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Anno XVII - n. 05 - Maggio 2025

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Le situazioni giuridiche soggettive e il rapporto procedimentale.

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Le situazioni giuridiche soggettive e il rapporto procedimentale.

 

Sommario: 1. Le norme sul procedimento amministrativo come “statuto” delle relazioni tra P.A. e amministrati. - 2. Il riconoscimento della natura sostanziale dell’interesse legittimo. - 3. L’emersione delle facoltà e delle pretese procedimentali. - 4. Individuazione e utilità della nozione di rapporto amministrativo. – 4.1. Dal “contatto” al “rapporto” amministrativo. – 4.2. Il rapporto amministrativo come prodotto dell’esercizio del potere ovvero come realtà fenomenica ad esso preesistente. – 4.3. Rapporto procedimentale e rapporto sostanziale. La natura “paritetica” o “asimmetrica” del rapporto amministrativo.  - 5. Alcuni rilevanti spunti giurisprudenziali. – 5.1. L’azione atipica di accertamento nel processo amministrativo. – 5.2. La dequotazione dei vizi formali. -  5.3. L’obbligo di provvedere della P.A.

 

 

  1. Le norme sul procedimento amministrativo come “statuto” delle relazioni tra P.A. e amministrati.

 La riflessione sui soggetti protagonisti del procedimento amministrativo, sugli interessi di cui sono portatori e sulle posizioni che assumono in seno al procedimento stesso, evoca complessi e annosi dibattiti che investono la configurazione generale dei rapporti tra amministrazioni pubbliche e amministrati, e in definitiva la stessa ragion d’essere del diritto amministrativo.

La legge 7 agosto 1990, n. 241, storicamente ha rappresentato l’esito di una complessa elaborazione culturale in ordine alla necessità di dotare l’ordinamento italiano di una legge generale sull’azione amministrativa[1], che ha animato dottrina e giurisprudenza fin dall’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. L’idea era quella di codificare, a garanzia delle posizioni dei destinatari dell’azione amministrativa e in dichiarata attuazione dei precetti di imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost., le regole del procedimento inteso come “sequenza preordinata e unitaria destinata alla produzione di effetti giuridici[2].

Tuttavia, fin da subito fu chiaro come la legge n. 241, lungi dal costituire una semplice silloge di regole di azione indirizzate alla P.A.[3] (per larga parte recettive di consolidati indirizzi giurisprudenziali), aveva invero l’ambizione di porsi come strumento per l’affermazione di una nuova e originale concezione delle relazioni tra P.A. e amministrati, in cui centrale diveniva il “farsi” del provvedimento amministrativo. Ciò corrispondeva al pensiero del padre di quella legge, che muovendo dall’osservazione della profonda compenetrazione tra procedimento e processo nella prospettiva della tutela dei cittadini, aveva ritenuto che la nuova normativa dovesse spostare l’attenzione dal provvedimento amministrativo in sé considerato alla sua fase preparatoria e istruttoria, in modo da consentire che su di essa potesse svolgersi più efficacemente anche il successivo sindacato giudiziale[4].

In tale prospettiva, il fatto che nell’originaria stesura della legge non fosse contenuta la disciplina del provvedimento amministrativo, della sua validità e della sua efficacia, pur deludendo le attese di chi aveva auspicato una “legge generale sull’azione amministrativa” sul modello di quelle esistenti in altri ordinamenti, corrispondeva a una scelta consapevole del legislatore, che accoglieva la costruzione dell’istruttoria procedimentale come vero “cuore” dell’attività amministrativa e del provvedimento come semplice “riepilogo” di essa, espressione del “diritto del caso concreto[5]” (la disciplina del provvedimento sarebbe stata comunque poi inserita nella legge n. 241 dalla novella di cui alla legge 11 febbraio 2005, n. 15)[6].

D’altra parte, al momento del varo della legge n. 241/1990 la dottrina italiana aveva già percorso un lungo tracciato nella riflessione sul procedimento amministrativo, muovendo dall’originaria concezione “formale”, tutta incentrata sul momento della produzione degli effetti giuridici cui l’iter procedimentale era preordinato dalla legge (momento rispetto al quale tutti gli antecedenti fattuali e giuridici erano ex se privi di rilevanza, salva l’individuazione della categoria degli “atti preparatori”, la cui significatività si risolveva nell’essere riconosciuti dall’ordinamento come strettamente o immediatamente funzionali rispetto all’atto conclusivo, ferma restando comunque la loro estraneità allo stesso)[7], per approdare alle più mature visioni del procedimento come “farsi dei rapporti giuridici”, nel quadro di una visione dinamica che valorizzava l’apporto partecipativo dei destinatari della funzione amministrativa al risultato finale di essa, quale espressione della “libertà attiva” del cittadino[8], ovvero quale luogo deputato alla ponderazione degli interessi pubblici e privati in cui si sostanzia l’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione[9].

Sia come sia, è proprio attraverso la disciplina dell’istruttoria e della partecipazione procedimentale che la legge n. 241/90 è apparsa fin da subito come rivolta non solo alla P.A., alla quale impone limitazioni e obblighi nel suo agire, ma anche – e correlativamente – ai privati destinatari della sua azione, in capo ai quali riconosce una serie di “facoltà” ma anche di oneri e doveri di collaborazione, configurandosi dunque come “una sorta di statuto del cittadino, piuttosto che un codice dell’azione amministrativa[10]. Uno “statuto”, più specificamente, delle relazioni tra cittadini e autorità pubblica che non casualmente ha svolto nei decenni successivi un ruolo di primo piano per l’evoluzione della giurisprudenza nel senso della sempre più piena e incisiva tutela delle situazioni giuridiche degli amministrati, attraverso il sindacato sull’eccesso di potere e la ricerca del concreto assetto di interessi perseguito dall’amministrazione.

La presenza nel procedimento amministrativo di più “attori”, ciascuno portatore di specifici interessi e titolare di poteri, doveri e oneri non può non indurre a ritenere che fra costoro si instauri un rapporto giuridico, inteso quale relazione tra più soggetti qualificata e regolata dalla legge per il perseguimento di un interesse[11]. E, in effetti, l’idea dell’esistenza di un “rapporto amministrativo” nel quale venissero in rilievo anche i diversi interessi dei soggetti coinvolti nell’azione della P.A. oltre a quello di cui è titolare quest’ultima, costituiva in qualche modo un precipitato inevitabile delle concezioni “funzionali” del procedimento amministrativo[12].

In stretta correlazione con il descritto processo evolutivo, si è assistito a livello normativo al progressivo ampliamento degli strumenti e delle tecniche a disposizione del giudice amministrativo per una più incisiva tutela delle situazioni giuridiche azionate dai cittadini nei confronti della P.A., nel quadro di quella trasformazione dell’oggetto del giudizio amministrativo che viene riassunta nella nota (e quasi tralaticia) formula del passaggio dal giudizio “sull’atto” al giudizio “sul rapporto”. Che la res controversa conoscibile dal giudice investa l’intera vicenda amministrativa sottesa al provvedimento oggetto di impugnazione – al di là delle criticità “di fondo” che tale impostazione è suscettibile di evidenziare, sulle quali non è qui il caso di soffermarsi[13] - costituisce un dato ormai acquisito anche a livello di giurisprudenza costituzionale[14], e in tale cornice un ruolo essenziale è svolto dalla cognizione dell’iter procedimentale, istruttorio e valutativo, che ha condotto all’adozione dell’atto contestato dal ricorrente.

 

 

  1. Il riconoscimento della natura sostanziale dell’interesse legittimo.

 

La legge n. 241/1990 ha costituito altresì un passaggio fondamentale per la definitiva affermazione dell’interesse legittimo come situazione giuridica sostanziale, aprendo la via al riconoscimento della sua “pari dignità” con il diritto soggettivo, del quale era stato a lungo considerato una sorta di versione minore[15].

Non è certo questa la sede per ricostruire in dettaglio il processo di emersione ed elaborazione dell’interesse legittimo come figura soggettiva, maturato in stretta correlazione con la genesi della giustizia amministrativa e rimasto a lungo confinato all’ambito processuale[16]. Come è stato osservato[17], il fatto che il primo riconoscimento legislativo dell’esistenza di “interessi” diversi dai diritti soggettivi, giuridicamente rilevanti e non di mero fatto, si sia avuto in occasione dell’introduzione del contenzioso dinanzi alla IV sezione del Consiglio di Stato (art. 3 l. 31 marzo 1889, n. 5992) ha storicamente influenzato gli studiosi inducendoli a concentrare la propria attenzione sul ruolo svolto dall’interesse legittimo rispetto al giudizio amministrativo, in primis quale elemento discriminante della giurisdizione amministrativa rispetto a quella ordinaria.

Anche per questo, si sono registrate in dottrina – permanendo anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 – posizioni tese a negare ogni dignità all’interesse del privato destinatario dell’azione della P.A., assegnando a questo una rilevanza esclusivamente processuale rispetto a un giudizio il cui oggetto restava l’interesse pubblico, ovvero la legittimità dell’azione amministrativa[18].

Per vero, già nei primi decenni del secolo scorso non erano mancate posizioni dottrinarie più attente all’effettiva rilevanza dell’interesse del privato quale reale oggetto del giudizio amministrativo, sì da pervenire al riconoscimento dell’interesse legittimo come situazione giuridica soggettiva a carattere sostanziale necessariamente preesistente al processo[19]. In questa direzione, una spinta decisiva era venuta dalla giurisprudenza: non solo quella del Consiglio di Stato, in cui fin dapprincipio si era dato per scontato che l’oggetto della tutela fosse proprio l’interesse del privato, ma anche quella della Corte di cassazione, che nell’individuare quale criterio distintivo della giurisdizione quello della natura della situazione soggettiva fatta valere (causa petendi) aveva a sua volta implicitamente riconosciuto che in ogni caso si fosse in presenza di interessi privati assurti a situazioni giuridiche soggettive di ordine sostanziale[20]. Tali posizioni, per vero, non si dissociavano dalla persistente idea di un carattere comunque “ancillare” dell’interesse legittimo rispetto all’interesse pubblico, e quindi di una sua tutela giuridica ridotta rispetto a quella che l’ordinamento appresta per il diritto soggettivo[21].

Come è noto, un passo decisivo verso l’affermazione della natura sostanziale dell’interesse legittimo è rappresentato dalla Costituzione repubblicana, nella quale anzi si ha la prima menzione normativa della figura soggettiva de qua, agli artt. 24 e 113, laddove essa è associata al diritto soggettivo nella solenne affermazione della completezza della tutela riconosciuta al cittadino a fronte dei provvedimenti della P.A.[22].  Peraltro, poiché anche nella impostazione del costituente restava centrale il momento della reazione del privato in sede giudiziale avverso il provvedimento lesivo del proprio interesse, la riflessione successiva si concentrò sull’individuazione del rapporto tra quest’ultimo e l’attività provvedimentale che lo investe; di qui il ritorno del problema di quale fosse il reale oggetto della tutela giurisdizionale, se direttamente l’interesse del privato ovvero l’interesse pubblico che l’amministrazione è chiamata a realizzare.

Solo all’esito di una riflessione più matura si addiverrà alla comprensione dell’unitarietà della situazione giuridica di interesse legittimo, che in quanto tale esiste anche prima del provvedimento amministrativo che incide sulla sfera giuridica del privato, nascendo con l’avvio del procedimento amministrativo che lo coinvolge e venendo poi a essere oggetto di eventuale tutela in sede processuale in caso di lesione[23]. Si comprende dunque il perché l’avvento della legge n. 241/1990, attraverso la valorizzazione della partecipazione quale momento determinante dell’azione amministrativa, sia stato visto come l’affermazione definitiva dell’autonomia dell’interesse legittimo quale situazione giuridica che il privato tutela in primo luogo, e fisiologicamente, all’interno del procedimento amministrativo, e solo in caso di lesione in sede giurisdizionale[24]; per converso, è abbandonata l’idea di un carattere “ancillare”, o comunque “strumentale”[25], dell’interesse legittimo rispetto all’interesse pubblico, essendo evidente che il privato che interviene durante l’iter di formazione della decisione amministrativa lo fa per perseguire il proprio interesse, e non certo per assicurare la legittimità dell’operato della P.A..

Sotto tale profilo, la legge n. 241/90 s’inserisce nell’ambito di una svolta “culturale” che investe la concezione stessa dei rapporti tra P.A. e amministrati, risentendo della diversa visione mutuata dall’ordinamento comunitario, in cui è prevalente l’idea della paritarietà e della compenetrazione, piuttosto che della contrapposizione, tra interesse pubblico ed interessi privati[26].

Ulteriore momento decisivo, in questo processo di “emancipazione” dell’interesse legittimo, è stato indubitabilmente rappresentato dal definitivo riconoscimento della risarcibilità dell’interesse legittimo, all’esito di un percorso dottrinale e giurisprudenziale culminato nella nota (e “storica”) sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 500 del 22 luglio 1999. Non è questa la sede per una ricostruzione dettagliata di tale percorso, né per un esame dei successivi approdi legislativi e giurisprudenziali; ai fini del presente contributo, mette conto invece soffermarsi sull’impatto sul dibattito relativo a natura e consistenza giuridica dell’interesse legittimo della caduta del dogma della loro irrisarcibilità.

In particolare, a fronte di un’impostazione che dall’avvicinamento fra i mezzi di tutela delle due situazioni soggettive traeva argomento per escludere il permanere di ogni differenza fra di esse, dovendo ormai gli interessi legittimi considerarsi a tutti gli effetti trasformati in diritti soggettivi ovvero equiparati ad essi[27], apparve evidente ai più come la riflessione sull’interesse legittimo fosse tutt’altro che esaurita, dovendo l’attenzione concentrarsi sui suoi tratti caratterizzanti, fra i quali più che le tecniche di tutela predisposte o consentite dall’ordinamento assumono rilievo gli elementi strutturali, segnatamente l’oggetto della situazione soggettiva e il suo essere coinvolta dall’azione della P.A. nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali[28]. Sotto tale ultimo punto di vista, va dato atto delle ulteriori difficoltà ingenerate dalla costruzione non del tutto lineare che, almeno in una prima fase successiva all’affermazione della sua risarcibilità, la giurisprudenza offrì della sostanza e dell’oggetto dell’interesse legittimo.

Dette difficoltà non si connettevano tanto al tema, pure oggetto di interminabile dibattito in dottrina e giurisprudenza, della natura della responsabilità civile della P.A. da lesione di interesse legittimo (se cioè ci si trovasse in presenza di responsabilità extracontrattuale o contrattuale ovvero di un tertium genus)[29], quanto piuttosto alle modalità con cui la Cassazione definì il rapporto fra l’interesse del privato e il “bene della vita”, del quale pure la S.C. aveva riaffermato la centralità in quanto unico reale oggetto della tutela offerta dall’ordinamento. In particolare, dopo aver ampiamente argomentato a sostegno dell’innovativa lettura proposta dell’art. 2043 c.c., in ragione della quale – e contrariamente all’indirizzo fino a quel tempo prevalente – “danno ingiusto” si ha in caso di lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante indipendentemente dalla qualificazione formale datane dall’ordinamento, e averne perciò inferito il superamento della tesi che negava in radice la risarcibilità degli interessi legittimi, la Cassazione precisava che ciò non comportava automaticamente l’indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale: “Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l’attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento. In altri termini, la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della P.A., l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo[30].

L’importanza di questo passaggio della decisione delle SS.UU. fu immediatamente compresa dai primi commentatori[31]: con esso, da un lato si riservava al giudice la verifica nei singoli casi dell’esistenza (o meno) del danno contra jus, attraverso il giudizio prognostico di spettanza del bene della vita – con ciò venendo incontro alle preoccupazioni di chi, pur caldeggiando la caduta del dogma dell’irrisarcibilità, aveva auspicato la creazione di una adeguata “rete di contenimento[32]” atta a prevenire un’eccessiva esposizione delle finanze pubbliche a iniziative risarcitorie -; per altro verso, si sposava una nozione di interesse legittimo, solo apparentemente ripresa dagli insegnamenti di Mario Nigro[33], ma che in realtà si risolveva in uno sdoppiamento della situazione giuridica oggetto di tutela, correlando l’interesse legittimo vero e proprio, inteso come situazione di vantaggio riconosciuta dall’ordinamento attraverso l’attribuzione al privato di poteri idonei a influire sull’esercizio del potere da parte della P.A., all’interesse al “bene della vita”, che costituiva il reale interesse sostanziale del privato, al cui perseguimento tali poteri e facoltà erano funzionali. Ciò premesso, si assumeva che la risarcibilità sarebbe sussistita solo qualora tale secondo interesse risultasse “meritevole di tutela”, vale a dire purché fosse possibile alla stregua di un giudizio prognostico ex ante verificare che, in assenza dell’attività illegittima e colpevole dell’amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente stato conseguito dal ricorrente.

Le ricadute di questa impostazione, che ancora oggi è condivisa dalla stragrande maggioranza della giurisprudenza, sono evidenti soprattutto alla luce della fondamentale distinzione tra gli interessi legittimi oppositivi e quelli pretensivi. Nel primo caso, i poteri e le facoltà in cui si sostanzia la situazione di interesse legittimo sono volti a impedire una lesione alla sfera giuridica dell’interessato; nella seconda ipotesi, invece, egli attraverso tali poteri e facoltà mira a conseguire un ampliamento della propria sfera giuridica. Ciò premesso, è chiaro che il suindicato giudizio di spettanza del bene della vita, su cui si fonda l’accertamento dell’ingiustizia del danno (e, quindi, in definitiva la stessa valutazione sulla risarcibilità o meno dell’interesse legittimo), sarà positivamente possibile solo ove sia lamentata la lesione di interessi oppositivi, mentre laddove si tratti di interessi pretensivi sarà al più possibile verificarne la possibilità di realizzazione in termini di chance; ciò perché, in considerazione del principio che riserva all’amministrazione l’esercizio del potere, va escluso che il giudice possa ipotizzare quali scelte l’amministrazione avrebbe potuto compiere al netto dei vizi di legittimità lamentati dal privato ricorrente (e, in ipotesi, ritenuti sussistenti dal giudice stesso). Per meglio dire, tale verifica sarà possibile solo in presenza di attività amministrativa interamente vincolata – ex lege o per effetto di precedenti attività della stessa P.A. che abbiano azzerato ogni ulteriore facoltà di scelta -, dovendosi escludere in radice ogni ingerenza del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità che la legge ha attribuito all’amministrazione.

Fin da subito la migliore dottrina si è mostrata critica verso questo orientamento, con il quale, ridimensionando di molto la “conquista” in termini di ampliamento della tutela dei diritti del cittadino, si riproduce il tradizionale “privilegio” dell’amministrazione[34] rendendola immune da ogni possibile risarcibilità “dell’interesse a non subire un pregiudizio economico a causa della condotta antigiuridica dell’amministrazione, indipendentemente dall’esito della vicenda in termini di ottenimento o non dell’atto[35]. Sul piano strutturale, la centralità condivisibilmente riconosciuta dalla S.C. al bene della vita, alla cui conservazione o acquisizione il titolare dell’interesse tende, ha innescato estenuanti dispute dottrinali, ancora oggi non sopite, sulla valenza che tale bene dovrebbe rivestire ai fini dell’inquadramento dell’interesse legittimo: a fronte di un indirizzo che individua nello stesso bene della vita l’oggetto dell’interesse legittimo[36], si pone l’avviso di chi invece ritiene che quest’ultimo vada individuato nel provvedimento favorevole, del quale l’ottenimento del bene della vita costituirebbe semplicemente l’effetto (restando, quindi, un qualcosa di esterno rispetto all’interesse legittimo)[37]. Non manca poi chi reputa che sia proprio il provvedimento favorevole a costituire il bene della vita, inteso come “atto-‘evento’ nuovo che si aggiunge ai valori giuridici di riferimento”, dal momento che nel contenuto di tale provvedimento “non può non penetrare l’interesse secondario introdotto dal privato nel procedimento”[38].

Alcune prese di posizione della giurisprudenza potrebbero indurre a pensare che la bilancia oggi penda decisamente verso la prima delle impostazioni dianzi illustrate: in tal senso milita soprattutto la nota sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 23 marzo 2011, laddove, nell’ambito di un’ambiziosa e originale ricostruzione dei presupposti della risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo, la valorizzazione della “dimensione sostanziale dell’interesse legittimo” è stata ancorata proprio alla centralità che ormai in esso deve riconoscersi al bene della vita: “Come osservato dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 500/1999, l’interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, né si risolve in un mero interesse alla legittimità dell’azione amministrativa in sé intesa, ma si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio (…) L’interesse legittimo va, quindi, inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell’interesse al bene (…) Anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo, l’interesse effettivo che l’ordinamento intende proteggere è quindi sempre l'interesse ad un bene della vita che l’ordinamento, sulla base di scelte costituzionalmente orientate confluite nel disegno codicistico, protegge con tecniche di tutela e forme di protezione non più limitate alla demolizione del provvedimento ma miranti, ove possibile, alla soddisfazione completa della pretesa sostanziale[39].

Queste argomentazioni hanno indotto alcuni commentatori[40] a ritenere ormai compiuto il processo di assimilazione dell’interesse legittimo al diritto soggettivo, traendone spunto per ribadire la necessità di relegare tale figura soggettiva nel museo delle antichità giuridiche.

Tuttavia, non va dimenticato che la giurisprudenza di regola non si preoccupa di qualificazioni formali e dogmatiche (e peraltro proprio l’esplicito richiamo alla sentenza della Cassazione n. 500/99, della quale si sono viste le criticità proprio sul piano della costruzione dell’interesse legittimo in rapporto al bene della vita, dovrebbe indurre a cautela nel concludere che la Plenaria abbia sic et simpliciter sposato la tesi cd. sostanziale); e, sotto un differente punto di vista, potrebbe paradossalmente essere la tesi (cd. “strumentale”) che colloca il bene della vita all’esterno dell’interesse legittimo ad appalesarsi maggiormente idonea ad assicurare piena tutela ai destinatari dell’azione amministrativa: nella misura in cui riconduce ad una chiara situazione giuridica soggettiva, già esistente in rerum natura, le facoltà di cui il privato è titolare nel corso del procedimento, laddove l’opposta visione finisce per riconoscere l’esistenza dell’interesse legittimo solo a chi all’esito dell’iter procedimentale risulti effettivamente conseguire il bene della vita[41]; e, soprattutto, evita ogni confusione tra la lesione dell’interesse legittimo vero e proprio e quella della situazione giuridica, di regola di diritto soggettivo, che nelle ipotesi di interessi oppositivi preesiste all’azione della P.A. (laddove nel caso di interessi pretensivi, in cui il provvedimento amministrativo non incide su un bene già esistente nella sfera giuridica del privato, può al più ammettersi che costui sia titolare di un’aspettativa giuridicamente tutelata)[42].

Quale che sia la tesi che si ritenga di seguire, si coglie però il perché l’indagine sull’interesse legittimo, sulla sua natura di situazione giuridica sostanziale e sulle sue caratteristiche strutturali, sia essenziale per la costruzione di un diritto amministrativo in linea con le più moderne e avanzate concezioni del rapporto tra P.A. e amministrati, in cui l’esercizio dei poteri pubblici sia profondamente compenetrato con il rispetto degli interessi privati che esso coinvolge. Di più, come visto a proposito della genesi della legge n. 241/90 e della valorizzazione della partecipazione procedimentale che essa ha portato con sé, una corretta comprensione della natura e portata delle pretese del cittadino nei confronti della P.A. contribuisce anche all’affermazione di un controllo giurisdizionale che effettivamente sostanzi quella tutela piena ed effettiva che l’odierno quadro costituzionale richiede[43].

 

  1. L’emersione delle facoltà e delle pretese procedimentali.

 

Si è già sottolineato come l’entrata in vigore della legge n. 241/90 abbia prodotto l’effetto di rendere definitiva la valorizzazione della partecipazione dei privati al procedimento, recependo le intuizioni della dottrina che in questa aveva visto il “cuore” e la reale sostanza della nozione di procedimento amministrativo e fornendo alla giurisprudenza ulteriore impulso per rendere più pieno ed efficace il sindacato sul “farsi” delle decisioni della P.A.. Ciò è avvenuto anche attraverso l’introduzione di norme espresse, con la quale sono state codificate le plurime “facoltà” riconosciute ai privati nell’ambito del procedimento, con la previsione di corrispettivi obblighi a carico dell’amministrazione[44]; si tratta almeno in parte di facoltà e obblighi che erano stati già da tempo individuati e affermati in via pretoria, e tuttavia le modalità con cui il legislatore li ha positivamente riconosciuti hanno inciso profondamente sul dibattito in ordine alla loro natura e consistenza, nonché al loro rapporto con l’interesse legittimo.

Per vero, già anteriormente all’entrata in vigore della legge generale sul procedimento amministrativo era stata enucleata in dottrina la categoria degli interessi procedimentali, corrispondenti alle previsioni normative che consentivano o imponevano l’introduzione nell’iter istruttorio di fatti, giudizi e pareri tecnici che la P.A. avrebbe dovuto valutare in vista dell’adozione del provvedimento finale, con diversificate opinioni in ordine alla questione se si trattasse o meno di autonomi interessi legittimi, ovvero in che rapporto essi si ponessero con l’interesse legittimo vero e proprio[45]. Ma adesso il riconoscimento positivo di siffatti interessi, e soprattutto le formule impiegate dal legislatore per sancirne la tutela, inducono a una riflessione sulla loro possibile autonomia rispetto all’interesse legittimo di cui il privato è portatore nel procedimento, inteso come interesse al provvedimento favorevole in vista del conseguimento di uno specifico bene della vita, nonché su quale dovessero esserne la qualificazione giuridica e le forme di tutela.

Ecco dunque che si fronteggiano numerose opinioni, sostanzialmente riconducibili a due filoni di pensiero fondamentali. Da un lato, vi è chi costruisce le “facoltà” procedimentali attribuite dalla legge ai privati come manifestazioni di un unico interesse legittimo, “strumenti di sostegno, e di esercizio, nel procedimento, dell’interesse legittimo[46], ritenendo quest’ultimo l’unica situazione giuridica di cui il privato è titolare in relazione all’esercizio del potere amministrativo e le norme sulla partecipazione finalizzate a fornirgli gli strumenti per influire sulla decisione in cui questo si sostanzierà, in modo da conseguire o conservare il bene della vita che forma oggetto dell’interesse medesimo. Sull’altro fronte, c’è l’opinione prevalente che invece configura le pretese procedimentali come diritti soggettivi, ai quali corrisponderebbero degli obblighi a carico dell’amministrazione, in modo da configurare fra di essi dei veri e propri rapporti obbligatori[47]. Peraltro vi è stato anche chi ha ritenuto trattarsi di un tertium genus di situazione giuridica, attribuita dall’ordinamento a tutti i soggetti partecipanti o intervenienti nel procedimento anche in difetto di titolarità dell’interesse legittimo e destinata a sostanziarsi – tra l’altro – nel riconoscimento di una peculiare legittimazione processuale sub specie della possibilità di lamentare in giudizio la violazione delle norme procedimentali[48].

Le tesi che attribuiscono alle pretese e facoltà procedimentali “dignità” di diritti soggettivi presentano un indubbio fascino. Innanzi tutto, esse trovano un rilevante – ancorché non decisivo – avallo testuale nelle stesse norme del 1990, che come detto impiegano formule e terminologie certamente suggestive (quali l’uso della parola “diritto” per indicare le facoltà attribuite ai privati ovvero del modo indicativo per sottolineare la doverosità degli adempimenti imposti all’amministrazione).

In secondo luogo, l’impostazione in esame, nelle sue formulazioni più mature, appare in linea con la mutata sensibilità sociale nei confronti del rapporto fra P.A. e amministrati, evidenziando come al di là dell’interesse materiale perseguito dal privato nell’ambito del procedimento – e, cioè, dell’interesse al bene della vita cui egli aspira – sussiste anche una esigenza di tutela della sua dignità di cittadino in quanto tale, che risulta lesa dalle scorrettezze e violazioni procedimentali commesse dall’autorità pubblica anche a prescindere dalla definizione in senso favorevole o meno del procedimento stesso[49].

In terzo luogo, e correlativamente, le tesi che riconoscono alle facoltà procedimentali natura di diritti soggettivi appaiono particolarmente idonee ad ammettere – anche de jure condendo – la risarcibilità del danno cagionato dalle violazioni procedurali e formali, anche indipendentemente dal giudizio di spettanza del “bene della vita”, considerando anzi proprio la tutela risarcitoria il rimedio tipico per tali violazioni, mentre la “classica” tutela di annullamento assisterebbe l’interesse legittimo vero e proprio[50].

Sotto tale aspetto, attraverso la previsione dell’art. 29, comma 2-bis, della legge n. 241/90 (introdotto dalla legge n. 69/2009) e il conseguente richiamo dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettera m), Cost.[51], i “diritti” di partecipazione procedimentale sono suscettibili di assurgere al rango di diritti fondamentali. Ciò che, se apparentemente ha scarsa incidenza sulle questioni di inquadramento teorico (finanche rispetto al tema, che qui interessa, della natura e dei contenuti dell’interesse legittimo come situazione soggettiva), è suscettibile di schiudere prospettive di rafforzamento della tutela degli amministrati a livello costituzionale, comportando un necessario ridimensionamento della “disponibilità” dell’interesse pubblico da parte della stessa P.A. in connessione con l’esigenza di salvaguardare prerogative dei cittadini direttamente promananti dalla sovranità popolare[52].

Occorre peraltro avvertire che, nella sua versione “estrema”, questa impostazione può portare alla completa dissoluzione della figura dell’interesse legittimo, della quale si predica l’ormai piena assimilazione al diritto soggettivo, all’interno di una visione “paritetica” del rapporto P.A.-amministrati nel quale scompare ogni profilo di autoritatività connesso alla presenza dell’interesse pubblico del quale l’amministrazione è titolare. Su queste tesi, di indubbia rilevanza e attualità, si tornerà più approfonditamente in prosieguo[53].

Al di là delle pur interessanti questioni di qualificazione e inquadramento che si sono esaminate, ciò che resta imprescindibile è il nesso di strumentalità che intercorre tra le facoltà partecipative e procedimentali e l’interesse sostanziale che il privato con esse persegue all’interno del procedimento. Come che le si intenda definire, le dette facoltà hanno un senso solo in quanto tese ad assicurare la tutela dell’interesse finale di chi partecipa al procedimento[54]; ed è per questo che gli stessi fautori dell’inquadramento delle pretese procedimentali in termini di diritti soggettivi, in via di principio, non ne escludono affatto il nesso funzionale imprescindibile con l’utilità finale cui tende l’interesse legittimo[55], in modo da rendere la questione definitoria in esame per lo più teorica.

 

 

  1. Individuazione e utilità della nozione di “rapporto amministrativo”.

 

All’esito della rassegna delle tesi dottrinarie sull’interesse legittimo, sulla sua natura e consistenza e – in particolare – della disamina dell’impatto che su di esse ha avuto la legge n. 241/90, può dirsi che l’apporto più utile delle opinioni intese a “elevare” a dignità di diritti soggettivi le pretese e facoltà poste dalle norme sulla partecipazione dei privati al procedimento consiste probabilmente nell’idea, che proprio da tali norme trae argomento, dell’esistenza di veri e propri rapporti obbligatori tra P.A. e privati partecipanti al procedimento stesso, nell’ambito dei quali ai “diritti” procedimentali fanno da contraltare specifici obblighi e adempimenti a carico del soggetto pubblico.

Per altro verso, l’evidenziato nesso di strumentalità fra le predette pretese (comunque le si voglia qualificare) e l’interesse finale perseguito dai privati che partecipano al procedimento, e la conseguente necessità di inquadrare l’intera vicenda procedimentale in termini dinamici e funzionali alla decisione finale cui è indirizzata, inducono a configurare in modo unitario la relazione che s’instaura tra P.A. e soggetti privati coinvolti dall’attività procedimentale, e quindi a ipotizzare l’esistenza di un unico rapporto giuridico amministrativo, all’interno del quale si esercitano diritti, obblighi e oneri scaturenti dalle singole norme del procedimento e in cui centrali dovrebbero essere, oltre all’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione procedente, gli interessi legittimi di cui sono titolari i privati coinvolti.

Questa idea non è affatto nuova, non essendo ignota alla pubblicistica più risalente[56] ed essendo stata poi sostenuta, fra l’altro, proprio dal padre della legge generale sul procedimento amministrativo[57]; tuttavia, per un verso la “ingombrante” presenza del potere amministrativo ha per lungo tempo dirottato la riflessione teorica su altri sentieri[58], e d’altro canto la giurisprudenza – pur nella già richiamata evoluzione dal processo “sull’atto” al processo “sul rapporto” - è stata poco incline ad ammettere l’esistenza di un siffatto rapporto[59], che solo negli ultimi anni si trova enunciata in termini espliciti in alcune significative pronunce[60].

 

 

4.1. Dal “contatto” al “rapporto” amministrativo.

 

Per lungo tempo sopita, la riflessione sul rapporto amministrativo ha ripreso vigore in stretta correlazione col dibattito, successivo alla “storica” sentenza della Cassazione n. 500/99, sulla natura della responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi, e in particolare della responsabilità procedimentale. Infatti, nonostante la tendenza prevalente fosse a ricondurre detta responsabilità allo schema aquiliano (come evidenziato dalla copiosa giurisprudenza in tema di necessità di provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale ex art. 2043 c.c. e dalle conseguenti questioni in materia di “colpa della P.A.”), appariva ai più indubitabile che nei casi esaminati quella dell’amministrazione fosse ben diversa dalla responsabilità del “passante” o del “chiunque”, che connota la responsabilità extracontrattuale, innestandosi l’attività causativa di danno su una preesistente relazione tra amministrazione e privato, in modo tale da condizionarne la natura e le stesse modalità di accertamento[61].

A descrivere il fenomeno è parsa utile la nozione di “contatto sociale” elaborata dalla dottrina civilistica per definire talune forme di responsabilità, riscontrabili nella realtà materiale e nella pratica sociale, che sembrano porsi al confine tra responsabilità extracontrattuale e responsabilità contrattuale, non essendo connotate dalla totale assenza di ogni relazione preesistente tra le parti ma neanche dall’inadempimento di una specifica “prestazione” posta a carico di una parte nell’interesse dell’altra[62]. Più specificamente, muovendo dalle più moderne ricostruzioni del rapporto obbligatorio, del quale è chiara la complessità strutturale, non esaurendosi esso nell’atomistica contrapposizione tra una situazione giuridica attiva e una passiva (diritto/obbligo) ma contemplando una serie di obblighi reciproci accessori e collaterali mirati a mantenere integra la sfera giuridica delle parti nelle more dell’adempimento della prestazione “primaria”, la fonte di tali ultimi “doveri di protezione” viene rinvenuta in via generale nel dovere di buona fede che permea l’intera disciplina delle obbligazioni (artt. 1175, 1337, 1366, 1372 c.c.)[63].

Ciò premesso, le fattispecie “di confine” sopra indicate sarebbero riconducibili alla categoria delle obbligazioni senza obbligo primario di prestazione, in cui cioè non vi sarebbe un contenuto prestazionale di natura economica e sussisterebbero unicamente “obblighi di protezione”, scaturenti ex lege da particolari situazioni di “contatto sociale” tali da ingenerare legittimi affidamenti pur in assenza di un obbligo di prestazione specifico e individuato e riconducibili al dovere generale di comportarsi secondo buona fede[64]. Fra tali fattispecie, per quanto qui interessa, si collocherebbe proprio la responsabilità della P.A. per lesione di interesse legittimo[65], la quale costituirebbe il momento patologico di una vicenda (quella del procedimento amministrativo) riconducibile al paradigma giuridico-formale del rapporto obbligatorio; a fronte delle previsioni della legge n. 241/90 che pongono obblighi a carico della P.A., mancherebbe “il diritto a una prestazione, ma un diritto di altro contenuto esiste, ed è quello, di natura reciproca, al comportamento secondo buona fede[66].

L’impostazione testé richiamata, oltre a porsi particolarmente in linea con la visione oggi prevalente dell’interesse legittimo come situazione giuridica soggettiva (ancorché) attiva “a soddisfazione non garantita”, conferma – se ve ne fosse bisogno – la piena vigenza dell’obbligo di buona fede anche nel diritto amministrativo, come già da tempo sostenuto dalla dottrina più illuminata[67] e oggi generalmente condiviso dalla giurisprudenza. E tuttavia la responsabilità della P.A. da “contatto amministrativo” qualificato[68], pur autorevolmente sostenuta in dottrina[69], ha avuto scarsa fortuna in giurisprudenza, venendo solo episodicamente richiamata in relazione a specifiche fattispecie o vicende[70]. La ragione di tale ritrosia, ad avviso di chi scrive, è da rintracciare nella già evidenziata riluttanza della giurisprudenza amministrativa ad ampliare oltre misura, anche attraverso l’accoglimento di peculiari costruzioni della relazione tra P.A. e amministrati, l’area della risarcibilità per il rischio di compromettere i delicati equilibri istituzionali connessi alla presenza in tale relazione dell’interesse pubblico[71].

Tuttavia, come si è già accennato e come meglio appresso si vedrà, molto minore “timidezza” emerge nell’applicazione concreta a specifiche fattispecie di quelli che sono i principali corollari delle descritte concezioni della relazione tra P.A. e privati, anche indipendentemente dalla condivisione delle loro premesse teoriche, nel quadro dell’ormai avanzato processo di estensione del sindacato giudiziale alla vicenda sostanziale sottesa ai provvedimenti impugnati. In tale prospettiva, poco rileva se il concetto di “rapporto amministrativo” costituisca un’evoluzione della nozione di “contatto amministrativo” ovvero qualcosa di ontologicamente diverso da essa[72]; quel che conta è che in molteplici pronunce all’individuazione di obblighi non tipizzati a carico della P.A. procedente, e correlativamente di violazioni procedimentali rilevanti ai fini del giudizio di illegittimità del suo operato ovvero di responsabilità risarcitoria, si pervenga oggi argomentando dall’esistenza di una tale peculiare relazione giuridica, nella quale le situazioni soggettive che vivono all’interno del procedimento sono riassunte, ma anche superate[73].

 

 

4.2. Il rapporto amministrativo come prodotto dell’esercizio del potere ovvero come realtà fenomenica preesistente ad esso.

 

Se dunque oggi la nozione di rapporto amministrativo sembra trovare piena cittadinanza non solo nell’elaborazione dottrinaria, ma finanche nella giurisprudenza costituzionale[74], non per questo possono dirsi superati i vari nodi problematici che tale figura evoca.

Per lungo tempo, l’attenzione degli studiosi si è concentrata, in un’ottica fortemente condizionata dalle categorie civilistiche del rapporto obbligatorio, nello sforzo di “spiegare” la compresenza all’interno del rapporto amministrativo della situazione di interesse legittimo e del potere amministrativo, e quindi di due situazioni giuridiche in apparenza entrambe attive. Nonostante la dottrina amministrativistica avesse da tempo colto la peculiarità di questa specifica relazione giuridica[75], e più in generale fosse ormai matura la consapevolezza che lo stesso rapporto obbligatorio non sempre è riducibile al mero schema diritto-obbligo involgendo una più articolata gamma di situazioni attive e passive che si instaurano tra le parti[76], la apparente anomalia strutturale di un rapporto giuridico così concepito è stata spiegata ora ricostruendo il potere della P.A. in termini di diritto potestativo[77], ora assimilando sic et simpliciter l’interesse legittimo a un vero e proprio diritto di credito cui corrisponderebbero dei doveri dell’autorità, derivanti dalla conformazione normativa del potere[78].

Se però si sposta l’attenzione dal modello del rapporto obbligatorio alla nozione di rapporto giuridico elaborata dalla teoria generale del diritto, appare evidente che a questa non è affatto coessenziale la necessaria contrapposizione delle situazioni soggettive, potendo darsi casi in cui le stesse si collegano e coordinano per il conseguimento di scopi comuni; in tali ipotesi, il rapporto giuridico rappresenta la sintesi delle regole che governano la fattispecie concreta, imponendo o consentendo condotte e adempimenti ai soggetti che vi intervengono in vista della realizzazione di un determinato assetto di interessi[79]. Tale tipologia di rapporti si presenta, tipicamente, nel diritto amministrativo[80] laddove non è detto che interessi pubblici e privati debbano sempre necessariamente porsi in una relazione di contrasto, essendo anzi il proprium della funzione amministrativa l’individuazione della miglior forma di composizione di essi in vista del raggiungimento degli obiettivi prefissati dalla legge. Si è anzi affermato che è proprio l’esistenza di una relazione tra situazioni giuridiche soggettive attive a fornire la dimensione del procedimento amministrativo e della sua funzione di consentire al privato di influenzare la P.A. nella definizione dell’interesse pubblico[81].

Sul piano ricostruttivo, all’ancora prevalente visione che individua il momento genetico del rapporto amministrativo nel primo atto di esercizio del potere, e quindi nell’avvio del procedimento amministrativo, si contrappone l’orientamento di chi, sulla scorta della più matura riflessione della dottrina tedesca sui rapporti tra cittadino e potere, intende il rapporto amministrativo come una realtà materiale preesistente allo stesso esercizio del potere, e segnatamente come quella relazione, o insieme di relazioni, che si instaurano tra P.A. e privati in relazione all’esercizio della funzione amministrativa ed alla sua incidenza su diritti fondamentali[82]. Quest’ultima tesi, secondo i suoi sostenitori, oltre a essere coerente con il moderno sistema delle relazioni P.A.-amministrati e con le tendenze giurisprudenziali a definire uno “statuto” dell’azione amministrativa che travalichi le singole disposizioni sul procedimento, si appalesa maggiormente idonea a cogliere e spiegare, con importanti ricadute applicative, la multipolarità del rapporto amministrativo, ossia il fatto che ciascun episodio di esercizio del potere amministrativo è suscettibile di coinvolgere più interessi privati, spesso in posizioni tra loro contrastanti (come dimostrato dal ricorrere nel giudizio amministrativo dei soggetti controinteressati, che sono portatori di interessi legittimi specularmente opposti a quello azionato dal ricorrente). In particolare, tale considerazione “composita” del rapporto amministrativo sarebbe imprescindibile per l’individuazione della soluzione per quelle fattispecie in cui il corretto punto di equilibrio tra interesse pubblico e interessi privati non può prescindere da una valutazione comparativa delle diverse posizioni, la cui rilevanza giuridica discende proprio dal loro coinvolgimento in una vicenda unitaria indipendentemente da questioni afferenti all’ambito processuale ed alle tecniche di tutela[83].

 

 

 

4.3. Rapporto procedimentale e rapporto sostanziale. La natura “paritetica” o “asimmetrica” del rapporto amministrativo.

 

Quale che sia la ricostruzione dogmatica che si voglia accogliere fra quelle sopra esaminate, è dato acquisito che il rapporto amministrativo vive sia all’interno del procedimento che fuori di esso, nell’assetto di interessi delineato dal provvedimento che chiude l’iter procedimentale e che è destinato a conformare la relazione tra l’interesse pubblico che la P.A. ha inteso perseguire e gli interessi privati coinvolti nella sua azione. Di qui la distinzione tra rapporto procedimentale e rapporto amministrativo sostanziale, intesi il primo come riassuntivo del complesso delle facoltà, degli obblighi e degli oneri che intercorrono reciprocamente all’interno del procedimento, il secondo come la relazione tra interesse pubblico perseguito dalla P.A. e interessi dei privati rispetto ai beni della vita che essi aspirano a conseguire o conservare.

In dottrina si è discusso se la distinzione in questione individui due rapporti giuridici ontologicamente diversi ovvero distinte fasi di sviluppo di un medesimo processo decisionale in vista dell’assetto di interessi contenuto nel provvedimento finale[84]. Naturalmente, chi ritiene che il rapporto amministrativo esprima una realtà fenomenica addirittura preesistente all’avvio dell’attività amministrativa non può che concludere nel senso dell’unitarietà della relazione P.A.-amministrati, evidenziando come il rapporto procedimentale costituisca un “concetto intermedio[85]” utile per l’individuazione induttiva della reale relazione sostanziale retrostante. In ogni caso, è importante sottolineare la rilevanza del rapporto procedimentale inteso non come nozione semplicemente descrittiva delle relazioni che s’instaurano all’interno del procedimento amministrativo, ma come relazione complessa determinante ai fini dell’effettiva partecipazione del cittadino al processo decisionale della P.A. e dell’individuazione di doveri e obblighi della P.A. ulteriori rispetto a quelli “codificati” dalle norme sul procedimento[86].

In tale ultima prospettiva, non sono mancate in dottrina posizioni tendenti ad assimilare il rapporto amministrativo ai rapporti giuridici tra privati, predicandone il carattere paritario e negando che l’interesse pubblico di cui la P.A. è titolare possa ex se giustificarne le pretese peculiarità. Questa riflessione nasce all’interno di una forte critica all’assetto costituzionale della “doppia giurisdizione”, ritenuto condizionato da varianti storiche ma non giustificato da ragioni teoriche, ed alla stessa nozione di interesse legittimo, di cui si assume l’inconsistenza se non quale strumento per legittimare la sopravvivenza di un giudice “speciale” per la P.A.[87]. Di qui la teorizzazione della riconducibilità della relazione P.A.-amministrati alla tradizionale dinamica diritto-obbligo, basata sulla premessa che tutte le situazioni giuridiche, quale che ne sia il soggetto titolare, sono ab origine paritarie e compete alla legge conformarle (e, se del caso, limitarle); che l’esistenza di un potere discrezionale non giustifica l’affermazione di una posizione di sovraordinazione strutturale della P.A., afferendo tale potere (come pure la considerazione dell’interesse pubblico) unicamente al profilo “interno” dell’organizzazione amministrativa; che, a fronte di situazioni giuridiche dei privati riconosciute e tutelate dalla legge, in capo alla P.A. non possono che sussistere dei veri e propri obblighi, uniche situazioni realmente rilevanti nell’ambito del rapporto in cui si sostanzia il procedimento amministrativo.

Al di là della evidente tensione verso la pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale dei diritti dei cittadini da cui questa impostazione muove, e prescindendo da ogni considerazione circa il giudizio di “non imparzialità” del giudice amministrativo che sottende, essa è parsa trarre ulteriore alimento dal quadro normativo e giurisprudenziale successivo al riconoscimento della risarcibilità degli interessi legittimi. In tale evoluzione, come si è già accennato, si è ritenuto di cogliere i segni del definitivo superamento della nozione di interesse legittimo, dovendosi riconoscere in capo al privato nei suoi rapporti con la P.A. sempre e comunque un diritto soggettivo assimilabile al diritto di credito[88].

Non è ovviamente questa la tesi per approfondire le tesi dottrinarie testé richiamate, le quali sono suscettibili di rilevanti ricadute in molteplici settori (in primis quello della giurisdizione e dei poteri e del ruolo del giudice). Vale la pena però evidenziare come la nozione di “potere amministrativo” sia ineliminabile da qualsiasi costruzione della relazione giuridica tra P.A. e amministrati[89], così come l’interesse pubblico costituisce un elemento indefettibile del rapporto procedimentale, che è vano tentare di relegare alla sola dimensione organizzativa interna; ciò che c’è da chiarire è che il carattere non paritario di tale rapporto è dovuto non già ad uno status costituzionale di privilegio dell’amministrazione, sibbene alla “funzionalizzazione” della sua azione, la quale a differenza di quella del privato (che esercita sempre solo la propria libertà individuale) è vincolata nello scopo al perseguimento di interessi esterni, predeterminati dal legislatore e dalla stessa Costituzione. Sotto tale profilo, parlare di “asimmetria” del rapporto amministrativo non significa stigmatizzarne un qualcosa che lo connota in peius rispetto al rapporto tra privati, ma soltanto coglierne le peculiarità che lo rendono diverso e più complesso rispetto a quest’ultimo[90].

Inoltre, si è evidenziato[91] che l’impostazione in esame rischia di risolversi in una deminutio di tutela per i cittadini, nella misura in cui tende a individuare l’oggetto del “diritto” che sarebbe da riconoscersi in capo ai privati, e del correlativo obbligo incombente all’amministrazione, nella legittimità dell’azione amministrativa, in tal modo espungendo dall’ambito rilevante il vizio di eccesso di potere (“recuperato” poi da alcuni Autori sub specie di violazione di clausole generali, come quella di buona fede)[92]. Su altro versante, si avverte del rischio che la “importazione” nel diritto amministrativo di categorie attinte dal diritto civile possa determinare rischi di incertezza e incentivare la “fuga dalla decisione” da parte della P.A.[93].

Probabilmente il principale limite delle tesi sulla pariteticità del rapporto amministrativo, dovuto al loro essere state elaborate in stretta connessione con i temi della giurisdizione e della tutela giudiziale del cittadino, consiste nel lasciare al di fuori di ogni considerazione il merito amministrativo, del quale si riafferma l’afferenza a una sfera di libertà del potere della P.A., laddove l’esperienza insegna che la partecipazione del privato al procedimento ha lo scopo, oltre che di assicurare la legittimità dell’operato dell’amministrazione, anche e soprattutto di condizionare le scelte di merito, in vista del perseguimento o della conservazione del “bene della vita” che costituisce l’oggetto del suo interesse sostanziale[94].

 

 

  1. Alcuni rilevanti spunti giurisprudenziali.

 

Le ricostruzioni fin qui esaminate delle complesse relazioni che animano il procedimento amministrativo, nel senso di un rapporto complesso e unitario, proiettato nel tempo e coinvolgente oltre all’interesse pubblico di cui è titolare la P.A. anche la molteplicità degli interessi privati, spesso fra loro contrastanti, di cui sono titolari i soggetti implicati dall’azione amministrativa, non ha rilevanza soltanto teorica. Come si è già accennato, nella prospettazione degli studiosi che le hanno elaborate esse acquistano grande utilità nella prassi applicativa, consentendo all’interprete di colmare le eventuali lacune delle disposizioni procedimentali individuando principi e clausole generali che l’amministrazione è comunque tenuta a rispettare, nonché di raggiungere evidenti risultati di incremento della tutela delle posizioni dei privati a fronte di scorrettezze e irregolarità procedimentali commesse dalla stessa P.A..

Tra le questioni che la dottrina reputa suscettibili di trovare soluzione adeguata sulla base di una considerazione globale del rapporto amministrativo e delle regole che lo governano, ve ne sono alcune, come quelle della sorte del contratto di appalto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione e della tutela del terzo a fronte della SCIA presentata dal proprietario del fondo confinante con il suo, che hanno a lungo tormentato la giurisprudenza e la stessa dottrina, per essere poi risolte con interventi del legislatore. In questa sede può essere utile, invece, passare rapidamente in rassegna alcuni temi tuttora controversi in giurisprudenza, al fine di apprezzare se e in quale misura le soluzioni individuate in sede applicativa risentano – magari anche inconsapevolmente – delle più mature visioni dei rapporti tra P.A. e amministrati che si sono esaminate nel presente contributo.

L’impressione che se ne trae, così come in altri ambiti significativi dell’ordinamento processuale, è che i temi in esame facciano emergere il nodo problematico del ruolo del giudice amministrativo, a cui l’attuale assetto dei pubblici poteri conferisce il compito di orientare e indirizzare la stessa attività di amministrazione attiva non solo con riguardo al singolo caso deciso ma anche più in generale nella fase a monte di elaborazione della sue linee d’azione[95]. Si tratta di un attributo oggi probabilmente connaturato e ineliminabile della giustizia amministrativa, ma devono essere ben chiari i rischi che lo “stressare” le tecniche di tutela da riconoscere agli amministrati – specie se ciò non è accompagnato da una chiara consapevolezza della natura e consistenza delle retrostanti situazioni e relazioni sostanziali – può comportare in termini di sconfinamento in territori riservati alla P.A., con conseguenti tensioni rispetto al confine stesso che deve esistere tra la funzione giurisdizionale e quella amministrativa[96], ben esemplificate da alcune recenti decisioni dalle quali sembra emergere un siffatto ruolo di “giudice-amministratore”[97].

 

 

 

5.1. L’azione atipica di accertamento nel processo amministrativo.

 

è noto come la giurisprudenza amministrativa, esaminando peculiari fattispecie, sia pervenuta ad ammettere l’esperibilità di una azione di mero accertamento in controversie su interessi legittimi nonostante nel codice processuale del 2010 manchi una previsione espressa al riguardo (pur contenuta nell’articolato normativo originario)[98]. L’ammissione dell’azione dichiarativa si è peraltro accompagnata a una serie di precisazioni e “paletti”, figli delle stesse preoccupazioni che avevano mosso la suddetta scelta cassatoria del legislatore, al fine di scongiurare che i poteri cognitori attribuiti al giudice sconfinassero in ambiti riservati alla P.A..

L’affermazione dell’ammissibilità nel processo amministrativo dell’azione di accertamento anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge (ad es. in materia di nullità o di verifica incidentale della legittimità dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a.)[99], è stata ancorata alla necessità di un’interpretazione logica, sistematica e costituzionalmente orientata del codice di rito, alla luce dell’esigenza di assicurare comunque la pienezza e l’effettività della tutela. Il primo terreno su cui tale elaborazione si è manifestata è quello della individuazione degli strumenti di tutela a disposizione del terzo che si ritenga leso dai lavori eseguiti dal proprietario del suolo confinante col suo sulla base di una DIA (poi SCIA), ma in quell’occasione sono stati affermati principi di portata generale, che hanno influenzato la giurisprudenza successiva in diversi settori, di modo che ad oggi la atipicità delle azioni a disposizione del privato costituisce un dato acquisito; le esigenze di pienezza ed effettività della tutela degli amministrati hanno portato ad affermazioni potenzialmente dirompenti, come in una recente pronuncia[100].

In particolare, i presupposti individuati per l’ammissibilità dell’azione di accertamento sono: a) che si verta in ipotesi di attività amministrativa vincolata, o in cui determinati effetti siano comunque rigidamente collegati a una situazione di fatto che la P.A. è chiamata a verificare; b) che esista un interesse del privato, rilevante ex art. 100 c.p.c., a ottenere una pronuncia di accertamento al fine di eliminare una situazione di oggettiva incertezza, determinata dalla stessa P.A., in relazione alla posizione di interesse legittimo di cui è titolare; c) che gli altri rimedi previsti dal codice si appalesino inidonei a soddisfare tale interesse. Il limite negativo è costituito dalla norma di chiusura contenuta nel comma 2 dell’art. 34 c.p.a., per cui: “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

Emerge dunque con chiarezza che l’azione di accertamento è impiegata dalla giurisprudenza per trattare determinate fattispecie caratterizzate dalla assenza di un provvedimento amministrativo; in cui, cioè, pur essendosi indubbiamente in presenza di manifestazioni dei poteri autoritativi della P.A., manca un provvedimento formale la cui illegittimità possa essere denunciata con lo strumento tipico dell’azione di annullamento. Pertanto, può dirsi che nel processo amministrativo l’azione in discorso mutui dalla sua omologa del processo civile il connotato di essere invocabile quante volte l’interessato abbia bisogno di far fronte a “contestazioni” della propria situazione giuridica soggettiva, che però siano poste in essere dalla P.A. “in via di fatto”, e cioè senza l’adozione di provvedimenti lesivi.

Ecco dunque che in giurisprudenza l’azione in questione è stata ammessa per consentire l’accertamento dell’avvenuta formazione del silenzio-assenso su domanda di condono edilizio[101]; per dichiarare l’insussistenza dei presupposti per la trascrizione dell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un immobile abusivo in un caso in cui, dopo il verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (ritenuto non impugnabile perché non avente valenza provvedimentale), il Comune aveva omesso di adottare un atto dichiarativo dell’acquisizione[102]; in materia di contratti pubblici, in relazione a una vicenda in cui dopo l’aggiudicazione ma prima della stipula del contratto di appalto l’aggiudicatario aveva perso i requisiti soggettivi richiesti dal bando, previa “riqualificazione” dell’impugnazione dell’aggiudicazione (che stricto jure non sarebbe stata possibile per un evento a questa successivo) in azione di accertamento dell’insussistenza dei presupposti per la sottoscrizione del contratto di appalto[103].

Lo slancio “creativo” della giurisprudenza si scontra però con alcune criticità: in particolare, non sempre è chiaro se l’assenza di un provvedimento formale costituisca un tratto fisiologico della vicenda amministrativa (come nel caso-pilota della SCIA) ovvero una deviazione dal modello legale dell’azione della P.A., cui far fronte con altri e diversi strumenti predisposti dall’ordinamento. Probabilmente tali impasse dipendono dall’avere la giurisprudenza, animata dal nobile intento di ampliare la tutela dei privati, concentrato la propria attenzione sulle tecniche e gli strumenti della tutela, perdendo di vista l’oggetto di essa[104], e potranno essere superate con una più matura consapevolezza della natura sostanziale dell’interesse legittimo e del rapporto amministrativo.

 

 

5.2. La dequotazione dei vizi formali.

 

Come è noto, già anteriormente all’introduzione nella legge n. 241/90 della disposizione di cui al comma 2 dell’art. 21-octies, in giurisprudenza si erano affermate – di pari passo con le innovazioni normative che nel periodo 1998-2000 hanno sancito il definitivo passaggio dal giudizio “sull’atto” al giudizio “sul rapporto” – tendenze “sostanzialiste” in materia di vizi formali del provvedimento amministrativo, volte a sostenerne l’irrilevanza in tutti i casi in cui risultasse chiara la loro non incidenza sulla definizione dell’assetto sostanziale degli interessi implicati nell’azione della P.A.. Con la novella del 2005, questo processo di dequotazione dei vizi procedimentali ha trovato una stabile codificazione, dando ulteriore spinta agli indirizzi in questione[105].

Tuttavia, pur essendovi consenso unanime sulla piena coerenza tra le previsioni e la giurisprudenza in discorso e l’esigenza di valorizzazione del rapporto amministrativo sostanziale, parte della dottrina ha avvertito circa i rischi connessi ad un’interpretazione “estrema” della dequotazione dei vizi formali e procedimentali. Ad esempio, si è segnalato come l’orientamento giurisprudenziale che considera la “sanatoria” di cui all’art. 21-octies, comma 2, applicabile anche alla violazione dell’art. 3, l. n. 241/90, e quindi al vizio di motivazione, in convergenza con l’abbandono del rigoroso indirizzo che escludeva la possibilità di un’integrazione ex post della motivazione carente da parte della P.A.[106], possa ingenerare “più di un dubbio sull’effettivo transito verso un processo amministrativo effettivamente sul rapporto controverso[107]”. Del pari, è parsa criticabile la tendenza a considerare vizio meramente formale, come tale sanabile ai sensi del ricordato comma 2 dell’art. 21-octies, l’omissione del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis, l. n. 241/90[108].

Il quadro potrebbe complicarsi con l’affermarsi della tendenza a considerare il rapporto amministrativo nella sua globalità, ricavandone regole e obblighi ulteriori rispetto a quelli immediatamente evincibili dalle norme, e che possono trarsi anche dall’interpretazione del comportamento delle parti alla stregua del parametro di buona fede. Per esempio, dall’accettazione o dalla mancata contestazione in sede procedimentale di specifiche allegazioni o circostanze potrebbe trarsi una vera e propria preclusione a far valere in giudizio i vizi a queste afferenti, dovendo valutarsi la leale collaborazione tra privato e P.A. all’interno della relazione considerata nella sua interezza[109]; tuttavia, la giurisprudenza – in ciò confortata anche dalla posizione presa, sia pure incidentalmente, dalla Corte costituzionale[110] - è apparsa sempre poco incline ad accogliere una siffatta “osmosi” tra procedimento e processo, escludendo che l’art. 21-octies, l. n. 241/90 possa essere oggetto di interpretazioni che, attraverso l’assimilazione ai vizi formali di quelle che sono carenze sostanziali dell’azione amministrativa, finiscano per svuotare di fatto i doveri di buon comportamento della P.A. e la correlativa tutela riconosciuta ai cittadini[111].

Le evidenziate contraddizioni, suscettibili di generare orientamenti difformi e disparità di trattamento nella ricostruzione dei diritti e doveri reciproci all’interno del procedimento amministrativo, sono forse anch’esse superabili attraverso una più chiara comprensione della reale dimensione del rapporto amministrativo procedimentale, delle situazioni giuridiche che vivono entro di esso e delle corrispondenti regole d’azione incombenti alla P.A..

 

 

5.3. L’obbligo di provvedere della P.A.

 

Un ultimo terreno, sul quale è possibile apprezzare una recente evoluzione giurisprudenziale nel senso dell’accresciuta attenzione al rapporto giuridico implicato dalla res controversa, è apprezzabile in materia di rito speciale avverso il silenzio-inadempimento della P.A., come oggi disciplinato dagli artt. 31 e 117 c.p.a., con riguardo in particolare all’individuazione dei presupposti dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere sull’istanza del privato, cui fa da contraltare la sussistenza in capo al richiedente di una situazione giuridica qualificata e differenziata rispetto a quella di quisque de populo. Per meglio dire, è proprio nei casi in cui il privato risulta, sulla base dei connotati specifici del rapporto amministrativo sostanziale, titolare di una siffatta situazione giuridica che è possibile individuare l’obbligo di provvedere della P.A., in modo da fondare la legittimazione all’esercizio dello speciale rimedio processuale[112].

Al riguardo, fino a circa una decina di anni fa l’orientamento prevalente restava saldamente ancorato all’idea, risalente a una fondamentale pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[113], che l’obbligo della P.A. di provvedere sull’istanza del privato dovesse necessariamente trovare fondamento in una norma di legge o di regolamento o in un atto amministrativo (magari emanato dalla stessa amministrazione, autolimitandosi). Negli ultimi anni si è però registrato un progressivo ampliamento dei casi in cui la sussistenza di un siffatto obbligo è stata ricavata, pur in assenza di specifici atti o disposizioni prescrittive, dalla considerazione globale della vicenda amministrativa esaminata, affermandosi che esso può essere desunto anche dai principi generali[114] ovvero dalle “peculiarità della fattispecie[115] o da ragioni di giustizia ed equità[116] o dai pregressi rapporti esistenti tra amministrazione e amministrati, tali da imporre l’adozione di un provvedimento espresso, soprattutto al fine di consentire all’interessato di adire la giurisdizione per la tutela delle proprie ragioni[117]. Ancora una volta dunque, come nel passaggio giurisprudenziale più sopra citato, sembra che sia la tutela giurisdizionale a modellarsi sui “bisogni” degli interessati, piuttosto che essere tratta da riferimenti oggettivi e specifici.

Gli indirizzi in esame hanno ricevuto ulteriore alimento dopo che, col d.l. n. 190/2012, al comma 1 dell’art. 2 della legge n. 241/90 è stata aggiunta la previsione per cui: “Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”. In questa previsione una parte della giurisprudenza ha voluto cogliere il superamento di consolidati indirizzi che escludevano tout court l’obbligo della P.A. di adottare un provvedimento espresso in ipotesi assimilabili a quelle richiamate dal legislatore del 2012[118]. Tuttavia, il panorama è piuttosto contraddittorio, essendo ancora dominante l’avviso dell’insussistenza dell’obbligo di provvedere in caso di istanze meramente reiterative di altre precedenti su cui la P.A. abbia già provveduto[119], ovvero tendenti a un aggiramento dell’intervenuta scadenza dei termini per proporre ricorso a fronte di provvedimenti divenuti inoppugnabili[120], ovvero a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela (ritenuto discrezionale e incoercibile)[121] o comunque manifestamente infondate o pretestuose[122].

Ancora una volta, è verosimile che una soluzione chiara e sistematica della questione, atta a scongiurare le incertezze derivanti dalla incoerente casistica richiamata, possa rivenire da una maggiore consapevolezza dell’assetto sostanziale degli interessi e delle situazioni giuridiche interne al singolo procedimento amministrativo.

  

Raffaele Greco

Presidente di Sezione del Consiglio di Stato

 

NOTE:

 (*) Il presente contributo è riprodotto, in versione ampliata, nel volume C. Contessa, R. Greco (a cura di), L’attività amministrativa e le sue regole (a trent’anni dalla legge n. 241/90), Piacenza, 2020.

 

[1] Per una sommaria ricostruzione di questo dibattito, che inizialmente assunse a riferimento soprattutto le leggi sul procedimento austriaca e statunitense, cfr. E. Cardi, Procedimento amministrativo, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, pp. 3 e ss.

[2] La definizione è di E. Cardi, op. loc. cit.

[3] Si tratterebbe, cioè, di “norme di azione” e non di “norme di relazione” secondo la tradizionale dicotomia guicciardiana, oggi ritenuta superata proprio in virtù del processo evolutivo descritto nel testo.

[4] Cfr. M. Nigro, Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica amministrazione (il problema di una legge generale sul procedimento amministrativo), in Riv. dir. proc., 1980, pp. 261-262: “non si tratta più (o non si tratta più soltanto o prevalentemente) di controllare ed assicurare la conformità dell’attività amministrativa all’ordine normativo preesistente, ma di dare vita, con la partecipazione e attraverso il confronto di tutti gli interessi coinvolti, ad un giusto (nuovo) assetto di tali interessi”.

[5] Le espressioni riportate nel testo sono di M. Nigro, op. cit., passim.

[6] Secondo M. Ramajoli, Lo statuto del provvedimento amministrativo a vent’anni dall’approvazione della legge n. 241/90, ovvero del nesso di strumentalità triangolare tra procedimento, atto e processo, in Dir. proc. amm., 2010, 2, pp. 459 ss., la novella del 2005, irrigidendo la disciplina del provvedimento in una serie di regole codificate, avrebbe alterato la filosofia complessiva della legge n. 241/90 rispetto all’impostazione originaria della commissione Nigro (nel cui articolato iniziale era compreso l’opposto principio, poi non recepito dal legislatore, di libertà delle forme dell’attività della P.A.), contribuendo, assieme ai successivi interventi normativi e ad alcuni significativi orientamenti della giurisprudenza, a una vera e propria “decostruzione” della legge in questione. Si vedrà più avanti nel testo che tale giudizio, pur cogliendo talune reali (e rilevanti) criticità del sistema, è forse eccessivamente perentorio; e, del resto, la stessa A. citata ammette la coesistenza di fatto di diverse logiche interpretative e applicative, pur nel quadro descritto.

[7] Tale sistemazione dogmatica del procedimento, che ha influenzato a lungo la dottrina e la giurisprudenza successive, si deve ad A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940.

[8] Cfr. F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, II, pp. 118 ss. L’illustre A. avrebbe poi sviluppato il proprio pensiero in Il nuovo cittadino. Tra libertà garantita e libertà attiva, Venezia, 1994, e Disegno dell’amministrazione italiana. Linee positive e prospettive, Padova, 1996, specie pp. 234 ss.

[9] Cfr. M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939. Questa concezione sarebbe stata poi sviluppata dall’A., con particolare attenzione all’emersione dei cc.dd. interessi procedimentali (su cui infra, § 3), specialmente in Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. proc., 1963, pp. 1 ss. e pp. 522 ss.

[10] Così F. Patroni Griffi, Valori e principi tra procedimento amministrativo e responsabilizzazione dei poteri pubblici (con un’attenzione in più per invalidità non invalidante del provvedimento, efficienza e trasparenza, danno da ritardo), in www.giustizia-amministrativa.it, 13 gennaio 2011.

[11] Sul punto, cfr. V. Antonelli, Dal contatto sociale al rapporto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2005, 3, pp. 664-665.

[12] Cfr. M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, cit., p. 28, secondo cui l’inizio del procedimento determina “la costituzione del rapporto amministrativo”.

[13] In tema, cfr. G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm., 2017, 4, pp. 1245 ss.

[14] Si veda Corte cost., ord. 15 luglio 2016, n. 179, laddove la Corte ha ricondotto al “diritto vivente” l’interpretazione data dalle supreme magistrature del giudizio amministrativo come esteso al rapporto controverso, e non limitato ai soli vizi dell’atto impugnato.

[15] Di “minorità rispetto ai diritti soggettivi”, come attributo che ha per lungo tempo connotato le concezioni dottrinarie dell’interesse legittimo, parla A. Pubusa, Diritti soggettivi e pubblica amministrazione, in Storia d’Italia. Annali, vol. XIV: Legge, diritto, giustizia, Torino, 1998, p. 241.

[16] Per una tale ricostruzione, imprescindibile è l’opera di F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017.

[17] Cfr. A. Romano Tassone, Situazioni giuridiche soggettive (diritto amministrativo), in Enc. dir., Aggiorn., II, Milano, 1998, p. 978.

[18] Per una articolata rassegna di queste tesi, la più articolata delle quali fu quella di Enrico Guicciardi, cfr. F.G. Scoca, op. cit., pp. 119 ss.

[19] Cfr. G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1937, p. 194; G. Miele, Questioni vecchie e nuove in materia di distinzione del diritto dall’interesse nella giustizia amministrativa, in Foro amm., 1940, pp. 49 ss.; R. Alessi, Interesse sostanziale e interesse processuale nella giurisdizione amministrativa, in Arch. giur., 1943, pp. 132 ss.

[20] Sul punto, cfr. F.G. Scoca, op. cit., pp. 108 ss. (e specie n. 203).

[21] Cfr. F.G. Scoca, op. cit., pp. 115 ss., che giudica tale atteggiamento disarmonico rispetto al riconoscimento della natura sostanziale dell’interesse legittimo e privo di “alcuna ragione comprensibile”.

[22] In tal senso, già E. Cannada Bartoli, Interesse, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, p. 9.

[23] Cfr. M.S. Giannini – A. Piras, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, pp. 229 ss.

[24] Al riguardo, cfr. F.G. Scoca, op. cit., pp. 233-234.

[25] Cfr. A. Travi, Introduzione a un colloquio sull’interesse legittimo, in Dir. amm., 2013, 1-2, pp. 1 ss., secondo cui: “(…) di strumentalità si può parlare ancora, ma soltanto nel senso più formale, rappresentato dalla circostanza che l’interesse legittimo si attua in concomitanza con un potere giuridico dell’amministrazione. Tuttavia né il potere dell’amministrazione ha, in termini istituzionali, le caratteristiche di solitarietà e di esclusività accolte in passato, né l’interesse legittimo si qualifica più per l’irrilevanza del bene finale e per il carattere indiretto della tutela”.

[26] Per una lucida analisi di questo processo evolutivo, cfr. M. cartabia, La tutela dei diritti nel procedimento amministrativo: la legge n. 241 del 1990 alla luce dei principi comunitari, Milano, 1991, pp. 51 ss.

[27] Per questa visione, variamente declinata in dottrina ma sempre influenzata dall’idea di fondo che la risarcibilità sia un attributo proprio delle situazioni giuridiche aventi dignità di diritto soggettivo, cfr. A. Romano, Sono risarcibili, ma perché devono essere interessi legittimi?, in Foro it., 1999, pp. 3222 ss.; L. Iannotta, L’interesse legittimo nell’ordinamento repubblicano, in Dir. proc, amm., 2007, 4, pp. 935 ss.; L.R. Perfetti, Manuale di diritto amministrativo, Padova, 2007, pp. 60-61.

[28] Cfr. A. Travi, op. cit., p. 6, secondo cui uno dei “punti fermi” non pregiudicati dal revirement della Cassazione “è rappresentato dalla convinzione che la relazione fra interesse legittimo e potere giuridico dell’amministrazione rimanga comunque qualificante. La stessa rappresentazione del procedimento nei termini di una dialettica fra l’amministrazione e il cittadino evidenzia come la pretesa del cittadino non possa essere soddisfatta senza la mediazione dell’amministrazione e come questa mediazione sia decisiva non solo per la produzione di un effetto giuridico, ma anche per la definizione dell’assetto (di interessi e di valori) di cui l’effetto giuridico è il risultato”.

[29] Sul punto la giurisprudenza amministrativa, pur con persistenti e significative oscillazioni, sembra ormai orientata nel senso della riconducibilità allo schema aquiliano della responsabilità della P.A. da lesione di interesse legittimo.

[30] Cass. civ., sez. un., n. 500/1999, cit.

[31] Cfr. F.G. Scoca, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. pubbl., 2000, pp. 15 ss.

[32] L’espressione è di F.D. Busnelli, Lesione di interessi legittimi: dal “muro di sbarramento” alla “rete di contenimento”, in Danno e resp., 1997, pp. 269 ss.

[33] Sul punto, cfr. F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., p. 309 (e in specie n. 96).

[34] Era stata la stessa Corte di cassazione nella sentenza n. 500/1999, nel motivare il proprio revirement, a evidenziare l’ormai ineludibile necessità di superare la non più tollerabile “isola di immunità e di privilegio” che differenziava la responsabilità civile della P.A. rispetto a quella dei soggetti privati.

[35] Così A. Orsi Battaglini – C. Marzuoli, La Cassazione sul risarcimento del danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell’interesse legittimo, in Dir. pubbl., 1999, p. 494.

[36] Per una delle più lucide esposizioni di questa scuola di pensiero, cfr. G. Greco, Dal dilemma diritto soggettivo-interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale-interesse finale, in Dir. amm., 2014, 3, pp. 479 ss.

[37] è la nota tesi di F.G. Scoca, op. ult. cit., pp. 309 ss. nonché, in replica proprio alla posizione di Guido Greco, pp. 410 ss.

[38] G.P. Cirillo, La valenza patrimoniale dell’interesse legittimo. Il bene nei rapporti amministrativi e l’oggetto del provvedimento favorevole, in Dir. proc. amm., 2018, 3, p. 1162.

[39] Cons. St., Ad. pl., n. 3/2011, cit.

[40] Cfr. per tutti N. Paolantonio, L’interesse legittimo come (nuovo) diritto soggettivo (in margine a Cons. Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3), in www.giustamm.it, 2011.

[41] Cfr. F.G. Scoca, op. ult. cit., pp. 415-416, il quale richiama l’esempio delle procedure selettive, nelle quali a suo avviso sono titolari di interessi legittimi tutti i partecipanti al procedimento, che hanno interessi effettivi tra loro contrastanti, e non solo – come sarebbe per la concezione cd. sostanziale – colui che all’esito di esso risulterà vincitore o aggiudicatario.

[42] Sul punto, cfr. F.G. Scoca, op. ult. cit., pp. 311 ss., anche in critica alla ricostruzione della Cassazione, che nella sentenza n. 500/1999 a proposito degli interessi oppositivi dei quali già in passato sarebbe stata già ammessa la risarcibilità (p.es. in relazione ai provvedimenti ablatori), parlando di “trasfigurazione di alcune figure di interesse legittimo in diritti soggettivi”, aveva risentito proprio della evidenziata confusione tra interesse legittimo implicato nel procedimento amministrativo e preesistente diritto soggettivo su cui questo incideva.

[43] Il punto è ripreso da N. Paolantonio, Centralità del cittadino ed interesse legittimo (oltre le categorie, per una tutela effettiva: l’insegnamento di Franco Gaetano Scoca), in Dir. proc. amm., 2018, 4, p. 1536, in dichiarata reazione a un “pensiero sempre più diffuso, che fa del giudice amministrativo più un regolatore di interessi pubblici che un decisore di controversie”. L’A. lega la propria riflessione alle recenti critiche politiche al ruolo del giudice amministrativo, ed alle conseguenti iniziative legislative intese a limitarne l’intervento in settori ritenuti economicamente sensibili, ma il tema della natura e funzione della giurisdizione amministrativa e del suo rapporto con il potere politico presenta risvolti ulteriori e diversi, coinvolgendo i problemi del “peso” che l’interesse pubblico assume nell’ambito del rapporto procedimentale e/o processuale e della stessa configurazione ordinamentale degli organi di giustizia amministrativa.

[44] A titolo di esempio e senza pretesa di esaustività, possono richiamarsi l’obbligo della P.A. di comunicare l’avvio del procedimento (art. 7), il diritto dei partecipanti di presentare memorie e documenti e che questi siano esaminati dall’autorità procedente (art. 10), il diritto ad essere preavvisati delle eventuali ragioni ostative a una decisione favorevole (art. 10-bis).

[45] Cfr. M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, cit., pp. 32 ss.; E. Cannada Bartoli, op. cit., p. 21.

[46] F.G. Scoca, op. ult. cit., p. 255.

[47] In questo senso, F. Gaffuri, Brevi note sul rapporto procedimentale e sugli interessi partecipativi dopo il pronunciamento dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2011, in Dir. amm., 2012, 1-2, pp. 217 ss.; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003, pp. 92 ss.; A. Zito, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1996, pp. 116 ss.; M. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, pp. 19 ss.; E. Dalfino – L. Paccione, Basi per il diritto soggettivo di partecipazione, in Foro it., 1992, 5, pp. 378 ss.; M. Cartabia, op. cit., pp. 19 ss.

[48] Cfr. R. Villata, Riflessioni in tema di partecipazione al procedimento e legittimazione processuale, in Dir. proc. amm., 1992, pp. 171 ss.

[49] In questo senso, cfr. A. Romano Tassone, Situazioni giuridiche soggettive, cit., p. 985.

[50] Cfr. però F.G. Scoca, op. ult. cit., pp. 249-250, per le difficoltà che la soluzione in questione, pur condivisibile sul piano teorico, incontra nel diritto positivo, a cominciare dall’individuazione del giudice che sarebbe munito di giurisdizione.

[51] Che le norme della legge n. 241/90 sulla partecipazione al procedimento amministrativo attengano ai “livelli essenziali” di cui all’art. 117, comma 2, lettera m), Cost., con le conseguenti limitazioni alla loro derogabilità da parte della legislazione regionale, costituisce un dato ormai acquisito nella giurisprudenza costituzionale: cfr. fra le tante Corte cost., 27 dicembre 2018, n. 246; id., 16 giugno 2016, n. 142; id., 11 dicembre 2013, n. 298; id., 24 luglio 2012, n. 207; id., 27 marzo 2009, n. 88.

[52] Sul punto, cfr. L.R. Perfetti, Pretese procedimentali come diritti fondamentali. Oltre la contrapposizione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, in Dir. proc. amm., 2012, 3, pp. 850 ss. Contra, M. Ramajoli, op. cit. p. 481, secondo cui l’esaltazione delle regole procedimentali come “regole autonome, autofondate e autosufficienti di garanzia” avrebbe contribuito al processo di de-costruzione della legge n. 241/90 rispetto agli originari intenti della commissione Nigro, con l’effetto di recidere quel “nesso di strumentalità triangolare tra procedimento, atto e processo” che avrebbe dovuto favorire un controllo giudiziale più incisivo e sostanziale sulle decisioni amministrative.

[53] Cfr. infra, § 4.3.

[54]L’oggetto proprio di ciascuno di essi, considerato in sé medesimo, avulso dallo scopo della tutela di un interesse di base, è assolutamente neutro: prendere visione degli atti del procedimento, presentare memorie e documenti, essere destinatario di comunicazioni da parte dell’amministrazione, possono essere (anche) prestazioni che si collegano ad altrettanti diritti soggettivi (magari fondamentali), ma non per questo procurano utilità concrete al loro titolare nel sostegno, nel perseguimento o nella difesa del suo interesse sostanziale” (F.G. Scoca, op. ult. cit., p. 246).

[55] Si veda, ad esempio, F. Gaffuri, op. cit., p. 243, il quale, dopo avere aderito alla tesi per cui i diritti procedimentali configurerebbero dei veri e propri diritti soggettivi, assimilabili a diritti di credito, precisa altresì che “gli obblighi procedimentali rivestono una duplice natura: essi sono, al contempo, ‘obblighi di mezzi’, in relazione all’esito conclusivo della procedura avviata, e ‘obblighi di risultato’, in relazione al bene della vita protetto, in via diretta ed immediata, dalle disposizioni che li contemplano e li disciplinano”.

[56] Cfr. G. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto costituzionale italiano, Torino, 1913, p. 66: “è rapporto giuridico pubblico quello in cui lo Stato o un altro ente pubblico conserva supremazia di fronte all’altra persona con cui è in relazione, ed è per contrario rapporto giuridico privato quello in cui la relazione tra le persone è costituita sulla base della assoluta parità delle parti”.

[57] Cfr. M. Nigro, Ma che cos’è questo interesse legittimo? Interrogativi vecchi e nuovi spunti di riflessione, in Foro it., 1987, p. 478: “Viene allora la tentazione di parlare di una relazione stabile fra amministrazione e cittadino, e così di rapporto amministrativo perché non si saprebbe come definire altrimenti questo contatto durevole in cui si manifestano, da una parte e dell’altra, poteri, soggezioni, oneri, aspettative, ecc.”. Si veda anche M.S. Giannini, op. loc. ult. cit.

[58] Cfr. V. Antonelli, op. cit., pp. 655 ss., secondo cui è stata storicamente questa la ragione per cui l’attenzione della dottrina si è concentrata per lo più sui profili della giurisdizione, del provvedimento e delle situazioni giuridiche soggettive, trascurando l’approfondimento del rapporto giuridico P.A.-cittadino in sé considerato.

[59] Sul punto, cfr. F. Gaffuri, op. cit., pp. 224-225.

[60] Ancora una volta va richiamata l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 23 marzo 2011, cui hanno fatto seguito altre sentenze in cui è stata ribadita l’applicabilità al rapporto de quo di principi e canoni civilistici attinti dalla disciplina del rapporto obbligatorio: cfr. in particolare, con riguardo all’applicazione del canone di buona fede, Cons. Stato, Ad. pl., 30 agosto 2018, n. 12; id., sez. IV, 25 maggio 2015, n. 2064; id., sez. V, 21 novembre 2014, n. 5734.

[61] Cfr. M. Protto, op. cit., pp. 206-207.

[62] Al riguardo, cfr. C. Castronovo, L’obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Scritti in onore di L. Mengoni, vol. I, Milano, 1995 pp. 148 ss.

[63] Fra le più lucide esposizioni della costruzione sintetizzata nel testo, cfr. F. Mengoni, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” (Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, 1, pp. 185 ss.; F. Benatti, Doveri di protezione, in Dig. disc. priv., Sez. civ., vol. VII, Torino, 1991, pp. 221 ss. Sul ruolo della buona fede nella disciplina dei rapporti obbligatori, cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, vol. IV, Milano, 1993, pp. 86 ss.

[64] Elaborata originariamente a proposito della responsabilità precontrattuale ex artt. 1337 e 1338 c.c. (cfr. L. Mengoni, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, in Riv. dir. comm., 1956, II, pp. 360 ss.), la teorica delle obbligazioni senza prestazione è stata sviluppata dalla dottrina civilistica in relazione a situazioni in cui dallo status professionale di un soggetto scaturiscono una serie di obblighi di comportamento nei confronti di soggetti determinati, tali da ingenerare in questi ultimi un affidamento sulla tenuta di specifiche condotte: in tali ipotesi, in assenza di preesistenti vincoli contrattuali gli obblighi e l’affidamento in questione vengono ricondotti al canone di buona fede (cfr. C. Castronovo, op. cit., pp. 448 ss.). La nozione di obbligazione senza prestazione (primaria) è stata talora recepita anche dalla giurisprudenza: cfr. Cass. civ., sez. un., 27 giugno 2002, n. 9436 (in materia di responsabilità dell’insegnante per danni cagionati dall’alunno a sé stesso); id., III, 22 gennaio 1999, n. 589 (in tema di responsabilità del medico dipendente da struttura ospedaliera nei confronti dei soggetti ivi degenti).

[65] Al tema il principale teorico delle obbligazioni senza prestazione ha dedicato una specifica trattazione: cfr. C. Castronovo, Responsabilità civile per la pubblica amministrazione, in Jus, 1998, pp. 653 ss.

[66] C. Castronovo, op. ult. cit., p. 658.

[67] Valga, per tutti, il rinvio al seminale lavoro di F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970.

[68] Una possibile definizione di “contatto qualificato” in diritto amministrativo lo intende “quale fattispecie composta dal principio giuridico della buona fede e dai comportamenti tipizzati dalla regolarità sociale, secondo una struttura che si può assimilare a quella delle clausole generali” (V. Antonelli, op. cit., p. 678).

[69] Cfr. per tutti M. Protto, La responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi come responsabilità da contatto amministrativo, in Resp. civ. e prev., 2001, pp. 131 ss,; Id., Il rapporto amministrativo, cit., pp. 203 ss.; G.D. Comporti, Torto e contratto nella responsabilità civile delle pubbliche amministrazioni, Torino, 2003.

[70] Per una rassegna parziale delle pronunce che hanno accolto la nozione in esame, cfr. V. Antonelli, op. cit., pp. 634 ss., cui adde T.A.R. Napoli, VIII, 5 giugno 2012, n. 2646; T.A.R. Catanzaro, II, 9 giugno 2009, n. 627.

[71] La metafora del “convitato di pietra”, per parlare del ruolo svolto dall’interesse pubblico nel processo amministrativo, è stata spesso autorevolmente impiegata: cfr. G. Coraggio, Discorso di insediamento del Presidente del Consiglio di Stato, Roma, 2012, p. 28.

[72] Sul punto, cfr. M. Protto, Il rapporto amministrativo, cit., pp. 207-208 (anche in critica all’impostazione di V. Antonelli).

[73] Cfr. F.G. Scoca, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Milano, 1990, p. 33, il quale non casualmente vede nel “rapporto (giuridico) amministrativo” il miglior terreno su cui affermare pienamente la natura sostanziale dell’interesse legittimo.

[74] Cfr. Corte cost., 4 maggio 2017, n. 94, laddove, nel respingere le eccezioni di incostituzionalità avverso il termine decadenziale di 120 giorni stabilito dal codice del processo amministrativo per l’esercizio in via autonoma dell’azione risarcitoria nei confronti della P.A. (art. 30, comma 3, c.p.a.), si afferma che tale previsione appare non irragionevole in quanto dettata della volontà del legislatore di operare “un coerente bilanciamento dell’interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (…), con l’obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria”.

[75] Ancora una volta vanno richiamate le intuizioni di M. Nigro, op. loc. ult. cit.

[76] Cfr. M. Protto, op. ult. cit., p. 95 (con richiami di dottrina tedesca).

[77] Cfr. M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2017, pp. 112 ss., il quale inquadra il potere amministrativo come “diritto potestativo stragiudiziale”, sia pure con rimarchevoli peculiarità rispetto ai diritti potestativi esistenti nei rapporti privati.

[78] Per questa impostazione, cfr. G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, 1980, pp. 163 ss.

[79] Cfr. V. Antonelli, op. cit., pp. 666-667 (specie nn. 181 e 182).

[80] Interessanti la considerazioni di G. Abbamonte, Tutela degli interessi legittimi e risarcimento del danno, in Atti del convegno nazionale sull’ammissibilità del risarcimento del danno patrimoniale derivante da lesione di interessi legittimi, Napoli 27-29 ottobre 1963, Milano, 1965, p. 29, secondo cui, mentre i rapporti tra privati si connotano per “alterità” e “separazione”, i rapporti tra soggetti pubblici e privati sono dominati dal “principio di integrazione”.

[81] Cfr. L. Ferrara, Statica e dinamica nell’interesse legittimo: appunti, in Dir. amm., 2013, 3, p. 474.

[82] è la tesi articolatamente sviluppata da M. Protto, Il rapporto amministrativo, cit.

[83] Sul punto, cfr. M. Protto, op. ult. cit., pp. 216 ss.

[84] Sulla questione, cfr. V. Antonelli, op. cit., pp. 669 ss., il quale propende per l’autonomia del rapporto procedimentale, che qualifica come “preparatorio” rispetto all’assetto di interessi definito col provvedimento finale.

[85] Così M. Protto, op. ult. cit., p. 163.

[86] Cfr. M. Protto, op. ult. cit., pp. 163-163 (che richiama il concetto di “demarchia” elaborato da Feliciano Benvenuti).

[87] Il richiamo obbligato è all’opera di A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia non amministrativa (Sonntagsgedanken), Milano, 2005.

[88] La tesi, elaborata da A. Orsi Battaglini – C. Marzuoli, La Cassazione sul risarcimento del danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell’interesse legittimo, cit., è stata poi sviluppata da L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione, cit.

[89] Cfr. A. Travi, op. ult. cit., p. 107.

[90] Cfr. M. Protto, op. ult. cit., pp. 124-125, sulla scia di dottrina tedesca riferita ad analoghe ricostruzioni del rapporto P.A. - amministrati suggerite in quell’ordinamento.

[91] Cfr. F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., pp. 264-265.

[92] In tal senso, C. Cudia, Funzione amministrativa e soggettività della tutela. Dall’eccesso di potere alle regole del rapporto, Milano, 2008, pp. 351 ss.

[93] Cfr. O. Forlenza, Crisi del procedimento amministrativo e codice del processo amministrativo: cosa resta dell’interesse legittimo, in Il “meritevole di tutela”: scenari istituzionali e nuove vie di diritto, a cura di G. De Giorgi Cezzi, P.L. Portaluri, F.F. Tuccari e F. Vetrò, Napoli, 2012, pp. 127 ss.

[94] Cfr. F.G. Scoca, op. ult. cit., pp. 269-270.

[95] Cfr. F. Patroni Griffi, Relazione sull’attività della Giustizia amministrativa e Discorso di insediamento del Presidente del Consiglio di Stato, Roma, 2019, pp. 8 ss..

[96] Sul punto, sia consentito rinviare a R. Greco, L’effettività della tutela nel giudizio di ottemperanza, in www.giustizia-amministrativa.it, 13 febbraio 2019.

[97] Cfr. Cons. Stato, VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, laddove, a seguito dell’annullamento degli atti di una procedura concorsuale a cattedra universitaria, si è ritenuto di dover statuire in merito a chi fosse il candidato più idoneo, ordinando sostanzialmente all’Amministrazione di collocarlo al primo posto in graduatoria in sede di rinnovazione della procedura.

[98] Sulla vicenda normativa in discorso, che ha visto il legislatore espungere dallo schema originario di codice non solo quella sull’azione di accertamento, ma anche altre innovative previsioni, cfr. F. Lubrano, Le azioni a tutela degli interessi pretensivi nel nuovo processo amministrativo, Roma, 2012, p. 108.

[99] Per una panoramica della situazione post-codice, cfr. G. Veltri, Le azioni di accertamento, adempimento, nullità e annullamento nel codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 24 febbraio 2011. Più specificamente, S. Castrovinci Zenna, Il lungo cammino verso l’effettività della tutela: l’ammissibilità dell’azione di accertamento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2017, 1, pp. 146 ss.

[100] “(…) il c.p.a. prefigura un sistema aperto di tutele e non di azioni tipiche, il quale riflette l’esigenza di una tutela conformata non alle situazioni giuridiche sostantive (secondo la tradizione romanistica) bensì al bisogno differenziato di tutela dell’interesse protetto, il cui grado e la cui intensità sono spesso definiti ex post dal giudice e non ex ante” (Cons. St., VI, n. 1321/2019, cit.).

[101] Cfr. T.A.R. Puglia, Bari, III, 5 gennaio 2018, n. 20; T.A.R. Campania, Napoli, IV, 28 ottobre 2011, n. 5049.

[102] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, VII, 25 gennaio 2013, n. 629.

[103] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, IV, 7 giugno 2018, n. 3809.

[104] Cfr. O. Forlenza, op. cit., p. 117: “per accertare qualcosa bisogna sapere cosa si cerca”.

[105] Per un riepilogo delle problematiche suscitate dalla norma introdotta nel 2005, cfr. G. Bergonzini, Art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 e annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi, in Dir. amm., 2007, 2, pp. 231 ss.

[106] Sul punto, cfr. V. Parisio, Motivazione postuma, qualità dell’azione amministrativa e vizi formali, in Foro amm. Tar, 2006, 9, pp. 3087 ss.

[107] Così G. Tropea, op. cit., p. 1266, il quale richiama la dottrina che, in contrasto con il consolidato indirizzo giurisprudenziale, ipotizza che la carenza di motivazione possa integrare un’ipotesi di nullità, anziché di annullabilità, del provvedimento amministrativo. Sul punto cfr. anche M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Dir. proc. amm., 2017, 3, pp. 894 ss.

[108] Cfr. M. Protto, op. ult. cit., pp. 191 ss., con richiami di giurisprudenza.

[109] Cfr. M. Protto, op. ult. cit., pp. 188-189.

[110] Cfr. ord. 26 maggio 2015, n. 92, laddove si è affermata la necessità di un’interpretazione “costituzionalmente orientata” della norma, sul presupposto che il difetto di motivazione non può essere assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai visi di forma.

[111] Fra le più recenti pronunce le quali hanno escluso che il difetto di motivazione possa essere assimilato a vizio formale, sanabile ex art. 21-octies, si segnalano Cons. Stato, III, 30 aprile 2014, n. 2247; T.A.R. Puglia, Lecce, III, 23 ottobre 2017, n. 1674; T.A.R. Sicilia, Catania, III, 5 aprile 2017, n. 711; T.A.R. Basilicata, I, 23 aprile 2016, n. 431.

[112] La giurisprudenza ha chiarito che nei caso di insussistenza dell’obbligo della P.A. di provvedere, il ricorso avverso il silenzio è inammissibile non per carenza di interesse ma per difetto di legittimazione, in ragione proprio dell’insussistenza in capo al privato di una situazione giuridica qualificata e differenziata: cfr. da ultimo Cons. Stato, V, 6 febbraio 2017, n. 513; id., III, 20 aprile 2015, n. 1989.

[113] N. 10 del 10 marzo 1978.

[114] Cfr. Cons. Stato, V, 6 febbraio 2017, n. 513; id., IV, 29 dicembre 2016, n. 5529; id., V, 13 ottobre 2016, n. 4235; id., III, 2 maggio 2016, n. 1660; id., IV, 18 febbraio 2016, n. 653; T.A.R. Lazio, II bis, 6 novembre 2018, n. 10697.

[115] Cfr. Cons. Stato, VI, 8 febbraio 2019, n. 961; T.A.R. Puglia, Lecce, I, 10 gennaio 2019, n. 13; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 8 novembre 2018, n. 2525.

[116] Cfr. Cons. Stato, IV, 7 giugno 2017, n. 2751; T.A.R. Campania, Napoli, V, 1 aprile 2019, n. 1797; T.A.R. Puglia, Lecce, I, 7 febbraio 2019, n. 181.

[117] Cfr. Cons. Stato, IV, 30 giugno 2017, n. 3234; id., VI, 8 febbraio 2016, n. 508; id., IV, 2 luglio 2015, n. 3306; id., 29 maggio 2015, n. 2688; id., 20 maggio 2014, n. 2545; id., 13 dicembre 2013, n. 5994; id., 4 dicembre 2012, n. 6183; T.A.R. Lazio, III ter, 5 dicembre 2018, n. 11812; T.A.R. Lombardia, Milano, II, 28 settembre 2018, n. 2171; T.A.R. Sardegna, I, 20 agosto 2018, n. 752.

[118] Cfr. ad esempio Cons. Stato, V, 15 settembre 2017, n. 4351; id., III, 8 settembre 2016, n. 3827; T.A.R. Lazio, II bis, 14 marzo 2019, n. 3454; T.A.R. Campania, Napoli, VII, 13 settembre 2018, n. 5486; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, I, 2 luglio 2018, n. 283.

[119] Cfr. Cons. Stato, VI, 21 maggio 2019, n. 3269; id., IV, 19 aprile 2017, n. 1827; id., 8 settembre 2015, n. 4177; id., V, 22 gennaio 2015, n. 273.

[120] Cfr. Cons. Stato, VI, 26 maggio 2015, n. 2651; id., IV, 24 settembre 2015, n. 4721; id., V, 10 luglio 2012, n. 4065; id., 8 luglio 2011, n. 4092.

[121] Giurisprudenza costante: cfr. Cons. Stato, IV, 28 marzo 2018, n. 1945; id., V, 25 luglio 2014, n. 3964; id., 22 gennaio 2014, n. 322; id., VI, 7 gennaio 2014, n. 12; id., 11 febbraio 2013, n. 767; id., V, 3 ottobre 2012, n. 5199; id., VI, 15 maggio 2012, n. 2774; id., V, 3 maggio 2012, n. 2549; id., 30 dicembre 2011, n. 6995; id., VI, 3 maggio 2011, n. 2609; id., VI, 24 febbraio 2011, n. 1178; id., 11 febbraio 2011, n. 919; id., 6 luglio 2010, n. 4308; T.A.R. Lazio, II, 6 novembre 2018, n. 10662; T.A.R. Sicilia, Catania, III, 21 settembre 2018, n. 1784; T.A.R. Campania, Napoli, III, 29 maggio 2018, n. 3530; T.A.R. Lombardia, Milano, 10 maggio 2018, n. 1251.

[122] Cfr. Cons. Stato, IV, 21 novembre 2016, n. 4836.