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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Giurisprudenza Amministrativa



Le deroghe di cui agli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. N. 159/2011 si applicano solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture e non anche ai finanziamenti pubblici.

Di Daniela D'Amico
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA

SENTENZA 26 ottobre 2020, n. 23

 

Di DANIELA D’AMICO

 

Le deroghe di cui agli artt: 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. N. 159/2011 si applicano solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture e non anche ai finanziamenti pubblici.

 

Con la sentenza non definitiva del 23 dicembre 2019 n. 8672, la Terza Sezione del Consiglio di Stato, avendo registrato orientamenti giurisprudenziali in contrasto tra loro, ha deferito alla Adunanza Plenaria il seguente quesito: “se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all’inciso finale contenuto sia nell’art. 92, comma 3, sia nell’art. 94, comma 2, del D. Lgs. n.159/2011, è da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo”.

Occorre, in via preliminare, indagare i termini del contrasto giurisprudenziale al fine di comprendere meglio tutto l’iter motivazionale che ha condotto alla decisione dell’Adunanza.

In base a un primo orientamento (cd. estensivo), la norma innanzi richiamata dovrebbe essere intesa nel senso di consentire lo ius retentionis, da parte dell’operatore attinto da informativa interdittiva, in tutti i casi in cui il programma beneficiato da finanziamento pubblico sia stato correttamente realizzato e quindi risulti soddisfatto, anche in via indiretta, l’interesse generale sotteso all’erogazione.

Si propone, quindi, una nozione ampia e onnicomprensiva del concetto di “utilità conseguite”, svincolandone il riferimento dalle utilità economiche direttamente ritraibili dall’amministrazione concedente - come nel caso dei contratti di appalto, in cui è più evidente il nesso di corrispettività fra l’erogazione di risorse pubbliche e l’acquisizione di utilità sotto forma di beni e servizi - ed estendendolo anche a quei vantaggi di ordine generale che sono sottesi a qualunque iniziativa privata finanziata dall’amministrazione e che, per ciò stesso, non possono che mirare al conseguimento di scopi di interesse pubblico.

Si assume, in sostanza, che poiché ogni attività della P.A. che importa erogazione di provvidenze economiche è finalizzata (sia pure di riflesso) a scopi di interesse pubblico e questi ultimi si sostanziano in benefici collettivi, immediatamente o mediatamente riconducibili all’esercizio del potere, la nozione di “utilità conseguite” andrebbe estesa anche a quei vantaggi generali perseguiti attraverso l’esecuzione di programmi oggetto di finanziamento o di contributo pubblico.

Secondo tale sistematica, l’erogazione del contributo, nel rapporto tra concedente pubblico e beneficiario, si configura come un mutuo a comunione di scopo, in quanto destinata ad una finalità che è propria di entrambe le parti e che obbliga l’accipiens ad eseguire il programma concordato (a pena di revoca del finanziamento); e lo scopo del mutuo può considerarsi realizzato nella misura in cui si sia proceduto all’investimento e all’iniziativa economica programmata, in conformità alle regole imposte dal bando (Tar Reggio Calabria, n. 119/2013; Tar Napoli, sez. I, n. 52/2018; CGARS n. 3/2019).

In base ad un secondo orientamento (cd. restrittivo), la nozione di “utilità conseguite” non sarebbe dilatabile sino al punto da ricomprendervi anche l’ipotesi del finanziamento andato a buon fine, grazie all’integrale realizzazione del programma finanziato, e ciò in quanto in tale evenienza l’interesse pubblico risulterebbe essere soltanto indiretto (Cons. Stato, sez. III, nn. 1108 e 5578 del 2018).

In tal senso, si sottolinea la differenza che sussiste tra i rapporti contrattuali, come quelli derivanti dalla stipula di contratti di appalto, in cui è più evidente il nesso di corrispettività sussistente fra le reciproche prestazioni, e le erogazioni di benefìci pubblici derivanti da atti unilaterali, in cui la reciprocità degli impegni e la corrispettività delle prestazioni offerte risulta certamente più attenuata.

Pertanto, il termine “utilità” deve essere colto in un senso più limitato e strettamente patrimoniale, tale, dunque, da applicarsi alle sole opere o ai soli servizi che accrescono il patrimonio dell’Amministrazione e che per quest’ultima rappresentano un valore economicamente valutabile: dal che discende l’applicabilità della disciplina di salvezza di cui all’art. 92, comma 3, d.lgs. n. 159/2011 ai soli contratti di appalto nei quali la pubblica Amministrazione è parte committente.

A parere della sezione del Consiglio di Stato rimettente, il detto art. 92, comma 3, contiene indici testuali e sistematici che depongono a favore della seconda delle due tesi sopra illustrate, ossia l’orientamento restrittivo.

Quanto agli argomenti di carattere semantico-testuale, il Collegio osserva che:

a1) - l’elemento lessicale della “utilità conseguita”, più che alludere all’effetto conseguente alla mera esecuzione di una attività programmata, sembra rinvenire la sua specifica accezione nell’effetto positivo, residuale e incrementale, che supera l’esito di tale attività e si riconduce alla sfera giuridica dell’accipiens, singolarmente considerato;

a2) - di contro, è lecito ritenere che se la disposizione normativa avesse inteso premiare con lo ius retentionis un impiego delle risorse erogate conforme alla destinazione programmata, essa si sarebbe limitata a rendere testualmente questo concetto, senza introdurre la più stringente (e a questo punto surrettizia) nozione di “utilità conseguite”;

a3) - il valore disgiuntivo da attribuire all’espressione “o recedono dai contratti”, contenuta sia nell’art. 92, comma 3, sia nell’art. 94, comma 2, del cod. antimafia, rende poi l’inciso finale dei due commi più verosimilmente riferibile ai soli contratti e non anche alle autorizzazioni ed alle concessioni, ovvero ai contributi, ai finanziamenti ed alle agevolazioni;

a4) - anche il concetto di “esecuzione delle opere” dal quale l’amministrazione trae “utilità”, sembra riferibile ad una condizione di reciprocità delle prestazioni corrispettive, scarsamente compatibile con l’ipotesi di un’erogazione o di un finanziamento destinato a beneficio riflesso non di uno specifico ente od apparato della P.A, ma della indistinta collettività pubblica.

Sul piano logico-sistematico, occorre invece considerare quanto segue:

b1) - come già innanzi esposto, la prima tesi (estensiva) propende per far coincidere la “utilità conseguita” con l’esecuzione dell’iniziativa economica programmata, ravvisando detta utilità nei benefici collettivi immediatamente o mediatamente ritraibili da un impiego dei fondi conforme alla destinazione di interesse generale loro impressa; e ciò sull’assunto per cui è esattamente questa conformità al fine prestabilito che fornisce garanzia di un impiego delle risorse in linea con lo scopo pubblico.

Invero, il comma 3 dell’art. 92 sembra muoversi in altra direzione, in quanto riconosce al soggetto attinto dall’informativa antimafia non già il diritto a ritenere l’erogazione nella misura corrispondente al valore dell’investimento realizzato, come sarebbe logico se la sola conformità allo scopo programmato realizzasse la utilità pubblica insita nel programma di finanziamento, in quanto tale meritevole di preservazione.

Ciò che il comma 3 riconosce al soggetto interdetto è, diversamente, il diritto a vedersi corrisposto un compenso limitato all’utilità conseguita dall’amministrazione, onde evitare che quest’ultima, dall’esecuzione dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento (v. Cass., sez. un, n. 28345/2008).

b2) - sul piano applicativo, lo ius retentionis appare razionalmente giustificabile nel contesto di prestazioni corrispettive, preventivamente concordate dalle parti, in quanto rispondenti ai loro specifici interessi. La stabilizzazione dei relativi effetti costituisce, in siffatto contesto, una scelta di minor costo e di sicuro vantaggio rispetto a quella del ripristino dello status quo ante; ed il mantenimento delle prestazioni eseguite preserva l’equilibrio contrattuale senza che si renda necessaria alcuna restituzione.

Nell’ipotesi del contributo pubblico, al contrario, l’utilità riflessa che da tale investimento può refluire a vantaggio della collettività, è in molti casi condizionata dall’ampiezza della platea dei soggetti privati che aderiscono ai programmi di finanziamento, dalla reiterazione di analoghe contribuzioni nel tempo e dalla convergente e sistematica esecuzione delle misure facenti capo ad una medesima azione strategica. Ne viene che le ricadute positive - apprezzabili ex post sotto forma di benefici generali, indiretti e di lunga durata, poiché riguardanti ampi settori della dimensione collettiva (l’ambiente, l’agricoltura, l’imprenditoria, etc..) - possono essere stimate solo attraverso parametri macroeconomici ad esse congruenti, proporzionati alla tipologia, all’estesa latitudine degli interventi programmati e alla loro distribuzione nel lungo periodo. Si tratta di dati che inevitabilmente eccedono il singolo progetto finanziabile e rendono assai evanescente o difficilmente percepibile il riflesso di utilità su scala collettiva che lo stesso è in grado di generare.

A margine del dilemma intrinseco alla nozione di utilità conseguite, la contesa interpretativa si interseca con ulteriori tematiche di rilievo più generale.

La prima attiene all’incidenza del fattore temporale sul carattere precario del beneficio erogato, che tale (cioè precario) rimane sino al definitivo compimento del programma agevolato.

Sul punto, il più restrittivo dei due orientamenti ermeneutici sostiene che la pretesa restituzione delle somme erogate è giustificata proprio dal carattere ontologicamente provvisorio del beneficio erogato e dal fatto che tale provvisorietà è destinata a protrarsi sino al momento della definitiva chiusura del programma agevolato (Tar Catania, n. 2132/2017).

Il provvedimento di revoca viene infatti adottato in attuazione dell’art. 92, comma 3, d.lgs. 159/2011, stando al quale i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all’articolo 67 codice antimafia sono corrisposti sotto condizione risolutiva di una eventuale informazione antimafia positiva intervenuta successivamente al pagamento.

Poiché, quindi, i contributi risultano concessi in via provvisoria, il Giudice del deferimento precisa che l’atto cd. di revoca non rappresenta affatto (come farebbe pensare il nomen) un nuovo provvedimento adottato in autotutela dall’Amministrazione, nell’esercizio di un potere discrezionale, ma un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della condizione risolutiva, afferente al contributo ancora precario.

Per l’effetto, risulta improprio ogni richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241/1990, che riguardano rispettivamente i provvedimenti di revoca (in senso proprio) e di annullamento adottabili giustappunto nell’esercizio di un potere di autotutela; inoltre, risulta inappropriato ogni riferimento al principio dell’affidamento, che mai potrebbe sorgere a fronte dell’originario provvedimento di concessione in via provvisoria del contributo (Tar Catania, sez. IV, n. 2132/2017).

Dal fronte dell’opposto e più estensivo orientamento si obietta che, anche a voler condividere l’ottica della provvisorietà del beneficio economico, tale condizione iniziale dovrebbe pur sempre avere una durata definita nel tempo, affinché ciò che nasce provvisorio diventi il prima possibile definitivo; pena, altrimenti, l’impossibilità di qualunque previsione e di qualunque calcolo da parte di cittadini ed imprese, secondo il principio di certezza dei rapporti giuridici.

Pertanto, il sopraggiungere dell’informativa negativa non potrebbe sortire effetti preclusivi nei confronti di un rapporto di durata che si sia ormai in massima parte dispiegato, raggiungendo gli obiettivi prefissati dalla stessa amministrazione.

Tuttavia, a corroborare la detta tesi restrittiva, concorre la pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 3 del 2018.

La sentenza in questione ha stabilito che il provvedimento di interdittiva antimafia determina, in capo al soggetto (persona fisica o giuridica) che ne è colpito, una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto stesso è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.

In particolare, tale la pronuncia in esame ha stabilito che l’art. 67 del Codice delle leggi antimafia - nella parte in cui prevede il divieto di ottenere “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo..” - va inteso come implicante anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa; e ciò anche nell’ipotesi in cui detto diritto si sia consolidato attraverso il passaggio in giudicato della sentenza di condanna al risarcimento.

Da una prospettiva differente si pone il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, il quale nella recente pronuncia n. 3/2019, pur non disattendendo in modo espresso le statuizioni rese dall’Adunanza plenaria, ne sterilizza l’effettiva incidenza, giustificando tale soluzione in ragione della peculiarità del caso di specie esaminato.

Secondo i Giudici siciliani, i princìpi di diritto di cui alla sentenza n. 3 del 2018 (che prendono le mosse dalla ritenuta incapacità giuridica parziale ad accipiendum in capo all’operatore attinto da un’informativa interdittiva) non potrebbero comunque valere “per i rapporti esauriti o che sarebbero dovuti esserlo da tempo e che non lo sono stati per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione”. Se così non fosse - prosegue il Collegio - il complessivo regime normativo in tema di comunicazioni e informazioni antimafia determinerebbe inammissibili profili di incertezza e insicurezza nei traffici giuridici; e detta incertezza si protrarrebbe di fatto sine die anche laddove - come nel caso scrutinato dalla sentenza n. 3/2019 - sia decorso un tempo rilevante e la stessa amministrazione abbia adottato nel tempo informative di carattere liberatorio nei confronti dell’operatore economico.

Nonostante la comprensibile cautela mostrata dai Giudici siciliani nel non contrastare in modo espresso e frontale le statuizioni rese dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 3 del 2018, appare tuttavia evidente che la ratio sottesa alla decisione del giudice siciliano si pone come di fatto alternativa a quella posta a fondamento della decisione n. 3 del 2018.

Da un lato (Adunanza Plenaria), si assume che l’adozione di un’informativa interdittiva nei confronti di un operatore determina sempre e comunque in capo allo stesso uno stato di parziale incapacità giuridica, sì da determinare “la insuscettività .. ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinano (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione” (v. Ad. Plen. 3 del 2008, punto 4.1 della motivazione).

Dall’altro lato (CGARS), si osserva che la forma di incapacità elaborata dall’Adunanza plenaria conosce taluni limiti di ordine pubblico economico come, ad esempio, quelli conseguenti all’integrale realizzazione del programma beneficiato, al lungo tempo trascorso ovvero al rilascio in favore della medesima impresa di precedenti informative di carattere liberatorio.

In conclusione, a parere del giudice rimettente, la citata lettura estensiva appare - oltre che revocabile in dubbio per le ragioni sopra esposte - difficilmente coniugabile con il principio secondo il quale le disposizioni che introducono una eccezione o deroga ad un principio generale devono soggiacere ad una regola di stretta interpretazione. Nell’ambito della normativa antimafia, la salvezza prevista dall’art. 92, comma 3, d.lgs. 159/2011 è una eccezione al detto effetto inabilitante. Ne consegue che detta eccezione è apprezzabile nei ristretti e tassativi limiti delle ipotesi in essa espressamente contemplate.

L’Adunanza plenaria, dopo aver ripercorso l’iter motivazionale e la presa di posizione del giudice rimettente, afferma sin da subito che la salvezza del “pagamento delle opere già eseguite e il rimborso del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”, di cui agli articoli 92, co. 3, e 94, co. 2, d. lgs. n.159/2011 vada riferita solo al recesso dai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, con esclusione delle ipotesi connesse alla concessione di finanziamenti pubblici o simili, anticipando così il principio di diritto che enuncerà al termine della motivazione della sentenza.

Le disposizioni oggetto di deferimento prevedono, in modo sostanzialmente simile, che i soggetti di cui all’art. 83, commi 1 e 2, codice antimafia nel caso di informazione antimafia interdittiva, “revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”.

Occorre, dunque, stabilire se il limite normativo delle utilità conseguite si riferisca solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, oppure anche ai finanziamenti e contributi pubblici, così come richiede il Giudice del deferimento.

Difatti, è la salvezza del pagamento il vero limite normativo (ovvero l’eccezione agli effetti della revoca e del recesso dai contratti), contribuendo invece il limite delle utilità conseguite solo alla definizione del quantum di una salvezza già verificata essere sussistente.

In sostanza, è solo nei casi in cui si riconosce la salvezza del pagamento (an dell’eccezione alla revoca e al recesso) che può poi verificarsi il limite (il quantum) del pagamento da disporre, di modo che, sul piano logico-giuridico occorre, in primo luogo, stabilire se la salvezza del pagamento, nei termini normativamente previsti, si applichi solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture ovvero anche alle concessioni di finanziamenti e contributi e, in secondo luogo, e solo in caso di esito positivo della prima verifica, occorre stabilire - al fine di definire il quantum di un pagamento già riconosciuto (salvato) nell’an - cosa si intenda per utilità conseguita.

Tanto precisato in ordine alla questione sottoposta dal Giudice del deferimento, il Supremo Collegio (seguendo l’esempio della motivazione in diritto della pronuncia di rimessione) pone l’attenzione sulla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 3/2018, la quale, formulando il principio di diritto, ha avuto modo di affermare che il provvedimento di cd. interdittiva antimafia determina una particolare forma di incapacità giuridica in ambito pubblico, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che, sul loro cd. “lato esterno”, determinino rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione.

Nel dettaglio, si tratta di una incapacità prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti – in equilibrata ponderazione tra libertà di impresa e tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale (Cons. Stato, sez. III, 9 febbraio 2017 n. 565, ricordata anche da Corte cost., n. 27 marzo 2020 n. 57) - e conseguente all’adozione di un provvedimento che giunge all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale sono previste indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario.

Tale incapacità è: parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione, ossia quelli di natura contrattuale con la P.A., ovvero concernenti l’esercizio di poteri provvedimentali unilaterali della P.A., e comunque limitatamente ai precisi casi espressamente indicati dalla legge all’art. 67 d. lgs. n. 159/2011; tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente che abbia effetto riabilitante per l’operatore economico destinatario dell’interdittiva antimafia.

A tal proposito è utile ripercorrere sinteticamente la pronuncia n. 57/2020 della Consulta, incentrata sulla natura giuridica e sulle caratteristiche delle interdittive antimafia, al fine di meglio comprendere l’area in cui si muove la sentenza dell’Adunanza in analisi, riguardante i provvedimenti di informativa antimafia interdittiva.

Ebbene, il Tribunale ordinario di Palermo, con ordinanza del 10 maggio 2018, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, incentrando la q.l.c. proposta sulla contrarietà alle norme costituzionali citate della legge ordinaria, la quale affidi il delicato compito di attribuire un’incapacità parziale alle imprese colpite dall’interdittiva antimafia ad un mero provvedimento amministrativo e non ad un provvedimento giurisdizionale.

In particolare, la questione di incostituzionalità riguardava l’impossibilità per l’impresa destinataria dell’interdittiva antimafia di ottenere autorizzazioni e abilitazioni da parte della pubblica amministrazione per l’esercizio di attività privatistiche, in cui, quindi, l’unico contatto con l’autorità pubblica è la richiesta del titolo abilitativo e non la stipula di un contratto con la medesima P.A

Con la detta sentenza n. 57 del 26 marzo 2020, il Giudice delle leggi chiarisce la portata del provvedimento amministrativo dell’interdittiva antimafia, precisando che si tratta di un provvedimento discrezionale, in particolare di discrezionalità tecnica, di tipo cautelare e preventivo (in ciò differenziandosi dalla comunicazione antimafia, la quale è espressione dell’esercizio di attività vincolata della P.A. e si contraddistingue per il suo carattere essenzialmente accertativo).

Nello specifico intento del Legislatore, le interdittive antimafia hanno lo scopo di colpire i collegamenti (o presunti collegamenti) del singolo operatore economico con la criminalità organizzata, poiché la criminalità organizzata è un fenomeno criminale che trascende il singolo: la ratio dell’interdittiva antimafia è, dunque, quella di evitare e contrastare l’inquinamento mafioso delle attività economiche.

Le interdittive antimafia si basano su un giudizio prognostico, costituiscono espressione di anticipazione della difesa sociale e vanno ad interessare i tentativi di infiltrazione mafiosa, in quanto hanno una natura spiccatamente preventiva e non abbisognano dell’accertamento rigoroso richiesto per l’irrogazione delle sanzioni penali conseguenti ad una sentenza di condanna.

L’adozione del provvedimento di informativa antimafia interdittiva spetta ex lege al Prefetto, la cui valutazione deve sempre fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti, che risultano da un’adeguata motivazione dell’atto (anche per relationem) e che consentano di ritenere razionalmente credibile il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo, oggettivo, e sempre sindacabile in sede giurisdizionale, apprezzamento dei fatti.

La Consulta, in definitiva, ritiene non fondate le questioni di legittimità costituzionale proposte per le ragioni seguenti: nel bilanciamento tra contrapposti interessi, l’interesse generale di tutelare la sicurezza pubblica e di evitare l’inquinamento dell’economia legale risulta prevalente rispetto alla libertà di iniziativa economica del singolo; è rispettato il principio della tassatività cd. sostanziale (ossia i principi di accessibilità e prevedibilità del diritto, di provenienza convenzionale europea), in quanto le norme considerate incostituzionali contengono un catalogo aperto di parametri, oggetto di valutazione da parte del Prefetto, i quali sono stati riempiti di significato determinato e definito da parte della giurisprudenza ormai consolidata sul punto; l’interdittiva antimafia, quale provvedimento amministrativo, è impugnabile dinanzi al G.A., il quale non si limita ad un mero sindacato estrinseco, ma effettua un sindacato intrinseco, riguardante la correttezza dei criteri utilizzati e la loro adeguata applicazione da parte dell’autorità amministrativa competente.

Inoltre, l’interdittiva antimafia è un provvedimento caratterizzato da temporaneità e provvisorietà, in quanto ha un’efficacia limitata nel tempo pari a 12 mesi, al termine dei quali il Prefetto dovrà effettuare una nuova valutazione che potrà concludersi con esito negativo o positivo per l’impresa destinataria del primo provvedimento di interdittiva antimafia.

Il Legislatore ha adottato, dunque, un sistema di estremo rigore (perfettamente recepito dalle citate sentenze della Corte costituzionale e della stessa Adunanza plenaria) onde evitare che le pubbliche amministrazioni (o, più precisamente, i soggetti indicati dall’art. 83, co. 1 e 2, d. lgs. n. 159/2011) possano entrare in contatto con soggetti colpiti da cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’art. 67 codice antimafia, ovvero che siano destinatari di un tentativo di infiltrazione mafiosa; e ciò al fine di evitare che tali soggetti possano condizionare le scelte e gli indirizzi delle amministrazioni pubbliche, ledendo i principi di legalità, imparzialità e buon andamento riconosciuti dall’art. 97 Cost., ovvero possano incidere sul leale e corretto svolgimento della concorrenza tra imprese, ovvero ancora possano appropriarsi a qualunque titolo di risorse pubbliche (beni, danaro o altre utilità).

Tale forma di incapacità, di natura temporanea (che dura, come si è detto, fino all’adozione di un diverso provvedimento da parte dell’autorità competente), non può essere nemmeno esclusa nel caso di rapporti intrattenuti con la pubblica amministrazione che avrebbero dovuto essere esauriti da tempo e che non lo sono stati per ragioni imputabili alla stessa pubblica amministrazione.

E in aggiunta a ciò, l’Adunanza plenaria n. 23/2020 ricorda come le norme evidenzino in modo chiaro e netto la precarietà del rapporto instaurato con il privato non ancora provvisto di dichiarazione antimafia, e dunque la provvisorietà degli effetti derivanti dagli atti adottati.

Da quanto esposto dai giudici del Supremo Collegio, consegue che – a fronte dell’estremo rigore risultante dal complessivo sistema normativo disciplinante l’informazione antimafia e le sue conseguenze (posto a tutela dei richiamati essenziali valori costituzionali) – costituiscono norme di eccezione, e come tali di stretta interpretazione ex art. 14 disp. prel. c.c., quelle che, pur in presenza di una riconosciuta situazione di incapacità, consentono la conservazione da parte di un soggetto destinatario di informazione interdittiva di attribuzioni patrimoniali medio tempore eventualmente acquisite ovvero la possibilità di procedere alla loro dazione da parte delle pubbliche amministrazioni.

Pertanto, l’esame ermeneutico degli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2 del d lgs. n. 159/2011, nella parte in cui questi consentono la salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, deve rispondere alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione.

Infatti, gli articoli più volte citati disciplinano non già la situazione ordinaria di particolari rapporti giuridici con le pubbliche amministrazioni, bensì una situazione che costituisce già essa stessa deroga all’ordinario procedimento volto alla adozione di atti ovvero alla costituzione di rapporti contrattuali.

In particolare, la disciplina ordinaria prevede all’art. 91 d. lgs. n. 159/2011 che il rilascio di autorizzazioni, concessioni, ovvero la stipula di contratti o subcontratti da parte dei soggetti pubblici di cui all’art. 83, deve essere preceduta necessariamente dalla acquisizione della documentazione antimafia, proprio al precipuo scopo di realizzare quelle finalità di tutela dei citati valori costituzionalmente previsti.

A fronte di ciò, tuttavia, si è prevista una disciplina (che si è definita derogatoria), che consente - nel caso in cui il Prefetto non abbia provveduto a comunicare l’informazione antimafia entro i termini previsti dall’art. 92, co. 2, ovvero nei casi di urgenza (“lavori o forniture di somma urgenza”, come si esprime l’art. 94, co. 2) - ai soggetti pubblici di procedere anche in assenza della detta informazione.

Si tratta di un evidente bilanciamento della tutela degli interessi pubblici, approntata dalla disciplina relativa all’informazione interdittiva, con altri interessi, anch’essi meritevoli di tutela, quali possono essere sia i differenti interessi pubblici alla immediata acquisizione di lavori o forniture o servizi (per la soddisfazione di ulteriori interessi pubblici cui questi ultimi sono destinati), sia gli stessi interessi del privato che entra in contatto con la pubblica amministrazione, il quale non può ricevere pregiudizio dal ritardo dell’azione amministrativa.

In sostanza, ciò che viene effettuato dai soggetti di cui all’articolo 83 d. lgs. n. 159/2011 (rilascio di autorizzazioni o concessioni, erogazione di contributi e simili, stipulazione di contratti) avviene sotto la rigida condizione dell’accertamento della stessa capacità del soggetto privato ad essere parte del rapporto con la pubblica amministrazione, con la ovvia conseguenza che – laddove per il tramite dell’informazione antimafia interdittiva tale capacità venga accertata come insussistente – sia i provvedimenti amministrativi adottati, sia il contratto stipulato con soggetto incapace siano colpiti dalla sanzione della nullità ex art. 21-septies l. n. 241/1990 per difetto di un elemento essenziale.

L’Adunanza plenaria precisa, altresì, che ciò che consegue alla interdittiva antimafia non costituisce un fatto sopravvenuto che determina la revoca del provvedimento emanato ovvero la risoluzione del contratto per factum principis, bensì il (pur tardivo) accertamento della insussistenza della capacità del soggetto ad essere parte del rapporto con l’amministrazione pubblica: quella incapacità che – laddove fosse stata, come di regola, previamente accertata – avrebbe escluso in radice sia l’adozione di provvedimenti sia la stipula di contratti.

In questo senso, l’Adunanza plenaria concorda con quanto affermato dalla sentenza parziale che ha disposto il deferimento, laddove quest’ultima ritiene che “poiché i contributi risultano concessi in via provvisoria, l’atto c.d. di revoca non rappresenta affatto (come farebbe pensare il nomen) un nuovo provvedimento adottato in autotutela dall’amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale, ma un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della condizione risolutiva afferente al contributo ancora precario”.

L’accertamento dell’intervenuta condizione risolutiva altro non è che l’accertamento successivo (consentito dalla legge) dell’incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ovvero ad essere parte del contratto ad evidenza pubblica.

Infatti, l’art. 92, comma 4, d.lgs. 159/2011 prevede che “la revoca e il recesso di cui al comma 3 si applicano anche quando gli elementi relativi ai tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto, alla concessione dei lavori o all’autorizzazione del subcontratto”.

Pertanto, da un lato detta norma permette l’accertamento della capacità giuridica dell’operatore economico ex post, e dall’altro lato stabilisce la regola della revoca o del recesso nell’ipotesi dell’accertamento di tentativi di infiltrazione mafiosa.

A ciò consegue, quanto ai provvedimenti di concessione di benefici economici comunque denominati, che l’intervenuto accertamento dell’incapacità del soggetto esclude che possa esservi legittima ritenzione delle somme da parte del soggetto beneficiario (ma giuridicamente incapace) e che venga adottato il detto provvedimento di revoca delle citate concessioni.

Né è possibile ipotizzare, in presenza di un chiaro riferimento normativo alla precarietà dei provvedimenti adottati o del contratto stipulato, l’insorgere di un affidamento in capo al soggetto privato.

A tale assetto degli effetti, discendente dai principi generali e dalla specifica normativa antimafia, è la stessa disciplina antimafia a prevedere talune eccezioni previste dai detti artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, codice antimafia.

Le norme oggetto di deferimento, sono, dunque, norme di eccezione ai principi generali, rese necessarie dai postumi dell’applicazione di una disciplina essa stessa derogatoria (e dunque essa stessa eccezionale) rispetto all’ordinario modus procedendi imposto all’amministrazione (quella, cioè, che ha consentito di emanare i provvedimenti e/o di stipulare i contratti in assenza della tempestiva informativa antimafia).

Pertanto, si tratta di norme di strettissima interpretazione sia in ossequio al già citato art. 14 delle cd. preleggi, sia in considerazione del fatto che esse, in concreto, consentono l’ottenimento di attribuzioni patrimoniali da parte di un soggetto incapace, e, altresì, prive di una causa di attribuzione positivamente apprezzata dall’ordinamento (non potendo l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione essere curato e/o realizzato per il tramite di soggetti, oltre che mafiosi, anche solo esposti al rischio di infiltrazione mafiosa).

Fermo quanto innanzi esposto sui limiti afferenti all’interpretazione della normativa in esame, l’Adunanza plenaria osserva come anche il dato letterale della disposizione si opponga ad una sua estensione dai contratti di appalto ai finanziamenti.

La pronuncia dell’Alto Consesso condivide la posizione della sentenza di rimessione, secondo la quale il valore disgiuntivo da attribuire all’espressione “o recedono dai contratti”, contenuta nelle due disposizioni in esame, rende poi l’inciso finale dei due commi più verosimilmente riferibile ai soli contratti e non anche alle autorizzazioni e alle concessioni, ovvero ai contributi, ai finanziamenti ed alle agevolazioni.

In particolare, il recesso di una stazione appaltante conseguente ad informativa prefettizia antimafia non è qualificabile alla stregua di un atto iure privatorum, in quanto non trova fondamento in inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione del contratto, ma è consequenziale all’informativa del Prefetto ed è espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica diretto a soddisfare l’esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali fra la pubblica amministrazione e imprese nei cui confronti emergono sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata.

A ciò va aggiunto, sempre sul piano dell’esame letterale, che la locuzione “fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute” non può che essere riferita unicamente al caso di contratti per i quali, stante l’informazione antimafia interdittiva, si procede al recesso.

Le disposizioni oggetto di deferimento parlano, infatti, di opere già eseguite, ovvero di spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, con ciò facendo evidente riferimento, per il tramite dei lemmi “opere” ed “esecuzione” ai contratti di appalti di lavori.

L’Adunanza in commento precisa, inoltre, che, l’art. 94, comma 2, d. lgs. n. 159/2011 si applica anche ai contratti di servizi e forniture, in quanto il successivo comma 3 del medesimo art. 94, nel riferirsi, al fine di escluderli, “alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente”, accomuna gli appalti di lavori (“nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione”) ai contratti di fornitura di beni e di servizi (laddove la loro prosecuzione sia “ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico” e sempre che “il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”). La detta deroga normativa alla regola della revoca e del recesso deve essere, tuttavia, sorretta da provvedimenti amministrativi adeguatamente motivati sul punto.

Per quanto esposto, il Supremo Collegio afferma che sia le regole che disciplinano la stretta interpretazione delle norme eccezionali, sia la formulazione letterale delle norme oggetto di deferimento, sia la complessa natura delle attribuzioni patrimoniali riconducibili ai finanziamenti, escludono che le dette norme che dispongono la possibilità di pagamenti siano riferibili anche alle concessioni.

Riguardo alla locuzione “utilità conseguite”, gli artt. 92, co. 3 e 94, co. 2, codice antimafia prevedono che la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e del rimborso delle spese già sostenute per l’esecuzione del rimanente debba essere commisurata all’utilità conseguita: la citata locuzione è, dunque, un criterio per stabilire il quantum debeatur delle somme spettanti ai privati operatori economici, essenzialmente corrispondente all’arricchimento derivante al patrimonio dell’amministrazione.

Ad avviso dell’Adunanza in esame, l’espressione “utilità conseguite” non pare essere compatibile con i finanziamenti e le concessioni di denaro pubblico per due ordini di ragioni: in ordine al piano dell’interpretazione letterale, sembrando l’espressione riferirsi ad una condizione di reciprocità delle prestazioni corrispettive, scarsamente conciliabile con l’ipotesi di una erogazione o di un finanziamento destinato a beneficio riflesso non di uno specifico ente o apparato della P.A., ma della indistinta collettività pubblica; in ordine al piano logico-sistematico, poiché con l’espressione “utilità conseguita” si intende riconoscere al soggetto interdetto il diritto a vedersi corrisposto un compenso limitato all’utilità conseguita dall’amministrazione, onde evitare che quest’ultima, dall’esecuzione dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento.

Pertanto, l’“utilità conseguita” non corrisponde all’investimento realizzato in conformità al programma di finanziamento.

Essa è, più precisamente, nozione riferibile ad una parte specifica del rapporto e da questa apprezzabile attraverso il filtro selettivo di una valutazione di convenienza, tipica dell’operatore economico-giuridico individuale; pertanto, essa deve essere intesa in un senso più limitato e strettamente patrimoniale, tale da applicarsi alle sole opere, servizi o forniture che accrescono il patrimonio dell’amministrazione e che per quest’ultima rappresentano un valore economicamente valutabile.

Al contrario, nel caso del finanziamento, non può parlarsi di una utilità per l’amministrazione, soggettivamente intesa, ma più esattamente di un interesse pubblico che trascende la mera (sia pur completa e corretta) realizzazione del programma (che invece, ove non realizzato, comporta ex se conseguenze quali la revoca sanzionatoria del finanziamento, oltre alla possibile configurazione di un illecito penale).

Se è vero che ogni attività della pubblica amministrazione che importa erogazione di provvidenze economiche è (deve essere) finalizzata a scopi di interesse pubblico, che si traducono in benefici collettivi, appare evidente come non sia possibile ricondurre alla detta utilità conseguita anche più generali interessi pubblici, per i quali l’accertamento appare non rispondere (o non rispondere sempre) a parametri giuridici, bensì a parametri macroeconomici, proporzionati alla tipologia, alla estesa latitudine degli interessi programmati e alla loro distribuzione nel lungo periodo; inoltre, i detti parametri prescindono ex se da una vera e propria possibilità di misurazione in senso giuridico o economico, afferendo alla migliore esplicazione di diritti politici o economici, ovvero ad aspetti di sviluppo sociale o culturale.

D’altra parte, occorre non dimenticare che il testo normativo (del quale l’Adunanza in esame nega l’interpretazione estensiva) prevede la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e del rimborso delle spese già sostenute per l’esecuzione del rimanente; ciò rende valutabile l’utilità conseguita dall’amministrazione anche attraverso un opera incompiuta - perché all’amministrazione resta un bene che comunque ne accresce il patrimonio –, ma non rende altrettanto valutabile un interesse pubblico derivante da un programma finanziato e solo in parte realizzato.

Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, l’Adunanza Plenaria formula il seguente principio di diritto: “la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, previsti dagli articoli 92, comma 3, e 94, comma 2, del d. lgs. 6 settembre 2011 n. 159, si applicano solo con riferimento ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture”.