ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVII - n. 05 - Maggio 2025

  Studi



L’intervento nel processo amministrativo dopo il codice. Sulle forme di intervento ammesse in giudizio: mantenimento dello status quo o cambio di rotta?

A cura di Oriana Sportelli
   Consulta il PDF   PDF-1   

L’istituto dell’intervento dei terzi nel processo amministrativo non è tra quelli maggiormente approfonditi dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativista. Tuttavia, la tutela dei terzi nel processo amministrativo presenta numerosi profili problematici a causa, in particolare, dell’evidente difficoltà di vedere effettivamente rappresentati nel processo tutti i soggetti potenzialmente interessati dalla sentenza e dalla conseguente necessità di individuare adeguati strumenti di tutela dei rispettivi interessi. Frustrare gli interessi dei soggetti potenzialmente toccati dall’atto comporterebbe, infatti, la negazione del diritto di difesa di tali soggetti che, pur non essendo qualificabili come controinteressati, hanno pur tuttavia titolo a prendere parte al processo.  L’intervento nel processo amministrativo figura dunque indubbiamente tra gli strumenti di tutela che consentono ai legittimati di agire e contraddire nell’esercizio della funzione giurisdizionale al fine di giungere ad una giusta definizione del giudizio¹

Esso, infatti, rappresenta uno strumento cardine del processo mediante il quale si consente l’ingresso di terzi in un giudizio instaurato tra altri soggetti ed opera, generalmente, per iniziativa spontanea del terzo stesso, ovvero a seguito di chiamata in causa su istanza delle parti o per ordine del giudice. 

L’istituto dell’intervento, inoltre, si ricollega a molteplici ulteriori questioni centrali della giustizia amministrativa, quali ad esempio la definizione di controinteressato, l’individuazione dei limiti della legittimazione a ricorrere, la determinazione delle azioni esperibili, l’adeguatezza degli strumenti di tutela approntati dall’ordinamento a difesa dei soggetti che partecipano al giudizio.  Consentendo l’ingresso nel processo a soggetti che non ne sono parti sin dal suo avvio, l’intervento consente di allargare l’orizzonte soggettivo ed oggettivo del processo, ampliando la cognizione del giudice. 

L’intervento si pone dunque come risposta sia alla esigenza che il giudice non statuisca sopra alcuna domanda senza aver dato modo a tutte le parti che possono essere incise nelle proprie posizioni soggettive di partecipare al processo, sia alla necessità di dare alle parti stesse una posizione di uguaglianza in ordine alla possibilità di elaborazione del contenuto della sentenza². L’istituto dell’intervento viene presentato, nell’impalcatura del codice, in stretto collegamento con il principio del contraddittorio; infatti, il titolo III, dedicato ad Azioni e domande, comprende in particolare il Capo I, rubricato Contraddittorio e intervento, che consta di due articoli, il 27 e il 28³.  L’art. 28 è specificamente dedicato all’intervento e riconosce la legittimazione ad intervenire dapprima alle “parti nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata” e verso le quali non sia stato previamente promosso il giudizio; quindi a “chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma via abbia interesse”; infine, a coloro che il giudice ritenga opportuno che partecipino al processo, anche in base ad una istanza di parte. 

Le modalità di concreto esercizio del potere di intervento ed i profili più strettamente processualistici sono disciplinati agli artt. 50 e 51.

Prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la disciplina relativa all’intervento era piuttosto scarna.

Le norme di riferimento erano l’art. 37 r.d. 17 agosto 1907 n. 642 e l’art. 22 comma 2 l. 6 dicembre 1971 n. 1034

In particolare, nel r.d. n. 642/1907, recante il Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, le disposizioni sull’intervento erano contenute nel Titolo III, rubricato “delle domande incidentali e del ricorso incidentale”; in questa sede, all’art. 37, veniva dettata una sintetica ma specifica disciplina dell’intervento volontario, riconoscendo a chiunque avesse interesse nella contestazione la possibilità di intervenire, nello stato in cui si trovava la contestazione, a mezzo di domanda diretta alla sezione adita, contenente le ragioni dell’intervento, accompagnata dalla produzione dei documenti giustificativi dello stesso e sottoscritta dalle parti e dall’avvocato, o anche solo da quest’ultimo se munito di mandato speciale. 

Quanto invece all’intervento non volontario, il r.d. n. 642/1907 non prevedeva alcuna disposizione che contemplasse la chiamata del terzo per ordine del giudice o su istanza di parte.

Diversi decenni dopo l’emanazione della disciplina relativa alla procedura avanti al Consiglio di Stato, la legge 6 dicembre 1971 n. 1034, istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali, ha ripreso l’istituto dell’intervento sostanzialmente nei termini già delineati dal Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. 

L’art. 22 comma 2 della l. n. 1034/1971, infatti, consentiva l’ingresso ai terzi mediante domanda di intervento che avrebbe dovuto essere notificata alle parti nel rispettivo domicilio di elezione e all’organo da cui promanava l’atto impugnato, nonché depositata in segreteria nei successivi venti giorni. 

Quanto richiamato consente di evidenziare come la disciplina precedente il codice, benché composta di due corpi normativi emanati in periodi diversi tra loro e distanti nel tempo, abbia riprodotto, rispettivamente per la procedura esperibile avanti al Consiglio di Stato e per quella avanti al T.A.R., un’impostazione tendenzialmente omogenea. 

In entrambi i tesi normativi le parti diverse da quelle tradizionalmente definite necessarie erano prese in considerazione attraverso l’indicazione dello strumento e delle modalità per l’ingresso nel processo, ma senza una precisa individuazione delle posizioni legittimanti l’intervento

Sia l’art. 37 del r.d. n. 642/1907, sia il successivo art. 22, comma 2, della l. n. 1034/1971, avevano riguardo al solo intervento volontario, vale a dire all’ingresso di un terzo in un procedimento già pendente in ragione di una sua iniziativa, mentre ignoravano totalmente la figura dell’intervento coatto. 

Vista e considerata la genericità della formulazione normativa antecedente alla emanazione del c.p.a., è stata l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ad enunciarne le caratteristiche ed i limiti di ammissibilità.

Circa la situazione legittimante all’intervento, illuminante ed esaustiva nella sua eloquente sinteticità era l’affermazione secondo la quale chi ha titolo per ricorrere non può farsi interveniente, nel senso che doveva trattarsi della tutela di una situazione giuridica connotata da requisiti tali da non consentire al titolare di essa un’azione diretta, potendosi egli avvalere soltanto della diversa via dell’inserimento in un percorso giudiziale promosso da un altro soggetto che appaia titolare di una situazione giuridica rispetto alla quale quella dell’interveniente si presenta solo in via indiretta o riflessa.

Dottrina e giurisprudenza anteriori al codice hanno tradizionalmente descritto l’intervento come l’ingresso nel processo amministrativo di una parte considerata accessoria o eventuale: interventore veniva considerato colui che è portatore di un interesse alla conservazione o alla caducazione dell’atto impugnato, a seconda del fatto che l’accoglimento della domanda di annullamento potesse riflettersi in termini pregiudizievoli o vantaggiosi sulla sua posizione giuridica a causa di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza con l’oggetto del giudizio delineato dal ricorrente. 

Questa impostazione tradiva una considerazione limitativa dell’intervento, in quanto ne considerava solo un uso in via dipendente dal ricorso principale.

La giurisprudenza e la dottrina prevalente, infatti, erano orientate ad ammettere solo l’intervento c.d. adesivo dipendente, nel quale la domanda veniva proposta in difesa di una posizione soggettiva derivante dalla titolarità, in capo al terzo, di un rapporto giuridico connesso con quello in contestazione o da questo dipendente. Veniva esclusa, invece, l’esperibilità sia dell’intervento principale sia di quello litisconsortile o adesivo autonomo, rispettivamente finalizzati, il primo, a far valere nei confronti di tutte le parti una posizione soggettiva autonoma incompatibile con quella in contestazione tra le parti originarie, il secondo, a sostenere le ragione di una sola parte. 

Si riteneva che nel processo amministrativo di impugnazione l’atto di intervento non fosse mezzo idoneo a far valere una propria autonoma pretesa di annullamento, innanzitutto per evitare l’elusione di termini perentori, e poi perché la domanda di annullamento potrebbe essere avanzata solo nella forma del ricorso¹⁰.

Tuttavia, proprio la generica formulazione delle norme citate, avrebbe potuto consentire di ammettere il ricorso a tutti i tipi di intervento volontario, senza escluderne alcuno. 

L’emanazione del codice del processo amministrativo, poi, avrebbe potuto a maggior ragione comportare un cambio di rotta sostanziale rispetto alla interpretazione che giurisprudenza e dottrina prevalenti davano all’istituto dell’intervento nel processo amministrativo. L’art. 28 c.p.a., comma secondo, infatti, prevede come unico limite all’esperibilità dell’intervento, la circostanza che non sia maturata una decadenza a carico dell’interveniente. 

Astrattamente, quindi, secondo la lettera della norma, chiunque vi abbia interesse può spiegare intervento nel processo; quest’ultimo potrebbe dunque assumere i caratteri di intervento adesivo dipendente, o litisconsortile autonomo, o principale. Non si configura un divieto espresso di utilizzo di determinate forme dell’istituto, e non sussiste più nemmeno quella eccessiva genericità che caratterizzava la disciplina previgente. 

Questa circostanza avrebbe potuto, o forse dovuto, consentire alla giurisprudenza amministrativa di allargare le maglie delle proprie decisioni, ammettendo anche quelle forme di intervento prima categoricamente escluse, quali appunto l’intervento principale e litisconsortile autonomo.  Nonostante ciò, si può chiaramente osservare che la posizione della giurisprudenza si sia consolidata nel senso di confermare completamente, salvo qualche sporadica eccezione, i risultati cui erano giunte le sentenze pronunciate prima della emanazione del codice. 

Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale successivo al codice, infatti, il nuovo art. 28 del codice del processo amministrativo non avrebbe innovato alcunché rispetto alla disciplina previgente; secondo tale giurisprudenza è, di norma, inammissibile l’intervento da parte del soggetto legittimato alla proposizione del ricorso autonomo, altrimenti sarebbe violata la regola secondo cui l’intervento ad adiuvandum ovvero ad opponendum può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale e non anche da un soggetto che sia portatore di un interesse che lo abiliti a proporre ricorso in via principale. L’intervento nel processo amministrativo, infatti, secondo questo orientamento, sia nella previgente disciplina, sia in base all’art. 28 comma 2 c.p.a., non è litisconsorzio autonomo, bensì adesivo dipendente, e cioè proposto a sostegno delle ragioni di una o di altra parte. Inoltre è consentito a condizione che il soggetto, se legittimato, non sia decaduto dal diritto di impugnare il provvedimento amministrativo¹¹

Né il cointeressato, che potrebbe intervenire con un atto di intervento litisconsortile autonomo, né il titolare di una posizione giuridica autonoma e contrastante con quella delle altri parti, che potrebbe intervenire con atto di intervento principale, sono soggetti ritenuti legittimati da questa giurisprudenza a palesarsi nella dinamica processuale attraverso l’istituto dell’intervento. 

Secondo questa costante giurisprudenza¹², il fine che persegue colui che propone un intervento è sostenere le ragioni del ricorrente, o del resistente, in quanto titolare di un interesse di fatto dipendente da quello azionato in via principale o ad esso accessorio ovvero di quello sotteso al mantenimento dei provvedimenti impugnati, che gli consente di ritrarre un vantaggio indiretto e riflesso dall’accoglimento o dal rigetto del ricorso. 

Non sarebbe infatti ammissibile nel processo amministrativo né l’intervento principale, ad infringendum iura utriusque competitoris, con il quale l’interveniente fa valere una pretesa autonoma, incompatibile con quella delle altre parti del processo, né l’intervento adesivo autonomo o litisconsortile, con il quale l’interveniente esercita un’azione autonoma, assumendo tuttavia una posizione uguale e parallela a quella di una delle parti del processo¹³

Il carattere normalmente impugnatorio del processo amministrativo, caratterizzato dalla previsione di termini perentori di decadenza, ha indotto la giurisprudenza amministrativa a ritenere che l’istituto dell’intervento non possa essere utilizzato quale rimedio per far valere una pretesa rispetto alla quale l’interveniente avrebbe potuto proporre autonomo ricorso. 

Secondo la giurisprudenza richiamata, infatti, l’unica forma di intervento ammissibile nel processo amministrativo, anche dopo l’emanazione del d.lgs. 104/2010, è quella dell’intervento adesivo dipendente, sia nella forma dell’intervento ad adiuvandum, per il quale è legittimato il titolare di un interesse dipendente dalla posizione giuridica azionata dal ricorrente, sia nella forma dell’intervento ad opponendum, per il quale la legittimazione spetta al controinteressato pretermesso o al titolare di un interesse alla reiezione del ricorso. 

Solo un minoritario orientamento giurisprudenziale¹⁴, con orientamento meno restrittivo, ammette esplicitamente l’esperibilità nel processo amministrativo dell’intervento litisconsortile, a condizione che l’atto di intervento litisconsortile sia notificato entro i termini previsti per la notificazione del ricorso; se la regola viene rispettata, anche il cointeressato che voglia agire in giudizio inserendosi in un giudizio già pendente non violerebbe alcun principio di perentorietà del termine per ricorrere.  L’intervento litisconsortile può essere spiegato a fianco dell’amministrazione ed eventualmente dei controinteressati già presenti in giudizio in quanto direttamente contemplati dall’atto amministrativo; è consentito a quei soggetti che si trovano in una posizione analoga a quella dei contraddittori necessari ma che, pur tuttavia, non appaiono direttamente dall’atto. 

Parimenti, è possibile l’intervento litisconsortile a fianco del ricorrente, in particolare nelle ipotesi di impugnativa di atto indivisibile, che sta o cade nei confronti di tutti coloro che ne sono immediatamente toccati.

Legittimati a tale tipologia di intervento sono appunto quei soggetti, i quali avrebbero potuto agire in via principale al posto del ricorrente o insieme con esso ed ai quali spetta il nome di cointeressati.  In sostanza, attraverso tale tipologia di intervento diventa possibile tutelare anche le posizioni di quei soggetti che non sono parti necessarie del processo, ma che ciononostante sono immediatamente incisi dal giudicato, come accade appunto per i cointeressati e per quei controinteressati ai quali non deve essere notificato il ricorso in quanto l’atto impugnato non si riferisce direttamente ad essi. 

Questa apertura, tuttavia, risulta ancora isolata ed eccessivamente timida, senza considerare il fatto che l’ipotesi di esperibilità in giudizio dell’intervento principale non è ancora contemplata nemmeno dalla più recente giurisprudenza. 

L’orientamento emerso rende dunque palese la fossilizzazione della giurisprudenza su posizioni che si erano consolidate, come si è avuto modo di precisare, nel periodo antecedente alla emanazione del codice del processo amministrativo. 

L’emanazione del d.lgs. 104/2010 doveva avere da un lato, una finalità di semplificazione normativa, attraverso l’inserimento in un unico testo di disposizioni, anche risalenti, sparse in una pluralità di fonti; dall’altro una funzione di sistemazione complessiva della materia anche mediante interventi di natura innovativa. 

In particolare, l’inserimento nel codice dell’art. 28 avrebbe dovuto fungere da norma di risistemazione della figura dell’istituto dell’intervento e di risoluzione dei numerosi dubbi nati in merito alle tipologie di intervento ammesse e alla legittimazione dei soggetti intervenienti. 

La forse eccessiva genericità della previgente disciplina aveva, infatti, condotto la giurisprudenza ad assumere un atteggiamento piuttosto restrittivo nella definizione dei contorni della materia in oggetto. 

Ci si sarebbe attesi, dunque, con le aspettative che l’emanazione del codice aveva portato con sé, un cambio di rotta da parte della giurisprudenza.

Lo avrebbe consentito la stessa formulazione dell’art. 28, che assegna la possibilità di intervenire a chiunque vi abbia interesse; l’unico limite esplicito riguarda la non decadenza dall’esercizio delle relative azioni e l’obbligo di intervenire accettando lo stato ed il grado in cui il giudizio si trova. 

È ben vero che sarebbe stato utile, e forse necessario, che la disposizione precisasse la natura dell’interesse che legittima ad intervenire e i presupposti della legittimazione dei soggetti che dispiegano intervento in giudizio.

Questa circostanza, tuttavia, non può far eclissare il cambio di passo e il modello sposato dal codice: non più rigida alternativa tra legittimazione a ricorrere e legittimazione ad intervenire, ma piuttosto attenzione al rispetto del termine decadenziale. 

Tuttavia, come visto, le posizioni assunte si attestano sull’orientamento vigente antecedentemente all’entrata in vigore del codice e, se possibile, lo inaspriscono. La quasi totalità delle sentenze che affrontano il tema della ammissibilità dell’intervento in giudizio negano categoricamente, senza che si prospetti alcuno spiraglio di cambiamento, l’esperibilità in giudizio dell’intervento volontario declinato nelle forma di intervento principale e faticano a riconoscere l’ammissibilità di quello litisconsortile¹⁵

L’unica forma pacificamente ammessa anche dalla giurisprudenza successiva alla emanazione del codice è, dunque, quella dell’intervento adesivo dipendente, proposto dal soggetto nei cui confronti il provvedimento impugnato ha una incidenza solo riflessa¹⁶.

Le motivazioni alla base di tale diniego di esperibilità si fondano sull’assunto secondo il quale, in relazione all’intervento principale, non sarebbe possibile configurare giuridicamente un interesse di un privato che sia al tempo stesso incompatibile sia con l’amministrazione sia con gli altri privati coinvolti dall’esercizio del potere amministrativo e si eluderebbe, con l’atto di intervento, il rispetto del termine di decadenza previsto per impugnare l’atto¹⁷; in relazione all’intervento litisconsortile autonomo, si offrirebbe l’occasione per eludere il principio di perentorietà del termine per ricorrere¹⁸

Solo la minoritaria giurisprudenza sopra richiamata ammette l’esperibilità in giudizio dell’intervento litisconsortile, sposando un orientamento meno restrittivo. 

Per superare il timore che l’intervento in giudizio possa comportare l’elusione del termine di decadenza previsto per la proposizione del ricorso, queste decisioni ritengono sufficiente pretendere che l’atto di intervento litisconsortile sia notificato entro i termini previsti per la notificazione del ricorso; se la regola viene rispettata, anche il cointeressato che voglia agire in giudizio, inserendosi in un giudizio già pendente, non violerebbe alcun principio di perentorietà del termine per ricorrere.  Anche la dottrina più risalente aveva compiuto un notevole sforzo nel tentativo di superare la difficoltà di tracciare una netta linea di demarcazione tra l’interesse che legittima il ricorso e l’interesse che legittima l’intervento, e tra quest’ultimo e le situazioni prive di rilevanza. 

Due notissimi studiosi del processo amministrativo, Piras e Nigro¹⁹, ad esempio pur muovendo da concezioni diverse del giudizio, specie per quel che riguarda il suo oggetto, convergono, nella ricostruzione dell’istituto, su alcuni punti fondamentali e qualificanti, come quello relativo alla estensione delle forme di intervento ammesse nel processo amministrativo di impugnazione. 

In particolare, il primo autore, sulla base di una originale ricostruzione delle situazioni legittimanti, imperniata sulla posizione dell’interesse del terzo, considera esperibile il potere di intervento anche quando quest’ultimo non dà luogo ad una novità solo soggettiva. 

In definitiva, la dottrina in esame considera priva di significato la esclusione di un intervento litisconsortile da parte di coloro che condividono la medesima situazione giuridica del ricorrente di fronte all’atto impugnato.

L’intervento litisconsortile deve in questi casi essere riconosciuto ammissibile, non solo in quanto il giudicato è destinato ad influire su tutte le posizioni dei soggetti direttamente ed inscindibilmente coinvolte dall’atto, ma anche per compensare l’ingiustificata esclusione dei cointeressati dall’ambito dei necessari contraddittori. Quanto invece all’intervento principale, non si riscontra neppure una minima apertura da parte della giurisprudenza. 

I titolari di una situazione giuridica autonoma e incompatibile non possono essere agevolmente astretti in alcuna delle categorie tradizionali delle parti del processo amministrativo, ma al tempo stesso devono poter ricevere una tutela piena ed effettiva della propria sfera giuridica. 

L’apertura dimostrata dall’art. 28 del codice, rispondeva, infatti, a quella necessità di adeguare il processo amministrativo al modello del processo di parti²⁰ e andava dunque salutata con favore. L’intervento, in queste ipotesi, infatti, rappresenta il momento in cui i soggetti titolari della situazione autonoma fissano la propria posizione di interesse nei confronti dell’oggetto del giudizio.  In questa prospettiva l’intervento in giudizio diventa un validissimo strumento per la corretta instaurazione del contraddittorio nei confronti di tutti i soggetti che sono coinvolti dall’esercizio della medesima attività amministrativa²¹.

Il terzo interventore non può essere limitato nella sua difesa dalla pendenza di altra controversia, tra diversi soggetti, sul bene della vita che lo interessa, ma al contrario deve essere pienamente libero di scegliere il modo ed i mezzi che ritiene più opportuni ed adeguati per la propria tutela. 

La chiusura della giurisprudenza sotto tale profilo risulta quindi del tutto contrastante con l’evoluzione della concezione del processo e, persino, con il dato normativo attualmente vigente. Seppure non avesse voluto consentire il pieno accesso allo strumento dell’intervento, la giurisprudenza avrebbe quantomeno potuto avallare l’opinione di quella dottrina che, dimostrando una cauta apertura, aveva ritenuto inammissibile l’intervento principale nel quale vi fosse un’incompatibilità di posizioni fra i tre soggetti, ricorrente, resistete ed interventore, ma non quello in cui vi fosse un’incompatibilità fra la posizione dell’interventore e quella del ricorrente, e contemporaneamente la posizione dell’interventore fosse fatta valere contro il resistente²².  

Il codice del processo amministrativo, non configurando un divieto espresso di utilizzo di determinate forme di intervento, avrebbe, dunque, dovuto certamente condurre ad un cambio di rotta sostanziale rispetto alla interpretazione che giurisprudenza e dottrina prevalenti davano all’istituto dell’intervento nel processo amministrativo.

Ci si sarebbe attesi, infatti, che la giurisprudenza amministrativa allargasse le maglie delle proprie decisioni sposando un orientamento meno restrittivo rispetto al passato. Così, invece, non è stato.

______________________________

¹ Già COSSU, Litisconsorzio (dir. proc. amm.), in Enc. Giur. Treccani, Vol. XIX, Milano, 1988, pp. 1-5, auspicava, in momenti in cui l’idea del codice del processo amministrativo era del tutto peregrina, l’emanazione di una disciplina organica destinata a regolare il fenomeno litisconsortile; affermava infatti che “il fenomeno della pluralità di parti è presente nell’esperienza del processo amministrativo nel quale, anzi, si pongono problemi del tutto particolari dovuti al potere di annullamento accordato al giudice ed alla natura dell’atto impugnato, potendone derivare un giudicato munito di una sfera di incidenza ben più ampia rispetto alle parti del processo”. Concludeva infatti affermando che le ipotesi di giudicato efficace ultra partes possono essere limitate solo assicurando la potenziale partecipazione al processo del maggior numero di soggetti sui quali la decisione andrà ad incidere. 

² cfr. SESSA, Intervento in causa e trasformazioni del processo amministrativo, Napoli, 2012

³ Art. 27 d.lgs. 104/2010: “Il contraddittorio è integralmente costituito quando l’atto introduttivo è notificato all’amministrazione resistente e, ove esistenti, ai controinteressati.
Se il giudizio è promosso solo contro alcune delle parti e non si è verificata alcuna decadenza, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre entro un termine perentorio. Nelle more dell’integrazione del contraddittorio il giudice può pronunciare provvedimenti cautelari interinali.”
Art. 28. d.lgs. 104/2010: “Se il giudizio non è stato promosso contro alcuna delle parti nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata, queste possono intervenirvi, senza pregiudizio del diritto di difesa.  
Chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova.
Il giudice, anche su istanza di parte, quando ritiene opportuno che il processo si svolga nei confronti di un terzo, ne ordina l’intervento.”

Art. 50 d.lgs. 104/2010: “L’intervento è proposto con atto diretto al giudice adito, recante l’indicazione delle generalità dell’interveniente. L’atto deve contenere le ragioni su cui si fonda, con la produzione dei documenti giustificativi, e deve essere sottoscritto ai sensi dell'articolo 40, comma 1, lettera d).  
L’atto di intervento è notificato alle altre parti ed è depositato nei termini di cui all’articolo 45; nei confronti di quelle costituite è notificato ai sensi dell'articolo 170 del codice di procedura civile.
Il deposito dell’atto di intervento di cui all’articolo 28, comma 2, è ammesso fino a trenta giorni prima dell’udienza.”  Art. 51 d.lgs. 104/2010: “Il giudice, ove disponga l’intervento di cui all’articolo 28, comma 3, ordina alla parte di chiamare il terzo in giudizio, indicando gli atti da notificare e il termine della notificazione.
La costituzione dell’interventore avviene secondo le modalità di cui all’articolo 46. Si applica l’articolo 49, comma 3, terzo periodo.”

Art. 37 r.d. 17 agosto 1907, n. 642: “Chi ha un interesse nella contestazione può intervenirvi. L’intervento è proposto con domanda diretta alla sezione adita. La domanda deve contenere le ragioni, con la produzione dei documenti giustificativi, e dev’essere sottoscritta dalle parti e dall’avvocato, o dal solo avvocato munito di mandato speciale.”

 Art. 22, comma 2, Legge 6 dicembre 1971, n. 1034: “Chi ha interesse nella contestazione può intervenire con l’osservanza delle norme di cui agli articoli 37 e seguenti del regolamento di procedura avanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in quanto non contrastanti con la presente legge. La domanda di intervento è notificata alle parti nel rispettivo domicilio di elezione ed all’organo che ha emanato l’atto impugnato e deve essere depositata in segreteria entro venti giorni dalla data della notificazione.”

 cfr. SESSA, Intervento in causa e trasformazioni del processo amministrativo, Napoli, 2012

 Per avere un quadro delle posizioni della giurisprudenza anteriore al codice cfr. ex multiis Cons. Stato, sez. IV, 14 luglio 1978, n. 970, in Cons. St., 1978, I, 1230; Cons. Stato sez. V, 18 gennaio 1980, n. 38, in Cons. St., 1980, I, 54; Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 1984, n. 534, in Cons. St., 1984, I, 834, secondo cui è consentito l’intervento ad adiuvandum del titolare di un interesse dipendente, accessorio o indirettamente leso, ma non ipotetico, destinato a risentire un concreto vantaggio dalla decisione favorevole al ricorrente.

Cons. Stato, sez. V, 13 gennaio 1978, n. 60, in Cons. St., 1978, I, 47. 

¹⁰ cfr. SESSA, Intervento in causa e trasformazioni del processo amministrativo, Napoli, 2012

¹¹ Sul punto cfr. ex aliis Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 853 in Foro Amm., 2016, 2, 302; T.A.R Puglia, Lecce, sez. II, 6 settembre 2012, n. 1471, in Foro amm. T.A.R., 2012, 9, 2890; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, 1 agosto 2013, n. 414, in www.giustizia-amministativa.it; Cons. Stato, sez., V, 22 marzo 2012, n. 1640, in Foro amm.
C.d.S., 2012, 3, 639; Cons. Stato, sez. IV, 16 dicembre 2016, n. 5340, in www.giustizia-amministativa.it; Cons. Stato, sez. VI, 1 febbraio 2013, n. 639, in Foro Amm. C.d.S., 2013, 2, 507; Cons. Stato, sez. V, 8 luglio 2013, n. 3597, in Foro Amm. C.d.S., 2013, 7-8, 1949; Cons. Stato, sez. V, 5 novembre 2012, n. 5591, in www.giustizia-amministativa.it;
T.A.R. Puglia, Bari sez. III, 4 agosto 2016, n. 1041, in www.giustizia-amministativa.it; CGARS, 6 maggio 2016, n. 133, in Foro Amm., 2016, 5, 1343; T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, n. 3583/2014, in www.giustizia-amministativa.it; T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, n. 3359/2014, in www.giustizia-amministativa.it; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, n.  3121/2014, in www.giustizia-amministativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, n. 1121/2014, in www.giustizia-amministativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, n. 10329/2013, in www.giustizia-amministativa.it.

¹² ex multiis, Cons. Stato, sez. V, 08 marzo 2011, n. 1445, in Foro amm. C.d.S., 2011, 3, 902; Cons. Stato, sez. IV, 19 gennaio 2011, n. 385, in Foro amm. C.d.S., 2011, 1, 72; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 04 febbraio 2011, n. 354, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Liguria, Genova, sez. II, 13 ottobre 2010, n. 9201, in Foro amm. T.A.R., 2010, 10, 3142.  

¹³ a sostegno di questa tesi cfr. T.A.R Puglia, Lecce, sez. I, 5 giugno 2013, n. 1316, in Foro Amm. T.A.R., 2013, 6, 2097 secondo cui “è infatti pacifico che l’intervento nel processo amministrativo, a differenza di quello regolato dalla disciplina processualcivilistica, può essere spiegato unicamente a sostegno delle ragioni di una o di altra parte
(adesivo dipendente), e non per far valere un interesse proprio nei confronti di tutte le parti (intervento principale) o di una di esse (intervento litisconsortile autonomo)”.

¹⁴ cfr. T.A.R. Molise, Sez. I, 23 gennaio 2014, n. 49, in www.giustizia-amministrativa.it.; Cons. di Stato, sez. VI, 25 marzo 2011, n. 1843, in Foro amm. C.d.S., 2011, 3, 991;  T.A.R. Abruzzo, sez. I, 2016, n. 462, in www.giustizia-amministrativa.it. Sul punto anche Cons. di Stato, sez. VI, n. 961/2014 che ammette l’esperibilità dell’intervento litisconsortile in giudizio da parte del cointeressato solamente a condizione che non siano decorsi i termini per l’impugnativa in via principale e che sia possibile la conversione dell’atto di intervento in ricorso proposto in via autonoma.  

¹⁵ Tale posizione è vivacemente contestata da NIGRO, In tema di intervento volontario nel processo amministrativo, in Foro Amm., 1951, I, 1, pp. 283 ss., che, muovendo dalla considerazione che con l’intervento adesivo il privato non propone una propria domanda ma appoggia una domanda altrui, ritiene esperibile questa forma di intervento anche da parte del cointeressato, il quale si accontenterebbe di una posizione secondaria, agganciata ad un interesse originariamente protetto in via diretta, immediata ed autonoma che, con la scadenza del termine, si sarebbe consumato, o meglio, degradato, in uno più fievole, necessario e sufficiente a sostenere un intervento adesivo.

¹⁶ Si veda in proposito D’ORSOGNA-FIGORILLI, La fase introduttiva, in SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2014, pp. 319-325

¹⁷ In senso contrario si veda NIGRO, Prospettive sul processo amministrativo. L’intervento volontario nel processo amministrativo, in Jus, 1963, p. 372, che, con particolare riferimento all’intervento principale, afferma: “non si può trovare una ragione di esclusione dell’ammissibilità delle figure di intervento in una particolarità del processo (o della situazione che si fa valere), la quale costituisce soltanto un limite del loro ambito di applicazione; che l’intervento di tipo principale non possa servire ad eludere il termine di decadenza, significa che esso è inammissibile quando tale termine è scaduto, ma non può significare che è inammissibile anche quando il termine non è scaduto”. 

¹⁸ Così CANGELLI, Le Parti, in SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2014, pp. 252-253. 

¹⁹ Si vedano per tutti PIRAS, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, I, Milano, 1962 e NIGRO, L’intervento volontario nel processo amministrativo, in Problemi del processo amministrativo (Atti del IX Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione), I, Milano, 1964. 

²⁰ cfr. SESSA, Intervento in causa e trasformazioni del processo amministrativo, Napoli, 2012

²¹ cfr. D’ORSOGNA, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Dir. proc. amm., 1999, 381. 

²² Si veda NIGRO, L’intervento volontario nel processo amministrativo, in Problemi del processo amministrativo (Atti del IX Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione), I, Milano, 1964, p. 375, secondo cui tale incompatibilità può ravvisarsi in almeno due casi: in primo luogo allorché più aspiranti in concorrenza ad una stessa situazione di vantaggio insorgano per motivi uguali e contrari contro l’atto amministrativo che, disponendo a favore di un terzo, li ha scontentati tutti; in secondo luogo, nel caso di due atti connessi per dipendenza, dei quali l’atto dipendente sia impugnato in via principale e l’atto presupposto sia impugnato dall’interventore.