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Anno XVI - n. 03 - Marzo 2024

  Studi



Il volto sociale dell'Europa, la compenetrazione tra le carte dei diritti e il ruolo delle corti e dei giudici nazionali.

Di Stefania Cantisani.
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IL VOLTO SOCIALE DELL’EUROPA, LA COMPENETRAZIONE TRA LE CARTE DEI DIRITTI E IL RUOLO DELLE CORTI E DEI GIUDICI NAZIONALI.

 

Di Stefania Cantisani*

 

Sommario: 1.I primi passi nella costruzione del modello sociale europeo. - 2. Le novità del Trattato di Lisbona. - 3. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e il costituzionalismo multilivello. - 4. La questione del rispetto dello Stato di diritto e la procedura prevista dall’art.7 TUE. -5. Il ruolo della Commissione europea nell’attuazione della Carta dei diritti UE e il processo (interrotto) di adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo(CEDU). - 6. Il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti nazionali: il punto di vista della Corte di giustizia UE. - 7. La posizione della CEDU nell’ordinamento costituzionale italiano. - 8. Gli orientamenti della Corte Costituzionale dopo le sentenze “gemelle” e il ruolo dei giudici ordinari nell’applicazione della CEDU. - 9. Conclusioni: gli strumenti di politica sociale dell’Unione e le nuove sfide da affrontare.

 

Il dibattito che si è acceso all’indomani del Trattato di Lisbona, sul tema della costruzione del “modello sociale europeo” alla luce della lenta e difficoltosa affermazione dei diritti sociali nello spazio comunitario ruota intorno alla questione dell’impatto tra ordinamenti diversi, quello comunitario e quello nazionale, e sulle modalità con le quali il processo di integrazione europea ha influenzato il contenuto e la tutela dei diritti sociali dei singoli Stati membri.

Come è stato giustamente osservato, [1]non appare corretto identificare il modello sociale europeo con la nozione di Welfare State e, più precisamente, di Stato sociale in quanto tale caratterizzato da un insieme di valori e di regole fondato su alcuni  essenziali presupposti quali: “l’espansione del diritto (e dei diritti) del lavoro, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali sia come parte sociale sia come interlocutore politico, la diffusione capillare di forme di assistenza sociale e previdenziale, la garanzia di politiche e misure limitative del mercato e redistributive di tutele e garanzie sociali, a cominciare dall’obbligo statale di erogare assistenza sanitaria gratuita”. [2]E ciò, in tanto perché non di un solo modello si tratta ma di più modelli in corrispondenza del numero di Stati nazionali che concorrono ad implementarlo e, in secondo luogo, perché, superando la mera logica descrittiva indotta dall’approccio “welfaristico”, questo modello appare la risultante del processo di integrazione europea, che, iniziato con la fondazione della Comunità Economica Europea, è approdato all’Unione Europea passando attraverso la Comunità Europea.

Si tratta di un processo di integrazione/costituzionalizzazione che ha visto la graduale emersione, sotto l‘ombrello della c.d. tutela mutilivello, dei diritti sociali a livello sovranazionale e che ha condotto alla elaborazione del testo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata solennemente a Nizza il 7 dicembre 2000 e successivamente riproclamata a Strasburgo  il 12 dicembre 2007 dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione in vista della firma del Trattato di Lisbona.

La Carta doveva rappresentare, nell’intenzione dei suoi promotori,[3] un primo passo per dotare l’Unione europea di una vera e propria Costituzione, imperniata su un nucleo di valori attorno al quale si sarebbero creati i fondamenti di una comune identità civica e politica[4] ma, com’è noto, il tentativo di realizzare un’Europa costituzionale è poi fallito[5] .

Nonostante la battuta di arresto del processo di costituzionalizzazione europea la Carta, sebbene derubricata da Carta costituzionale europea al rango minore di Bill of rights, è “non solo la prima dichiarazione dei diritti a livello comunitario, ma anche il primo documento nel diritto sovranazionale, ad affermare - non senza diversi tentativi in direzione contraria - i diritti sociali e societali (come sono definiti dalle Conclusioni del Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000) insieme a quelli civili e politici, precedentemente sempre proclamati in fonti diverse”.[6] L’ispirazione sociale su cui si fonda la Carta è chiaramente espressa nel Preambolo del documento laddove si dichiara solennemente che “l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà”: la persona è al centro dell’azione dell’Unione e i valori così enunciati sono anteposti alle quattro libertà fondamentali (libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali, nonché libertà di stabilimento) funzionali all’instaurazione di un mercato interno che costituisce uno dei principali obiettivi dei Trattati e che la Carta dichiara comunque di voler assicurare nell’ambito della promozione di uno “sviluppo equilibrato e sostenibile”.

Si tratta, cioè, di una vera e propria inversione di tendenza rispetto all’impostazione originaria dei Trattati di Roma che miravano all’integrazione economica lasciando ad appannaggio dei singoli Stati membri il perseguimento e l’attuazione di politiche sociali nella convinzione che l’autonomia di tali politiche rappresentasse una “precondizione all’instaurazione del mercato comune, in quanto (…) capace di assicurare, a livello nazionale, il necessario contrappeso sociale ai possibili effetti dislocativi indotti dall'integrazione economica europea”.[7]

Ma le crisi in cui periodicamente sono incorsi i paesi membri del continente europeo e il progressivo allargamento dell’Unione a paesi che nel campo del diritto del lavoro presentano standard piuttosto risibili di protezione in favore dei lavoratori con il conseguente pericolo di dumping sociale, ha fatto emergere la necessità di riempire il deficit sociale che aveva caratterizzato la nascita della Comunità economica europea.

Un primo passo in questo senso è rappresentato dall’Atto unico europeo (1986) che innesca un processo di modifica dei Trattati finalizzato all’ampliamento delle politiche sociali della Comunità ponendo le basi giuridiche per l’adozione  di direttive idonee a creare un’armonizzazione minima in campo sociale (ambiente di lavoro, salute dei lavoratori, sicurezza e protezione sociale dei lavoratori, parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità nel mercato del lavoro e il trattamento sul lavoro) e che introduce il nucleo fondamentale di quello che con il Trattato di Lisbona diventerà l’art.153 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (d’ora in poi TFUE).[8]  

Ma è con il Trattato di Amsterdam del 1997, preceduto dalla tappa intermedia dell’approvazione del Protocollo sulla politica sociale “allegato” al Trattato di Maastricht (1992),[9] che l’Unione, costituitasi con il

Trattato di Maastricht,[10] mette in atto strategie mirate a colmare il deficit in materia sociale ampliando il campo di materie nelle quali è possibile l’adozione di direttive non più all’unanimità ma a maggioranza qualificata e inserendo nel corpo del Trattato il titolo VIII sull’occupazione (ora titolo IX TFUE):in questa fase il dialogo sociale europeo e il conseguente processo di convergenza tra le politiche sociali degli Stati membri è implementato mediante metodi e strumenti di soft law, come il cd. metodo aperto di coordinamento.[11]

 

  1. Le novità del Trattato di Lisbona.

 

Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009 dopo la ratifica dei 27 Stati contraenti,[12] porta a compimento il percorso di affermazione dei diritti sociali di cui si è dato cenno, accentuando il ruolo delle parti sociali europee, che l’Unione si impegna a riconoscere e promuovere, tenendo conto anche della diversità dei modelli nazionali, facilitandone il dialogo “nel rispetto della loro autonomia” (art.152, co. 1 TFUE). In realtà, come  è stato evidenziato in dottrina,[13] il Titolo X “Politica sociale” del TFUE non apporta alcun ampliamento né rafforzamento delle competenze normative dell’Unione nell’ambito del lavoro e della sicurezza sociale considerato che esso riprende, con poche modificazioni, quanto era già presente nel corrispondente titolo del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE). Occorre sottolineare, comunque,  come sia significativo che l’incipit di tale nuovo titolo si ispiri a documenti esterni ai Trattati, nello specifico la Carta sociale europea e la Carta comunitaria  dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori,[14]documenti che, seppure non assumono valore cogente bensì meramente programmatico, contengono un’elencazione di “diritti sociali fondamentali” meritevoli di tutela in ambito europeo.

Il TFUE all’art.151 enuncia dunque gli obiettivi che l’Unione, tenendo presenti i diritti sociali fondamentali definiti nei citati documenti, [15]si prefigge di raggiungere: la promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione.[16]  

Per conseguire gli obiettivi così enunciati, il TFUE all’art.153 introduce un sistema procedurale che consente al Consiglio, di adottare, in alcuni degli importanti settori sociali previsti nello stesso art.153, la maggioranza qualificata e la procedura legislativa ordinaria “in deroga” alla regola dell’unanimità che condiziona l’azione dell’Unione e che rimane inalterata per il settore della sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori.[17]

La costruzione del modello sociale europeo, caratterizzata, come si è acutamente osservato, da una sfasatura temporale[18]rispetto all’affermarsi dei sistemi sociali di welfare negli Stati membri nel secondo dopoguerra, avviene secondo una tecnica di “armonizzazione minima”, già prevista nell’Atto unico europeo, mediante l’adozione da parte dell’Unione, cui spetta il compito di sostenere e completare l’azione degli Stati membri, di direttive che, nei settori indicati nel citato articolo 153, contengono prescrizioni minime applicabili progressivamente tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro. Le disposizioni sociali così adottate non compromettono la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale e «non ostano a che uno Stato membro mantenga o stabilisca misure compatibili con i trattati, che prevedano una maggiore protezione». La previsione di prescrizioni minime in queste materie si spiega con la notevole differenziazione dei modelli economici e sociali nazionali, che devono essere rispettati e tutelati, e con la volontà politica dell’Unione di non creare un sistema sociale europeo omogeneo: l’intento era, infatti, quello di predisporre condizioni di base volte a favorire la realizzazione di un mercato unico concorrenziale e la prevenzione del dumping sociale, un risultato che non si sarebbe potuto conseguire se non adottando una soluzione di compromesso.

Una armonizzazione dei sistemi sociali al livello degli standards di tutela dei paesi più sviluppati avrebbe determinato l’inevitabile collasso dei paesi economicamente più deboli e con garanzie di protezione sociale inferiore, mentre una armonizzazione “verso il basso” avrebbe pregiudicato le conquiste sociali dei paesi più avanzati e ciò non poteva essere politicamente accettabile.

Il meccanismo di armonizzazione minima consente, quindi, di determinare le condizioni sociali “di base” salvaguardando le misure dei singoli Stati membri che intendano incrementare il livello di tutela.  

La Corte di giustizia europea nell’interpretare l’espressione “prescrizioni minime” ha disatteso l’indirizzo secondo cui il carattere minimo della disciplina contenuta nelle direttive implicherebbe una maggiore discrezionalità degli Stati membri, ai quali sarebbe consentito, in sede di attuazione della direttiva, di mantenere in vigore o di introdurre una disciplina più rigida di quella stabilita dalla direttiva al fine di preservare i modelli sociali nazionali. In sostanza, secondo questa visione, l’armonizzazione minima, comporterebbe “una minore incidenza della normativa dell’Unione negli ordinamenti degli Stati membri in favore della tutela di interessi sensibili e connessi a valori costituzionali essenziali”. [19]

La Corte ha viceversa valorizzato nei suoi orientamenti il profilo dell’armonizzazione progressiva delle politiche sociali nazionali in vista della loro “parificazione nel progresso” come previsto dall’art.151 TFUE.

In conclusione, “l’espressione « prescrizioni minime » nel settore della politica sociale non implicherebbe nulla di più della facoltà riconosciuta agli Stati membri « di adottare norme più rigorose di quelle che sono oggetto dell’intervento comunitario » per la piena realizzazione delle finalità dell’Unione e non implicherebbe una limitazione delle competenze attribuite alle istituzioni europee o del campo di applicazione della direttiva”.[20]

Ma la nuova dimensione sociale europea assume un significato ancora più pregnante se si leggono le disposizioni di apertura del TUE e più in particolare, gli artt. 2 e 3 del Trattato.

L’art.2 proclama a fondamento dell’Unione i valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza e della tutela dei diritti umani, riconoscendoli valori comuni agli Stati membri “in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. L’art.3, comma 3, d’altro canto, prevede che l’Unione, nell’instaurare un mercato interno, persegua l’obiettivo di uno “sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”.

La formula “economia sociale di mercato”, anche se ambigua, prestandosi ad interpretazioni che privilegiano     

l’aspetto più strettamente volto alla competitività del mercato (“fortemente competitiva”) rispetto al carattere “sociale”, deve essere letta alla luce di quanto previsto dalla nuova clausola sociale “orizzontale” di cui all’art.9 TFUE a mente del quale “Nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana”.[21]

Si tratta di una clausola che consente “di valutare la pertinenza di tutte le misure politiche in funzione delle loro conseguenze sociali”[22] e si pone in linea con l’obiettivo di coesione economica, sociale e territoriale dell'UE in vista del superamento dello squilibrio esistente tra lo sviluppo dell'integrazione economica nel mercato unico e il potenziamento della dimensione sociale dell'UE: attuare questo nuovo strumento potrebbe pertanto “contribuire a ridurre il senso di insoddisfazione che perdura da tempo e a superare lo scetticismo sempre più profondo esistente in alcuni Stati membri per quanto concerne il valore aggiunto offerto dall'Unione europea, in particolare in termini di progresso economico, occupazionale e sociale, in un quadro in cui gli Stati membri devono assumersi maggiori responsabilità proprie”.[23]

Nelle nuove disposizioni del Trattato il riferimento al principio dell’economia di mercato “aperta e in libera concorrenza” non si colloca più tra le norme di apertura e viene “trasferito” nell’art.119 TFUE che introduce il Titolo VIII dedicato alla politica economica e monetaria e ciò a dimostrazione della chiara inversione di tendenza rinvenibile dopo Lisbona che traccia un quadro nel quale “il mercato cessa di porsi come luogo sovrano dell’Unione e la concorrenza retrocede da valore protetto finalisticamente in quanto tale a strumento della “economia sociale di mercato”. [24]

 

  1. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e il costituzionalismo multilivello.

 

Il definitivo riconoscimento dei diritti sociali è, infine, rappresentato dall’attribuzione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE)[25] dello “stesso valore giuridico dei trattati” ex art. 6 TUE che peraltro precisa che “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze definite nei trattati” e rinvia alle disposizioni del Titolo VIII della Carta per quanto attiene l’interpretazione dei diritti, delle libertà e dei principi contenuti in detto documento, “tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni”.

Nell’esaminare in rapida successione la normativa del citato Titolo VIII, viene in considerazione in primo luogo l’art.51, comma 2 che ribadisce che la Carta “non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati”; l’art.52 a sua volta precisa che “I diritti riconosciuti dalla presente Carta per i quali i trattati prevedono disposizioni si esercitano alle condizioni e nei limiti dagli stessi definiti” e che laddove la Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla Convenzione, fatto salvo il diritto dell’Unione di concedere una protezione più estesa. Allorquando poi la Carta riconosca i diritti fondamentali “quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, questi diritti devono essere interpretati in armonia con dette tradizioni. L’esercizio dei diritti e delle libertà stabilite nella Carta può essere oggetto di limitazioni unicamente ad opera della legge che rispetti comunque “il contenuto essenziale di detti diritti e libertà”. Diversamente, le disposizioni della Carta che contengono “principi” non obbligano alla loro attuazione e possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo della legalità degli atti legislativi o esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell'Unione e da atti degli Stati membri che le applicano nel dare attuazione al diritto dell'Unione.

L’art.53, infine, introduce una sorta di “clausola di salvaguardia” del livello di protezione superiore eventualmente riconosciuto dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri.

Ne scaturisce un “costituzionalismo multilivello[26] al quale concorrono un insieme di fonti (nazionali, sovranazionali, internazionali) che mirano non all’omologazione verso il basso delle tutele bensì ad alzare l’asticella di protezione dei diritti fondamentali, come emerge anche dalla giurisprudenza costituzionale che ha avuto modo di misurarsi con le disposizioni della Carta.[27]

Nonostante il corposo elenco di diritti e principi sociali ivi contenuto sia ormai acquisito al diritto primario dell’Unione, la Carta, che sconta alcune non trascurabili omissioni (ad esempio il diritto all’equa retribuzione sancito dalla Carta dei diritti sociali fondamentali del 1989 o il diritto all’abitazione riconosciuto dalla Carta sociale europea), è stata oggetto di non poche critiche: accanto agli “entusiasti” che hanno visto in essa il punto più alto del processo di costituzionalizzazione europea, vi è, infatti, chi viceversa ha fornito del documento una lettura critica secondo la quale la Carta sarebbe espressione di una profonda crisi del costituzionalismo europeo. Secondo tale indirizzo, dunque, la Carta, anche dopo l’equiparazione al diritto primario della UE , “non salverebbe la Costituzione europea dal suo vizio o peccato originale: cioè la mancanza di una gerarchia di principi e valori, in particolare tra diritti sociali e libertà economiche, con il risultato che verrebbero legittimate quelle interpretazioni della Corte di giustizia (Laval, Viking, Ruffert, Commissione contro Lussemburgo) [28]in cui sono i diritti sociali (di sciopero e contrattazione collettiva) ad essere interpretati a partire dalle libertà economiche, e non viceversa”. [29]

La mancanza di una gerarchia rigida e precostituita tra diritti tutti di rango costituzionale [30]che caratterizza la costituzione materiale dell’Unione, diversamente da quanto avviene nel sistema costituzionale italiano, nel quale in situazioni di conflitto il diritto di valore “inferiore” recede rispetto ad un altro di grado “superiore”, determinerebbe, cioè, una “asimmetria di fatto” tra i  diversi diritti (civili, politici, sociali ed economici) “con conseguente prevalenza non tanto dei diritti fondamentali di libertà (di riunione, di manifestazione del pensiero) di matrice liberale, quanto dei diritti fondamentali di autonomia (di natura economica) di matrice liberista”.[31]

La critica coinvolge la stessa tecnica del bilanciamento tra diritti sociali collettivi (in particolare, il diritto di sciopero e di azione collettiva) e libertà economiche divenendo, così, il grimaldello per contestare la stessa idea di  integrazione europea con conseguente revirement della teoria dei controlimiti, intesa nel suo senso più assoluto.[32]

Senza alcuna pretesa di approfondimento critico, impossibile in questa sede, occorre evidenziare che l’impostazione cui si è fatto cenno soffre di valutazione concettuale modellata sulle orme del costituzionalismo classico nazionale, dimenticando che la logica nella quale ci si muove è quella di un ordinamento “diverso, coesistente e integrato, ma non in conflitto, con quello statuale e con i suoi principi”.[33]

In questo senso, il valore della Carta non è “additivo” come alcuni hanno ritenuto, bensì “ricognitivo” di una serie di diritti che si proiettano a livello sovranazionale e la cui tutela deriva dall’interconnessione positiva tra i diversi sistemi, quello della CEDU, quello dei diritti e dei principi fondamentali garantiti dalla CDFUE e quello delle tradizioni costituzionali comuni, sistemi presidiati ciascuno dalle rispettive Corti (Corte europea dei diritti dell’uomo, Corte di giustizia dell’Unione europea e Corte Costituzionale di ogni paese membro dell’UE). Anche sotto questo profilo, l’integrazione tra i sistemi al fine di dar luogo alla creazione di una piattaforma comune di diritti sociali fondamentali costituisce una delle migliori garanzie in termini di effettività per l’esercizio del complesso dei diritti riconosciuto ai cittadini europei.

Di ciò appariva consapevole la stessa Commissione europea quando nel 2010 con la Comunicazione COM(2010) 573, nel presentare la sua strategia per l’attuazione della Carta dopo le innovazioni apportate dal Trattato di Lisbona, precisava che “la Carta non è un testo di valori astratti bensì uno strumento che consente a ciascuno di godere dei diritti ivi codificati nelle situazioni che rientrano nella sfera del diritto dell'Unione” e conseguentemente definiva le misure da approntare per controllare sistematicamente, in ogni fase del processo legislativo comunitario, la compatibilità  con la Carta delle proposte legislative e degli atti da adottare.[34]

Ma vi è di più: nella Comunicazione si dichiarava l’intenzione di mettere in atto una metodica volta ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali sanciti nella Carta sia mediante un’opera di sensibilizzazione delle autorità preposte all’attuazione del diritto dell’Unione nei singoli Stati membri, sia attraverso l’attivazione di apposite procedure d’infrazione per gli Stati inadempienti. In quest’ultimo caso, poiché le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente "nell'attuazione del diritto dell'Unione" (articolo 51.1), l’intervento della Commissione è legittimato anche nel caso in cui sussista un nesso di collegamento desumibile dalle circostanze del caso concreto, tra la situazione di cui è questione e il diritto dell’Unione, il che può avvenire “quando la legislazione nazionale recepisce una direttiva dell'Unione in violazione di diritti fondamentali, o quando un'autorità pubblica applica una norma dell'Unione in violazione di tali diritti, oppure quando una decisione giudiziaria definitiva di uno Stato membro applica o interpreta il diritto dell'Unione in violazione di diritti fondamentali”.

Diversamente, qualora la situazione di violazione dei diritti fondamentali contenuti nella Carta non presenti elementi di collegamento con il diritto dell’Unione, spetterà agli Stati membri attivare il proprio sistema di protezione facente capo agli organi giurisdizionali di ogni Paese, non potendo, in questa ipotesi, la Commissione intervenire in qualità di “custode dei trattati”.

 

  1. La questione del rispetto dello Stato di diritto e la procedura prevista dall’art.7 TUE.

 

Ricorda ancora la Commissione nella sua Comunicazione 2010/573 che l’art.7 TUE prevede che le istituzioni europee possono azionare un “meccanismo politico di ultimo grado” nelle situazioni eccezionali in cui sia ravvisato  un “evidente rischio di violazione grave” ovvero “l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2 del TUE ” e cioè dei valori fondanti dell’Unione quali il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani.

Proprio il rispetto della rule of law[35] è stata all’origine dell’azione della Commissione che ha attivato nel dicembre 2017 per la prima volta la procedura dell’art.7, paragrafo 1,TUE presentando una proposta di decisione del Consiglio sulla constatazione dell’esistenza di un evidente rischio grave dello stato di diritto da parte della Polonia. L’inedita situazione si è venuta a creare a seguito delle politiche avviate dal governo polacco, insediatosi nel novembre 2015, in materia di giustizia, politiche che si sono tradotte in una serie di leggi di riforma della magistratura ordinaria e costituzionale che, ad avviso della Commissione, minavano l’indipendenza dei giudici utilizzando l’espediente dell’abbassamento dell’età pensionabile.

In particolare ciò aveva comportato per la Corte Suprema polacca l’immediato collocamento a riposo forzato di ben 27 dei 72 giudici in carica al tempo che erano stati costretti ad abbandonare l’incarico con la conseguente modifica nella composizione della Corte ed evidenti ricadute sulla sua indipendenza.

La Commissione ha dunque ravvisato nelle misure adottate dalle autorità della Polonia il mancato rispetto degli obblighi assunti dallo Stato polacco ai sensi dell’art.19, paragrafo 1 del TUE[36] in combinato disposto con l’art.47 della CDFUE[37]e, nell’ambito del «nuovo quadro dell'UE per rafforzare lo Stato di diritto» definito dalla stessa a seguito della precedente crisi ungherese, [38]ha tentato di intessere un dialogo con il governo polacco, senza però riuscire ad ottenere da quest’ultimo alcun risultato pratico in termini di arretramento rispetto alle misure adottate e/o già in vigore. Fallito il tentativo di dialogo, si è infine dato il via al procedimento di cui all’art.7, paragrafo 1 del TUE, anch’esso conclusosi con un nulla di fatto, affiancando a tale iniziativa una serie di procedure di infrazione attivate ai sensi dell’art.258 TFUE[39] che, queste sì, sono state da ultimo coronate da successo.[40] Il “caso Polonia” ha dimostrato con chiarezza la scarsa utilità del meccanismo previsto dall’art.7 del TUE così che quella che doveva essere secondo l’ex Presidente della Commissione UE Barroso “l’opzione nucleare”[41] si è rivelata del tutto innocua in termini di efficacia coercitiva nei confronti dello Stato posto sotto accusa. Occorre ricordare in proposito che lo strumento di controllo atto a salvaguardare i valori fondanti dell’Unione indicati nell’art.2 TUE, è stato inizialmente inserito nel Trattato di Amsterdam, è stato successivamente modificato nel Trattato di Nizza ed infine riprodotto, nella sua versione attuale, nel Trattato di Lisbona. Nella sua prima versione, il procedimento poteva essere avviato qualora si ravvisasse una “violazione grave e persistente” di tali valori ma l’assolutezza della formula adottata in assenza peraltro di un previo meccanismo di early warning, che non ne consentì l’applicazione pratica,[42] ha condotto alla modifica della previsione originaria. L’attuale formulazione della norma [43]prevede una procedura modulata a seconda che la constatazione riguardi l’esistenza di “un evidente rischio di violazione grave” ovvero l’esistenza di “una violazione grave e persistente”: nella prima ipotesi, la sussistenza del rischio è valutata dal Consiglio che, su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, delibera alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri (non computando, secondo l’art. 354 TFUE,[44] lo Stato interessato) previa approvazione del Parlamento europeo. Prima di procedere il Consiglio ascolta lo Stato interessato e può rivolgergli delle raccomandazioni deliberando con la stessa procedura (art. 7, par.1 TUE).

Nella seconda ipotesi, che si verifica qualora lo Stato membro non modifichi la propria legislazione, il “rischio” diventa “violazione grave e persistente” e la constatazione dell’esistenza di una violazione di questo genere spetta al Consiglio europeo che procede, dopo aver invitato lo Stato membro a presentare le proprie osservazioni,  deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo che, in questa fase, non figura più tra i promotori dell’azione (art.7, par.2 TUE). Constatata l’esistenza di una “violazione grave e persistente” il pallino ritorna nuovamente nelle mani del Consiglio che, deliberando a maggioranza qualificata,[45] può decidere di sospendere “alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del detto Stato membro in seno al Consiglio”, tenendo tuttavia conto delle conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche (art. 7, par. 3 TUE).

In conclusione, si tratta di un meccanismo piuttosto complesso di natura sostanzialmente politica caratterizzato da un’ampia discrezionalità di cui godono sia il Consiglio che il Consiglio europeo le cui decisioni devono inoltre essere avallate dal Parlamento europeo e che, proprio in ragione del modo in cui è stato costruito, rappresenta un’arma spuntata in partenza.

Come si è visto, infatti, l’attivazione dell’iter procedurale richiede un’alta dose di consenso per raggiungere il quorum previsto[46] mentre le sanzioni da infliggere allo Stato membro, con il quale deve essere posto in essere un confronto, in ultima istanza non incidono sulla partecipazione dello Stato stesso all’Unione ma possono unicamente influire su situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto secondario dell’Unione.[47]              

 

  1. Il ruolo della Commissione europea nell’attuazione della Carta dei diritti UE e il processo (interrotto) di adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo(CEDU).

 

 La Commissione europea ha svolto un ruolo guida per garantire il pieno rispetto della Carta dei diritti fondamentali nell’ambito del processo legislativo sia mediante controlli di compatibilità sia attraverso valutazioni d’impatto che consentano al decisore politico di apprezzare il grado di realizzazione di tali diritti senza che ciò implichi un vaglio di tipo giuridico sulla legittimità di misure dalle quali possa derivare una possibile lesione dei diritti stessi.

Sulla scia della Commissione anche le altre istituzioni europee hanno posto particolare attenzione al tema dell’attuazione della Carta nel corso dei procedimenti di rispettiva competenza. A tale proposito si segnala lo studio commissionato dal Parlamento europeo[48] che ha analizzato il ruolo della Carta nel processo legislativo, nella governance economica dell'Unione, nell'operato delle agenzie dell'UE, nell'attuazione della legislazione dell'UE da parte degli Stati membri e, per quanto riguarda le relazioni esterne dell'Unione, sia nelle politiche commerciali e di investimento che nella politica estera e di sicurezza comune, oltre che esaminare l’aspetto inerente la tutela giurisdizionale offerta al singolo individuo dalla Carta.

Ne sono scaturite 24 raccomandazioni volte a incrementare il potenziale già insito nella Carta rafforzandone gli strumenti di attuazione per colmare il gap tuttora esistente tra le aspettative dell’opinione pubblica e i risultati del processo d’integrazione europea dal quale i cittadini, principali attori di questo processo, si sono sentiti tagliati fuori.

In particolare, per quanto attiene al ruolo della Carta nel processo legislativo dell’UE, lo studio richiama il rapporto intercorrente tra la Carta e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) che, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 dai tredici Stati membri del Consiglio d’Europa, è stata recepita in Italia sotto forma di ratifica ed esecuzione dei trattati internazionali con la Legge 4 agosto 1955, n.848. Il citato documento sottolinea a riguardo come ai sensi dell’art.52, par.3, della Carta il significato e la portata delle disposizioni della Carta corrispondenti alle disposizioni della CEDU si devono interpretare alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e che appare opportuno, proprio in relazione al necessario allineamento all’evoluzione di tale giurisprudenza, “istituire, all'interno delle istituzioni dell'Unione, un meccanismo specifico per garantire il sistematico adattamento del diritto dell'Unione al mutare dei requisiti del diritto internazionale, soprattutto nella misura in cui tali requisiti incidono sul significato e la portata delle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali”. [49]

In questa direzione si pone anche il suggerimento di ampliare i controlli di compatibilità e le valutazioni d’impatto da effettuarsi all’interno del processo legislativo facendo riferimento, non solo alla Carta, ma anche alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e agli altri strumenti internazionali cui gli Stati membri hanno aderito, in considerazione del fatto che la Carta costituisce solo una “codifica meramente parziale e provvisoria (…) dell’acquis dell’UE in materia di diritti fondamentali” e che lo stesso Trattato dell’UE (art.6, par.3) dichiara facenti parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali “i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”.

D’altra parte il dato normativo converge verso una progressiva integrazione dei sistemi di tutela dei diritti fondamentali che trovano espressione nella CDFUE e nella CEDU: da un lato, il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, nel modificare il precedente testo dell’art.6  ha previsto al paragrafo 2, l’adesione dell’Unione alla CEDU, dall’altro, il Protocollo n.14 aggiuntivo alla CEDU, entrato in vigore il 1° giugno 2010, ha modificato l’art.59 della Convenzione consentendo all’Unione europea di aderire alla Convenzione stessa.

E’ noto peraltro come questa convergenza tra sistemi si sia bruscamente interrotta a seguito del parere 2/2013 della CGUE espresso nella seduta del 18 dicembre 2014 [50]che ha ritenuto il progetto di adesione alla CEDU non compatibile né con l’articolo 6, paragrafo 2, TUE, né con il Protocollo (n. 8) relativo all’applicazione dello stesso articolo 6, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea relativo, appunto, all’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Quest’ultimo documento che (ex art. 51 TUE) ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ha di fatto subordinato l’accordo di adesione alla necessità di preservare le caratteristiche specifiche dell'Unione.

L’articolo 1 del Protocollo statuisce, infatti, che l’accordo di adesione (previsto dall’articolo 6, paragrafo 2, TUE) deve garantire che siano preservate le caratteristiche specifiche dell’Unione e del diritto dell’Unione, in particolare per quanto riguarda: a) le modalità specifiche dell’eventuale partecipazione dell’Unione agli organi di controllo della CEDU; b) i meccanismi necessari per garantire che i procedimenti avviati da
Stati non membri e i ricorsi individuali siano indirizzati correttamente, a seconda dei casi, agli Stati membri e/o all’Unione. L’articolo 2 del Protocollo n. 8 prosegue, poi, prescrivendo che l’accordo “deve inoltre garantire che nessuna disposizione dello stesso incida sulla situazione particolare degli Stati membri nei confronti della CEDU e, in particolare, riguardo ai suoi protocolli, alle misureprese dagli Stati membri in deroga alla CEDU ai sensi del suo articolo 15 e a riserve formulatedagli Stati membri nei confronti della CEDU ai sensi del suo articolo 57”. L’articolo 3 infine sancisce che nessuna disposizione dell’accordo di adesione deve avere effetti sull’articolo 344 TFUE, che definisce il potere di interpretazione esclusiva dei trattati UE in capo agli organi da esso previsti, ignorando, sotto questo aspetto, che proprio l’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea, contiene un rinvio ricettizio alla CEDU.

Le posizioni espresse nel Protocollo n.8 si ritrovano anche nella Dichiarazione relativa all’articolo 6, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea, allegata all’Atto finale della Conferenza intergovernativa che ha adottato il Trattato di Lisbona secondo cui «La conferenza conviene che l’adesione dell’Unione alla CEDU debba realizzarsi con modalità atte a preservare le specificità dell’ordinamento giuridico dell’Unione. A tale riguardo, la conferenza prende atto dell’esistenza di un dialogo regolare fra la Corte di giustizia UE e la Corte EDU; tale dialogo potrà essere rafforzato non appena l’Unione europea avrà aderito a tale convenzione».

Ebbene il parere n.2/2013 chiude ogni spiraglio al proficuo intrecciarsi di un tale dialogo considerato che, se a giudizio della CGUE, non è in linea di principio incompatibile con il diritto dell’Unione la conclusione di un accordo internazionale che preveda la sottoposizione delle istituzioni dell’Unione al controllo di un organo giurisdizionale esterno, purché esso preservi la natura delle competenze dell’Unione e non venga pregiudicata l’autonomia del suo ordinamento giuridico, pur tuttavia “l’intervento degli organi investiti dalla CEDU di competenze decisionali, quale contemplato dall’accordo previsto, non deve avere come effetto di imporre all’Unione e alle sue istituzioni, nell’esercizio delle loro competenze interne, un’interpretazione determinata delle norme del diritto dell’Unione”. Secondo la Corte “è indubbiamente inerente alla nozione stessa di controllo esterno il fatto che, da un lato, l’interpretazione della CEDU fornita dalla Corte EDU vincolerebbe, ai sensi del diritto internazionale, l’Unione e le sue istituzioni, ivi compresa la Corte, e che, dall’altro lato, l’interpretazione data dalla Corte di un diritto riconosciuto da detta convenzione non vincolerebbe i meccanismi di controllo previsti da quest’ultima e, in particolare, la Corte EDU”.

Tuttavia un tale ragionamento non è valido per quanto riguarda l’interpretazione fornita dalla Corte riguardo al diritto dell’Unione, ivi compresa la Carta. La Corte ricorda in proposito che l’articolo 53 della Carta stabilisce che nessuna disposizione di quest’ultima deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale e dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare dalla CEDU, nonché dalle costituzioni degli Stati membri. Secondo l’interpretazione della Corte questa disposizione deve essere intesa nel senso che “l’applicazione di standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali non deve compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione (sentenza Melloni, EU:C:2013:107, punto 60)”.[51]

Ne deriva che “poiché l’articolo 53 della CEDU riserva, in sostanza, la facoltà per le Parti contraenti di prevedere standard di tutela dei diritti fondamentali più elevati di quelli garantiti da detta convenzione, occorre assicurare il coordinamento tra tale norma e l’articolo 53 della Carta, come interpretato dalla Corte, affinché la facoltà concessa dall’articolo 53 della CEDU agli Stati membri resti limitata, per quanto riguarda i diritti riconosciuti dalla Carta corrispondenti a diritti garantiti dalla citata convenzione, a quanto è necessario per evitare di compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta medesima, nonché il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione”. In sostanza alla luce di quanto affermato nel parere, sembrerebbe che il coordinamento tra le due norme richiesto dalla Corte UE avrebbe dovuto risolversi nell’inserimento nell’accordo di adesione di una clausola che precisi che “l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali possa essere interpretato nel senso la Carta costituisca uno standard massimo (anziché minimo) qualora un settore del diritto dell’Unione sia stato armonizzato, in modo tale che l’invocazione della CEDU non pregiudichi il primato o l’applicazione del diritto dell’UE”.[52]

Una tale pretesa che avrebbe imposto una sorta di dichiarazione di equivalenza tra gli standard dell’UE e quelli della CEDU non avrebbe potuto certamente essere inserita in un accordo di adesione considerato che la questione del supposto contrasto con l’art.53 della CDFUE derivante da uno standard più elevato di tutela adottato da uno Stato membro in un ambito di rilevanza “comunitaria”, “sembra essere una questione del tutto interna all’Unione europea, la cui risoluzione non può certo essere demandata né all’accordo di adesione, né alla Corte EDU”. [53]

La Corte, dunque, muovendo dal presupposto che i Trattati fondativi dell’Unione hanno dato vita, diversamente dai trattati internazionali ad “un ordinamento giuridico nuovo, dotato di proprie istituzioni, a favore del quale gli Stati che ne sono membri hanno limitato, in settori sempre più ampi, i propri poteri sovrani, e che riconosce come soggetti non soltanto tali Stati, ma anche i cittadini degli stessi” (sentenze van Gend e Costa, nonché parere 1/09), e che “per garantire la preservazione delle caratteristiche specifiche e dell’autonomia di tale ordinamento giuridico, i Trattati hanno istituito un sistema giurisdizionale destinato ad assicurare la coerenza e l’unità nell’interpretazione del diritto dell’Unione” costituito dai giudici comuni e dalla CGUE in rapporto di leale collaborazione, giunge alla conclusione che l’accordo non tutela la peculiarità di un tale ordinamento. In realtà, ciò che emerge dalla lettura del parere è la forte avversione della CGUE al controllo esterno, nella specie quello del giudice di Strasburgo che, a detta della CGUE dovrebbe limitarsi a interpretare la CEDU “ma di fatto non può inserirsi, se non in via del tutto ancillare alla CGUE, nel sistema multilivello di tutela dei diritti dei cittadini dell’Unione europea quando è in gioco una norma di quest’ultima. E ciò nemmeno se è stato lo stesso Trattato di Lisbona a prevedere l’adesione alla CEDU (e dunque, correlativamente, un ruolo per la Corte di tale sistema)”.[54]

 

  1. Il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti nazionali: il punto di vista della Corte di giustizia UE.

 

L’ottica nella quale si sono mossi i giudici di Lussemburgo è stata quindi quella di tentare di limitare il più possibile l’ibridazione [55]tra l’ordinamento CEDU e quello dell’Unione di cui la Corte si considera gelosa custode nel quadro di un sistema giurisdizionale fondato sul procedimento di rinvio pregiudiziale previsto dall’art.267 TFUE che costituisce “la chiave di volta” del sistema stesso in quanto “instaurando un dialogo da giudice a giudice proprio tra la Corte e i giudici degli Stati membri, mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione (…) permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai Trattati”(punto 176 del parere).[56]

In questo senso, il giudice lussemburghese si è preoccupato di fare chiarezza sul corretto rapporto intercorrente tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici nazionali dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ed ha immediatamente arginato i tentativi dei giudici comuni di applicare alle disposizioni della Convenzione lo stesso schema giuridico che caratterizza il diritto unionale nei confronti dei diritti nazionali.

La Corte UE , infatti, nel rispondere sulla domanda di pronuncia pregiudiziale ex art.267 TFUE proposta dal Tribunale di Bolzano che chiedeva se il richiamo alla CEDU contenuto nell’art.6, paragrafo 3, TUE potesse consentire la disapplicazione della norma interna in contrasto con la CEDU, senza ricorrere alla Corte Costituzionale in via incidentale, ha precisato che tale richiamo “non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa” in quanto la norma “non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le  conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale”.[57]

Tale orientamento è stato riaffermato anche in pronunce successive nelle quali la Corte ha puntualizzato che

 “anche se, come conferma l’art. 6.3 TUE, i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali e anche se l’art. 52.3 della Carta impone di dare ai diritti in essa contemplati corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU lo stesso significato e la stessa portata di quelli loro conferiti dalla suddetta Convenzione, quest’ultima non costituisce, fintantoché l’Unione non vi abbia aderito, un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento dell’Unione”.[58]

Da parte sua la Corte EDU indipendentemente dalla procedura di adesione dell’Unione europea alla CEDU, ha tentato di trovare una via alternativa per sindacare la violazione dei diritti umani riconducibili all’Unione, facendo valere la responsabilità dei singoli Stati, tutti parti della Convenzione europea.

Così, i giudici di Strasburgo sin dalla sentenza Matthews c. Regno Unito[59] hanno ritenuto che anche se "la Comunità europea non è parte contraente" della Convenzione, e che la Convenzione non esclude il trasferimento di competenze ad organizzazioni internazionali posto che i diritti della Convenzione continuino ad essere assicurati, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, che “non è un atto comunitario bensì un trattato attraverso cui è stata introdotta la modifica del Trattato CEE”, gli Stati membri che abbiano liberamente sottoscritto tali strumenti internazionali continuano ad essere responsabili degli atti dell'organizzazione internazionale cui hanno trasferito sovranità quando essi siano assunti in violazione dei diritti garantiti dalla Convenzione.

A partire dalla giurisprudenza successiva la Corte EDU, nel ribadire la non sindacabilità innanzi alla propria giurisdizione delle norme Ce direttamente applicabili negli ordinamenti dei Paesi membri, non essendo la Comunità Europea parte della Convenzione Europea dei Diritti Umani, ha elaborato la “dottrina della protezione equivalente” secondo la quale le autorità nazionali dei singoli Stati membri sono esonerate da responsabilità per violazione delle norme CEDU qualora esse non dispongano di discrezionalità decisionale in ordine alla trasposizione delle normative comunitarie all’interno dell’ordinamento nazionale: in questo caso, cioè, opera la presunzione di equivalenza tra il livello di protezione dei diritti umani offerti dalle norme comunitarie e quello garantito dalla Convenzione.[60] Non si tratta di una presunzione assoluta bensì di una presunzione relativa che può essere superata solo dimostrando una manifesta carenza dell’ordinamento comunitario nella tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione.

Più oltre la stessa Corte ha precisato che la presunzione di equivalenza non opera allorquando gli atti dell’Unione comportino un certo margine di discrezionalità nell’applicazione e nel caso in cui i giudici nazionali abbiano omesso di interpellare la Corte di giustizia in sede pregiudiziale per conoscere la sua opinione in merito all’eventualità della violazione di un diritto.[61]

Comunque sia, la dottrina della protezione equivalente presenta una serie di inconvenienti riconducibili per lo più al sistema del doppio standard di controllo che assoggetta gli atti interni degli Stati membri ad un controllo “completo” che si attenua qualora si tratti di atti attuativi del diritto comunitario, e che, mentre arriva a sindacare gli atti dell’Unione europea per il tramite del sindacato sugli atti statali di esecuzione del diritto europeo, garantisce “la totale impunità a quelle violazioni perpetrate nei procedimenti interni dell’Unione, ovvero tali da non dare titolo agli Stati di prendervi parte”. [62]

 

  1. La posizione della CEDU nell’ordinamento costituzionale italiano.

 

I rapporti tra il livello di tutela dei diritti fondamentali previsto dalla CEDU e l’ordinamento costituzionale sono regolati in funzione della collocazione che la CEDU assume nel sistema delle fonti.

A tale proposito, l’orientamento della Corte Costituzionale, sino agli anni 90, è stato quello di considerare la Convenzione, recepita in Italia con la Legge 4 agosto 1955 n. 848, secondo il modello della ratifica ed esecuzione dei trattati internazionali, alla stregua di un qualsiasi altro trattato internazionale, pur avendo tale atto un contenuto di natura sicuramente costituzionale in relazione all’elenco dei diritti fondamentali da essa riconosciuti.

Il principio è quello secondo cui “i trattati internazionali vengono ad assumere nell'ordinamento la medesima posizione dell'atto che ha dato loro esecuzione. Quando l'esecuzione è avvenuta mediante legge ordinaria, essi acquistano pertanto la forza ed il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da una legge ordinaria successiva”.[63]

Con la riforma costituzionale del 2001, il legislatore ha introdotto al primo comma dell’art.117, una nuova disposizione ai sensi della quale “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

La novella legislativa, messa in campo con la precipua finalità di porre sullo stesso piano Stato e Regioni in ordine al vincolo del rispetto degli obblighi internazionali, già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale nei confronti della legislazione regionale sia primaria che concorrente, si riferisce, pur non citandoli espressamente, ai trattati internazionali.

Nel mutato quadro costituzionale, la CEDU, ritenuta dalla Corte, sino a quel momento, al più come un parametro integrativo del parametro costituzionale, assume un ruolo nettamente diverso e dai precisi contorni nell’ambito dell’ordinamento interno, a seguito delle storiche “sentenze gemelle” n.348 e 349 del 2007 che segnano un fondamentale cambio di passo nella giurisprudenza della Consulta.[64]

Con tali pronunce la Corte ha chiarito innanzitutto che la CEDU “non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce norme direttamente applicabili negli Stati contraenti”[65]: per essa non opera il meccanismo della norma interposta con riferimento all’art.10, comma 1 Cost. che riguarda solo le norme consuetudinarie e non quelle pattizie, né può farsi valere il parametro dell’art. 11 Cost., che ha consentito, grazie al principio di limitazione della sovranità, di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento, come affermato nelle sentenze n. 284 del 2007 e n. 170 del 1984 “non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale” ;[66] tale parametro, poi, non può essere preso in considerazione neppure in via indiretta, “per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario”.[67]

Ne consegue che “il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma Cedu, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., di esclusiva competenza del Giudice delle leggi”.[68]

La Corte, quindi, pur riconoscendo la rilevanza della CEDU ne ribadisce la natura di diritto internazionale pattizio negando che il contenuto costituzionale della medesima incida sulla sua veste formale e negando altresì che si sia fatto luogo alla “comunitarizzazione” della Convenzione ad opera del par. 2 dell'art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 (ora par.3 del TUE), così come sostenuto da alcuni giudici di merito.

I giudici costituzionali, poi, con riguardo al nuovo art.117, comma 1 Cost. hanno avallato la portata generale del vincolo del rispetto degli obblighi internazionali [69]affermando che il testo così novellato “ha colmato una lacuna e (…), in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato”.[70]

Ebbene la struttura di tale norma, secondo la Corte, “si presenta simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere”[71]: si tratta delle norme, che la dottrina e la giurisprudenza costituzionale hanno definito come “fonti interposte”.

La CEDU rappresenta, appunto, una fonte interposta di rango sub-costituzionale di rango cioè subordinato alla Costituzione, ma sovraordinato alla legge “capace di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato” come definiti dall’art.117, comma 1 Cost. [72]Ciò non significa, prosegue nel suo ragionamento la Corte, che “le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione”, anzi a tutta la Costituzione, e non solo ai principi e diritti fondamentali come avviene per il diritto comunitario. [73]

In sostanza, l’aggancio al parametro dell’art.117, comma 1 Cost. se da una parte rende “inconfutabile” la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra attrae le stesse nella sfera di competenza della Corte, “poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale”.[74] La conseguenza di una lettura così formulata delle norme CEDU da parte dei giudici della Consulta è che tali norme “vengono ad assumere contemporaneamente la veste di parametro o quella di oggetto nel giudizio di costituzionalità delle leggi”, in quanto “il giudice ad evitare di “conformarsi” ad un diritto incostituzionale dovrà preventivamente porsi la questione relativa alla conformità della disposizione Cedu alla Costituzione e solo dopo aver risolto la stessa in senso positivo procedere alla seconda verifica, consistente nella praticabilità di una lettura della norma di legge in conformità al principio della Cedu”.[75]

Dal punto di vista della Corte, nel caso sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all'art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU, il giudizio si scinde, come si è detto, in tre momenti: occorre innanzitutto che le norme Cedu, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, siano sempre sottoposte ad una verifica di compatibilità con tutto il testo costituzionale; tale controllo deve ispirarsi anche al criterio del ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante in particolare dalla giurisprudenza di Strasburgo e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione; a questo punto si può procedere a verificare la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta”. [76]

Il vaglio della Corte Costituzionale nei confronti della norma interposta si risolve quindi nel “verificare se le (…) norme CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana”.[77]

Questo il ruolo che la Corte si attribuisce rispetto al ruolo riconosciuto alla Corte EDU che è invece quello di garantire l’interpretazione uniforme della Convenzione di Roma e dei Protocolli all’interno dei Paesi membri: si tratta di due ruoli differenti che tendono però entrambi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell'uomo.

Con le sentenze “gemelle”, la Corte dunque “ha recuperato un ruolo da protagonista sia davanti alla Corte EDU, sia davanti ai giudici comuni i quali, solo in presenza di antinomie irrisolvibili con lo strumento dell’interpretazione conforme, saranno chiamati a sollevare, come puntualizza la sent. n. 349/2007, questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. integrato dalla legge di esecuzione della CEDU”. [78]

Sul fronte dei giudici comuni, come si è visto, la Corte ha escluso decisamente la possibilità di ricorrere alla tecnica della disapplicazione introdotta in ambito comunitario in ciò anticipando la posizione dei giudici di Lussemburgo espressa nel caso Kamberaj e ribadita in pronunce successive.

Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009) diversi giudici ordinari e amministrativi avevano infatti sostenuto la tesi secondo la quale, ai sensi del nuovo testo dell’art.6 e con specifico riferimento ai paragrafi 2 e 3 di tale articolo, le norme della CEDU sarebbero divenute parte integrante del diritto dell’Unione con la conseguenza che ai giudici ordinari sarebbe stato consentito di disapplicare le norme interne con esse contrastanti, senza dover ricorrere al giudizio del supremo giudice delle leggi.

Ebbene, la Corte confermando quanto già affermato nelle sentenze “gemelle”, ha chiarito con la sentenza n.80 del 2011 l’impatto del nuovo art.6 TUE nel sistema multilivello a protezione dei diritti fondamentali precisando che nessun argomento in favore della tesi della disapplicazione può essere tratto dalla disposizione che prevede l’adesione dell’Unione alla CEDU (art.6 par.2 TUE) “per l’assorbente ragione che l’adesione non è ancora avvenuta”. Per quanto concerne poi il richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 dello stesso art.6 TUE secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» si tratta, a giudizio della Corte, “di una disposizione che riprende, come già accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea: evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona”. Questa linea interpretativa è stata riaffermata anche in successive pronunce della Corte che hanno ribadito che «in linea di principio, dalla qualificazione dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario non può farsi discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost., né, correlativamente, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la predetta Convenzione» (sentenze n. 303 del 2011; n. 349 del 2007)».[79]

 

  1. Gli orientamenti della Corte Costituzionale dopo le sentenze “gemelle” e il ruolo dei giudici ordinari nell’applicazione della CEDU.

 

Le sentenze “gemelle” pongono le basi anche per l’evoluzione successiva della giurisprudenza costituzionale che si ispira, nell’ambito di un modello di integrazione tra ordinamenti, alla grundnorm [80]rappresentata dal principio della massimizzazione della tutela secondo il quale  “il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti”.[81]

Il criterio assiologico-sostanziale che emerge dalle successive pronunce della Corte si risolve dunque nella ricerca della norma in grado di assicurare la tutela più intensa ad un diritto fondamentale, senza che assuma

più alcun rilievo la fonte dalla quale tale norma promana, con tutte le difficoltà che ne conseguono sia in ordine ad ipotesi di “un’applicazione bidirezionale del criterio della tutela più intensa[82], sia in ordine all’individuazione di quale tra i due sistemi di garanzia sia quello che assicuri il livello di tutela più elevato. [83]

Inoltre, nella ricerca della massima espansione delle garanzie deve aversi riguardo alla necessità di assicurare il “bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela”.

Questo bilanciamento spetta, oltre che al legislatore, alla stessa Corte Costituzionale la quale è l’unica in grado di tutelare, con un margine di apprezzamento adeguato al caso ed in maniera sistemica e non frazionata, i valori costituzionali che vengono in gioco nel giudizio sulla singola norma.[84]

In conclusione, ad avviso dei giudici costituzionali, la funzione “eminente” riconosciuta alla Corte EDU nell’interpretazione della CEDU così come esplicitato nelle sentenze “gemelle” è una funzione che si espleta caso per caso, in modo parcellizzato, mentre “appartiene alle autorità nazionali il dovere di evitare che la tutela di alcuni diritti fondamentali – compresi nella previsione generale ed unitaria dell’art. 2 Cost. – si sviluppi in modo squilibrato, con sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla Carta costituzionale e dalla stessa Convenzione europea”. [85]

In questo modo la Corte, se non può sostituirsi alla Corte di Strasburgo nell’interpretazione della CEDU, può

però valutare “come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano” con un «margine di apprezzamento nazionale» che “può essere determinato avuto riguardo soprattutto al complesso dei diritti fondamentali, la cui visione ravvicinata e integrata può essere opera del legislatore, del giudice delle leggi e del giudice comune, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze”.[86]

Attraverso lo strumento del “margine di apprezzamento”, la Corte riconosce a sé stessa un ambito di competenza che le consente di far valere le peculiarità dell’ordinamento nazionale senza disconoscere la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che essa intende rispettare nella “sostanza”.[87]

Al contempo, l’affermazione da ultimo riportata apre uno spazio interpretativo per i giudici ordinari [88]rispetto all’impostazione precedente che li riteneva vincolati agli orientamenti espressi dalla Corte europea,[89] nel senso che tale vincolo interpretativo sussiste solo quando si sia formata sulla questione di diritto una giurisprudenza consolidata, tranne nel caso di “sentenza pilota”.[90] Secondo quanto dichiarato nella sentenza n.49 del 2015,[91] infatti, la circostanza che alla Corte di Strasburgo spetti il monopolio dell’interpretazione e applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli ai sensi dell’art.32 della CEDU, non sta certo a significare che “la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato".

E, a precisazione del rapporto che a giudizio della Corte deve sussistere tra la Corte EDU e i giudici comuni, si afferma altresì che il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla prima “poggiando sull’art. 117, primo comma, Cost., (…), deve coordinarsi con l’art. 101, secondo comma, Cost., nel punto di sintesi tra autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest’ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso” sicché è “solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo”.

Ad avviso della Corte, il vincolo che deriva dal “diritto consolidato” apre la strada ad un “confronto costruttivo tra giudici nazionali e Corte EDU sul senso da attribuire ai diritti dell’uomo” e si inquadra perfettamente con le caratteristiche della CEDU che postula “il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale”, incentivando il rapporto dialettico non solo tra i componenti della Corte EDU, per come la stessa è strutturata e per le modalità organizzative che la distinguono (suddivisione in sezioni, possibilità di opinioni dissenzienti, rimessione alla Grande Camera in caso di contrasti giurisprudenziali interni), ma tra tutti i giudici che devono applicare la Convenzione, compresa la Corte Costituzionale.

La Corte ammette poi la difficoltà di comprendere con immediatezza se l’interpretazione delle disposizioni della CEDU abbiano raggiunto un sufficiente grado di “consolidamento” da parte dei giudici di Strasburgo e, a tal fine, elenca una serie di indici idonei ad orientare il “percorso di discernimento” del giudice nazionale:

la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano”. [92]

Più oltre, la Corte preciserà ancor meglio i limiti che l’attività interpretativa del giudice incontra nei confronti della CEDU puntualizzando che il giudice ha il dovere di evitare violazioni della CEDU e l’obbligo, a questo  fine, di applicarne le norme “sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti della giurisprudenza del giudice europeo (sentenze n. 276 e n. 36 del 2016)” che in “tale attività interpretativa, che gli compete istituzionalmente ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune incontra il solo limite costituito dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario alla CEDU. In tale caso, la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., ove non sia in alcun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato (sentenza n. 239 del 2009)”. [93]

La sentenza n.49 del 2015 rappresenta dunque un punto di arrivo nel percorso argomentativo della Corte Costituzionale delineando il perimetro entro il quale la CEDU trova applicazione nell’ordinamento interno.

Si tratta peraltro di una pronuncia assai criticata in dottrina sia per quanto attiene alle affermazioni relative al “predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU” che a giudizio di autorevoli commentatori sono espressive di un “'patriottismo' costituzionale ingenuo e infecondo”,[94] sia per ciò che concerne l’artificiosa suddivisione tra diritto consolidato e diritto da considerarsi “in progress”[95], asserzione, quest’ultima, che, postulando una diversa efficacia delle sentenze della Corte EDU, ha dato luogo ad una puntigliosa e risentita risposta da parte dei giudici di Strasburgo.[96]

Non manca chi comunque ha posto l’accento sugli aspetti positivi della sentenza, sottolineando, con riferimento al caso concreto oggetto del giudizio della Corte,   la “bontà della scelta, compiuta esplicitamente dalla sentenza n. 49 del 2015, ma già in nuce nella pregressa giurisprudenza costituzionale, di permettere l’enucleazione dalle pronunce di Strasburgo di norme da porre a base del controllo di costituzionalità, a condizione che esse riflettano uno stato consolidato di quella giurisprudenza, ovvero il suo diritto vivente”.[97]

Le indicazioni metodologiche scaturenti dalla pronuncia in questione servirebbero, inoltre, anche a disinnescare il potenziale conflitto tra Costituzione e CEDU che non sarebbe altrimenti risolvibile se non attraverso una dichiarazione di incostituzionalità dei vincoli convenzionali per il tramite della legge di esecuzione con il rischio di annullare una norma interna sulla base di una interpretazione della CEDU poi divenuta non più attuale: la possibilità di distinguere tra Convenzione e giurisprudenza convenzionale “offre invece la possibilità di scongiurare “a valle” il pericolo suddetto, in maniera meno traumatica; ma anche, al contempo, più ampia” nel senso che “lo strumento chirurgico della “neutralizzazione a valle” (incidente solo sulla idoneità di un determinato indirizzo giurisprudenziale a “far corpo” con la sottostante disposizione della Convenzione) potrebbe essere utilizzato – con la dovuta prudenza e rendendone accuratamente conto nella motivazione – in modo generalizzato, in maniera certamente spesso collegata a, ma non immancabilmente dipendente da, aspetti di frizione tra l’indirizzo giurisprudenziale in questione e le norme costituzionali”. [98]

Quale che sia il giudizio in merito alle indicazioni formulate nella sentenza n.49 del 2015, non vi è dubbio che la linea interpretativa della Corte, sia pure con alcune oscillazioni, è stata quella di far convergere su di sé, tutte le volte in cui ciò sia giuridicamente possibile, le questioni derivanti dall’applicazione della CEDU nell’ordinamento interno, pur riconoscendo alla Corte EDU e ai giudici comuni, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, uno specifico ruolo nella “lettura” della Convenzione. Da questo punto di vista, dunque, i parametri convenzionali assumono veste sussidiaria rispetto a quelli costituzionali, tanto che l’apertura nei confronti del “criterio della massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali” che emerge nella giurisprudenza della Corte successiva alle sentenze “gemelle” del 2007 non si è dispiegata appieno come invece auspicato da parte di autorevole dottrina.[99]

 

  1. Conclusioni: gli strumenti di politica sociale dell’Unione e le nuove sfide da affrontare.

 

Sull’impianto normativo sopra illustrato si innesca il sistema di protezione dei diritti, anche sociali, dell’Unione. Se l’Europa ha per decenni rappresentato una risposta efficace alle esigenze di pace emergenti nell’immediato dopoguerra fornendo un quadro di stabilità economica necessario ad assicurare e garantire il tenore di vita dei cittadini degli Stati membri, oggi occorre riconoscere che questo sistema è entrato in crisi e che è necessario un cambio di rotta nelle politiche europee tale da superare la visione puramente “tecnocratica” di Bruxelles: occorre, cioè, come si è detto,[100] rovesciare l’attuale prospettiva che lascia agli Stati il compito di fissare i limiti all’azione comune rafforzando, al contrario, la centralità dell’azione dell’Unione mediante l’attribuzione a quest’ultima di ulteriori e nuove competenze. Una strada, questa, che passa attraverso la riforma dei Trattati e che non può essere disgiunta da una riforma anche dei meccanismi istituzionali che oggi governano l’Unione.

In questo senso, è necessario ricordare come l’Unione non disponga nella materia “sociale” di competenze esclusive: nei settori indicati dall’art.6 TUE, tra i quali figurano la sanità, l’istruzione e la formazione professionale, l’attività dell’Unione si svolge mediante azioni “intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri” mentre la competenza “politica sociale” attribuita all’Unione in concorrenza con gli Stati membri (art.4, lett. b) TFUE) si esercita limitatamente agli “aspetti definiti dal presente trattato” e dunque, sostanzialmente, attraverso un’opera di coordinamento delle politiche sociali degli Stati membri (art.5 TFUE); ai sensi dell’art.151 dello stesso TFUE, poi, gli obiettivi nel campo della politica sociale (promozione dell’occupazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, protezione sociale adeguata, dialogo sociale, sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo, lotta contro l’emarginazione) devono tener conto delle “diversità delle prassi nazionali  in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia dell’Unione”. 

La crisi economico- finanziaria che ha attraversato i Paesi dell’Unione dopo Lehman Brothers e le conseguenti politiche di austerity imposte dall’Unione ad alcuni paesi dell’UE hanno determinato un affievolimento dei diritti dei cittadini, in particolare dei diritti sociali, rappresentando “un punto di partenza sbagliato” [101]perché non adeguatamente accompagnate da politiche di sostegno al reddito e all’occupazione.

È stato a questo proposito osservato come in assenza di un reale spazio politico europeo, si è prodotto l’effetto di una riduzione della spesa per i diritti sociali che a sua volta ha determinato la perdita di capacità redistributiva delle politiche nazionali e, in mancanza di un’armonizzazione fiscale, anche la “corsa al ribasso” nelle politiche fiscali dei vari Paesi dell’Unione “con un’intollerabile deriva di dumping sociale e fiscale”.[102]

Le misure adottate per fronteggiare la crisi del 2008 e, in particolare i vincoli derivanti dall’adesione al Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria del 2 marzo 2012 (comunemente noto con il nome di “Fiscal Compact”) hanno ulteriormente ridotto i margini di operatività dei governi dell’area Euro che si sono visti costretti a “rimodulare” la spesa pubblica decurtando quella per le prestazioni sociali in un momento nel quale, stante l’aumento del numero dei disoccupati, la richiesta di sostegno alle istituzioni da parte dei cittadini si faceva più pressante.

Peraltro, pur dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona [103]con il quale l’Unione si è definitivamente “aperta” ad obiettivi di natura sociale (art.3, comma 3 TUE e 9 TFUE),gli strumenti di cui l’Unione dispone non sono attualmente in grado di fornire ai diritti sociali quel grado di effettività di cui avrebbero bisogno per assumere un ruolo che non sia meramente servente ai diritti fondamentali legati alle libertà economiche.

Proprio per rafforzare e tradurre in termini concreti i principi solennemente proclamati nel “Pilastro europeo dei diritti sociali[104] la Commissione europea non più in carica aveva proposto una nuova versione del Fondo sociale europeo, il Fondo sociale Plus , parte del bilancio della UE 2021-2027,con una dotazione complessiva di 101 miliardi di euro da gestirsi principalmente in concorrenza con gli Stati membri, che inglobava in sé, oltre al già conosciuto Fondo sociale europeo, anche una serie di altri fondi (Iniziativa a favore dell'occupazione giovanile (YEI), il Fondo per gli aiuti agli indigenti (FEAD), il Programma dell'UE per l'occupazione e l'innovazione sociale (EaSI) e il programma sanitario dell'UE). Al nuovo Fondo sociale Plus dovrebbe affiancarsi un Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG) al quale sono destinati 1,6 miliardi di euro. Nelle intenzioni della Commissione entrambi i fondi sono “finalizzati ad investire nelle persone, per garantire che siano dotate delle competenze necessarie per affrontare le sfide e i mutamenti del mercato del lavoro, dando così seguito al pilastro europeo dei diritti sociali”.[105]

La realizzazione concreta del Pilastro, dati i tempi lunghi che esso prevede, non appare al momento in grado di rispondere adeguatamente alla domanda di tutela effettiva dei diritti sociali proveniente dai cittadini europei e dunque neppure di offrire una soluzione a quel deficit sociale figlio, a sua volta, dell’annoso deficit democratico cui sono afflitte le istituzioni europee.

La protezione dei diritti sociali negli anni della crisi non si è dimostrata all’altezza delle aspettative neppure sul fronte giudiziario se si considera quel filone giurisprudenziale della Corte di Lussemburgo che, a partire dalle ben note sentenze Viking e Laval ha di fatto privilegiato le esigenze del buon funzionamento del mercato e, in particolare il principio di libera concorrenza tra le imprese, rispetto alla tutela di altri diritti che, come quello al lavoro, assumono pari se non maggiore dignità anche alla luce degli artt. 15 e 29 della Carta dei diritti, tanto da far parlare di “una svolta neo-liberale della Corte di Giustizia , per la quale, quindi (e volendo riassumere), solo la libertà economica sarebbe il vero e unico diritto fondamentale”. [106]

In dottrina vi è anzi chi ha evidenziato che la Corte di giustizia “non sembra avere voluto operare nel senso dell’estensione delle competenze europee in ambito sociale, censurando anche talora scelte statali che avevano fondamento sul piano della tenuta sociale dei diritti nel bilanciamento con le libertà economiche[107] e che, a Trattati vigenti, non è possibile avere una giurisprudenza della Corte di Lussemburgo “almeno equivalente a quella interna, costituzionale, ordinaria, amministrativa e contabile, in cui i diritti sociali giungono ricollegarsi direttamente a principi supremi della Costituzione, quali limiti alla revisione costituzionale e anche possibili “controlimiti” al diritto europeo”.

Riportare al centro dell’azione dell’Unione la questione dei diritti sociali significa anche porsi il problema dei “costi” connessi alle politiche pubbliche in materia di welfare ma ciò non può tradursi in un disconoscimento degli stessi diritti in nome di pretesi (e inesistenti) obblighi europei: in una situazione quale quella odierna nella quale aumentano i contrasti e le distanze tra i ceti sociali e tra gli Stati e le regioni d’Europa, occorre ripensare ad un nuovo “modello sociale europeo”.

Così si è proposto, de jure condendo, di introdurre una fiscalità europea ponendo a carico del bilancio dell’Unione gli interventi necessari a sostenere politiche sociali e ridistributive di reale lotta alle diseguaglianze affermando che “In uno scenario di comunità politica coesa la lotta alle diseguaglianze si pone quale necessario orizzonte politico, giuridico ed economico comune europeo. Dovrebbe costituire esso il fattore invariabile sulla base del quale calibrare le decisioni da assumere”. [108]

In questa prospettiva, la modifica dei Trattati finalizzata a “costituzionalizzare” la dimensione sociale europea potrebbe servire a rafforzare la coesione politica e sociale dell’Europa contrastando così  le pulsioni secessionistiche dei singoli Stati in funzione antieuropea perché è proprio nei momenti di crisi economica che è necessario “un salto di qualità” nell’integrazione politica e sociale dal momento che “unità economica ed unità politico-sociale costituiscono un’endiadi poiché non possono reggere l’una senza l’altra”. [109]

Questo ragionamento è oggi drammaticamente attuale di fronte ad una crisi pandemica che ha pervaso il continente europeo e che sta determinando una crisi economica e sociale di dimensioni inimmaginabili: oggi, in sostanza, si misura la reale tenuta del “modello sociale europeo” fondato sull’economia sociale di mercato di cui all’art.3, comma 3 del TUE.

Le istituzioni europee, inizialmente incerte, sembrano ora aver assunto consapevolezza della gravità della situazione e stanno mettendo in campo una serie di strumenti per fronteggiare la nuova crisi, anche se al momento si sta ancora discutendo su quale opzione tecnica (eurobond/coronabond o Mes) sia preferibile per finanziarie le spese straordinarie che gli Stati membri, Italia in primis, dovranno affrontare per fronteggiare l’emergenza sanitaria.

Si tratta di una scelta che comporta una precisa strategia di azione e che deve essere adottata superando le obiezioni di alcuni paesi del nord Europa, ad esempio l’Olanda, che si sono opposti all’emissione di titoli obbligazionari (eurobond o coronabond appunto) garantiti dalla UE temendo che tale emissione da parte dei singoli Stati europei potesse trasformarsi in una sorta di “mutualizzazione” del debito pubblico dei paesi emittenti che, come l’Italia, sono gravati da percentuali di debito pubblico particolarmente elevate.

L’alternativa preferita da questi paesi sarebbe invece costituita dall’impiego del MES (Meccanismo europeo di stabilità), strumento permanente di assistenza finanziaria agli Stati membri dell’area euro che nasce nel luglio del 2012 come evoluzione dei precedenti MESF (Meccanismo europeo di stabilità finanziaria) e (FESF) Fondo europeo di stabilità finanziaria di cui avevano precedentemente usufruito alcuni paesi (Irlanda, Portogallo, Grecia ) che negli anni 2010- 2011 si erano trovati sull’orlo del tracollo finanziario.

Obiettivo del MES, che è un’organizzazione intergovernativa istituita con un Trattato affiancato ma non incluso nei Trattati europei,[110] è quello di preservare la stabilità finanziaria dell'UE e della zona euro, poiché le difficoltà finanziarie di uno Stato membro possono ripercuotersi in maniera considerevole sulla stabilità macrofinanziaria di altri Stati membri.

Tuttavia tale meccanismo non si basa sul principio della solidarietà tra gli Stati bensì su quello della condizionalità (art.136, terzo comma, TFUE)[111]nel senso che il MES può concedere prestiti ai paesi in difficoltà solo a fronte della sottoscrizione da parte di questi ultimi di un protocollo d’intesa (Memorandum of Understanding) con il quale si definiscono con la Commissione europea che negozia a nome del MES, una serie di misure, particolarmente incisive, in termini di taglio al deficit/debito e di riforme strutturali.

Di fatto ciò comporta il “commissariamento” del paese richiedente da parte della cd. Troika (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) che, divenuta garante del prestito nei confronti del MES, deve accertarsi che gli impegni assunti siano portati ad esecuzione.

Come funzioni il MES lo ha ben sperimentato la Grecia all’epoca del governo Tsipras quando, in cambio degli aiuti concessi, ha dovuto sottostare ad un programma di risanamento dei propri conti pubblici costato ai cittadini di quel paese “lacrime e sangue”. Di qui l’aperta ostilità manifestata dal Governo italiano a ricorrere a tale meccanismo.

Se dunque non vi è concordanza di vedute tra gli Stati sugli interventi di natura economico-finanziaria per rispondere in maniera coordinata alla pandemia che ha messo in ginocchio l’Unione, occorre comunque ricordare che, seppure in ritardo, alcune incisive iniziative in questa direzione sono già state assunte: [112]la BCE ha messo in piedi un programma di acquisto di titoli pubblici per 750 miliardi di euro, il 'Pandemic Emergency Purchase Programme' (Pepp) che porta il suo intervento sul mercato a 1000 miliardi, mentre la Commissione europea, per la prima volta dalla sua introduzione nel 2011, ha proposto al Consiglio di attivare la clausola di salvaguardia generale (General escape clause) sospendendo temporaneamente il Patto di stabilità e crescita così da consentire ai governi degli Stati membri di spendere il necessario per fronteggiare l’emergenza economica e sanitaria in corso.[113]

Inoltre, per quanto riguarda le iniziative in campo sociale, la stessa Commissione ha lanciato il programma SURE, un nuovo strumento che erogherà sino a 100 miliardi di euro sotto forma di prestiti ai paesi che ne hanno bisogno per garantire che i lavoratori percepiscano un reddito e che le imprese mantengano il proprio personale, in modo da garantire che l’economia della Ue riprenda a funzionare, una volta terminato questo periodo di emergenza. Questa come altre iniziative che sono state intraprese dalla Commissione [114]si basano sulla convinzione che “l'unica soluzione efficace alla crisi che l'Europa sta vivendo debba basarsi sulla cooperazione, la flessibilità e, soprattutto, la solidarietà”. [115]

In conclusione, è proprio “lo spirito di solidarietà” quello che oggi deve essere recuperato per porre le basi della nuova Europa sì da trasformarla in una vera comunità politica che condivida rischi e benefici e nella quale i cittadini si sentano finalmente cittadini europei prima ancora che cittadini di ogni paese dell’Unione.

Questo è l’unico modo per sconfiggere non solo il virus responsabile dell’attuale pandemia ma anche un virus, ancora più insidioso secondo alcuni studiosi, rappresentato dal “populismo nelle sue diverse manifestazioni” la cui affermazione, per il tramite dei sovranisti nostrani, avrebbe conseguenze nefaste sul futuro dell’Europa e, in definitiva, sul futuro della democrazia liberale e sui diritti fondamentali da questa riconosciuti.[116]

Saranno le istituzioni europee in grado di affrontare e sconfiggere questo “secondo virus” che minaccia l’esistenza stessa dell’Europa? Noi ce lo auguriamo.

 

 

NOTE:

* Cultore di Diritto Costituzionale c/o il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa.

[1] V. G. RICCI, La costruzione giuridica del modello sociale europeo (con una postilla sul MSE al tempo della crisi globale), in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 88/2011.

[2] G. RICCI, ibidem, p. 2.

[3] La redazione della Carta era stata fortemente propugnata nell’ambito della presidenza tedesca dell’Unione durante il primo semestre del 1999: il ministro degli esteri tedesco del Governo di coalizione rosso-verde guidato da Gerhard Schröder, Joschka Fischer, ne propose la stesura nel gennaio di quell’anno in un discorso al Parlamento europeo indicando la futura Carta come un fattore di consolidamento della legittimazione e dell’identità dell’Unione europea, mentre nel programma della presidenza si affermava che “i processi decisionali comunitari devono essere significativi per i cittadini dell’Unione, che le politiche comunitarie, così come quelle dei singoli paesi membri, devono rispettare i diritti dei popoli e che per tali motivazioni la Germania supporta fortemente il progetto di una Carta dei diritti da inserire negli stessi trattati istitutivi”.

[4] J. HABERMAS, Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, in Diritti e Costituzione nell’Unione europea, a cura di G. Zagrebelsky, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 94-118. All’indomani della proclamazione della Carta di Nizza, il filosofo Habermas, uno dei più stretti sostenitori del processo di costituzionalizzazione, in una intervista alla rivista on line “Caffè Europa” del 14.12. 2000 affermava l’Unione Europea non deve più sussistere soltanto sulla base dei trattati internazionali, bensì concepire se stessa come un ordine politico che i cittadini dell’Europa si diano da se stessi” e , concordando con il disegno federale dell’Europa espresso dal ministro Joschka Fischer nel discorso del 12 maggio 2000 all’università Humboldt di Berlino, riteneva che “Una Federazione Europea, che non consista solo di Stati, ma che assuma essa stessa alcune caratteristiche di uno Stato (…)è una conseguenza dell’unione economica, voluta a livello politico ed ormai completata” e che  “Dopo la rinuncia alla sovranità monetaria e l’istituzione di un mercato comune, gli Stati membri europei possono rinunciare ad una loro ulteriore unione politica solo se vogliono votarsi a lungo termine al paradigma neoliberista del regime economico che oggi regna in tutto il mondo”.

[5] Il progetto di Trattato costituzionale, approvato nel giugno-luglio 2003 dalla Convenzione europea, organismo istituito a seguito del Consiglio europeo di Laeken del dicembre 2001, dette vita ad una grande opera di razionalizzazione che si realizzò mediante la fusione dei vari Trattati esistenti in un unico testo di Costituzione europea nel quale era incorporata anche la Carta dei diritti fondamentali. Il testo così approvato, sebbene con alcune modifiche, confluì poi nel documento sottoscritto con il Trattato di Roma il 18 giugno 2004. La sua entrata in vigore era subordinata alla ratifica parlamentare o elettorale da parte di tutti gli Stati membri, ma la bocciatura subìta nei referendum svoltisi in Francia e nei Paesi Bassi l’anno successivo ne bloccarono il processo di approvazione e dunque il testo della Costituzione così redatta non è mai divenuto efficace. Il brusco arresto del processo di costituzionalizzazione non impedì però che buona parte delle innovazioni contenute nella Costituzione fossero recepite nel Trattato di Lisbona sottoscritto il 13 dicembre 2007.

[6] D.TEGA, I diritti sociali nella dimensione multilivello tra tutele giuridiche e crisi economica, in Rivista GDP, 2012/03, p.9.

[7] M.FORLIVESI, Le clausole sociali negli appalti pubblici: il bilanciamento possibile tra tutela del lavoro e ragioni del mercato, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT-275/2015, p.34, nota 106.

[8] L’art.118A dell’Atto Unico europeo autorizza, infatti, l’adozione a maggioranza qualificata di direttive per promuovere il miglioramento dell’ambiente di lavoro e tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori contenenti “le prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro”.


[9] Si tratta del documento, introdotto dal Trattato di Maastricht e allegato al Trattato CE, che conteneva disposizioni in materia sociale e che servì ad ampliare l’azione della politica comunitaria nel settore sociale superando in tal modo l’opposizione del Regno Unito. Il protocollo è stato, infatti, sottoscritto soltanto dagli altri 11 Stati membri e, nel 1994, anche dai nuovi Stati entrati a far parte dell’Unione. Con l’Accordo sulla politica sociale, allegato al protocollo, gli Stati firmatari si prefiggevano il raggiungimento dei seguenti obiettivi: 

  • promuovere l'occupazione;
  • migliorare le condizioni di vita e di lavoro;
  • garantire un'adeguata protezione sociale;
  • promuovere il dialogo sociale;
  • sviluppare le risorse umane per garantire un livello elevato e sostenibile d'occupazione;

In particolare, l’Accordo consentiva al Consiglio nei settori concernenti il miglioramento dell'ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori, le condizioni di lavoro, l’informazione e la consultazione dei lavoratori, la parità uomo-donna, l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro, di adottare direttive a maggioranza qualificata degli Stati firmatari; in tutti gli altri settori (ad esempio le condizioni di lavoro dei cittadini dei paesi terzi) era invece richiesta l’unanimità. Restavano comunque esclusi il settore della retribuzione e del diritto sindacale.
L’accordo, inoltre, istituzionalizzava il dialogo fra le parti sociali a livello comunitario finalizzato alla stipula di accordi collettivi a livello europeo, ed esaltava il ruolo affidato alla Commissione, la cui azione era mirata ad incoraggiare la cooperazione e la consultazione fra gli Stati membri nei settori oggetto dell’Accordo. In seguito anche il Regno Unito ha modificato il precedente orientamento ostile alla politica comunitaria nel settore sociale, aderendo pienamente al Trattato di Amsterdam. Nel processo di revisione dei Trattati, il contenuto dell’accordo sulla politica sociale è stato trasfuso nei nuovi articoli da 136 a 145 T.C.E. (che oggi corrispondono agli articoli da 151 a 161 TFUE) ed è stato contestualmente abrogato il Protocollo sulla politica sociale n. 14 allegato al Trattato di Maastricht.

[10] Ai sensi dell’Art. A, Titolo I, Disposizioni comuni,  del Trattato “(…) le Alte Parti Contraenti istituiscono tra loro un’Unione europea, in appresso deominata «Unione»”.L’art. B inserisce al primo posto degli obiettivi dell’Unione quello di “promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il raffor­ zamento della coesione economica e sociale e l'instaurazione di un'unione economica e monetaria che comporti a termine una moneta unica, in conformità delle disposizioni del presente trattato”.

[11] Il metodo aperto di coordinamento è definito nelle Conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona (23-24 marzo 2000), al punto 37, secondo cui il MAC implica: “la definizione di orientamenti dell’Unione [...], la determinazione, se del caso, di indicatori quantitativi e qualitativi e di parametri di riferimento [...], la trasposizione di detti orientamenti europei nelle politiche nazionali e regionali [...], il periodico svolgimento di attività di monitoraggio, verifica e valutazione inter pares, organizzate con funzione di processi di apprendimento reciproco”. Il meccanismo, introdotto per la prima volta al momento della revisione del Trattato di Maastricht, allo scopo di rafforzare il coordinamento delle economie a seguito dell’unione monetaria e di superare le resistenze

degli Stati ad una più significativa attribuzione di competenze in favore delle istituzioni comunitarie pur salvaguardando le autonomie degli stessi Stati in materia di politiche di bilancio, materia, questa tradizionalmente “sensibile”, è stato poi successivamente esteso a molti altri settori di politica sociale, dalle politiche occupazionali alle politiche per inclusione e la protezione sociale a quelle per la ricerca e l'innovazione, e così via, tant’è che si parla di una “pluralità di metodi di coordinamento”.

(Così, F.RAVELLI, Il metodo aperto di coordinamento da Lisbona 2000 a Europa 2020, tra promesse mantenute e promesse mancate, in M.RANIERI (a cura di), Le fonti del diritto del lavoro tra ordinamento sovranazionale e ordinamento interno, Giappichelli, Torino, 2015.L’autore ritiene che il Mac abbia rappresentato una promessa mancata non essendo riuscito ad indurre “un cambiamento delle politiche 'dal basso' chiamando alla loro formazione gli attori politici e sociali che operano a livello nazionale e sub-nazionale, in un grande sforzo collettivo di sperimentazione di soluzioni appropriate al contesto di volta in volta preso in considerazione”. Esso “ha certamente contribuito alla formazione di un ‘discorso’ comunitario sulla politica sociale, favorendo la circolazione di idee e esperienze” ma non ha saputo costituire, per motivi di debolezza strutturale e/o mancanza di volontà politica, “un efficace antidoto al deficit democratico dell’Ue”.

Per ulteriori approfondimenti v. Dalla Strategia di Lisbona a Europa 2020
Fra governance e government dell'Unione europea, M. DECARO (a cura di), Collana Intangibili, Fondazione Adriano Olivetti, 2011; M. BARBERA (a cura di), Nuove forme di regolazione: il metodo aperto di coordinamento delle politiche sociali, Giuffré, Milano, 2006; S. CAFARO, Metodo aperto di coordinamento, in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2006, ad vocem.

[12]Il Trattato di Lisbona riforma i Trattati allora esistenti e cioè il Trattato sull’Unione europea (TUE) e il Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE):in particolare, il Trattato sull’Unione europea viene modificato mentre il Trattato che istituisce la Comunità europea viene ridenominato Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. L’Unione sostituisce e succede alla Comunità europea. Scompare quindi la distinzione tra “Comunità europea” e “Unione europea” e quest’ultima si fonda oggi su due Trattati, il TUE e il TFUE (art. 1 TUE).

[13] S. GIUBBONI, I diritti sociali nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona. Paradossi, rischi e opportunità in http://www.personaemercato.it/, n.5/2011, p.39.

[14] La Carta Sociale Europea è una convenzione internazionale firmata a Torino il 18 ottobre 1961, equivalente, in materia di diritti economici e sociali, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore tre anni più tardi. Il testo firmato a Torino è stato poi riveduto nel 1996 ed è comprensivo dei Protocolli addizionali del 1988 e del 1995. Alla data del 10.02.2020, dei quarantasette paesi del Consiglio d’Europa, (organismo promotore della Carta, istituito l’8 maggio 1949 con il Trattato di Londra firmato da dieci Stati: Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, regno Unito, Svezia), 34 Stati membri sono Parti della Carta sociale europea (riveduta) del 1996, mentre altri 11 Stati firmatari rimangono Parti soltanto della versione del 1961 dello strumento. Per quanto riguarda la UE, tutti i 28 stati UE hanno aderito alla Carta nella versione riveduta e pochi unicamente a quella del 1961.Per approfondimenti sul tema v. O. DE  SCHUTTER, La Carta sociale europea nel contesto dell'attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, 2016, https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/5183c21c-c0d3-11e5-9e54-01aa75ed71a1/language-it

Lo studio, commissionato dal Dipartimento tematico Diritti dei cittadini e affari costituzionali del Parlamento europeo su richiesta della commissione AFCO (Commissione Affari costituzionali), evidenzia come sia “sorprendente che persino i più recenti sviluppi in materia di diritti fondamentali nell'ordinamento giuridico dell'UE abbiano ampiamente ignorato la Carta sociale europea” con conseguente rischio di conflitti tra gli obblighi imposti agli Stati membri dell'UE in qualità rispettivamente di membri dell'UE e di Stati Parti della Carta sociale europea. Lo studio indica alcuni suggerimenti per ovviare a tale situazione, tra i quali l’indicazione alla Corte di giustizia dell’Unione europea di “riconoscere più esplicitamente il ruolo della Carta sociale europea nello sviluppo dei diritti fondamentali nell'ordinamento giuridico dell'UE”, parificando lo status della Carta sociale europea con quello della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in considerazione del fatto che essa è stata ratificata da tutti i paesi dell’Unione. In alternativa si suggerisce la possibile adesione della UE alla Carta sociale europea sulla base dell'articolo 216, paragrafo 1, del TFUE studiando le opportune clausole di salvaguardia relative all’applicazione all’UE del Protocollo sui reclami collettivi presentati dalle parti sociali e dalle organizzazioni non governative, che costituisce, unitamente ai rapporti degli Stati parti, il sistema di controllo per la verifica dell’attuazione degli impegni assunti dagli stati aderenti. In dottrina v. F. OLIVERI, La lunga marcia verso l’effettività. La Carta sociale europea tra enunciazione dei diritti, meccanismi di controllo e applicazione nelle corti nazionali, in Rivista del diritto della sicurezza sociale, 3/2008, p.509 e ss.; F.INGRAVALLE, La Carta Sociale Europea 18 ottobre 1961 –18 ottobre 2011,  in http://www.coe.int ; C.PANZERA, Per i cinquant’anni della Carta sociale europea, in www.gruppodipisa.it , 1/2012;  E.STRAZIUSO, La Carta sociale del Consiglio d’Europa e l’organo di controllo: il Comitato europeo dei diritti sociali. nuovi sviluppi e prospettive di tutela, in www.gruppodipisa.it, n.3/2012; G. GUGLIA, Il contributo della giurisprudenza e degli studi giuridici all’effettività della carta sociale europea nell’ordinamento italiano: cenni ricostruttivi, in  Lex Social, n.1/2018, pag.45 e ss.

La Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, è un documento firmato a Strasburgo il 9 dicembre 1989 da undici dei dodici paesi che all’epoca facevano parte della CE (la Gran Bretagna si rifiutò di firmarla ratificandola solo nel 1998).

Il documento, presentato dall’allora presidente della commissione europea Jacques Delors che ne fu propugnatore, come “uno dei pilastri della dimensione sociale dell'edificio europeo, secondo lo spirito del trattato di Roma completato dall'Atto unico europeo”, trova la sua fonte ispiratrice nelle Convenzioni dell’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) e nella Carta sociale europea del Consiglio d’Europa, e riafferma solennemente la “dimensione sociale della Comunità” nell’ambito della quale occorre

“garantire, ai livelli appropriati, lo sviluppo dei diritti sociali dei lavoratori della Comunità europea, in particolare dei lavoratori subordinati e di quelli autonomi” mediante iniziative di competenza di volta in volta della stessa comunità o dei singoli Stati membri con il necessario coinvolgimento delle parti sociali. In dottrina v. M. DE LUCA, Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali: profili problematici e prospettive, in Foro it., 1990, V, 129; C. LA MACCHIA, La Carta comunitaria dei diritti sociali, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1990, 769.

[15] Reminiscenze dell’impostazione originaria del Trattato di Roma relativamente alla posizione subalterna dei diritti sociali rispetto alle logiche del mercato sono comunque rinvenibili nell’art.151, par.3 del TFUE che esprime l’idea che il raggiungimento degli obiettivi sociali di cui al par.1 sarà il risultato del funzionamento del mercato interno che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi sociali oltre che delle procedure previste dai Trattati e del ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative. 

[16] A. CIANCIO, Alle origini dell’interesse dell’Unione europea per i diritti sociali, in Federalismi.it., 14 settembre 2018, p.22 osserva, però, che per quanto concerne il riferimento contenuto nel Trattato alla Carta sociale europea si registra un regresso rispetto all’Atto unico europeo del 1986 che invece richiamava questo documento nel Preambolo parificandolo, quanto ad importanza, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo in termini di affermazione dei principi di libertà, uguaglianza e giustizia sociale. Secondo l’A., “ciò renderebbe problematico il pieno accoglimento da parte dell’UE (anche) della Carta sociale, che non appare – sotto il profilo delle garanzie accordate – del tutto sovrapponibile alla Carta europea dei diritti fondamentali e, pertanto, non riassorbibile da essa per ciò che concerne la tutela dei diritti sociali”. La stessa A. ricorda, tra l’altro, la “sonora battuta d’arresto” che la Corte di giustizia europea (CGUE, Parere 2/13 del 18 dicembre 2014), ha inflitto al processo di adesione dell’Unione alla CEDU ex art.6 TUE. Sulla questione, v. i riferimenti bibliografici citati nello scritto de quo alla nota 13.

[17] S. GIUBBONI, I diritti sociali nell’Unione europea, cit., p.39, nota 16, definisce la possibilità espressa nell’art.153 TFUE come “norma passerella”. I settori per i quali è prevista tale possibilità sono la protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro, la rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori, le condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio dell’Unione (rispettivamente lett. d), f) e g) dell’art.153).

[18] S. GIUBBONI, I diritti sociali nell’Unione europea, cit., p.37.

[19] D. RUSSO, L’armonizzazione della politica sociale attraverso prescrizioni minime internazionali ed europee, in Rivista di diritto internazionale, n. 3/2012, p.777.

[20] D. RUSSO, Ibidem, p.778. L’A. evidenzia altresì che “l’efficacia delle clausole di salvaguardia in materia sociale è (…) strettamente subordinata ad una considerazione delle finalità perseguite dall’azione dell’Unione, cosicché le misure nazionali più protettive risultano ammissibili solo se sono con esse compatibili” e che dalla giurisprudenza della CGUE emerge come “la legittimità delle misure nazionali più garantiste e «collegate» alla disciplina della direttiva sia generalmente subordinata (…) non soltanto alla verifica della piena realizzazione degli obiettivi stabiliti dalle direttive, ma anche al rispetto del principio di non discriminazione e delle libertà fondamentali garantite dai Trattati”. Da qui la necessità di “un bilanciamento tra le istanze di protezione sociale e altri interessi in ipotesi confliggenti sanciti dal diritto primario” che la Corte effettua “principalmente alla luce della scala di valori e priorità risultanti dall’ordinamento dell’Unione”.

[21] R. BALDUZZI, Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto e Europa della politica, in Federalismi.it., Numero speciale n.4/2018, I diritti sociali tra ordinamento statale e ordinamento europeo, P. BILANCIA (a cura di), p.245, diversamente da quanto sostenuto dalla dottrina dominante secondo la quale la costruzione europea avrebbe trascurato nella sua genesi e nei primi suoi sviluppi la dimensione sociale rispetto allo spazio dedicato al libero mercato, afferma che “la c.d. clausola sociale orizzontale dell’art. 9 TFUE , insieme ad altre disposizioni del diritto eurounitario primario, costituiscono uno svolgimento, e non un’alterazione, delle premesse sulle quali la costruzione europea era stata pensata e proposta” e che anzi sussisterebbe una sovrapposizione “biunivoca tra sviluppo economicamente sostenibile e rafforzamento della dimensione sociale”, che, “lungi dall’essere un abbaglio dei padri fondatori, costituisce un postulato indefettibile anche oggi, a maggior ragione a seguito dell’impatto della crisi economico-finanziaria che ha preso avvio nel 2007-2008”.

[22] Cfr. Comunicazione della Commissione Europea al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Verso un atto per il mercato unico. Per un’economia sociale di mercato altamente competitiva, COM (2010) 608 definitivo, del 27 ottobre 2010, che contiene 50 proposte avanzate dall’allora Commissione Barroso per una strategia di rilancio del Mercato unico europeo. Per quanto qui interessa, la Comunicazione nel richiamarsi alle indicazioni formulate da Mario Monti nel Rapporto al Presidente Barroso datato 9 maggio 2010 “Una nuova strategia per il mercato unico al servizio dell’economia e della società europea”, sottolineava che “Occorre rimettere i cittadini europei al cuore di questo grande mercato e tornare ad un'economia sociale di mercato altamente competitiva” e che “Una nuova ambizione mirerà a porre mercati efficaci al servizio della creatività e del dinamismo delle imprese europee e, nel contempo, a riconciliare i cittadini europei con il loro mercato unico”. La strategia era dunque quella di “rafforzare l’economia sociale di mercato riposizionando le imprese e i cittadini europei al centro del mercato unico, per ritrovare la fiducia; elaborare politiche di mercato al servizio di una crescita sostenibile ed equa; predisporre gli strumenti per un’adeguata governance, il dialogo, il partenariato e la valutazione”.

[23] Così si esprime il Comitato economico e sociale europeo nel parere del 26 ottobre 2011 reso sul tema «Rafforzare la coesione e il coordinamento dell'UE in campo sociale grazie alla nuova clausola sociale orizzontale di cui all'articolo 9 del TFUE». La riflessione del CESE è ancora oggi attuale, in tempi di “sovranismo” imperante quando le spinte disgregatrici che provengono da alcuni paesi dell’UE, Italia compresa, si fanno di giorno in giorno più forti.

[24] S. GIUBBONI, I diritti sociali nell’Unione europea, cit., p.41.

[25] Cfr. M. CARTABIA, I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona: verso nuovi equilibri?, in Giorn. dir. amm., 2010, 222: “la Carta dei diritti, tuttavia, rimane un documento a sé stante, non viene ricompresa formalmente nei trattati istitutivi, preservando una sua autonomia. Questa scelta si spiega bene con lo spirito di Lisbona: evitare ogni simbolo di natura costituzionale, per non incorrere in un secondo fallimento, senza però retrocedere sostanzialmente dagli obiettivi perseguiti nella stagione ‘‘costituzionale’’. In base al nuovo art. 6 il valore giuridico della Carta è assicurato. D’altra parte, essa rimane ‘‘esterna’’ ai trattati, affinché questi non assumano una veste troppo spiccatamente costituzionale”.

Vastissima la letteratura fiorita intorno alla Carta. Tra i tanti contributi che hanno sottolineato come la Carta abbia rappresentato il picco più alto raggiunto nel processo di costituzionalizzazione dei diritti sociali fondamentali v. oltre a M. CARTABIA, I diritti fondamentali cit., F. SORRENTINO, I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona (considerazioni preliminari), in Corriere giuridico, n. 2/2010, pp. 145 ss.; e, tra i lavoristi, G. BRONZINI, La Carta di Nizza dopo Lisbona: quale ordine “costituzionale” per la protezione multilivello dei diritti fondamentali?, in E. FALLETTI, V. PICCONE (a cura di), L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, Aracne Editore , Roma, 2010, pp. 35 ss.; A. ALAIMO, B. CARUSO, Dopo la politica i diritti: l’Europa “sociale” nel Trattato di Lisbona, Working Paper C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, INT.-82/2010,p.18 e ss. Per un commento agli articoli della Carta, v. R. MASTROIANNI, S. ALLEGREZZA, O. RAZZOLINI (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, Giuffrè, 2017.

[26] Così G. RICCI, La costruzione giuridica, cit. p.10.

[27] Per una rassegna ragionata delle sentenze della Corte Costituzionale dal 2002 al 2017 v. R. NEVOLA (a cura di), La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’interpretazione delle sue clausole finali
nella giurisprudenza costituzionale, Servizio Studi della Corte Costituzionale, Giugno 2017; più di recente v. V.SCIARABBA, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Corte Costituzionale, in Consulta online.it , n.3/2019 consultabile su https://www.sipotra.it/wp-content/uploads/2019/10/La-Carta-dei-diritti-fondamentali-dell%E2%80%99Unione-europea-e-la-Corte-costituzionale.pdf

[28] Si tratta dell’ormai celebre Laval quartet e precisamente delle sentenze della Corte di giustizia del 18 dicembre 2007, C-341/05, Laval; dell’11 dicembre 2007, C- 438/05, Viking; del 3 aprile 2008, C-346/06, Ruffert e del 19 giugno 2008, C-319/06, Commissione c. Lussemburgo. La dottrina formatasi sulle citate sentenze è vastissima: per le principali indicazioni bibliografiche si rinvia a M. FORLIVESI, Le clausole sociali negli appalti pubblici, cit., p.34, nota 106.

[29] B. CARUSO, Costituzioni e diritti sociali: lo stato dell’arte, in B. CARUSO, M.G. MILITELLO (a cura di), I diritti sociali tra ordinamento comunitario e Costituzione italiana:
il contributo della giurisprudenza multilivello, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”- Collective Volumes - 1/2011, p.17 e la dottrina ivi citata.

[30] Occorre infatti ricordare che ai sensi dell’art.52.1 della Carta le limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà previsti nella Carta stessa devono rispettare il principio di proporzionalità e risultano legittime “solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Di conseguenza il conflitto tra diritti e libertà sanciti nella Carta si risolve in un bilanciamento dettato dalla ragionevolezza del caso concreto alla luce del “principio di proporzionalità” che consente che un diritto possa essere soddisfatto solo mediante la limitazione di un altro diritto e solo nei limiti nei quali ciò sia strettamente necessario per conseguire il fine concreto.  

[31] B. CARUSO, ibidem, p.18.

[32] Com’è noto, “per “controlimiti” si intendono quei principi supremi e diritti fondamentali che, connaturati all’ordinamento costituzionale dello Stato, segnano il confine oltre il quale non è ammesso alcun sacrificio del patrimonio costituzionale”. Essi “trovano la propria ragion d’essere nella Costituzione stessa, ove, all’art. 11 Cost., consente quelle «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»”(v. G.PISTORIO, I controlimiti nella giurisprudenza costituzionale, Il libro dell’anno del diritto 2018 (2018) in http://www.treccani.it/. Di fronte a questi principi supremi e diritti fondamentali connaturati alla sovranità statale, il diritto dell’Unione europea cede il passo al diritto interno determinando una disapplicazione a contrario della norma europea (così G. MAINAS, La teoria dei controlimiti: una elaborazione dottrinale con molti dubbi, in Riv. Camminodirit., 4/2017). La teoria si è riaffacciata prepotentemente alla ribalta all’indomani del c.d. caso Taricco. Il caso aveva tratto origine dalla sentenza CGUE, Grande Sezione, 8.9.2015, C105/14, Taricco, che ha dettato l’obbligo, per il giudice nazionale, di disapplicare la normativa interna (artt.160 u.co. e 161, 2.co., c.p. in materia di atti interruttivi della prescrizione) tutte le volte in cui questi avesse ritenuto che essa, fissando un limite massimo al corso della prescrizione, impedisca allo Stato italiano di adempiere agli obblighi di effettiva tutela degli interessi finanziari dell’Unione, imposti dall’art. 325 del TFUE, nei casi di frodi tributarie di rilevante entità altrimenti non punite in un numero considerevole di casi. La vicenda giudiziaria, incentrata sul fatto che la prescrizione è in Italia un istituto di carattere sostanziale governato dal principio di legalità che costituisce un principio supremo dell’ordinamento italiano, è emblematica del rapporto complicato tra le due Corti (Corte di giustizia UE e Corte Costituzionale), non sempre improntato al “dialogo” come modalità di attuazione del sistema di tutela multilivello dei diritti, e si è sviluppata attraverso ben tre rinvii pregiudiziali della Corte Costituzionale, sull’ultimo dei quali (Corte Cost., Ordinanza 26 gennaio 2017, n.24) si è pronunciata la Corte di giustizia Ue con una nuova sentenza della Grande Sezione datata 5 dicembre 2017 (detta Taricco II o M.A.S. sulla quale v. T.FENUCCI, A proposito della Corte di Giustizia UE e dei c.d.controlimiti:i casi Melloni e Taricco a confronto, in FSJ, n. 1/2018, pp.95-110 http://www.fsjeurostudies.eu/files/FSJ.2018.I.Fenucci.6.pdf che esamina la diversa conclusione cui è giunta la Corte di giustizia UE nel caso Taricco rispetto ad un altro caso altrettanto famoso oggetto della pronuncia 26 febbraio 2013, causa C-399/11, Melloni, nella quale la CGUE ha affermato con decisione la prevalenza del diritto UE sul diritto interno asserendo che la tutela dei diritti fondamentali prevista dalle Costituzioni degli Stati membri non può mai compromettere “il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione” ). Infine, la “saga” si è conclusa con la sentenza della Corte Costituzionale 10 aprile 2018, n.115 che , nel giudizio di legittimità instaurato con ordinanze della Terza Sezione penale della Corte di Cassazione e della Seconda Sezione penale della Corte d’Appello di Milano, ha dichiarato infondate le questioni di legittimità dell’art.2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007) sollevate dai giudici remittenti in riferimento agli artt.3,11,24,25, secondo comma, 27, terzo comma e 101, secondo comma della Costituzione. Per una ricostruzione sistematica della vicenda giudiziaria v., in particolare, C.CUPELLI, La Corte costituzionale chiude il caso Taricco e apre a un diritto penale europeo ‘certo’, in Diritto penale contemporaneo,n.6/2018, pp227-237.Per i commenti, ormai innumerevoli,  sia sull’ordinanza n.24/2017 che sulla sentenza n.115/2018 si rinvia, tra i tanti, a quelli pubblicati sulla rivista Consulta onLine consultabili rispettivamente su http://www.giurcost.org/decisioni/2017/0024o-17.html e su http://www.giurcost.org/decisioni/2018/0115s-18.html.   Si segnala, infine, come la sentenza di chiusura del caso Taricco si ponga in continuità con quanto deciso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.269/2017 (seguita dalle sentenze n.20/2019, n.63/2019, n.112/2019 e dall’ordinanza n. 117/2019), nella quale la Corte ha affermato la propria esclusiva competenza a sindacare i casi di “doppia pregiudizialità” e cioè i casi in cui “la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione” e per i quali si rende necessario un intervento erga omnes da parte della Corte “anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale”. Per approfondimenti sul tema v. il recente scritto di F. SALMONI, Controlimiti, diritti con lo stesso nomen e ruolo accentrato della Consulta. L’integrazione del parametro con le fonti europee di diritto derivato e il sindacato sulla 'conformità' alla Costituzione e la mera 'compatibilità' con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in Federalismi.it, n.8/2019 con ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.

[33] B. CARUSO, ibidem, p.21.

[34] Comunicazione della Commissione, Strategia per un'attuazione effettiva della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Bruxelles, 19.10.2010, COM(2010) 573, definitivo. Nel testo si afferma che “È necessario promuovere una "cultura dei diritti fondamentali" a ogni stadio della procedura, dalle prime fasi di ideazione della proposta presso i servizi della Commissione fino alla valutazione d'impatto e al controllo della legalità del testo definitivo di un progetto di atto”, una cultura indispensabile per valutare la necessità e la proporzionalità delle proposte, nel rispetto di quanto previsto dall’art.52.1 della Carta che consente limitazioni a tali diritti solo “laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Il controllo sulla compatibilità degli atti con la Carta è, d’altronde, necessario non solo nella fase propedeutica di formulazione delle proposte ma anche durante tutto il corso dell’iter legislativo come segnala il Consiglio d’Europa che nel Programma di Stoccolma, Un'Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini, (in Gazzetta Ufficiale C 115 del 4.05.2010), invita “le istituzioni dell'Unione e gli Stati membri a far sì che le iniziative giuridiche siano e restino coerenti con i diritti fondamentali e le libertà fondamentali nell'intero corso del processo legislativo potenziando l'applicazione della metodologia in modo da consentire un controllo sistematico e rigoroso della conformità con la Convenzione europea e con i diritti e le libertà sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali”.

[35] Il principio di stampo anglosassone della rule of law, non perfettamente equivalente al nostro stato di diritto (v. a riguardo, C.MARTINELLI, Brevi riflessioni sulla rule of law nella tradizione costituzionale del Regno Unito, in www.diritticomparati.it,  5 giugno 2017) costituisce, come si è detto, la “pietra angolare” sulla quale si poggiano tutti gli altri valori (Così C. CURTI GIALDINO, La Commissione europea dinanzi alla crisi costituzionale polacca: considerazioni sulla tutela
dello stato di diritto nell’Unione, in Federalismi.it, n.12/2016). Il contenuto dello stato di diritto è stato enucleato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea e della Corte EDU, oltre che dai documenti del Consiglio d’Europa, in particolare della Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (c.d. Commissione Venezia) che con il Rule of Law Checklist, adottato il 12 marzo 2016, ha inteso definire una serie di parametri per la valutazione del rispetto dello Stato di diritto in uno Stato. Nella checklist i  parametri per valutare il rispetto dello Stato di diritto sono riferiti a 6 aree, al loro interno suddivise in varie sezioni: 1) legalità, incluso un processo trasparente, democratico e responsabile per l’applicazione della legge; 2) certezza giuridica; 3) divieto di arbitrarietà; 4) diritto di accesso alla giustizia davanti a corti imparziali, inclusa la possibilità di revisione giudiziaria di atti amministrativi; 5) rispetto per i diritti umani; 6) non discriminazione e uguaglianza davanti alla legge.

[36] L’art.19, paragrafo 1 del TUE così recita:

“La Corte di giustizia dell’Unione europea comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati. Assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati.


Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”. 


[37] Il testo dell’art.47 CDFUE, Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale è il seguente:

Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.

Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare.

A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia.

[38] Commissione europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Un nuovo quadro dell'UE per rafforzare lo Stato di diritto, 11 marzo 2014, COM (2014) 158 def. La Comunicazione si propone “di contrastare le minacce future allo Stato di diritto negli Stati membri prima che si verifichino le condizioni per attivare i meccanismi previsti dall'articolo 7 del TUE” precedendo ed integrando i meccanismi previsti dal citato articolo 7 del TUE e senza che sia pregiudicata la possibilità per la Commissione di azionare la procedura di infrazione ex art.258 TFUE, qualora ne ravvisi la necessità. Il nuovo quadro mette a punto una procedura articolata in tre fasi: a) raccolta e analisi delle informazioni da parte della Commissione che valuta se vi sono “chiare indicazioni di una minaccia sistemica allo Stato di diritto”; nel caso in cui queste risultino sussistenti, questa fase può concludersi con un “parere sullo stato di diritto” in cui la Commissione formalizza le proprie preoccupazioni e sollecita lo Stato interessato a replicare; b) in caso di mancata risoluzione del problema, adozione di una “raccomandazione sullo stato di diritto” indirizzata allo Stato membro interessato che viene invitato ad adottare determinate misure entro un termine; c) in caso lo Stato membro non dia seguito “soddisfacente” alla  raccomandazione, possibile attivazione dei meccanismi di cui all’art. 7 TUE. Nel caso che ha riguardato la Polonia, la Commissione, prima di avviare la procedura ex art.7, paragrafo 1, del TUE ha adottato un parere datato 1 giugno 2016, Commission adopts Rule of Law Opinion on the situation in Poland, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_16_2015 e ben quattro raccomandazioni (raccomandazione (UE) 2016/1374; raccomandazione (UE) 2017/146; raccomandazione (UE) 2017/1520; raccomandazione (UE)2018/103), consultabili su

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32018H0103

Si rammenta, infine, che successivamente all’adozione della Comunicazione dell’11 marzo 2014, sono intervenute altre due comunicazioni e, precisamente quella datata 3 aprile 2019 (COM (2019) 163 final, Rafforzare lo Stato di diritto nell'Unione - Il contesto attuale e possibili nuove iniziative e quella del 17 luglio 2019 COM(2019) 343 final, Rafforzare lo Stato di diritto nell'Unione- Programma d'azione) con le quali sono stati illustrati gli attuali strumenti per far rispettare lo stato di diritto all’interno dell’Unione nonché le linee d’azione per rafforzare ulteriormente questi strumenti.

[39] Articolo 258

(ex articolo 226 del TCE)


La Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni.


Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di giustizia dell’Unione europea.

[40] Relativamente alle leggi polacche sul sistema giudiziario, la Commissione ha infatti inoltrato alla Corte di giustizia UE tre ricorsi per inadempimento, su due dei quali la CGUE si è già pronunciata: la prima sentenza è stata emessa il 24 giugno 2019 Commissione/Polonia, causa C-619/18 (Indipendenza della Corte suprema), ECLI:EU:C:2019:531 ed ha avuto ad oggetto la legge dell’8 dicembre 2017 sull’abbassamento dell’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema polacca mentre la seconda sentenza, datata 5 novembre 2019, Commissione/Polonia, causa C-192/18, ECLI:EU:C:2019:924 ha riguardato la legge, adottata il 12 luglio 2017 ed entrata in vigore il 1° ottobre 2017, con la quale è stata modificata l’organizzazione dei tribunali ordinari polacchi stabilendo, tra l’altro, anche per i giudici della magistratura ordinaria (sia inquirente che giudicante)una più bassa e diversa età di pensionamento per i soggetti di sesso femminile e maschile (i.e. rispettivamente 60 e 65 anni), fatta salva la possibilità di proroga, rispetto al pensionamento anticipato, che il Ministro della giustizia avrebbe potuto concedere su istanza dell’interessato. Ad oggi è rimasto pendente un ultimo ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione UE il 25 ottobre 2019, Commissione/Polonia, causa C-791/19
che sottopone alla Corte di giustizia UE la questione relativa alla normativa disciplinare che consente ai giudici polacchi di essere perseguiti sotto il profilo disciplinare sulla base del contenuto delle loro decisioni giudiziarie spingendosi a sindacare anche l’esercizio del loro diritto a norma dell’art.267 del TFUE di richiedere un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE. Nell’ambito di quest’ultima causa pendente, la Corte di Giustizia ha, con ordinanza dell’8 aprile 2020, imposto alla Polonia, su richiesta della Commissione, di sospendere l’applicazione delle disposizioni nazionali che concernono i poteri della Camera disciplinare della Corte suprema in merito alle azioni disciplinari riguardanti i giudici, in attesa della definizione del giudizio.

  1. a riguardo il comunicato stampa n.47/20 disponibile su https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-04/cp200047fr.pdf . Si segnala, infine, che, perseguendo nella propria opera di repressione della magistratura, il governo polacco ha fatto approvare dal Parlamento il 23 gennaio di quest’anno una nuova legge sull’ordinamento giudiziario (Amendments to the Act on the System of Common Courts, the Act on the Supreme Court, the Act on the National Council of the Judiciary and Certain other Acts) già ribattezzata dalla prima Presidente della Corte Suprema Małgorzata Gersdorf, muzzle law (legge museruola) che persegue lo scopo di sottoporre la magistratura al controllo del governo abolendone di fatto l’indipendenza dal potere politico.

Nonostante il parere negativo emesso d’urgenza dalla Commissione di Venezia il 17 gennaio 2020, la legge è entrata definitivamente in vigore dopo la firma del Capo dello Stato avvenuta il 4 febbraio 2020. Sull’argomento v. S. GIANELLO, La nuova legge polacca sul sistema giudiziario: cresce (ulteriormente) la distanza che separa Varsavia e Bruxelles , in Federalismi.it, n.8/2020, p.116 e ss. Nei casi già decisi, la Commissione ha ottenuto il riconoscimento delle proprie ragioni anche se, per quanto attiene il ricorso deciso con la sentenza del 24 giugno 2019, la Corte di giustizia ha ridotto la portata della causa ritenendo inapplicabile la disciplina dell’art.47 della CDFUE, stante il disposto dell’art.51 della stessa CDFUE che limita l’ambito di applicazione delle norme della Carta alla competenza dell’Unione europea ed ha dichiarato conseguentemente che “La Repubblica di Polonia, prevedendo, da un lato, l’applicazione della misura consistente nell’abbassare l’età per il pensionamento dei giudici presso il Sąd Najwyższy (Corte Suprema) ai giudici in carica nominati prima del 3 aprile 2018, e attribuendo, dall’altro, al Presidente della Repubblica il potere discrezionale di prorogare la funzione giudiziaria attiva dei giudici di tale organo giurisdizionale oltre l’età per il pensionamento di nuova fissazione, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE.

Con la sentenza del 5 novembre 2019, la Corte accogliendo integralmente il ricorso della Commissione, ha statuito che:

“1)      La Repubblica di Polonia, introducendo, all’articolo 13, punti da 1 a 3, dell’ustawa o zmianie ustawy – Prawo o ustroju sądów powszechnych oraz niektórych innych ustaw (legge recante modifica della legge sull’organizzazione dei tribunali ordinari e di talune altre leggi), del 12 luglio 2017, un’età per il pensionamento differente per le donne e per gli uomini appartenenti alla magistratura giudicante dei tribunali ordinari polacchi e del Sąd Najwyższy (Corte suprema, Polonia) o alla magistratura del pubblico ministero polacco, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 157 TFUE nonché degli articoli 5, lettera a), e 9, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.

2)      La Repubblica di Polonia, conferendo al Ministro della Giustizia (Polonia), ai sensi dell’articolo 1, punto 26, lettere b) e c), della legge recante modifica della legge sull’organizzazione dei tribunali ordinari e di talune altre leggi, del 12 luglio 2017, il potere di autorizzare o meno la proroga dell’esercizio delle funzioni dei magistrati giudicanti dei tribunali ordinari polacchi al di là della nuova età per il pensionamento dei suddetti magistrati, quale abbassata dall’articolo 13, punto 1, della medesima legge, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE”.

Per i commenti alle citate sentenze della CGUE, v. M. CARTA, La recente giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in merito all’inadempimento agli obblighi previsti dagli articoli 2 e 19 TUE: evolutionary or revolutionary road per la tutela dello Stato di diritto nell’Unione europea?,  in rivista.eurojus.it, n.1/2020; E.CIMADOR, La Corte di giustizia conferma il potenziale della procedura d’infrazione ai fini di tutela della rule of law. Brevi riflessioni a margine della sentenza Commissione/Polonia (organizzazione tribunali ordinari), ibidem, pp.60 e ss. Entrambi gli scritti sono corredati da annotazioni dottrinarie e giurisprudenziali cui si rinvia anche in merito al diverso rilievo che hanno assunto nel caso Polonia i due diversi strumenti a disposizione dell’Unione per la tutela dello stato di diritto e cioè, la procedura di infrazione e il rinvio pregiudiziale.

Per completezza di trattazione, si ricorda che dopo la Polonia anche l’Ungheria è stata fatta oggetto di una proposta di attivazione della procedura di cui all’art.7, paragrafo 1, del TUE da parte del Parlamento europeo che in data 12 settembre 2018 ha votato una “Risoluzione su una proposta recante l'invito al Consiglio a constatare, a norma dell'articolo 7, paragrafo 1, del trattato sull'Unione europea, l'esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte dell'Ungheria dei valori su cui si fonda l’Unione”.

https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2018-0340_IT.pdf?redirect

In allegato alla risoluzione il Parlamento europeo ha illustrato “i fatti e le tendenze” riferiti a principi e diritti fondamentali della persona che rappresentano, ad avviso dell’istituzione proponente, “una minaccia sistemica per i valori di cui all'articolo 2 TUE e un evidente rischio di violazione grave dei suddetti valori” tale da giustificare l’intervento del Consiglio a norma del citato art.7, paragrafo1, del TUE. Così come avvenuto nella vicenda polacca, anche in questo caso il procedimento si è arenato allo stadio di audizione dello Stato interessato davanti al Consiglio. Per riflessioni in merito ad alcuni specifici profili giuridici della vicenda si veda C. CURTI GIALDINO, Il Parlamento europeo attiva l’art.7, par.1 TUE nei confronti dell’Ungheria: quando, per tutelare lo “Stato di diritto”, si viola la regola di diritto, in Federalismi.it, n.18/2018.

[41] L’espressione è stata pronunciata dall’allora Presidente della Commissione europea Josè Manuel Durao Barroso nel discorso annuale sullo stato dell’Unione pronunciato dinanzi al Parlamento europeo nel settembre 2012, nel quale si sottolineava che attuare una vera Unione politica in Europa “significa anche consolidare le basi dell'Unione europea, ossia il rispetto dei nostri valori fondamentali, dello Stato di diritto e della democrazia” e che a fronte delle minacce al tessuto giuridico e democratico di alcuni paesi europei che avevano evidenziato i limiti delle stesse istituzioni europee, occorreva superare “la dicotomia tra il "potere leggero" della persuasione politica e l'"opzione nucleare" dell'articolo 7 del trattato”. Il testo del discorso è consultabile su

https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/SPEECH_12_596

[42] Il riferimento va al c.d. caso Haider, leader austriaco del partito di estrema destra, ultranazionalista e xenofobo FPÖ (Partito austriaco delle libertà) che, nel corso della campagna elettorale del 1999 e prima della partecipazione del suo partito al governo presieduto da Wolfgang Schüssel, si era distinto per aver pronunciato discorsi improntati ad ideologie ultranazionaliste e xenofobe. In quel frangente, la presidenza (portoghese) di turno del Consiglio preannunciò in data 31 gennaio 2000 a nome dei quattordici paesi allora membri dell’UE l’adozione di una serie di misure di ordine essenzialmente politico e diplomatico cui sarebbe andata incontro l’Austria nel caso in cui si fosse formato un governo di coalizione con il partito di Haider. Si trattava di un’iniziativa senza precedenti intrapresa al di fuori della procedura istituzionalmente prevista dai trattati per la violazione dei valori fondanti dell’Unione e che arrivata quasi al punto di rottura, si risolse in seguito al rapporto dei tre saggi nominati dal Consiglio (l’ex presidente finlandese Martti Ahtisaari, l’ex ministro degli esteri spagnolo Marcelino Ortega e l’esperto di diritto internazionale Jochen Frowein) che concluse la vicenda sancendo che l’Austria non aveva violato i valori europei e che il governo austriaco, pur in presenza di una formazione (FPOE) definita “partito populista di destra con elementi radicali”, era impegnato a perseguire una politica di lotta contro il razzismo, l’antisemitismo, la discriminazione e la xenofobia. Di conseguenza, dovevano essere revocate, così come avvenne il 12 settembre 2000, le sanzioni contro l’Austria anche per evitare effetti controproducenti da parte dell’opinione pubblica nei confronti dell’UE. Il rapporto dei tre saggi suggeriva, inoltre, di formalizzare una procedura di allarme preventivo poi recepita prima nel Trattato di Nizza e, successivamente, nel Trattato di Lisbona che ha eliminato l’eventuale richiesta a personalità indipendenti di un rapporto sulla situazione dello Stato membro prima che il Consiglio proceda alla constatazione dell’esistenza dell’evidente rischio di violazione grave dei valori dell’Unione. Per la letteratura sull’argomento, v, tra i tanti, L. S. ROSSI, Osservazioni sul “caso Haider”, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2000, p. 75 ss.; ID., La “reazione comune” degli Stati membri dell’Unione europea nel caso Haider, in Rivista di diritto internazionale, 2000, p. 151 ss.; B.NASCIMBENE, Lo Stato di diritto e la violazione grave degli obblighi posti dal Trattato UE, in rivista.eurojus.it, n.4/2017 http://rivista.eurojus.it/lo-stato-di-diritto-e-la-violazione-grave-degli-obblighi-posti-dal-trattato-ue/

[43] Di seguito il testo dell’art.7 TUE:

 Articolo 7 
(ex articolo 7 del TUE) 


  1. Su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2. Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura. II Consiglio verifica regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale constatazione per- mangono validi. 

  2. Il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro 
dei valori di cui all’articolo 2, dopo aver invitato tale Stato membro a presentare osservazioni.
  3. Qualora sia stata effettuata la constatazione di cui al paragrafo2, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell’agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche. 
Lo Stato membro in questione continua in ogni caso ad essere vincolato dagli obblighi 
che gli derivano dai trattati. 


Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può successivamente decidere di modificare o revocare le misure adottate a norma del paragrafo 3, per rispondere ai cambiamenti nella situazione che ha portato alla loro imposizione. 


  1. Le modalità di voto che, ai fini del presente articolo, si applicano al Parlamento europeo, 
al Consiglio europeo e al Consiglio sono stabilite nell’articolo 354 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. 


[44] Articolo 354 TFUE

(ex articolo 309 del TCE)


Ai fini dell’articolo 7 del trattato sull’Unione europea relativo alla sospensione di taluni diritti derivanti dall’appartenenza all’Unione, il membro del Consiglio europeo o del Consiglio che rappresenta lo Stato membro in questione non partecipa al voto e nel calcolo del terzo o dei quattro quinti degli Stati membri di cui ai paragrafi 1 e 2 di detto articolo non si tiene conto dello Stato membro in questione. L’astensione di membri presenti o rappresentati non osta all’adozione delle decisioni di cui al paragrafo 2 di detto articolo.


Per l’adozione delle decisioni di cui all’articolo 7, paragrafi 3 e 4 del trattato sull’Unione europea, per maggioranza qualificata s’intende quella definita conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del presente trattato.


Qualora, a seguito di una decisione di sospensione dei diritti di voto adottata a norma del- l’articolo 7, paragrafo 3 del trattato sull’Unione europea, il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata sulla base di una delle disposizioni dei trattati, per maggioranza qualificata s’intende quella definita conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del presente trattato o, qualora il Consiglio agisca su proposta della Commissione o dell’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, quella definita conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera a).

Ai fini dell’articolo 7 del trattato sull’Unione europea, il Parlamento europeo delibera alla maggioranza dei due terzi dei voti espressi, che rappresenta la maggioranza dei membri che lo compongono.

[45] Ai sensi dell’art.238, paragrafo 3, lettera b) del TFUE, richiamato dell’art.354, comma 2 del TFUE, per maggioranza qualificata “si intende almeno il 72% dei membri del Consiglio rappresentanti gli Stati membri partecipanti, che totalizzino almeno il 65% della popolazione di tali Stati”.

[46] Giova rammentare a tale proposito, come nel tentativo azionato dalla Commissione europea nei confronti della Polonia ai sensi dell’art.7, par.1 TUE, la Polonia avesse ricevuto il pieno sostegno dei paesi di Visegrád e, in particolare, dell’Ungheria che si era impegnata a bloccare il procedimento.

[47] In questo senso v. C. CURTI GIALDINO, La Commissione europea dinanzi alla crisi costituzionale polacca, cit. p.7.

[48] O.DE SCHUTTER, L’attuazione della Carta dei diritti fondamentali nel quadro istituzionale dell’Unione europea, 2016 consultabile su https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2016/571397/IPOL_STU(2016)571397_IT.pdf

[49] Punto 1.5.4. A tale proposito, si fa l’esempio della sentenza della Corte EDU del 26 giugno 2016, causa Taddeucci e McCall/Italia, secondo la quale costituisce violazione dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l’articolo 8 (diritto alla vita privata e familiare) il diniego del permesso di soggiorno per motivi familiari al partner omosessuale extracomunitario determinato dalle norme dello Stato italiano in materia di ricongiungimento familiare che riservavano il termine “coniuge” al partner di sesso opposto che avesse contratto matrimonio con il soggiornante che ha chiesto il ricongiungimento nello Stato ospitante. La discriminazione, secondo i giudici europei, si realizzava nel fatto che le coppie more uxorio omosessuali, diversamente da quelle eterosessuali, non potendo accedere al matrimonio né a qualsiasi altra forma di riconoscimento della loro unione ad esso equiparabile, mai avrebbero potuto rientrare nella nozione di «familiare» in base alla legge italiana allora vigente. La «nozione restrittiva della nozione di “famiglia” costituisce, soltanto per le coppie di fatto omosessuali, un ostacolo insormontabile per sperare di ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari e per veder tutelato il proprio diritto alla vita privata e familiare».

La legge n. 76 del 2016 (c.d. Legge Cirinnà) mira a superare questo tipo di situazione, specialmente nel caso di una coppia sposata all’estero, prevedendo all’art. 1, comma 28, lettera b) la delega per la modifica e il riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato al fine di consentire l’automatica trascrizione dei matrimoni omosessuali contratti all’estero come unione civile, delega poi esercitata con D.lgs. n.7 del 19 gennaio 2017.A giudizio dell’autore dello studio, la pronuncia è necessariamente destinata ad influire sull’applicazione della Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, così come sulla direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 3003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare che all’art.4, par.1,lett.a) prevede il diritto del “coniuge” al ricongiungimento familiare.

[50] Per i commenti al parere si rinvia alle indicazioni bibliografiche dello scritto di A. CIANCIO, Alle origini dell’interesse dell’Unione europea, cit., p.22,  nota 13. Occorre ricordare che già in precedenza la Corte di giustizia UE si era espressa negativamente sulla compatibilità dell’adesione della UE alla CEDU (v. Parere n.2/94 del 28.03.2006). In quel caso, la decisione negativa della Corte era stata motivata dal fatto che, a quel momento, la Comunità non aveva competenza per aderire alla Convenzione non essendoci alcuna previsione in tal senso nel Trattato che avrebbe, quindi, dovuto essere modificato. Il Trattato di Lisbona ha quindi colmato la lacuna evidenziata nel parere introducendo appositamente la disposizione di cui all’art.6, paragrafo 2, del TUE. È opportuno, inoltre, evidenziare che qualora la CGUE si fosse espressa positivamente sul progetto riveduto di accordo presentato a Strasburgo il 10 giugno 2013, quest’ultimo avrebbe dovuto superare non pochi scogli per entrare in vigore.

Infatti, secondo l’art.218 TFUE, che definisce la procedura per la conclusione di accordi tra l’Unione e i paesi terzi o le organizzazioni internazionali, per l’accordo di adesione alla CEDU è necessario che la decisione di conclusione dell’accordo, da adottarsi all’unanimità dal Consiglio, sia preceduta dall’approvazione del Parlamento europeo e dall’approvazione degli Stati membri resa conformemente alle rispettive norme costituzionali; infine avrebbe dovuto procedersi alla ratifica dell’accordo di tutte le parti contraenti. Per alcune riflessioni sul tema dell’adesione dell’UE alla CEDU, v. A.F. MASIERO, L’adesione dell’Unione europea alla CEDU. Profili penali -Parte prima: prospettive sul futuro sistema di tutela dei diritti fondamentali in Europa, in Diritto Penale Contemporaneo, n.7-8/2017; I. ANDRO’, L’adesione dell’Unione europea alla CEDU. L’evoluzione dei sistemi di tutela dei diritti fondamentali in Europa, Milano, Giuffrè, 2015.

 

[51] Corte di giustizia, Grande Sezione, 26 febbraio 2013, causa C-399/11, ECLI:EU:C:2013:107 su domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunal Constitucional di Spagna nel procedimento penale contro S. Melloni. La sentenza è stata emessa per risolvere il caso del cittadino italiano Stefano Melloni nei confronti del quale il giudice italiano richiedeva alla magistratura spagnola l’esecuzione di un mandato di arresto europeo. Riepilogo brevemente la vicenda. Il Sig. Melloni, residente in Spagna, era stato processato in contumacia in Italia e successivamente era stato condannato per bancarotta fraudolenta alla pena di dieci anni di reclusione. La sentenza era poi divenuta esecutiva ed era stato quindi emesso mandato di cattura europeo. Contro il provvedimento della Audiencia Nacional di Madrid che ordinava la consegna alle autorità italiane per l’esecuzione della sentenza, Melloni proponeva recurso de amparo al Tribunal Constitucional, lamentando la lesione del diritto ad un processo equo garantito dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione spagnola e richiamando l’orientamento espresso dallo stesso Tribunale secondo cui la consegna ad altri Stati di persone condannate in contumacia viola il diritto di difesa riconosciuto dalla Costituzione spagnola, a meno che lo Stato richiedente assicuri una possibilità di revisione della sentenza, a richiesta del condannato. Ciò che nel caso di specie non sarebbe stato possibile visto che l'art. 175 c.p.p. non consente la rimessione in termini di un contumace che, come Melloni, era stato regolarmente informato del processo a proprio carico, e aveva esercitato il proprio diritto di difesa tramite la nomina dei difensori di fiducia. Il Tribunal Constitucional aveva quindi sospeso il processo decidendo di avanzare domanda di rinvio pregiudiziale ex art.267 TUE, alla Corte di giustizia UE su tre questioni. In particolare, il giudice del rinvio chiedeva se l'art. 53 CDFUE ("Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti [...] dalle costituzioni degli Stati membri") consenta allo Stato membro di rifiutare l'esecuzione di un mandato di arresto europeo nei confronti di un condannato contumace nel caso in cui lo Stato richiedente non garantisca in ogni caso la riapertura del processo, e consenta così allo Stato membro di assicurare ai diritti ad un equo processo e ai diritti della difesa di cui agli artt. 47 e 48 CDFUE un livello di protezione più elevato rispetto a quello derivante dal diritto dell’Unione europea.

Ebbene la Corte ha ritenuto che una “tale interpretazione dell’articolo 53 della Carta sarebbe lesiva del principio del primato del diritto dell’Unione, in quanto permetterebbe a uno Stato membro di ostacolare l’applicazione di atti di diritto dell’Unione pienamente conformi alla Carta, sulla base del rilievo che essi non rispetterebbero i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione di tale Stato”. In conclusione, la Spagna non poteva legittimamente rifiutarsi di dare seguito al mandato di cattura europeo opponendo un “controlimite” derivante dal maggior livello di tutela dei diritti ad un processo equo garantito dall’ordinamento spagnolo perché un tale “controlimite” si porrebbe in aperto contrasto con il principio del primato del diritto europeo come interpretato dalla CGUE. La vicenda si è poi conclusa con la pronuncia del Tribunal Constitucional de España del 13 febbraio 2014 che ha respinto il ricorso di amparo del Melloni. Modificando la propria precedente giurisprudenza, il giudice costituzionale spagnolo ha infatti riconosciuto che l’estensione della tutela del diritto ad un equo processo garantito dall’art.24 della Costituzione spagnola può non comprendere tutte le garanzie previste all’interno della giurisdizione spagnola e limitarsi ad un nucleo essenziale il contenuto del quale deve essere definito in conformità ai trattati di diritto internazionale in materia di diritti umani e, in particolare della CEDU e CDFUE come interpretate dalle rispettive Corti EDU e CGUE. In definitiva, nel caso di specie la sentenza ha stabilito che “non viola il contenuto assoluto del diritto a un processo equo (art. 24.2 CE) l’imposizione di una condanna in assenza, quando nell’atto di giudizio consti che sia stata decisa in modo volontario ed inequivocabile da un imputato citato e difeso effettivamente da un avvocato da lui designato a tal fine”.

Sulla sentenza Melloni v. ex multis, S. MANACORDA, Dalle carte dei diritti a un diritto penale a la carte, in Diritto Penale Contemporaneo, n.3/2013;G.DE AMICIS, All’incrocio tra diritti fondamentali, mandato d’arresto europeo e decisioni contumaciali: la Corte di Giustizia e il caso Melloni, ibidem, 7 giugno 2013; C.AMALFITANO, Mandato d’arresto europeo: reciproco riconoscimento vs. diritti fondamentali?, ibidem, 4 luglio 2013; L.RIZZA, Il caso Melloni: la Corte di Giustizia risponde con il primato dell’Unione alle pretestuose preoccupazioni dei giudici nazionali. Riconoscimento delle decisioni giudiziarie rese a seguito di procedimenti in absentia, in I quaderni  europei, n.53, giugno 2013. http://www.cde.unict.it/sites/default/files/Quaderno%20europeo_53_giugno_2013.pdf

[52] Così L.S. ROSSI, Il parere 2/2013 della CGUE sull’adesione dell’UE alla CEDU: scontro fra Corti?, in http://www.sidiblog.org/2014/12/22/il-parere-213-della-cgue-sulladesione-dellue-alla-cedu-scontro-fra-corti/

[53] I. ANRO’, Il parere 2/13 della Corte di giustizia sull’adesione dell’Unione europea alla CEDU: questo matrimonio non s’ha da fare? 2 febbraio 2015 in http://www.diritticomparati.it/il-parere-213-della-corte-di-giustizia-sulladesione-dellunione-europea-alla-cedu-questo-matrimonio-n/

[54] L.S. ROSSI, Il parere 2/2013 della CGUE, cit.

[55] Di ibridazione tra i due sistemi giurisdizionali, quello governato dalla Corte di giustizia UE e quello che fa capo alla Corte EDU, parla G. BUONOMO, Per l’ibridazione delle corti europee, in Diritto Pubblico Europeo- Rassegna on line, n. 1/2017, https://doi.org/10.6092/2421-0528/6434 che, a conclusione del suo scritto, ricchissimo di riferimenti dottrinari e giurisprudenziali ed al quale si rinvia per gli approfondimenti sull’argomento de quo, propone per risolvere le antinomie riscontrate tra i due sistemi, di unificarli partendo dal profilo soggettivo in maniera tale che la Corte di giustizia UE diventi, modificandone la composizione, “una vera e propria sezione "territoriale" della Corte di Strasburgo” attraverso la coincidenza di alcuni dei suoi membri. È opinione dell’A. che “Se si addiviene ad una composizione della Corte di Lussemburgo, coincidente con quella dei giudici nazionali dei paesi Ue che compongono la Corte di Strasburgo, si affronta il problema dal lato dell’Unione, con tutti i vantaggi collaterali che da questa “fusione giurisdizionale” conseguono. In definitiva, la “protezione equivalente” dei diritti umani, a Lussemburgo come a Strasburgo, passa soprattutto per la “comunitarizzazione” della Convenzione”.

[56] Una delle censure mosse dalla Corte UE al progetto di accordo è stata rivolta proprio nei confronti della possibilità, introdotta dal Protocollo n.16 alla CEDU, che le più alte giurisdizioni degli Stati membri chiedano alla Corte EDU un parere consultivo su questioni di principio relative all’interpretazione o applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli, una possibilità, questa, ritenuta in contrasto con il procedimento di rinvio pregiudiziale alla Corte UE ex art.267 TFUE da parte degli stessi giudici. La preoccupazione di creare una sorte di “forum shopping” (l’espressione è di I. ANRO’, Il parere 2/13 della Corte di giustizia, cit.) tra la procedura del Protocollo n.16 e il rinvio pregiudiziale ex art.267 TFUE che, secondo i giudici lussemburghesi, potrebbe comportare un rischio di elusione di quest’ultimo strumento, in realtà non appare fondata.

Occorre infatti considerare che si tratta di istituti giuridici del tutto diversi e che, in ultima analisi, il progetto di accordo, come la stessa Corte del resto riconosce, non contemplava l’adesione al citato Protocollo. Questo documento, inoltre, è stato firmato in data 2 ottobre 2013 e cioè successivamente alla data nella quale è stato licenziato il progetto di accordo (5 aprile 2013), è entrato in vigore il 1 agosto 2018, al raggiungimento delle previste 10 ratifiche, e ad oggi è stato ratificato da 14 paesi. Per quanto riguarda l’Italia, il nostro paese ha sottoscritto il trattato ma non ha ancora depositato lo strumento di ratifica. Nel corso della XVII legislatura il Governo ha depositato alla Camera un primo DDL (A.C. 2801 concernente la ratifica ed esecuzione del Protocollo n.15 e del Protocollo n.16 alla CEDU)  che è stato approvato in prima lettura dalla Camera ma si è arenato nel passaggio al Senato.

Nell’attuale legislatura è stato ripresentato dal Governo in data 10 agosto 2018 un nuovo schema di provvedimento legislativo (DDL A.C. n.1124) recante “Ratifica ed esecuzione del Protocollo n.15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013, e del Protocollo n.16 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013”che riproduce, salvo alcune modifiche formali, il testo del precedente DDL e che è attualmente in discussione davanti alle Commissioni riunite 2° (giustizia) e 3°(Affari esteri e comunitari) del Senato della Repubblica. Per approfondimenti sul Protocollo n.16 v. N. LIPARI, Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n.16 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU):il dialogo concreto tra le Corti e la nuova tutela dei diritti fondamentali davanti al giudice amministrativo, in Federalismi.it, n.3/2019; G. CERRINA FERONI, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Federalismi, n. 5/2019; in senso fortemente critico per le conseguenze dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n.16 sul sistema del diritto interno v. M.LUCIANI, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n.15 e n.16 della CEDU, 27 novembre 2019 in http://www.sistemapenale.it/ ;F.VARI, Le prospettive di riforma del sistema CEDU. Ancora a proposito dei Protocolli 15 e 16 alla Convenzione di Roma, 2 marzo 2020 in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, su http://www.giurcost.org/LIBERAMICORUM/vari_scrittiCostanzo.pdf

[57] Corte di giustizia UE (Grande Sezione), sentenza 24 aprile 2012 nella causa C-571/10, Servet Kamberaj contro Istituto per l’Edilizia Sociale della Provincia autonoma di Bolzano (IPES) e altri. Sulla sentenza v. N.LAZZERINI, La sentenza della Corte di giustizia nella causa C-571/10, Kamberaj, in Osservatorio sulle fonti, n.2/2012, https://www.osservatoriosullefonti.it/archivio-2012/fonti-dellunione-europea-e-internazionali/616-kamberaj;  G.BRONZINI, A.ALLAMPRESE, Cittadini stranieri e discriminazione nell'accesso a prestazioni sociali a carattere essenziale: la Corte di Giustizia valorizza la Carta di Nizza, 29.05.2012, in www.europeanrights.eu;

  1. COSTAMAGNA, Diritti fondamentali e prestazioni sociali essenziali tra diritto dell'Unione europea e ordinamenti interni: il caso Kamberaj, in Diritti umani e diritto internazionale, n.2/2012, pp.672-679.

[58] Sentenza Corte di Giustizia, 26 febbraio 2013, Hans Akerberg Fransson, Par.44. In quell’occasione la Corte, oltre a ribadire il principio già enunciato nella sentenza Kamberaj per quanto attiene al rapporto tra il diritto dell’unione e CEDU secondo cui quest’ultima, in assenza di adesione, non costituisce una fonte del diritto dell’Unione e non può quindi essere disapplicata dal giudice nazionale, ha fornito un chiarimento circa l’ambito di applicazione dell’art.51, par.1 della CDFUE ai sensi del quale le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. A tale riguardo la sentenza sostiene che “i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione si applicano in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse”(par.19) e che “di conseguenza, dato che i diritti fondamentali garantiti dalla Carta devono essere rispettati quando una normativa nazionale rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, non possono quindi esistere casi rientranti nel diritto dell’Unione senza che tali diritti fondamentali trovino applicazione. L’applicabilità del diritto dell’Unione implica quella dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta” (par.21). Alla luce di queste affermazioni, la Corte ha ritenuto la propria competenza a pronunciarsi sulla domanda di rinvio pregiudiziale concernente l’applicazione del principio del ne bis in idem tutelato dall’art.50 della CDFUE per procedimenti penali e amministrativi avviati per gli stessi fatti di frode fiscale. Ciò in quanto, ad avviso dei giudici lussemburghesi, le disposizioni nazionali dalle quali è scaturito il rinvio pregiudiziale ricadono nell’ambito di applicazione della Carta, trattandosi di disposizioni che sanzionano violazioni degli obblighi dichiarativi in materia di IVA e tale tributo risulta indiscutibilmente connesso al diritto dell’Unione che impone agli Stati membri “di adottare tutte le misure legislative e amministrative al fine di garantire che l’IVA sia interamente riscossa nel suo territorio e a lottare contro la frode” senza contare che “le risorse proprie dell’Unione comprendono in particolare, (…) le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione” (par.25 e 26).Per i commenti alla sentenza Fransson v. N. LAZZERINI, Il contributo della sentenza Åkerberg Fransson alla determinazione dell’ambito di applicazione e degli effetti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Rivista di diritto internazionale, N. 3/2013, pp. 883-912;M. PIAZZA, Il principio del ne bis in idem nella sentenza CGUE Aklagaren/Akerberg, in Questione Giustizia, 22 marzo 2013, http://www.questionegiustizia.it .

[59] Corte EDU, sentenza 18 febbraio 1999, Matthews c. Regno Unito [GC] (ricorso n. 24833/94, ECHR 1999-I).

[60] Nella sentenza Corte EDU, 30 giugno 2005, Bosphorus Airlines c. Irlanda[GC] (n. 45036/98
 CEDU 2005 VI) si afferma infatti che


"la Convenzione non impedisce agli Stati parte di trasferire poteri sovrani ad un'organizzazione internazionale a scopo di cooperazione in determinati ambiti" ma che "gli Stati restano nondimeno responsabili ai sensi della Convenzione per tutte le azioni e le omissioni" che i propri organi dovessero compiere ai sensi della legge nazionale o dei vincoli internazionali legalmente assunti:

"[L]l'azione che lo Stato ponesse in essere, in adempimento di tali vincoli legali, è giustificata nella misura in cui l'organizzazione internazionale in questione è giudicata rispettosa della protezione dei diritti fondamentali, in 
guisa almeno equivalente a quella che la Convenzione garantisce” (paragrafi 152-153). In virtu’ di tale presunzione il controllo della conformità della condotta degli organi statali alla Convenzione non viene meno ma si attenua con conseguente esonero della responsabilità da parte dei singoli Stati.

[61] Quest’ultimo è il principio di diritto affermato nella sentenza Corte EDU 6 dicembre 2012 Michaud c. Francia, n. 12323/11. Nel caso di specie il Consiglio di Stato si era rifiutato di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e dunque la Corte EDU ha dichiarato di dover procedere all’esame del merito della questione ad essa sottoposta, nonostante l’adozione di una simile disciplina fosse imposta allo Stato francese dall’esistenza di obblighi comunitari. Nello specifico, la Corte non ha ritenuto applicabile la regola giurisprudenziale della cd. “presunzione di protezione equivalente” in quanto il sistema giuridico euro-unitario

posto a protezione dei diritti umani può considerarsi equivalente a quello proprio del sistema CEDU solo avendo considerazione del ruolo di garanzia svolto dai suoi organismi giurisdizionali. Il mancato rinvio pregiudiziale alla Corte UE ha privato il sistema di protezione predisposto dalla UE di una sua componente essenziale e dunque esso non ha potuto dispiegare i suoi effetti non consentendo ad un organismo giurisdizionale internazionale adeguato al ruolo di vagliare la conformità della normativa nazionale, anche se derivata dal diritto europeo, ai dettami convenzionali. Per approfondimenti sulla presunzione della protezione equivalente v. D. RUSSO, Le violazioni della Convenzione europea dei diritti compiute in adempimento di obblighi dell’Unione europea, in La funzione giurisdizionale nell’ordinamento internazionale e nell’ordinamento comunitario, di  ODDENINO A., RUOZZI E., VITERBO A., COSTAMAGNA F., MOLA L., POLI L. (a cura di) - Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Torino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2010, pp. 83-98.

[62] Così, A. F. MASIERO, L’adesione dell’Unione europea alla CEDU, cit. p.92.

[63] Sentenza Corte Cost. n.323/1989. La giurisprudenza della Corte è costante nell’affermare questo principio con la sola eccezione della pronuncia n.10/1993 (c.d. sentenza Baldassarre dal nome del suo relatore) che, con riferimento all’art.6, comma 3, lettera a) della CEDU, in un obiter dictum ha inquadrato la legge di esecuzione della CEDU come una legge atipica, dotata di forza passiva peculiare e, come tale, insuscettibile di abrogazione o modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria prive di questa particolare caratteristica (Punto 2 del Considerato in diritto).

[64] Si tratta di sentenze oggetto di innumerevoli commenti in dottrina per i quali si rinvia alle pagine della rivista Consulta Online:

http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0348s-07.html e http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0349s-07.html

[65] Sentenza n.348/2007, punto 3.3 del Considerato in diritto.

[66] Sentenza n.349/200, punto 6.1 del Considerato in diritto.

[67] Ibidem.

[68] Sentenza n.348/2007, punto 4.3 del Considerato in diritto.

[69]Cfr. F. SALERNO, La coerenza dell’ordinamento interno ai trattati internazionali in ragione della Costituzione e della loro diversa natura, n.1/2018. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it/

[70] Sentenza n.349/2007, punto 6.1.2 del Considerato in diritto.

[71] Sentenza n.348/2007, punto 4.5 del Considerato in diritto.

[72] Per dirla con le parole della Corte, “Con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione”( Sentenza n.349/2007, punto 6.2 del Considerato in diritto). Sul significato del richiamo alla tecnica del “rinvio mobile” v., in particolare, F. SALERNO, La coerenza dell’ordinamento interno, cit. p.10 e ss.

[73] Ivi, punto 4.7 del Considerato in diritto.

[74] Ivi, punto 4.3 del Considerato in diritto.

[75] Così, R. ROMBOLI, La influenza della CEDU e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani nell’ordinamento costituzionale italiano, in Consulta Online, n.3/2018, http://www.giurcost.org/studi/romboli6.pdf

[76] D.TEGA, Le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007: la Cedu da fonte ordinaria a fonte “sub-costituzionale” del diritto, in Quaderni costituzionali, n.1/2008, pp.133-136.

[77] Sentenza n.349/2007, punto 6.2 del Considerato in diritto.

[78] D.TRABUCCO, Tutela multilivello dei diritti e sistema delle fonti nei rapporti tra la CEDU e l’ordinamento italiano. Verso un ritorno ai criteri formali-astratti a garanzia della superiorità della Costituzione?, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2018. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it/

[79] Sentenza n. 210 del 2013. Sul punto v. M. CARTABIA, La tutela multilivello dei diritti fondamentali
- il cammino della giurisprudenza costituzionale italiana dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, 18 ottobre 2014, https://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/RI_Cartabia_santiago2014.pdf

[80] Cfr. A. RUGGERI, Per uno studio sui diritti sociali e sulla Costituzione come “sistema” (notazioni di metodo), in Consulta OnLine, II, 2015, p.547http://www.giurcost.org/studi/index.html

[81] Corte Cost., sentenza n.317/2009, punto 7 del Considerato in diritto. Nel caso di specie la Corte ha esaminato la questione della preclusione per l’imputato contumace di chiedere la restituzione nel termine per impugnare la sentenza emessa nei suoi confronti quando il suo difensore abbia già promosso un giudizio impugnatorio, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art.175, comma 2 del c.p.p. come modificato dal d.l. n.5 del 2017 e dalla relativa legge di conversione “nella parte in cui non consente la restituzione dell’imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato”. Respingendo l’interpretazione della norma fornita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza 31 gennaio 2008, n.6026) secondo la quale il duplice esercizio del diritto all’impugnazione entrerebbe in conflitto con il principio di ragionevole durata del processo e non potrebbe essere introdotto nel nostro ordinamento, a sua volta caratterizzato dal principio dell’unicità dell’impugnazione, la Corte ha sviluppato un articolato ragionamento incentrato sui parametri offerti dall’artt.117, primo comma – in relazione all’art. 6 CEDU, quale interpretato dalla Corte di Strasburgo – 24 e 111, primo comma, Cost. mettendo in rilievo la compenetrazione delle tutele offerte da queste tre norme, ai fini di un adeguato esercizio del diritto di difesa. Sulla sentenza v. le osservazioni di V.SCIARABBA , Il ruolo della Corte EDU. Tra Corte Costituzionale, giudici comuni e Corte europea, Key Editore, Milano, 2019, Cap.V.

[82]Questa è la lettura che O. POLLICINO, Margine di apprezzamento, art 10, c.1, Cost. e bilanciamento “bidirezionale”: evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009 della Corte costituzionale?, in  Forum Quad.cost., 16 dicembre 2009, dà della sentenza della Corte Costituzionale n.317/2009. A giudizio dell’A. dalla pronuncia si evince in sostanza, la possibilità anzi la doverosità per la Corte di fare proprio il livello di tutela più intenso offerto a livello sovranazionale, accantonando la disposizione costituzionale rilevante “nel caso in cui si dimostrasse che la CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, in un caso specifico ed a proposito di un dato bilanciamento tra diritti entrambi fondamentali, dovesse assicurare una protezione ai diritti in questione più intensa rispetto a quella offerta dalla Carta costituzionale”, anche se la stessa Corte precisa che “un incremento di tutela indotto dal dispiegarsi degli effetti della normativa CEDU certamente non viola gli articoli della Costituzione posti a garanzia degli stessi diritti, ma ne esplicita ed arricchisce il contenuto, innalzando il livello di sviluppo complessivo dell’ordinamento nazionale nel settore dei diritti fondamentali”.

Si tratterebbe, cioè, di un’ipotesi “speculare, uguale e contraria” a quella derivante dal passaggio argomentativo della sentenza n.348/2007 secondo cui il controllo di costituzionalità delle leggi nazionali in contrasto con la CEDU “deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, c. 1, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione”, passaggio che dovrebbe essere inteso, a giudizio dell’A, come ipotizzante la possibilità che “la norma CEDU, pur conforme alla Costituzione, potrebbe, a seguito del bilanciamento operato dalla Corte costituzionale,  ritenersi soccombente rispetto ad una normativa che, seppur di rango formalmente ordinario, sostanzialmente si rilevi servitrice di valori di natura costituzionale”.

[83] Come evidenzia R. ROMBOLI, La influenza della CEDU, cit. p.627.

[84] Corte Cost., sentenza n.317/2009, punto 7 del Considerato in diritto.

[85] Ibidem.

[86] Nella sentenza 317/2009 la Corte utilizza un concetto, quello appunto del “margine di apprezzamento” elaborato dalla Corte di Strasburgo che consente agli Stati membri un margine di discrezionalità nell’applicazione della Convenzione EDU consentendo così di bilanciare il principio di sovranità degli Stati con il rispetto degli obblighi stabiliti dalla Convenzione. In dottrina v.  F. DONATI e P. MILAZZO, La dottrina del margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in P. FALZEA, A. SPADARO, L. VENTURA (a cura di), La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, Atti del seminario svoltosi a Copanello (CZ) il 31 maggio-1 giugno 2002, Giappichelli, Torino, 2003; V. SCIARABBA, in Il ruolo delle Corti costituzionali nella giurisprudenza della Corte EDU: considerazioni sulla dottrina del margine di apprezzamento, in R. BIN, G. BRUNELLI, A PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), All’incrocio tra Costituzione e Cedu. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo. Atti del Seminario, Ferrara, 9 marzo 2007, Giappichelli, Torino, 2007 (e-book); I.ANRO’, Il Margine di Apprezzamento nella Giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in A. ODDENINO, La Funzione Giurisdizionale nell'Ordinamento Internazionale e nell'Ordinamento Comunitario : Atti dell'Incontro di Studio tra Giovani Cultori delle Materie Internazionalistiche, Edizioni Scientifiche Italiane, Torino, 2009; M.R. MORELLI, Sussidiarietà e margine di apprezzamento nella giurisprudenza delle Corti europee e della Corte costituzionale, Intervento all’incontro di studio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri avente ad oggetto “Principio di sussidiarietà delle giurisdizioni sovranazionali e margine di apprezzamento degli Stati nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

[87] Il riferimento va alla sentenza n.311 del 2009 nella quale si affermava che “l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza, secondo un criterio già adottato dal giudice comune e dalla Corte europea (Cass. 20 maggio 2009, n. 10415; Corte eur. dir. uomo 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia, ric. n. 22644/03)”. In senso conforme v. anche la pronuncia n. 236 del 2011 nel passaggio in cui recita, richiamandosi proprio alla precedente pronuncia n.311/2009, “[a] questa Corte compete, insomma, di apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi”. Analogamente si esprime la sentenza n.303 del 2011 che riafferma il principio in base al quale “se questa Corte non può prescindere dall'interpretazione della Corte di Strasburgo di una disposizione della CEDU, essa può, nondimeno, interpretarla a sua volta, beninteso nel rispetto sostanziale della giurisprudenza europea formatasi al riguardo, ma «con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del 2009)» (sentenza n. 236 del 2011)”.

[88] Osserva O. POLLICINO, Margine di apprezzamento, cit. che la anteposizione del riferimento al giudice delle leggi rispetto al giudice comune non sembra casuale, ma una risposta voluta ad una recente decisione della Corte di Cassazione” e precisamente alla Sentenza Cass., sez. I civ., 6 maggio 2009, n. 10415. Con tale sentenza i giudici, dopo aver accertato che i criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione contenuti nella Legge Pinto erano contrastanti con la giurisprudenza della Corte EDU e che  l’applicazione dei diversi criteri affermati dalla Corte di Strasburgo si sarebbe inevitabilmente scontrata con i principi costituzionali in tema di finanza pubblica, avevano deciso di applicare direttamente la dottrina del margine di apprezzamento senza sollevare questione di costituzionalità della legge  per evitare di porre la Corte Costituzionale di fronte all’alternativa di dichiarare la legge in contrasto con la CEDU ovvero di dichiarare la CEDU in contrasto con la Carta costituzionale. Secondo l’A. con il richiamo della sentenza 317 del 2009 al “margine di apprezzamento” “i giudici costituzionali sembrano voler chiarire che quell’alternativa imbarazzante, in fondo, è la stessa Costituzione ad assegnargliela, e voler rassicurare i giudici di legittimità sul fatto che la Consulta dispone di tutto lo strumentario argomentativo per poter uscire dall’imbarazzo, a cominciare dall’applicazione, all’uopo, dell’argomento relativo al margine di apprezzamento”.

[89] Cfr. Corte Cost. sentenza n. 39 del 2008 che considera il vincolo interpretativo derivante dalla giurisprudenza della Corte EDU come assoluto e inderogabile precisando che la peculiarità delle norme della CEDU nell’ambito della categoria delle norme interposte sta “nella soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi”.

[90] Com’è noto, la «procedura di sentenza pilota» è una tecnica decisoria utilizzata dalla Corte di Strasburgo che consente alla stessa Corte di accertare non solo l’inadempimento nel caso concreto, ma anche il ‘sottostante problema strutturale’, e cioè l’esistenza nell’ordinamento dello Stato responsabile di una legislazione o di una prassi amministrativa o giudiziaria che causino una violazione sistemica e continuativa della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ricorre a tale tecnica decisoria quando   riceve un numero rilevante di ricorsi relativi alla medesima violazione che assume, pertanto, natura strutturale. In questi casi, la sentenza non si limita a condannare lo Stato convenuto per inadempimento ma si spinge sino a indicare, nel dispositivo, le misure più idonee che lo Stato deve adottare per porre rimedio alla problematica in maniera tale che l’adozione delle misure così stabilite

servirà per la risoluzione di tutti gli altri ricorsi pendenti che nel frattempo vengono sospesi. Questa che inizialmente era solo una prassi è stata codificata dall’art.61 del Regolamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, entrato in vigore il 21 febbraio 2011 e più volte aggiornato (l’ultimo testo è datato 1 gennaio 2020 ed è disponibile solo in inglese https://www.echr.coe.int/Documents/Rules_Court_ENG.pdf ). In sintesi, l’articolo prevede che: a) la Corte può avviare la procedura di sentenza pilota quando i fatti di una domanda rivelino nella Parte contraente interessata l'esistenza di un problema strutturale o sistemico o altra disfunzione simile che ha dato luogo o può dare luogo alla presentazione di ricorsi analoghi; b) nella sentenza pilota la Corte individua sia la natura del problema strutturale o sistemico o altre disfunzioni accertate, sia il tipo di misure correttive che la Parte contraente interessata è tenuta ad adottare a livello nazionale in virtù del disposizioni della sentenza, eventualmente entro un termine stabilito; c) è possibile sospendere  tutti i ricorsi pendenti dinanzi alla Corte per questioni analoghe, in attesa che lo Stato adempia agli obblighi imposti dalla sentenza pilota. In giurisprudenza v, in particolare, Cass. Pen., Sez. VI, 23 settembre 2014, Sentenza n.46067 commentata da M. BOCCHI, In (non) claris fit interpretatio: gli effetti delle sentenze pilota sul diritto a un equo processo, tra revisione del giudicato e rideterminazione della pena, in Archivio Penale, 1/2017.

[91] Per gli approfondimenti sulla sentenza n.49/2015, si rinvia ai commenti di cui alla pagina dedicata della rivista Consulta OnLine

http://www.giurcost.org/decisioni/2015/0049s-15.html

[92] La fitta serie di indici che la Corte offre al giudice comune, secondo la maliziosa interpretazione di V. SCIARABBA, Il ruolo della Corte EDU, cit., p.198 “volendo potrebbe essere anche letta come un (ulteriore) arsenale di argomenti messo a disposizione soprattutto del giudice comune (oltre che di sé stessa), per poter “prendere le distanze” da pronunce ´scomode´”.

[93] Così Corte Cost., Sentenza n.68 del 2017, punto 7 del Considerato in diritto. In senso conforme v anche sentenza n.109 del 2017.

Sul tema più generale del rapporto tra la Corte Costituzionale, i giudici comuni e la CEDU, v. ex multis R.G. CONTI, Cedu, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in R. COSIO, R. FOGLIA (a cura di), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, Giuffrè, Milano, 2013; R.G. CONTI, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sovranazionali, in Questione giustizia, http://www.questionegiustizia.it/ n.4/2016;  A. RUGGERI, Corte europea dei diritti dell'uomo e giudici nazionali, alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale (tendenze e prospettive) in http://www.associazionedeicostituzionalisti.osservatorio.it/, n. 1/2018; E.MALFATTI, La Cedu come parametro tra Corte costituzionale e giudici comuni, in http://www.gruppodipisa.it/, n.3/2019.

[94] A. RUGGERI, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della Cedu in ambito interno, in http://www.penalecontemporaneo.it/, n. 2/2015.L’A. sottolinea come dalla sentenza traspare una visione piramidale dei rapporti tra Costituzione e CEDU (e, perciò, delle stesse Corti che ne sono garanti): “[L]la Corte, insomma, è restia a disporsi nell’ordine di idee secondo cui Costituzione e CEDU (…) possono e devono soggiacere a reciproca (“circolare”, appunto) interpretazione conforme: una interpretazione (…) assiologicamente orientata ed ispirata a quel canone della massimizzazione della tutela dei diritti e, in genere, degli interessi costituzionalmente protetti nel loro fare “sistema” che – come si è tentato di mostrare in altri luoghi – si pone quale l’autentica Grundnorm delle relazioni intersistemiche o – se più piace – il Grundwert che dà modo a tutte le Carte, senza alcun ordine precostituito di formale fattura, di potersi affermare al meglio di sé, magis ut valeant”; sul punto, v. anche D. TEGA, La sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015 sulla confisca: il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU, in http://www.forumcostituzionale.it/, 30 aprile 2015, che si interroga sugli aspetti critici che emergono dalle argomentazioni della Corte e, in particolare, sull’inedito “combinato disposto” operato nella sentenza tra l’art.101, secondo comma, “(non invocato tra i parametri dalle ordinanze di rimessione)” e l’art.117, primo comma Cost. strumentale ad affermare che «corrisponde (...) a una primaria esigenza di diritto costituzionale che sia raggiunto uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali, cui è funzionale, quanto alla Cedu, il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo». Secondo l’A. questa affermazione potrebbe significare forse che “si svilisce il valore sub-costituzionale che era stato riconosciuto alla Cedu e alla giurisprudenza della Corte Edu a partire dalle cd. sentenze gemelle”.

[95] R. CONTI, La CEDU assediata? (Osservazioni a Corte Cost.sent. n.49/2015), in Consulta OnLine, n. 1/2015 http://www.giurcost.org/studi/conti3.pdf

[96] A riguardo v. V. SCIARABBA, Il ruolo della Corte EDU, cit., Cap. VII, che richiama la sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 28 giugno 2018, G.I.E.M. e altri c. Italia nella quale al punto 252 si legge che: «la Corte [europea] sottolinea che le sue sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e l[a] loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate», il che rappresenta, a giudizio dell’A., una risposta dei giudici di Strasburgo alla pronuncia della Corte Costituzionale.

[97] M. BIGNAMI, Da Strasburgo via libera alla confisca urbanistica senza condanna, in www.questionegiustizia.it, 10 luglio 2018.

[98] V. SCIARABBA, Il ruolo della Corte EDU, cit., ibidem.

[99] Ci si riferisce naturalmente agli scritti di A. RUGGERI, che da tempo propugna la tesi dell’interpretazione “circolare” secondo la quale la Costituzione e le Carte internazionali dei diritti si integrano reciprocamente e nessun ordine gerarchico può essere stabilito tra le differenti interpretazioni conformi ciascuna delle quali è in grado di enucleare il meglio da ciascuna carta. V., da ultimo,  tra i tanti dedicati al tema, Diritti fondamentali e interpretazione costituzionale, in Consulta OnLine, n.3/2019, http://www.giurcost.org/studi/ruggeri98.pdf.  Sugli innumerevoli contributi del predetto autore pubblicati sulla rivista Consulta OnLine, si rinvia all’affettuoso omaggio di L.TRUCCO, Antonio Ruggeri e la tensione inappagabile verso la Corte e le Carte, in Consulta OnLine, n.3/2019, http://www.giurcost.org/studi/index.html

[100] R.PANICO, I diritti nell’Europa che vorremmo, in http://www.eurojus.it/ 14/05/2017.

[101] P. BILANCIA, La dimensione europea dei diritti sociali, in Federalismi.it., Numero speciale n.4/2018, I diritti sociali tra ordinamento statale e ordinamento europeo, P. BILANCIA (a cura di), p.5.

[102] A. PATRONI GRIFFI, Ragioni e radici dell’Europa sociale: frammenti di un discorso sui rischi del futuro dell’Unione, Ibidem, p.43.

[103] R. BALDUZZI, Unione europea e diritti sociali, cit., p.245. L’A. mette in luce come la tradizionale concezione della “freddezza” delle istituzioni dell’Unione nei confronti dei diritti sociali ai quali sarebbe stato riservato uno spazio residuale rispetto alle libertà e ai diritti cd. economici sia sostanzialmente errata nei presupposti. Se si fa riferimento all’origine della costruzione europea, infatti, le premesse da cui muovevano i padri fondatori si basava essenzialmente sul fatto che i sei Stati membri originari condividevano sia la medesima concezione di “Stato sociale” sia l’idea che l’integrazione economica avrebbe prodotto un innalzamento del livello di vita delle persone all’interno di un processo di integrazione che garantiva la pace tra le nazioni e il benessere dei cittadini. Da qui l’affermazione che “nello spirito fondatore dell’integrazione europea, dimensione economica e dimensione sociale sono intese come indissolubilmente intrecciate, e pertanto la formula di Lisbona dell’”economia sociale di mercato fortemente (o altamente) competitiva” (art. 3 TUE) va salutata come una presa d’atto e una precisazione esplicativa di un acquis”.

[104] Il Pilastro europeo dei diritti sociali è un atto che è stato proclamato solennemente durante il vertice sociale per l'occupazione equa e la crescita svoltosi a Göteborg il 17 novembre 2017, dal Parlamento europeo, dal Consiglio dell’Unione e dalla Commissione europea ed è stato sottoscritto in pari data dai rispettivi Presidenti del tempo Tajani, Ratas e Juncker). Si tratta di un atto articolato in tre capi e preceduto da un lungo preambolo, con il quale le tre istituzioni europee definiscono 20 principi chiave della politica sociale europea in materia di pari opportunità e accesso al mercato del lavoro (Capo I), condizioni di lavoro eque (Capo II), protezione sociale e inclusione (Capo III). Il testo, che scaturisce da una proposta presentata nel 2015 dall’allora Presidente della Commissione Juncker nel discorso sullo stato dell’Unione, è stato definito, nell’attuale legislatura  dalla Commissione europea appena insediatasi sotto la presidenza di Ursula Von der Leyen la “strategia sociale per garantire che la transizione alla neutralità climatica, la digitalizzazione e il cambiamento demografico siano socialmente equi e giusti”(v. Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni del 14 gennaio 2020, intitolata “Un’Europa sociale forte per transizioni giuste”) e dovrà essere attuato mediante un piano d’azione che la stessa Commissione si è impegnata a presentare agli inizi del 2021.Considerazioni critiche, di metodo e di merito, sulla effettiva capacità innovativa dello strumento sono contenute nello scritto di S. GIUBBONI, L’insostenibile leggerezza del pilastro europeo dei diritti sociali, in Politica del diritto, n.4/2018, pp.557-578; in argomento v. anche J.LUTHER, Il futuro dei diritti sociali dopo il summit di Goteborg: rafforzamento o impoverimento? in Federalismi.it., Numero speciale n.4/2018, I diritti sociali tra ordinamento statale e ordinamento europeo, P. BILANCIA (a cura di), pp.49-68 ed ivi F.BALAGUER CALLEJON, La prospettiva spagnola sul pilastro sociale europeo, pp.69-79;sulla proposta di una concreta European Social Union after the Crisis, che si fondi sulle prospettive aperte dal Pilastro europeo dei diritti sociali, v. G. ALLEGRI, Per una European Social Union. Dal pilastro europeo dei diritti sociali a un Welfare multilivello?, in CSE Working papers, n.19, 4 dicembre 2019.

[105] Sull’argomento v. anche le dichiarazioni dell’allora commissaria responsabile per l’occupazione, gli affari sociali, le competenze e la mobilità dei lavoratori, Marianne Thyssen, riportate nel Comunicato stampa del 30 maggio 2018 https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_18_3923"L'Europa intende offrire maggiori opportunità alle persone. Passiamo dalle parole ai fatti. I nostri Fondi sociali nuovi, flessibili e semplificati sono incentrati sugli investimenti nelle persone: per garantire che siano dotate delle giuste competenze, che godano di una protezione sociale moderna e adeguata alle nuove forme di lavoro e per dare prova di solidarietà nei confronti di coloro che ne hanno più bisogno."  Alla data odierna il Parlamento europeo ha approvato la proposta di regolamento il 16 gennaio 2019 con 160 emendamenti, dando mandato alla Commissione EMPL (Commissione per l’occupazione e gli affari sociali) per l’avvio delle negoziazioni interistituzionali con Consiglio e Commissione. Al Consiglio è tuttora in corso la discussione del testo da parte del Gruppo “Misure strutturali” nell’ambito del pacchetto legislativo sulla politica di coesione 2021-2027. Il Gruppo esamina oltre al regolamento in questione, anche una serie di regolamenti settoriali relativi al Quadro finanziario Pluriennale 2021-2027, ma non è ancora stata presentata una proposta negoziale complessiva.

[106] Cfr. A. CIANCIO, Alle origini dell’interesse dell’Unione europea, cit., p.25.Valuta positivamente l’azione della Corte di giustizia P. BILANCIA, La dimensione europea , cit. p.12. Secondo l’A. la Corte di giustizia ha fatto valere passo dopo passo “diritti che hanno dato forma al 'patrimonio costituzionale europeo'ed ha operato avviando un percorso di ponderazione tra diritti e obblighi comunitari simile a quello effettuato dalle Corti costituzionali nazionali citando il caso Omega (CGCE, 14 ottobre 2004, C-36/02, Omega Spielhallen- und Automatenaufstellungs-GmbH c. Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn, )nel quale la Corte ha riconosciuto che la tutela dei diritti fondamentali può giustificare una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario «ancorché derivante da una libertà fondamentale garantita dal Trattato quale la libera prestazione dei servizi» (punti 33-34).

[107] A. PATRONI GRIFFI, Ragioni e radici dell’Europa sociale, cit., p. 38. Espressiva di questa tendenza appare la sentenza Aget Iraklis della Corte di giustizia (Grande Sezione) C-201/15 del 21 dicembre 2016, ECLI:EU:C:2016:972. In essa la Corte si è trovata a valutare la legittimità della normativa greca che consentiva alle autorità pubbliche di sottoporre la decisione delle imprese di procedere a licenziamenti collettivi ad una valutazione che, in caso di mancato accordo, permetteva alle stesse autorità di opporsi ai licenziamenti qualora le condizioni del mercato del lavoro, la situazione dell’impresa e l’interesse nazionale non li giustificassero. Ebbene, la Corte ha ritenuto che la direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che conferisce ad un’autorità pubblica il potere di impedire, in determinate circostanze, licenziamenti collettivi salvo se un regime siffatto privi la direttiva del suo effetto utile. Nella fattispecie considerata, i criteri previsti dalla legislazione greca sono formulati “in maniera molto generica e imprecisa” (…)“non riposano dunque su condizioni oggettive e controllabili, vanno oltre quel che è necessario per conseguire gli obiettivi indicati e non possono pertanto soddisfare quanto esige il principio di proporzionalità”. In conclusione, la Corte ha statuito che la normativa esaminata costituisce una ingiustificata limitazione alla libertà d’impresa degli operatori economici, sancita dall’art. 16 della Carta, e a quella di stabilimento, di cui all’art. 49 TFUE pur in un “contesto caratterizzato da una crisi economica acuta e da un tasso di disoccupazione particolarmente elevato” in quanto né la direttiva, né il Trattato FUE prevedono una deroga basata sull’esistenza di un contesto nazionale del genere. Sul punto v. le critiche formulate da R. PANICO, I diritti, cit.

[108]A. PATRONI GRIFFI, Ragioni e radici dell’Europa sociale, cit., p. 45

[109] A. PATRONI GRIFFI, Ragioni e radici dell’Europa sociale, cit., p.47.

[110] Il Trattato istitutivo del MES (o ESM) è stato firmato il 2 febbraio 2012 ed entrato in vigore in data 8 ottobre 2012, a seguito della ratifica dei 17 Stati membri dell'Eurozona (a cui si sono aggiunti la Lettonia, il 1° gennaio 2014, e la Lituania, il 1° gennaio 2015) ed è stato ratificato dall’Italia con Legge 23 luglio 2012, n. 116. Il MES ha una capacità effettiva di prestito pari a 500 miliardi di euro e un capitale sottoscritto totale di 700 miliardi di euro, 80 miliardi dei quali sono sotto forma di capitale versato fornito dagli Stati membri della zona euro. La ripartizione delle quote tra i vari Stati è basata sulla partecipazione al capitale versato della Banca centrale europea (BCE).Attualmente l’Italia con 125,3 miliardi di euro sottoscritti (di cui 14,3 effettivamente versati), è il terzo Paese per numero di quote del capitale del MES (17,7%), dopo la Germania, che ha sottoscritto quote per 190 miliardi di euro, di cui 21,7 effettivamente versati (26,9% del totale), e la Francia, che ha sottoscritto quote per 142 miliardi di euro, di cui 16,3 effettivamente versati (20,2% del totale). L’istituzione del Trattato si fonda sulla modifica dell’art.136 del TFUE approvata dal Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011 ed entrata in vigore il 1 marzo 2013. La modifica ha aggiunto un terzo comma al citato art.136 che così recita: “Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”. 
Per completezza di vedute, si ricorda che il Trattato istitutivo del MES è in corso di revisione e che sulle proposte di modifica del Trattato si è raggiunto un accordo da parte dell’Eurogruppo del 13 giugno 2019. Ai sensi di tale accordo la modifica del MES si situa all’interno di un più ampio pacchetto di interventi che prevedono la definizione di uno strumento europeo di bilancio per la convergenza e la competitività e il completamento dell’unione bancaria. Ad oggi il processo di revisione del Mes, che aveva ottenuto un sostanziale via libera nel Vertice euro del 13 dicembre 2019 ed a seguito del quale l’Eurogruppo era stato incaricato di “continuare a lavorare sul pacchetto di riforme del MES – fatte salve le procedure nazionali – e di proseguire i lavori su tutti gli elementi dell'ulteriore rafforzamento dell'unione bancaria, su base consensuale”, ha subito una battuta d’arresto in relazione all’emergenza Covid 19.

Tuttavia sul testo del Trattato modificato, ancora passibile di revisione in sede di Eurogruppo e che deve essere sottoposto alla procedura di  ratifica parlamentare, è stato comunque già sentito il Parlamento che, ai sensi della Legge 24 dicembre 2012, n.234 “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”, si è espresso in data 11 dicembre 2019 con una risoluzione votata a maggioranza con la quale si impegna il Governo ad approfondire i punti critici che accompagnano il processo di riforma dell’Unione economica e monetaria in una logica di pacchetto.

Sull’argomento v. il Dossier del Servizio Studi del Senato della Repubblica, XVIII Legislatura, n.187, La riforma del Trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità, del novembre 2019. Il Servizio Studi del Senato (Dossier n.188 del novembre 2019) ha inoltre elaborato il Testo a fronte del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (legge n. 116 del 23 luglio 2012) con la bozza del medesimo trattato modificato, come concordata dall'Eurogruppo il 14 giugno 2019.I citati dossier sono disponibili sul sito web istituzionale del Senato www.senato.it. In dottrina v. M.T. STILE, Il Mes nella risoluzione delle crisi finanziarie europee. Un paradigma di limitazione della sovranità statuale, in www.rivistaaic.it ,  n.2/2020.

[111] Il testo dell’art.136, comma 3 del TFUE è riportato nella nota precedente.

[112] Il quadro complessivo degli interventi posti in essere dalle istituzioni europee per fronteggiare l’epidemia da Covid 19 è contenuto nella Nota n.44/2 aggiornata al 2 aprile 2020 predisposta dal Servizio Studi del Senato, L’EPIDEMIA COVID-19 E L’UNIONE EUROPEA, http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01149284.pdf ; per approfondimenti sul tema delle risposte all’emergenza adottate dall’Italia e dalla UE v. L.BARTOLUCCI,  Le prime risposte economico-finanziarie (di Italia e Unione europea) all’emergenza Covid-19, in Federalismi.it, Osservatorio Emergenza Covid 19-Paper 8 aprile 2020.

[113] A riguardo v. la Comunicazione della Commissione europea del 20 marzo 2020, COM (2020) 123 final “COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE AL CONSIGLIO sull’attivazione della clausola di salvaguardia generale del patto di stabilità e crescita”. La proposta di sospensione del Patto di stabilità e crescita è stata accordata dei Ministri delle finanze degli Stati membri riuniti in videoconferenza in data 23 marzo 2020.

[114] Per una panoramica sulle iniziative della Commissione sulla lotta al coronavirus si rinvia alla pagina web https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response_it

[115] Comunicato stampa del 2 aprile 2020 disponibile su https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_20_582

Come si legge in tale comunicato, la Presidente Von der Leyen ha dichiarato: “La crisi del coronavirus che stiamo vivendo può essere affrontata solo con la risposta più incisiva possibile. Dobbiamo utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione Ogni euro disponibile nel bilancio dell'UE sarà reindirizzato alla gestione della crisi, ogni norma sarà semplificata per consentire ai finanziamenti di fluire in modo rapido ed efficace. Il nuovo strumento di solidarietà mobiliterà 100 miliardi di € per far sì che i cittadini non perdano il lavoro e mantenere le imprese in attività. I nostri sforzi si uniscono a quelli degli Stati membri per salvare vite umane e proteggere i mezzi di sussistenza. Questa è la solidarietà europea."

[116] A. ALESINA e F. GIAVAZZI, Un secondo virus nel mondo, articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 5 aprile 2020.

È notizia di questi giorni che il governo ungherese di Victor Orbàn ha fatto approvare dal Parlamento il 30 marzo scorso una legge che, sulla base dell’art.53 della Costituzione ungherese, conferisce al governo in caso di “stato di pericolo” quale quello determinato dall’epidemia da Covid 19, poteri straordinari che consentono, senza limiti di tempo e senza il voto dell’Assemblea, la sospensione dell’applicazione di talune leggi e la possibilità di introdurre deroghe a disposizioni normative. La legge sospende tra l’altro le elezioni e i referendum sino alla fine dello stato di emergenza, interviene sul funzionamento della Corte Costituzionale e introduce nel codice penale nuove fattispecie di reato collegate all’”impedimento (o intralcio) del controllo epidemico” (art.322/A) punendo, inoltre, le false dichiarazioni pubbliche che possano causare turbamento o agitazioni, ovvero ostacolare o intralciare l’efficacia delle misure (art.337). Sulla nuova legge ungherese contro il coronavirus v. P.MORI, La questione del rispetto dello Stato di diritto in Polonia e in Ungheria: recenti sviluppi, in Federalismi.it, n.8/2020, p.166 e ss. nonché la nota redazionale Stato di pericolo e poteri straordinari al governo ungherese in Questione Giustizia del 1 aprile 2020 corredata pubblicato dal testo della legge ungherese con una traduzione provvisoria in italiano http://www.questionegiustizia.it/articolo/stato-di-pericolo-e-poteri-straordinari-al-governo-ungherese_01-04-2020.php