ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVII - n. 05 - Maggio 2025

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Il processo amministrativo. L’oralità e le sue modalità in fase emergenziale: “tutto andrà bene”.

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Il processo amministrativo. L’oralità e le sue modalità in fase emergenziale: “tutto andrà bene”

 

La recente emanazione del d.l. 30 aprile 2020, n. 28 offre l’occasione per un breve commento, col solo obiettivo di dare a Cesare quel che è di Cesare (il legislatore) e di riflettere sul grande sforzo generalmente profuso per consentire il funzionamento della Giustizia.

L’organizzazione della stessa si è adeguata al principio gestionale secondo il quale l’emergenza dev’essere affrontata per fasi, ossia per scansioni temporali in cui le misure organizzative si adeguano dinamicamente all’evoluzione del rischio al fine di evitare che attività essenziali e indifferibili, ovvero socialmente ed economicamente rilevanti, subiscano una paralisi (cd lockdown) con incremento del disagio collettivo.

Il legislatore ha mostrato grande sensibilità e reattività ed ha così tracciato, per il processo amministrativo, tre fasi: una prima fase di sospensione delle udienze e di tutti i termini processuali, con sola salvezza degli affari urgenti (una sorta di lockdown processuale); una seconda fase in cui si sono introdotte soluzioni processuali tese a consentire la decisione delle cause in ambiente “asettico”, privilegiando il contraddittorio scritto e telematico; una terza fase, attualmente in corso di preparazione, in cui, sfruttando le potenzialità dei sistemi di videoconferenza, si prevede sostanzialmente di allineare il processo “virtuale” alle modalità originarie del processo tradizionale, frutto della lunga tradizione processuale trasfusa nel codice del processo amministrativo.

Si tratta di un grande sforzo organizzativo in cui tutti i protagonisti istituzionali (magistrati, avvocati, personale amministrativo) hanno saputo dare, sul piano operativo, un contributo, cambiando repentinamente le modalità di lavoro cui erano abituati, mostrando grande flessibilità e collaborazione, nell’interesse, soprattutto, di coloro che attendono giustizia, affinché questi ultimi, già esposti alle conseguenze economiche e sociali dell’emergenza epidemiologica, non fossero ulteriormente danneggiati dal diniego o dal differimento della risposta di giustizia.

Già. Perché, nonostante nel dibattito dottrinale e giornalistico non si faccia spesso riferimento agli “utenti” del servizio giustizia, questi ultimi costituiscono il motivo unico per il quale la giustizia esiste. E la dimensione della giustizia, in specie quella amministrativa, non è mai una dimensione meramente individuale, poiché ad essa si collegano ordinariamente interessi cruciali per la salvaguardia dello Stato di diritto e per il mantenimento delle condizioni minime di certezza e protezione per gli operatori economici interni e internazionali. In un sistema evoluto come il nostro, connotato da un economia di concorrenza, la lentezza della giustizia è causa di rallentamento dell’economia, scoraggia gli investimenti, alimenta gli abusi degli operatori dominanti, rende incerti gli orizzonti temporali e con essi quelli di sviluppo complessivo. I danni derivanti da un lockdown della giustizia, e della giustizia amministrativa in particolare, sono pertanto elevati, e molto, anche se essi, a differenza di quelli che drammaticamente stanno mettendo in queste settimane in ginocchio le categorie produttive e quelle più deboli, non sono immediatamente percepibili in termini monetari.

Tuttavia esistono. L’organizzazione della giustizia è da sempre imperniata sul “ruolo”, ossia sulla calendarizzazione delle cause secondo un ordine cronologico e di urgenza compatibile con le possibilità di gestione che le risorse umane impiegate nel processo, in un dato momento storico, dispongono. Se la giustizia è posta in lockdown i rinvii delle decisioni si scaricano sulla montagna di cause già calendarizzate e alimentano inevitabilmente l’arretrato da smaltire, determinando un allungamento medio di tutti i processi e con esso un ostacolo ad una celere ripresa economica.

Il legislatore lo ha compreso e ha fatto tutto quanto ragionevolmente esigibile per evitarlo. Ha innanzitutto imposto la decisione di tutti gli affari cautelari, nessuno escluso, giungendo ad adottare modalità emergenziali (rito monocratico) che hanno addirittura incrementato le possibilità decisionali dei giudici, così scongiurando il rischio che il potere pubblico, nei casi in cui illegittimamente esercitato, potesse sortire effetti pregiudizievoli irreversibili o difficilmente ristorabili su persone fisiche e giuridiche. In questa fase - la prima dell’emergenza - oltre alla flessibilità e alla capacità di adattamento del giudice, è stata la collaborazione degli avvocati a salvare la tutela giurisdizionale dal black out. E’ sulle loro spalle e grazie al loro spirito di squadra, agevolato dalle associazioni, che si è riusciti comunque a garantire l’attivazione, pur in epoca di blocco totale, della tutela cautelare. I giudici hanno fatto il resto garantendo numeri elevati.

Nella seconda e terza fase il legislatore ha altresì spinto nella direzione delle decisione di “merito” delle cause, e lo ha fatto per gradi: imponendo un processo solo scritto dapprima, e profilando, subito dopo, un ripristino dell’oralità affidato al funzionamento delle piattaforme di videocomunicazione, in attesa che le drastiche misure di distanziamento sociale cessino.

Queste due ultime fasi hanno fatto registrare qualche doglianza da parte delle associazioni forensi che avrebbero voluto, sin da subito, e con modalità virtuali fedeli a quelle pregresse scolpite dal codice del processo, partecipare, anche oralmente, oltre che attraverso i propri scritti, al processo.

Due i fondamentali argomenti agitati: l’udienza pubblica non sarebbe più tale in assenza di un’occasione di incontro, pur virtuale, delle parti in un medesimo contesto spazio temporale; la soppressione della discussione orale priverebbe il processo di una fonte di conoscenza e di aggiornamento costituzionalmente necessaria ai fini del pieno contraddittorio fra le parti.

Il primo punto è oggettivamente innegabile, ma dev’essere guardato con le giuste lenti. E’ pur vero che l’udienza, intesa quale momento di incontro tra giudice e avvocato è stata, nel periodo emergenziale, in via eccezionale soppressa. Ciò non ha tuttavia precluso alle parti di comunicare con il giudice in modo trasparente e di farlo anche nell’imminenza del momento decisionale di modo che quest’ultimo potesse essere informato delle eventuali sopravvenienze fattuali o giuridiche. La legge ha infatti previsto la possibilità di presentare brevi note sino a due giorni dalla data in cui è fissata la decisione (art.84 comma 5 del dl 18/2020).

La mancata celebrazione dell’udienza non ha dunque portato ad una deprivazione di contenuti utili al decidere. Di certo è mancata l’apertura al pubblico del momento in cui il giudice introita la causa in decisione. Ma che effetti possono annettersi a tale deficit nel momento emergenziale? Innanzitutto deve escludersi che la pubblicità dell’udienza di decisione, in un momento emergenziale in cui le stesse libertà personali costituzionalmente protette sono incise, possa costituire, nel giudizio amministrativo, un limite costituzionale invalicabile per il legislatore. E’ noto che molti procedimenti sono già trattati, in via ordinaria, dal giudice amministrativo, in camera di consiglio, ossia senza ammissione del pubblico, secondo un principio, implicito, per il quale è il legislatore a individuare i casi in cui rimane necessaria la pubblicità dell’udienza. Dunque, se tale necessità è stata ritenuta oggi, dal legislatore, per un breve periodo circoscritto al momento emergenziale, sub valente, non può certo dirsi che si tratti di valutazione irrazionale o capricciosa in contrasto con i principi EDU e con quelli costituzionali (che persino per i procedimenti penali ammettono, in via eccezionale, deroghe al principio di pubblicità delle udienze. Corte EDU, Lorenzetti c. Italia – Seconda sezione – sentenza 10 aprile 2012; Corte cost. sentenza n. 212 del 1986)

La seconda questione è più complessa. L’oralità, in un processo pur essenzialmente scritto, rimane un valore connotato da importanti precipitati pratici e contenutistici, che nel processo amministrativo non ha mai trovato deroghe se non in casi eccezionali caratterizzati dall’estrema urgenza di provvedere (si pensi all’art. 56 c.p.a.). Proprio perché è un valore importante, tuttavia, esso non ammette succedanei, almeno sino a quando gli ausili telematici non siano in grado di garantire le caratteristiche essenziali dell’oralità, ossia la certezza dell’identità dei dialoganti, le garanzie di sicurezza della comunicazione, il divieto di registrazione e diffusione delle immagini in assenza di specifica autorizzazione, etc.

Il legislatore anche in questo caso ha mostrato una pronta capacità di risposta, prescrivendo l’adozione, con modalità semplificata (è sufficiente oggi un decreto del Presidente del Consiglio di Stato) delle “ regole tecnico-operative per la sperimentazione e la graduale applicazione degli aggiornamenti del processo amministrativo telematico” (art. 4 comma 2 d.l. 30 aprile 2020, n. 28) ove per “aggiornamento” deve evidentemente intendersi l’adeguamento del processo telematico alla necessità di effettuare, non solo il deposito degli atti, ma anche la discussione della causa da remoto in guisa da consentire che la modalità succedanea sia utile ed efficace come quella in presenza.

Nel farlo ha previsto un congruo lasso temporale (la discussione sarà riattivata a partire dal 30 maggio) per l’elaborazione e la sperimentazione del sistema di collegamento da remoto (che coinvolge, giova sottolinearlo, i magistrati ma anche e soprattutto gli avvocati) e ha dettato un insieme di regole che cercano di coniugare l’obiettivo di una effettiva discussione con le possibili difficoltà che alcuni avvocati potrebbero avere nell’utilizzo dello strumento di videocollegamento o nella fruizione di una rete di connessione performante. Con mirabile buon senso e spirito risolutivo ha quindi stabilito che “in alternativa alla discussione possono essere depositate note di udienza fino alle ore 9 antimeridiane del giorno dell’udienza stessa o richiesta di passaggio in decisione e il difensore che deposita tali note o tale richiesta è considerato presente a ogni effetto in udienza” (art. 4, comma 1, d.l. cit.).

Quanto alla discussione orale il legislatore ha ovviamente previsto che la stessa debba esser chiesta con congruo anticipo rispetto alla data di udienza (l’istanza dev’essere depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza), e ciò, non solo per consentire alle segreterie di impostare per tempo gli avvisi di collegamento, ma anche per pianificare i collegamenti stessi, verificare la compatibilità dei flussi con le caratteristiche tecniche delle linee di collegamento, impostare turni di chiamata, etc.

Ha altresì conferito al presidente del collegio di valutare l’istanza di discussione “anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto”. L’attribuzione di siffatto potere serve a null’altro che a consentire al presidente di svolgere il proprio ruolo in questo nuovo contesto emergenziale, valutando l’opzione, rimasta sempre sul tappeto, del rinvio ad altra data ove, nonostante le facoltà concesse dalla legge alle parti, rimanga il ragionevole dubbio che il contraddittorio non si sia potuto esaustivamente svolto a causa delle difficoltà del periodo emergenziale, non imputabili alla parte.

Viceversa, se il presidente “ritiene necessaria, anche in assenza di istanza di parte, la discussione della causa con modalità da remoto, la dispone con decreto”.

Si verte evidentemente, in quest’ultimo caso, in una situazione analoga a quanto accade tradizionalmente nei casi in cui durante le c.d. “chiamate preliminari” delle cause le parti chiedono il passaggio in decisione ed il Presidente le invita invece ad una discussione perché sussistono profili rilevati dal collegio sui quali è necessario confrontarsi o avere chiarimenti. Si tratta cioè, mutatis mutandis, di ipotesi in cui, nonostante le difficoltà tecniche abbiano indotto l’avvocato a non chiedere la discussione, il giudicante ritiene che la complessità delle questioni o l’oscurità di alcuni punti meritino uno scambio orale di opinioni, a riprova della bontà della tesi, a più riprese sostenuta dalle associazioni forensi, che l’oralità non è un mero e inutile orpello, ma una fonte di conoscenza e di dialogo diretto con il giudicante di cui quest’ultimo – e non solo gli avvocati - sovente sente la necessità.

La disposizione è appena varata. Si porranno senz’altro questioni esegetiche e applicative, come per tutte le questioni decise sulla spinta dell’urgenza, ma l’impianto è buono, gli obiettivi validi. Chissà che da questa terribile parentesi non si esca con un accresciuta cultura dell’efficienza in ambito giurisdizionale, e una riduzione al minimo dei differimenti processuali. L’Europa guarda alla giustizia amministrativa italiana, e le conversazioni con i giudici stranieri, pubblicate sul sito istituzionale della GA, rendono chiara l’idea che l’Italia non è al traino ma indica la rotta.

 

Giulio Veltri

Consigliere di Stato

Pubblicato il 2 maggio 2020