primo grado.

    Avverso tale sentenza, l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione.

    Gli Ermellini ritengono che: “in caso di cartella di pagamento emessa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36bis, l’atto non rappresenta la mera richiesta di pagamento di una somma definita con precedenti atti di accertamento, autonomamente impugnabili e non impugnati, ma riveste anche natura di atto impositivo, trattandosi del primo ed unico atto con cui la pretesa fiscale è stata esercitata nei confronti del dichiarante, con conseguente sua impugnabilità, D.P.R. n. 546 del 1992, ex art. 19, anche per contestare il merito della pretesa impositiva (Cass. n. 1263 del 2014). Questa giurisprudenza non dubita che l’impugnazione della cartella di pagamento, con cui l’Amministrazione liquida le imposte calcolate sui dati forniti dallo stesso contribuente, dia origine ad una controversia definibile in forma agevolata, ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 16, in quanto detta cartella, essendo l’unico atto portato a conoscenza del contribuente con cui si rende nota la pretesa fiscale e non essendo preceduta da avviso di accertamento, è impugnabile non solo per vizi propri della stessa, ma anche per questioni che attengono direttamente al merito della pretesa fiscale ed ha, quindi, natura di atto impositivo (Cass. n. 31055 del 2017; n. 28611 del 2017; Cass. n. 1296 del 2916; n. 1295 del 2016; n. 26997 del 2014; n. 22672 del 2014). Si è affermato che, pertanto, è di per sè irrilevante la circostanza che la cartella contenga la liquidazione di imposte dichiarate e non versate, una volta che, da un lato, si tratta del primo atto con cui l’Amministrazione ha esercitato la propria pretesa nei confronti della contribuente, e, dall'altro, quest’ultima ha instaurato una controversia effettiva, facendo valere, nell’impugnare la cartella il proprio diritto alla emendabilità, in sede contenziosa, della dichiarazione (Cass. n. 22672 del 2014).

    Nello specifico, l’art. 39, comma 12, del D.L. n. 98 prevede che: “Al fine di ridurre il numero delle pendenze giudiziarie e quindi concentrare gli impegni amministrativi e le risorse sulla proficua e spedita gestione del procedimento di cui al comma 9 le liti fiscali di valore non superiore a 20.000 euro in cui è parte l'Agenzia delle entrate, pendenti alla data del 31 dicembre 2011 dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio, possono essere definite, a domanda del soggetto che ha proposto l’atto introduttivo del giudizio, con il pagamento delle somme determinate ai sensi dell'articolo 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289. A tale fine, si applicano le disposizioni di cui al citato articolo 16, con le seguenti specificazioni: a) le somme dovute ai sensi del presente comma sono versate entro il 31 marzo 2012 in unica soluzione; b) la domanda di definizione è presentata entro il 31 marzo 2012; c) le liti fiscali che possono essere definite ai sensi del presente comma sono sospese fino al 30 giugno 2012. Per le stesse sono altresì sospesi, sino al 30 giugno 2012 i termini per la proposizione di ricorsi, appelli, controdeduzioni, ricorsi per cassazione, controricorsi e ricorsi in riassunzione, compresi i termini per la costituzione in giudizio; d) gli uffici competenti trasmettono alle commissioni tributarie, ai tribunali e alle corti di appello nonchè alla Corte di cassazione, entro il 15 luglio 2012, un elenco delle liti pendenti per le quali è stata presentata domanda di definizione. Tali liti sono sospese fino al 30 settembre 2012. La comunicazione degli uffici attestante la regolarità della domanda di definizione ed il pagamento integrale di quanto dovuto deve essere depositata entro il 30 settembre 2012. Entro la stessa data deve essere comunicato e notificato l’eventuale diniego della definizione; e) restano comunque dovute per intero le somme relative al recupero di aiuti di Stato illegittimi; f) con uno o più provvedimenti del direttore dell'agenzia delle entrate sono stabilite le modalità di versamento, di presentazione della domanda di definizione ed ogni altra disposizione applicativa del presente comma.”

    Alla luce del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il Collegio sostiene che la motivazione dei provvedimenti di diniego opposti dall’Amministrazione finanziaria al riconoscimento del condono, richiesto tra l’altro in corso di causa dalla società contribuente, ai sensi e per gli effetti dell’art. 39, comma 12, del D.L. n. 98 in riferimento al medesimo rapporto tributario, deve ritenersi legittimo.

    In conclusione, gli Ermellini ritengono che in tema di condono fiscale, rientrano nel concetto di lite pendente, con possibilità di definizione agevolata ai sensi dell’art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, conv. in l. n. 111 del 2011, le controversie relative a cartella esattoriale emessa ex art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, non preceduta da un precedente atto di accertamento, la quale è impugnabile non solo per vizi propri, ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva, trattandosi del primo e unico atto con cui la pretesa fiscale viene comunicata al contribuente.

  • Cassazione civile, Sezione tributaria, sentenza n. 23272 del 27 settembre 2018: sulle norme di attuazione del diritto comunitario.

    La società contribuente propone ricorso avverso un avviso di accertamento, a mezzo del quale l’Agenzia delle entrate, a seguito dell’omissione della dichiarazione dei redditi comportante un maggior reddito diverso, accerta che la predetta contribuente è titolare di movimentazioni bancarie dei conti dei quali la medesima società appare essere titolare presso diversi istituti bancari.

    La CTP accoglie il ricorso, non essendosi instaurato il contraddittorio endoprocedimentale.

    La CTR accoglie invece l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, sostenendo che non sia necessario il contraddittorio endoprocedimentale, in ossequio a quanto deciso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 24823 del 2015, evidenziando che, in merito alla contestazione della ritualità della notifica dell’avviso, “il contribuente ha regolarmente ritirato l’atto; ha valutato l’avviso dettagliatamente motivato, sia pure per relationem; ha ritenuto non superata la presunzione legale scaturente dall’esame delle movimentazioni bancarie e, infine, ha escluso qualsivoglia violazione del divieto del bis in idem, in considerazione della diversità dei presupposti della pretesa fiscale e della differenza tra la fattispecie sanzionata sul piano tributario, consistente nell’omessa dichiarazione dei redditi per l’anno 2007, e quella penalmente rilevante.” Contro l’anzidetta motivazione, il contribuente propone ricorso per cassazione.

    I giudici della Suprema Corte di Cassazione ritengono che il ricorso sia infondato.

    Gli Ermellini motivano la propria decisione sulla scorta del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, sostenendo che differentemente dal diritto comunitario, il diritto nazionale, allo stato attuale della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, che, in ipotesi di violazione, sia causa di invalidità dell’atto.

    In tema di tributi non armonizzati, sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, a pena di invalidità dell’atto, solo ed esclusivamente in relazione alle ipotesi per le quali tale obbligo risulti specificamente sancito.

    L’art. 51, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea prevede che: “I giudici beneficiano durante l’esercizio delle loro funzioni dei privilegi e delle immunità previste all’articolo 40 dello Statuto del Consiglio d’Europa e negli accordi conclusi a titolo di detto articolo.”.

    Gli Ermellini osservano che: “I diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione si applicano in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse. E la nozione di “attuazione del diritto dell’Unione”, contemplata dall'art. 51 della Carta, richiede l’esistenza di un collegamento di una certa consistenza, che vada al di là dell’affinità tra le materie prese in considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da una materia sull’altra (sentenza del 6 ottobre 2016, Paoletti e a., causa C-218/15, punto 14, nonchè giurisprudenza ivi citata).

    Sul punto, i giudici del Collegio sostengono che al fine di poter stabilire se una normativa nazionale rientri nell’attuazione del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 51 della Carta, è necessario verificare, se essa vanti lo scopo di attuare una disposizione del diritto comunitario, anche se è in grado di incidere indirettamente su quest’ultimo, nonchè se esiste una normativa di diritto dell’Unione che legiferi specificamente sulla materia o che possa incidere sulla stessa.

    In conclusione, i giudici di via Cavour sostengono che: “Sono quindi inapplicabili i diritti fondamentali dell’Unione a una normativa nazionale, per il fatto che le disposizioni dell’Unione nella materia in questione non impongono alcun obbligo agli Stati membri in relazione alla situazione oggetto del procedimento principale (sentenza del 6 marzo 2014, Siragusa, causa C-206/13, punto 26 e giurisprudenza ivi citata).”

  • Cassazione civile, Sezione tributaria, ordinanza n. 23511 del 28 settembre 2018: sul pvc e gli elementi di prova.

    Gli Ermellini si pronunciano sulla natura del pvc al fine di individuare il peso degli elementi di prova in esso contenuti.

    La vicenda trae origine da un accertamento effettuato, in seguito ad una verifica della Guardia di Finanza, in quanto aveva rilevato il coinvolgimento di una società in un meccanismo fraudolento con lo schema tipico della frode carosello.

    Il predetto schema viene messo in essere con acquisti intracomunitari compiuti con l’utilizzo di fatture emesse dalle società cartiere T.D. S. s.r.l., IT S. s.r.l. e ITT s.r.l. e dalla società filtro A. s.r.l., totali evasori, privi di qualsivoglia organizzazione imprenditoriale e interposti negli scambi con i fornitori comunitari al fine di consentire alle imprese nazionali, attraverso l’emissione delle fatture false, di usufruire di un notevole abbattimento del prezzo di vendita del prodotti sul mercato interno.

    L’Agenzia delle entrate emette un avviso di accertamento, a mezzo del quale recupera l’IVA derivante dalla contabilizzazione delle fatture passive ritenute soggettivamente inesistenti, maggiori imposte dirette scaturenti da costi che si ritennero indeducibili perchè relativi alle predette fatture e a costi generali.

    La contribuente propone ricorso avverso tale accertamento, ma la CTP ritiene che il ricorso sia infondato.

    La CTR respinge l’appello della società contribuente, sostenendo che il verbale redatto dalla Guardia di finanza è attendibile e costituisce fonte di indizi utilizzabili in giudizio e soprattutto, ha ritenuto di escludere che la sua redazione doveva essere preceduta dallo svolgimento del contraddittorio. La CTR ha inoltre evidenziato la durata e la continuità dei rapporti tra la contribuente e le società cartiere, l’esistenza di rapporti di conto corrente dell’una e delle altre presso la medesima filiale della Cassa di risparmio, nonchè gli elementi desumibili dalle movimentazioni dei conti. Infine, il giudice di secondo grado ha ritenuto che i costi sostenuti dall’appellante non abbiano trovato alcun riscontro documentale al fine di garantirne la certezza e l’inerenza.

    Gli Ermellini rigettano il ricorso proposto dalla società contribuente.

    In ordine alla problematica legata al processo verbale di constatazione, il Collegio, riassumendo la recente decisione del 24/11/2017 n. 28060, statuisce che: “in tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione assume un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, potendosi distinguere al riguardo un triplice livello di attendibilità: a) il verbale è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell'art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonchè quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; b) quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi -e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla stessa parte e/o da terzi- esso fa fede fino a prova contraria, che può essere fornita qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l’eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni; c) in mancanza dell'indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, esso costituisce comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disatteso solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore.

    Altro motivo di ricorso riguarda la falsa applicazione dell’art. 54, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 633 del 1972 e gli artt. 2727 2729 c.c.: l’accertamento non si doveva basare su prove certe e dirette, in quanto la prova per presunzioni o prova indiziaria non è una prova più debole della prova rappresentativa.

    Sul punto, gli Ermellini ricordano che anche la Corte di giustizia ha legittimato, in materia di IVA, il ragionamento presuntivo ed ha escluso qualsiasi unione con i principi di proporzionalità e neutralità ed in particolare, ha statuito che: “quanto al primo, osservando che il ragionamento presuntivo è giustificato, qualora non sia possibile raccogliere dati oggettivi a causa della condotta fraudolenta del soggetto; quanto al secondo, constatando che la situazione del soggetto passivo che occulti o comunque travisi il compimento di operazioni imponibili, in tal modo mettendo a repentaglio il sistema di normale funzionamento dell’iva, non è comparabile a quella dei soggetti passivi che rispettano i loro obblighi in materia di contabilità, di dichiarazione e di pagamento dell’IVA.”.

    Secondo un costante orientamento della giurisprudenza, si ritiene che le dichiarazioni rese dal terzo, acquisite dalla Guardia di Finanza, vantano un valore indiziario e specificatamente: “nel processo tributario, le dichiarazioni rese da un terzo, acquisite dalla Guardia di finanza e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento, hanno valore indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice, anche se non rese in contraddittorio col contribuente (Corte di Cassazione, sentenza del 05.12.2012, n. 21812; Corte di Cassazione, sentenza del 8.4.2015, n. 6946).”. Ed ancora: “Il contribuente può contestare la veridicità delle dichiarazioni in questione e introdurre, a sua volta, nel giudizio di merito altre dichiarazioni di terzi rese a discarico in sede extraprocessuale (Corte cost., sentenza n. 18 del 2000)”.

    In conclusione, il Collegio statuisce che le dichiarazioni rese dal terzo possono vantare la natura di presunzione grave, precisa e concordante, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2729 c.c. ovvero, di prova presuntiva idonea a fondare e motivare l’atto di accertamento. Si riconosce, pur sempre, il diritto del contribuente di contestare la veridicità ed introdurre nel giudizio di merito altre dichiarazioni rese dal terzo, in proprio favore, rese tra l’altro in sede extraprocessuale.