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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

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I poteri degli enti territoriali durante l’emergenza Covid-19 a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 37/2021.

Di Marcello Galliani
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I poteri degli enti territoriali durante l’emergenza Covid-19

a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 37/2021

 

Di MARCELLO GALLIANI

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa 2. Storia della gestione delle epidemie e pandemie 3. L’emergenza nell’ordinamento attuale 3.1 L’emergenza in Costituzione 3.2 L’emergenza sanitaria e il bilanciamento tra i diritti 3.3 La legislazione ordinaria 4. Il potere di ordinanza 4.1 Breve ricostruzione del potere d’ordinanza 4.2 Ordinanze in materia sanitaria 5. Emergenza covid-19: rapporti tra stato ed autonomie territoriali 5.1 La normativa emergenziale per il covid-19 5.2 Le ordinanze sindacali durante l’emergenza pandemica 5.3 Le ordinanze regionali nel periodo Covid 5.4 L’intervento della Corte costituzionale 6. Conclusioni: è davvero una competenza oggettiva? Riflessioni su una possibile via alternativa

  1. Premessa

Il presente elaborato ha ad oggetto il tema delle emergenze sanitarie. In particolare, il fine dello stesso consiste nell’indagare il ruolo e le funzioni dello Stato e degli enti territoriali nell’affrontare una pandemia.

Infatti, allo scoccare dei due anni dall’inizio della pandemia, l’Italia e l’intero Occidente si sono trovati a fronteggiare la quarta ondata della pandemia causata dal SARS-CoV-2.

Dunque, dapprima si proverà ad effettuare un’analisi storica dei modi in cui si sono gestite le pandemie, dai tempi delle civiltà mesopotamiche fino all’attuale pandemia causata dal Covid-19.

Successivamente, si cercherà di fornire una panoramica delle disposizioni costituzionali in materia e delle norme previste, invece, nella legislazione ordinaria.

Infine, si tratterà dei poteri attribuiti ai Presidenti delle Regioni e ai Sindaci in materia di emergenza sanitaria, con un focus sul potere di ordinanza. Tale studio comprenderà una breve rassegna della casistica intercorsa durante l’emergenza e un’analisi dell’importante sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2021.

Si concluderà suggerendo una possibile via alternativa rispetto all’interpretazione data dalla Corte costituzionale utile per la gestione dell’attuale emergenza, che si spera stia volgendo al termine[1], e delle future, tutt’altro che improbabili[2], nuove epidemie e pandemie che dovremo gestire.

  1. Storia della gestione delle epidemie e delle pandemie

La gestione delle epidemie e delle pandemie non è stata lineare e identica durante tutta la storia dell’esistenza umana, però, si può osservare come paradossalmente eventi negativi, come le crisi epidemiche, abbiano spinto la comunità medica a migliorarsi. Infatti, fin dall’inizio, l’insorgere di una epidemia comportava una mobilitazione della comunità al fine di comprendere la natura del male e le sue cause. I medici, sulla base delle competenze disponibili, cercavano di capire se ci si trovasse dinnanzi a una nuova malattia e come affrontarla.

Per lungo tempo, però, i metodi di gestione delle malattie non sono stati granché efficaci in quanto l’unica misura preventiva funzionante era la quarantena.

Nei primordi dell’umanità nemmeno questo strumento di prevenzione è stato, però, utilizzato dal momento che non vi era contezza del nesso causale tra malattia e contagio. Infatti, nella visione animistico-religiosa dei tempi più antichi, il fenomeno della malattia era visto come una sanzione derivante da colpe insite in qualche comportamento della società[3].

Nei periodi antichi, comunque, pur credendo che le malattie fossero causate da divinità o demoni si iniziarono a sperimentare le prime cure e, dopo qualche secolo, le prime misure di prevenzione.

Erodoto nel primo libro delle “Storie” racconta che i Babilonesi, per distinguere le malattie, portavano i malati in piazza affinché le persone che passavano potessero dire secondo loro quale malattia fosse e come curarsi. Il sistema medico Babilonese era, dunque, fondato sull’esperienza e sulla magia. Venivano usati anche dei rimedi provenienti dalle piante, ma quando scoppiavano delle epidemie si credeva che fossero causate da divinità o demoni e, dunque, si cercava di contrastarli con riti di vario genere. Per esempio, i babilonesi erano convinti che ad un certo punto, essendo aumentato eccessivamente il numero di uomini, il dio Enlil si fosse svegliato a causa del loro rumore e avesse inviato sulla terra il dio-demone Namtar con il compito di causare un’epidemia per decimare l’umanità. Date queste premesse, decisero su consiglio del Grande Saggio (Atram-hasis) di sospendere le offerte alimentari agli altri dèi e rivolgerle solo verso Namtar. Per i babilonesi questo gesto riappacificò Namtar e permise la fine dell’epidemia[4].

Anche gli egiziani credevano che la morte e le epidemie fossero causa dell’ira di un Dio, ma erano molto più abili sia nel curare le malattie che nel diagnosticarle. Grazie ai papiri dei faraoni e al ritrovamento di corpi, infatti, sappiamo che gli egiziani avevano delle elevate conoscenze di anatomia, chirurgia e medicina generale. Addirittura, vi sono ritrovamenti sulla base dei quali si suppone che, pur non conoscendo i batteri, gli egiziani usassero il pane con la muffa[5] (contenente Penicillum) per sterilizzare le ferite. Per esempio, il papiro Hearst del 1500 a.C. parla dell’uso della muffa con intenti curativi[6], ciò dimostra come ben prima della scoperta della penicillina gli egiziani fossero stati in grado di utilizzare più o meno consapevolmente, i suoi effetti. Nel mondo greco e romano si assiste ad un progressivo abbandono della magia[7] e ad una maggiore professionalizzazione della medicina. Grazie allo studio di essa si iniziano a distinguere le malattie e tra queste anche quelle croniche da quelle acute, stimando il tempo delle manifestazioni dei sintomi. In questo senso, nel V secolo a.C. gli insegnamenti di Ippocrate avevano stabilito in quaranta giorni il tempo oltre il quale una malattia non era più acuta e diveniva cronica[8]. I greci avevano, dunque, individuato il termine temporale, ma non era ancora in voga la tecnica di isolare alcuni membri della società[9] né nella cultura greca né in quella romana.

Diversamente per altre popolazioni dell’avanti Cristo presso le quali l’isolamento dei malati era una misura particolarmente in voga [10] . Nell’antico Testamento, nello specifico nel libro del Levitico[11], è narrato che i lebbrosi, o comunque coloro che fossero soggetti a malattie considerate contagiose, venivano isolati. Leggendo il Nuovo Testamento si vede come tale pratica continuò ad essere utilizzata anche durante la vita di Cristo, relegando i lebbrosi e altre categorie di malati ai margini della società e discriminandoli, sia per ragioni sanitarie che per ragioni religiose, in quanto si riteneva che tali soggetti fossero sottoposti ad una punizione divina e che, dunque, potevano essere riabilitati solo con l’intervento divino.

In ogni caso questi rimedi avevano in comune il fatto di non essere di natura preventiva, ma soltanto successiva. Infatti, l’isolamento e la cura, con metodi più o meno scientifici, presupponevano già l’insorgenza dei sintomi.

Qualche strumento preventivo si inizia a vedere durante il governo dell’Imperatore Giustiniano, il quale per fermare la peste impose delle misure per evitare gli eccessivi contatti delle persone, per esempio limitando i riti funebri[12].

Nello stesso periodo vengono sperimentati i primi casi di divieto di ingresso di persone e beni dai luoghi infetti. Un chiaro esempio è presente nelle Epistolae di Desiderio di Cahors del VII secolo D.C. (631-635). Il vescovo di Cahors riceveva dal vescovo di Clermont, Gallo II[13], una lettera che lo avvertiva dello scoppio di un focolaio di peste a Marsiglia e nella quale Gallo II gli suggeriva di prendere gli stessi provvedimenti che aveva preso lui: bloccare i trasferimenti da quelle zone sia di persone (soprattutto mercanti) che di beni[14]. Dallo studio di queste lettere alcuni studiosi ritengono che se le deboli strutture amministrative della Gallia Merovingia furono capaci di dispiegare un cordone sanitario contro la peste, anche gli imperi bizantino e arabo, più burocratizzati, potrebbero aver fatto lo stesso[15].

È soltanto nel 1300 d.C., però, che nasce il moderno concetto di quarantena e quelle che prima erano delle semplici forme di autoisolamento volontario[16] divennero delle vere e proprie pratiche previste per legge. Infatti, a Ragusa in Croazia (l’attuale Dubrovnik) nel 1377 il Rettore aveva emanato un decreto[17] con cui ordinava alle navi provenienti da siti infetti o di sospetta infezione di rimanere ancorate 30 giorni prima di sbarcare[18]. Questa è la prima volta nella storia che appare una legge sulla quarantena, la quale era giustificata sia da motivi sanitari in quanto una città di mare come Ragusa, avendo frequenti traffici, rischiava continuamente lo scoppio di focolai epidemici, che da ragioni commerciali poiché il fine era anche di proteggere il mercato stesso dalla peste.

La misura consisteva in un autoisolamento mensile dei viaggiatori che non potevano muoversi dal luogo di confinamento, pena il trasferimento coatto in luoghi deputati a tal compito, e nel divieto per gli altri cittadini sia di recarsi nei luoghi di segregazione che di portare cibo agli isolati.

Ben presto[19] il periodo di tempo in cui era necessario confinarsi passò da 30 a 40 giorni e dalla parola italiana “quarantina” riferita ai quaranta giorni di isolamento, nacque il nome della pratica sanitaria: “quarantena”[20] .

Venezia, qualche anno dopo, introduceva la stessa disciplina istituendo, inoltre, per prima un luogo dove isolare le persone (cd “lazzaretto). Infatti, nel 1423 d.C. si decise che le persone di sospetta infezione dovevano essere collocate in un’isola non troppo lontana da Venezia nella quale era presente il Monastero di Santa Maria di Nazareth. Dato che il personale medico dell’isola veniva dall’ospedale di San Lazzaro[21] l’isola ha preso il nome del santo e la struttura è stata denominata “lazzaretto”.

Il lazzaretto è divenuto, poi, un modello per gli altri stati europei[22] che aggiunsero, pure, delle altre disposizioni quali, per esempio, l’istituzione dei corpi sociali che avevano il compito di occuparsi delle strutture preposte all’isolamento.

Nel 1400 iniziarono ad assumere dimensione permanente le magistrature sanitarie, soprattutto nelle grandi città[23], le quali avevano il compito di disporre e mettere in atto le necessarie misure per contrastare la diffusione del contagio[24] attraverso provvedimenti che ordinavano interventi  di vario genere: pulizia delle strade, chiusura di esercizi commerciali e ristoranti, divieto di circolare in certi territori considerati infetti, divieto di assembramenti, spostamento coatto dei soggetti infetti nei lazzaretti e isolamento dei familiari, divieto di riti funebri, processioni e cerimonie religiose, nonché le sanzioni per il mancato rispetto di tali disposizioni[25].

Nel XVI secolo si ebbe maggiore contezza della situazione quando Girolamo Fracastoro ipotizzò che delle piccole particelle fossero in grado di trasmettere le malattie[26] e, conseguentemente, la medicina riuscì a garantire delle risposte maggiormente efficaci attraverso precisi interventi di quarantena che divennero la base della epidemiologia e delle scienze sanitarie[27].

Per esempio, quelli che erano dei cordoni sanitari abbastanza improvvisati presenti alle porte delle città divennero dei veri e propri sistemi di controllo avanzati. Fu così che già nel 1400, ma con frequenza maggiore nel 1500, si diffuse lo strumento della bulleta sanitatis che era un documento ufficiale basato sulla dichiarazione effettuata da un soggetto sul proprio stato di salute e sulla provenienza da luoghi non contagiati o comunque sul fatto di non aver frequentato luoghi contagiati per un determinato periodo di tempo[28]. Questo attestato prese il posto delle precedenti autocertificazioni che venivano chieste dalle guardie cittadine ai varchi murari della città durante le ore diurne (mentre di notte le città medievali erano sottoposte a coprifuoco)[29]. Le bollette erano maggiormente sicure poiché  dovevano essere vidimate e autenticate tramite bollatura con ceralacca o “cera rubea” che erano dotate dell’insegna del comune. In tal modo era più difficile falsificare tali documenti e chi li controllava[30] poteva effettivamente verificare il comune di provenienza e la tempistica degli spostamenti.

La bulleta era richiesta ai forestieri, ma non mancavano dei comuni in cui la stessa veniva domandata anche ai residenti che avevano intenzione di lasciare temporaneamente il territorio comunale[31]. I forestieri dovevano esibire la certificazione sanitaria per frequentare taverne e alberghi, mentre per i residenti le regole cambiavano da comune in comune.

Nel caso di mancato rispetto delle disposizioni in materia di bullete erano previste delle sanzioni: sia per i possessori di bullete false, sia nel caso di mancato controllo da parte dei ristoratori e degli albergatori[32].

Misure di prevenzione di vario genere sono state testimoniate anche da Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi” in cui si parla sia di lazzaretti che di casi di isolamento domestico durante la peste milanese del 1630[33].

Nel 1700 la quarantena e le politiche sanitarie sono divenute delle pratiche abbastanza invadenti e, a volte, causa di abusi[34]. Per esempio, con la scusa di disinfettare le cose provenienti da paesi stranieri, le lettere venivano aperte ed erano soggette a spionaggio politico[35]. Inoltre, erano previsti diversi periodi di quarantena nei vari Stati e ciò comportava confusione nei viaggiatori. Questa aura di insoddisfazione verso le politiche sanitarie portò allo sviluppo delle conferenze internazionali del 1800. Alla fine del 1700 vi fu, però, un evento di capitale importanza per le future politiche sanitarie: nel 1796 Edward Jenner sviluppò il primo vaccino della storia. Jenner aveva notato che i contadini e le mungitrici dei bovini che si ammalavano del vaiolo bovino (cowpox), non si ammalavano successivamente della ben più grave forma di vaiolo umano (smallpox). Così decise di iniettare del materiale preso dalla pustola di vaiolo bovino contratto da una giovane donna in un bambino di 8 anni. Dopo alcuni mesi allo stesso bambino venne iniettato del materiale derivante dal vaiolo umano e la malattia non si sviluppò. Nacque così la tecnica preventiva del vaccino che si rivelò nei secoli successivi come la maggiore arma per combattere le malattie infettive.

Nel 1800 la medicina e la scienza in generale hanno avuto una importante crescita,  anche spinte dalla necessità di affrontare le crisi sanitarie causate dalla rivoluzione industriale che aveva comportato la fuga delle popolazione dalle campagne alle città con i conseguenti disagi causati dalla sovrappopolazione. Nella metà del XIX secolo, infatti, sono nate ufficialmente la microbiologia e la virologia e molti congressi si sono susseguiti per uniformare le regole internazionali in materia di epidemie.

Specificatamente, fu molto importante la Prima Conferenza Sanitaria Internazionale che si tenne a Parigi nel 1851 in risposta alle epidemie di colera del 1830 e del 1847, che uccisero in Europa decine di migliaia di persone. Con questa conferenza si iniziava, finalmente, a formalizzare una visione internazionale della medicina anche se la collaborazione in materia di quarantene non era semplice, poiché le visioni degli organismi internazionali andavano necessariamente a collidere con le differenziate politiche di protezione interna dei vari paesi[36]. Un esempio è la Conferenza di Roma del 1885 nella quale vi fu una violenta discussione tra Francia e Gran Britannia sulla proposta di introdurre delle ispezioni di quarantena sulle navi indiane da effettuare nel canale di Suez. Questa discussione non era basata su questioni sanitarie, ma su problematiche di carattere prettamente politico incentrate sul fatto che la Gran Britannia voleva avere il pieno dominio del canale di Suez e per questo motivo si opponeva.

Allo stesso modo negli Stati Uniti ci furono dei contrasti causati dal fatto che inizialmente si riteneva che le quarantene fossero una materia prettamente locale e, quindi, dovevano essere i singoli stati ad occuparsene. Successivamente, a causa di alcune pesanti ondate di febbre gialla, il Congresso ha emanato nel 1878 la “Federal Quarantine Legislation” che era un insieme di leggi che permettevano l’intervento Federale per disporre provvedimenti di quarantena. Nel 1892 queste stesse leggi vennero usate per dotare il governo Federale di una maggiore autorità nell’imporre i requisiti per la quarantena al fine di combattere il colera[37].

Soltanto nel 1893, grazie a una serie di conferenze avvenute a metà del secolo, sia in Europa che negli Stati Uniti, si raggiunsero degli accordi sulla notifica delle malattie e su altri problemi specifici (come la durata delle quarantene).

In ambito interno ai vari paesi, invece, iniziarono a formarsi degli organismi deputati alla sanità formati da medici e tecnici. Per esempio, in Italia la legge di unificazione amministrativa del 20 marzo 1865 istituì il Consiglio Superiore di Sanità.

Il bilancio del 1800 è comunque positivo in quanto si è passati dalle chiusure delle frontiere dei secoli precedenti, che avevano quale obiettivo quello di creare un finto senso di sicurezza nella popolazione, a una dimensione di reale tutela dell’individuo. Infatti, la batteriologia e le vaccinazioni spostarono l’attenzione “dalla difesa del territorio a quella dell’organismo individuale, e alla metafora militare (il territorio) si sostituì, come fine e come condizione, una politica di sanità pubblica”. [38]

Inoltre, nello stesso secolo le campagne di quarantena furono molto utili per combattere le epidemie di tubercolosi.

Anche a seguito delle spinte ottocentesche, nei primi anni del 1900 le misure di quarantena hanno subito un processo di “medicalizzazione”.[39]

Nel 1903 il termine “lazzaretto” è stato sostituito da “stazione sanitaria” e, in Italia e Francia, i soggetti sottoposti a misure sanitarie sono stati distinti in “malati”, “sospetti malati” e “persone sane”.

Ma la più importante novità del 1900 è l’internazionalizzazione della medicina.

Il 9 dicembre 1907, con l’accordo di Roma, viene istituito l’”Office international d'hygiène publique (in italiano: l’Ufficio Internazionale di igiene pubblica) che era un’organizzazione internazionale con sede a Parigi e aveva il compito di supervisionare le normative in materia di quarantena delle navi nei porti, di prevenire lo sviluppo della peste, della febbre gialla e del collera e di amministrare altre convenzioni internazionali in materia sanitaria[40]. Nel 1911 la stessa organizzazione ha aggiunto alle malattie storicamente sottoposte a quarantena (peste, colera e febbre gialla) il tifo e il vaiolo e nel 1926 ha imposto una serie di regole di quarantena che dovevano rispettare tutti i viaggiatori (di terra, mare e aria).

Quando la Società delle Nazioni è stata costituita nel 1920, è stata fondata insieme ad essa l’Organizzazione della Sanità della Società delle Nazioni. Nello stesso anno nacque anche un organismo sanitario internazionale sotto la Croce Rossa.

Tra le due guerre ci sono state, dunque, ben tre organizzazioni di Sanità le quali, però, risultavano abbastanza deboli, perché sottoposte al controllo di altre organizzazioni e con personale ridotto[41], e non avevano, pertanto, realmente una forte capacità di incidere sulle politiche internazionali in materia di sanità

Dopo la parantesi della Seconda guerra mondiale che aveva visto un ritorno al nazionalismo[42] e aveva, dunque, tarpato le ali alle spinte internazionaliste, riprese la globalizzazione della sanità e nell’aprile 1945, quando i capi di Stato si riunirono per istituire le Nazioni Unite, gli esponenti del Brasile e della Cina proposero l’istituzione di una nuova organizzazione internazionale di sanità. Fu così che il 7 aprile 1948 nacque l’Organizzazione mondiale della Sanità che riunì le tre organizzazioni internazionali di sanità. Si scelse la sigla “mondiale” e non “internazionale” perché si voleva slegare la missione dell’Organizzazione dalle convenzioni o accordi diplomatici tra i paesi e, invece, promuovere la salute come diritto fondamentale di ogni individuo e di ogni paese nel mondo[43].

L’OMS si proponeva di raccogliere l’eredità importante portata avanti dal modello Beveridge sviluppato dall’Inghilterra durante la guerra. Tale modello intendeva creare un servizio sanitario nazionale basato sul diritto alla salute da garantire ad ogni cittadino indipendentemente da classe, genere e istruzione. Lo stesso si accompagnò alla costituzione del c.d. welfare state ed ebbe la sua formalizzazione nel National Health Act del 1948 (la nuova legge sanitaria inglese) che ispirò molti paesi europei, tra i quali anche l’Italia.

L’OMS presa da questo spirito iniziò varie campagne per debellare, grazie all’uso delle medicine e dei vaccini, alcune delle più gravi malattie esistenti. Così, in un primo momento, nel 1953 si promosse una campagna contro la malaria grazie all’uso del DDT[44] che portò effettivamente buoni risultati in quasi tutto il mondo, tranne che nei paesi che all’epoca venivano definiti del Terzo Mondo.

Ebbe, invece, grandissimo successo la campagna contro il vaiolo. Così come focale fu l’intervento dell’OMS durante le crisi sanitarie del ‘900. L’OMS, infatti, riveste un ruolo fondamentale nell’attività di guida delle diverse nazioni sulle questioni sanitarie globali, stabilisce standard e norme, indirizza la ricerca sanitaria, formula scelte di politica sanitaria basate sull’evidenza scientifica, finanzia la ricerca,  garantisce assistenza tecnica agli Stati Membri, monitora e valuta le tendenze in ambito medico e fornisce aiuti di emergenza in caso di calamità, nonché effettua le segnalazioni di emergenza per lo scoppio di epidemie e pandemie. L’OMS ha svolto un importante ruolo, per esempio, nella campagna per il vaccino contro la poliomielite o in quella di contrasto all’AIDS.

Inoltre, è stato proprio grazie all’intervento dell’OMS che si è riusciti ad affrontare in modo abbastanza efficiente le epidemie da coronavirus. Infatti, per quanto riguarda la SARS, pur avendo avuto notizia in ritardo dello scoppio dell’epidemia, l’OMS è stata in grado di aiutare il coordinamento tra i sistemi sanitari dei vari evitando una rapida diffusione della malattia in Occidente. Allo stesso modo, e in maniera ancora più efficace, è avvenuto con la MERS. L’11 marzo 2020, poi, l’OMS ha dichiarato la pandemia Covid-19 e sta aiutando gli Stati nella gestione della stessa attraverso raccomandazioni e report.

Ciò che si può notare, osservando le emergenze derivanti dai Coronavirus, è che nel momento in cui ancora le malattie sono ignote e fin quando non sono disponibili cure e vaccini, le uniche misure tutt’ora efficaci sono quelle dell’isolamento e delle quarantene. Non va, però, dimenticato che allorquando i virus vengono isolati oggi, a differenza del passato, la ricerca scientifica è in grado di intervenire in modo abbastanza rapido nella ricerca, sperimentazione e produzione di vaccini e cure come testimoniato dai fatti che stiamo attualmente vivendo.

Fatte queste premesse storiche, lo scopo dei prossimi paragrafi sarà, dunque, comprendere come il nostro ordinamento si ponga davanti a un’emergenza sanitaria e studiare il raccordo delle varie istituzioni nella risoluzione della stessa, tenendo conto anche degli strumenti effettivamente utilizzati durante la attuale crisi pandemica.

  1. L’emergenza nell’ordinamento attuale

3.1 L’emergenza in Costituzione

Il diritto di eccezione è stato definito “quel complesso di disposizioni che devono essere necessariamente adottate per far fronte a una situazione anomala, straordinaria, che incide provvisoriamente sulla normale evoluzione dell’ordinamento giuridico[45] oppure una “sostituzione, sia pure provvisoria e limitata, di un nuovo diritto obbiettivo al diritto obbiettivo già esistente[46].

Questa situazione è sicuramente normata dal nostro ordinamento, anche se la Costituzione non contiene una disciplina espressa dello stato di emergenza o di eccezione, a differenza di quanto fatto da altri Stati europei.

D’altronde non è una circostanza nuova nel diritto del continente europeo in quanto fin dai tempi antichi si prevedeva la possibilità di “rompere” l’ordinamento giuridico dinnanzi a contesti emergenziali. Il primo istituto emergenziale documentato risale al tempo della Grecia antica, nello specifico a Corinto nel 657 a. C., quando la tirannide divenne la risposta a uno stato di emergenza causato dalla guerra[47]. Successivamente anche i romani hanno previsto la possibilità per il Senato di dichiarare lo stato di emergenza (iustitium) a seguito di una situazione emergenziale (tumultus) attraverso il Senatus consultum de re publica defendenda, cioè il provvedimento del Senato per la difesa della Repubblica che abilitava i consoli, il pretore e i tribuni della plebe ad adottare qualsiasi misura indispensabile per la salvezza dello Stato[48].

Lo Statuto Albertino era, invece, come la Costituzione repubblicana, privo di una disciplina dell’emergenza, ma la prassi attribuiva al Re dei poteri emergenziali abbastanza forti. Indicativo è stato il caso dei proclami di Moncalieri per il tramite dei quali il re Vittorio Emanuele II fece appello agli elettori del Regno di Sardegna affinché si impegnassero a portare in Parlamento una maggioranza favorevole alla ratifica del trattato di pace con l’impero austriaco[49]. Questa competenza, poi, soprattutto in epoca fascista, si trasferì sempre di più dal Re al Governo[50]. Nel periodo mussoliniano, infatti, il TULPS (R.D. 773/1931) prevedeva agli artt. 214-216 la possibilità per  il Ministro dell’Interno di dichiarare, con l’assenso del Capo del Governo, lo “stato di pericolo pubblico”. Questa dichiarazione permetteva al Governo di emanare delle ordinanze anche in deroga alle leggi vigenti in materia di ordine e sicurezza pubblica. Nello stesso TULPS gli articoli 217-219 disciplinavano, invece, lo “stato di guerra per motivi di ordine pubblico”.  Inoltre, nello stesso periodo, il R.D. 1415/1938 prevedeva la possibilità di adire lo “stato di guerra”, anche nel caso di “guerra interna”, con decreto reale, su proposta del Capo del Governo, che autorizzava il comandante militare ad “emanare bandi che hanno valore di legge[51]

Fatte queste brevi premesse storiche, risulta chiaro perché per alcuni sarebbe sembrato logico prevedere una disciplina espressa dello stato d’emergenza nella Costituzione del 1948, ma la scelta dei costituenti, dopo un lungo dibattito, è stata differente. Infatti, nell’Assemblea costituente c’era chi sosteneva l’assoluta necessità di una regolamentazione precisa dello stato d’emergenza per evitare abusi[52], chi contrariamente non riteneva necessaria tale previsione[53] e, addirittura, chi voleva prevedere un divieto espresso[54]. La risultante di questo dibattito fu la scelta di non stabilire alcuna disciplina espressa dello stato di emergenza in Costituzione, non vietando, però, tale strumento. In tal modo si trovò il punto di incontro tra chi temeva che una disciplina espressa dello stato di emergenza potesse portare a degli abusi simili a quelli perpetuati in Germania negli anni ’30 del ‘900[55] e chi riteneva che un suo totale divieto potesse favorire dei movimenti indipendentisti.

Il fatto che non vi sia una disciplina espressa dello stato di eccezione o di emergenza non significa che la Costituzione non abbia tenuto conto della possibilità che venga a crearsi una situazione di emergenza, ma ha preferito disciplinare tale situazione con specifiche previsioni o singoli istituti[56].

L’ottica con cui si sono posti i Costituenti dinnanzi all’emergenza è stata quella di difendere altri diritti e, così, l’articolo 14 comma 2 stabilisce che il domicilio, di regola inviolabile, può essere soggetto ad accertamenti ed ispezioni attraverso leggi speciali soltanto per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali. Allo stesso modo, l’articolo 16 co. 1 prevede che la libertà di circolazione può essere limitata “per motivi di sanità e di sicurezza”, l’articolo 17 co. 3 stabilisce che la libertà di riunione può essere limitata “per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica”, mentre per l’articolo 41 co. 2 la libertà di iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da “recare danno alla sicurezza”.

Una specifica situazione straordinaria viene presa in considerazione dalla Costituzione nell’articolo 78: lo stato di guerra. Questa è una disposizione in deroga all’articolo 11 della Costituzione, che prevede il ripudio da parte delle Repubblica italiana della guerra come strumento di offesa degli altri popoli, e consiste nel fatto che “le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al governo i poteri necessari”. L’eccezionalità e residualità della previsione si rispecchia nel fatto che il Parlamento conferisce in questo caso al Governo soltanto i “poteri necessari” e non poteri assoluti o pieni.

La Costituzione prevede, infine, espressamente uno strumento da esercitare per gestire le emergenze: il decreto-legge. Ai sensi dell’articolo 77 il Governo può, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, adottare,  sotto  la  sua responsabilità, tali provvedimenti provvisori con forza  di legge. Il Governo deve il giorno stesso presentare il decreto per la conversione alle  Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. Se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla pubblicazione i decreti perdono efficacia retroattivamente, ma le Camere possono regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.

Ed effettivamente il decreto-legge è stato uno strumento centrale per gestire l’emergenza Covid, insieme ai Decreti del Presidente del Consiglio di Ministri. In questa occasione la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire il divieto di reiterazione dei decreti-legge, nonché il fatto che gli stessi devono essere giustificati da situazioni emergenziali. Inoltre, per quanto riguarda i rapporti tra decreti-legge e DPCM, o comunque altri provvedimenti sub legislativi, la dottrina ha sottolineato che il decreto-legge non può trasformarsi in una delega in bianco o “foglia di fico”[57]. Infatti, in questi mesi i decreti emergenziali hanno disposto delle limitazioni ai diritti fondamentali per le quali la Costituzione prevede il rispetto del principio di legalità e delle riserve di legge (di solito relative). La riserva di legge non deve essere intesa in senso formale, ma sostanziale e pertanto la stessa può ritenersi senz’altro rispettata dall’uso del decreto-legge. Il problema si pone, piuttosto, nel rapporto tra i decreti-legge e i DPCM poiché non solo questi ultimi non possono prevedere delle disposizioni difformi ai decreti-legge, ma gli stessi d.l. devono stabilire espressamente i limiti e le condizioni per l’esercizio dei poteri, pur lasciando un certo margine di discrezionalità nella scelta della misura da attuare in concreto.  Alla luce di ciò, è palese che il primo d.l. (il n. 6 del 2020) fosse incostituzionale in quanto non delimitava le misure indicate, fornendo un’elencazione soltanto esemplificativa, né fissava dei limiti di carattere temporale o sostanziale (tranne il generico riferimento ad una “gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”) e nemmeno specificava bene i soggetti a cui era attribuito il potere denominandoli genericamente come “autorità competenti”. Tali autorità potevano prendere “ogni” ed “ulteriore” misura di contenimento e gestione dell’emergenza, anche fuori dai casi espressamente indicati.

Tutto questo impianto era in contrasto con la giurisprudenza consolidata, da 60 anni, della Corte costituzionale che per i provvedimenti emergenziali richiede alcune condizioni: “la efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell’urgenza; adeguata motivazione; efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale; conformità del provvedimento stesso ai principi dell’ordinamento giuridico[58]

Per questo motivo, al fine di evitare censure di legittimità, i successivi decreti sono andati a specificare le misure che potevano essere prese dai vari soggetti.

3.2 L’emergenza sanitaria e il bilanciamento tra i diritti

Proprio tramite l’utilizzo dei decreti-legge, oltreché dei DPCM, il Governo ha regolato varie situazioni emergenziali andando a toccare e limitare, soprattutto nel primo periodo, alcuni diritti e libertà costituzionali: la libertà personale (art. 13), la libertà di circolazione e di soggiorno (art. 16), la libertà di riunione (art 17), la libertà di culto (art 19), il diritto alla difesa (art. 24), il diritto allo studio (art.34), il diritto al lavoro (art. 4), l’iniziativa economica (art. 41), ecc.

Queste limitazioni sono avvenute richiamando l’articolo 32 della Costituzione che stabilisce: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

La legislazione pandemica ha dato alla generalità l’impressione che il diritto/valore alla salute e alla vita abbia un primato su tutti gli altri diritti costituzionali[59]. Secondo tale visione nel momento in cui è necessario conservare l’ordinamento dall’emergenza sanitaria la salute diventa un diritto “tiranno” o, meglio, un valore meta positivo in grado di piegare gli altri[60], giustificato dal fatto che il venir meno della salute, intesa come vita o mera sopravvivenza, “rischia di far crollare come un castello di sabbia, e per sempre, tutti i diritti, dalle libertà individuali al diritto al lavoro, a quello all’istruzione alle libertà economiche[61].

Su tale questione a dire il vero vi è da parecchi anni un dibattito in dottrina che sembrava essere stato sedato dalla giurisprudenza. Tutto ruota attorno al fatto che la Costituzione prevede nel testo dell’articolo 32 l’aggettivo “fondamentale” ed è l’unico diritto che la Costituzione qualifica in tal modo. In passato ci si era chiesto quale significato dare a questo espresso riconoscimento testuale e si erano formate due scuole di pensiero: chi riteneva che fosse un aggettivo equivalente a “inviolabile” e non portasse ad alcuna qualificazione giuridica ulteriore e chi, invece, riempiva di significato tale parola. In particolare, questi ultimi ritenevano che l’aggettivo dovesse essere una chiave per l’interprete, per superare le antinomie dei diritti, modellandole nel caso concreto sulla base del diritto alla salute.

Tutte queste discussioni sembravano esser state sedate dalle decisioni della Corte costituzionale sul caso ILVA. La Corte con la sentenza n. 85 del 2013 ha statuito che si debba effettuare un “ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione” in quanto tutti questi diritti “si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri […] Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe ‘tiranno’ nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”. Successivamente, la stessa Corte con la sentenza n. 58 del 2018, sempre riguardante il caso ILVA, è andata ulteriormente a specificare che “il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati”.

Autorevole dottrina[62], che già non vedeva con favore tali decisioni della Corte, ha sottolineato che le scelte operate dal legislatore per fronteggiare la pandemia non fanno che confermare la necessità di un ripensamento in merito alla valenza da dare all’aggettivo “fondamentale”.

In questo senso, si sottolinea che anche se il legislatore ha dovuto sacrificare il godimento di altri diritti costituzionali e libertà sull’altare della tutela della salute, tale atteggiamento non è stato oggetto di perplessità né in dottrina né in giurisprudenza, a differenza di altre pratiche portate avanti dal Governo. Anzi, v’è da dire che delle volte nel periodo emergenziale la giurisprudenza amministrativa ha richiamato il diritto alla salute definendolo come “primario[63]. Così, chi è a favore di tale teoria legge nelle mancate perplessità della dottrina e nelle sentenze della giurisprudenza un implicito riconoscimento del maggior valore dato al diritto alla salute dall’aggettivo “fondamentale” previsto dalla Costituzione il quale permetterebbe di distinguere la salute dagli altri diritti costituzionali anch’essi inviolabili e assoluti, ma non fondamentali.

L’espressa previsione non servirebbe a sottrarre il diritto alla salute ad alcun tipo di bilanciamento, ma semplicemente ergerebbe lo stesso a criterio di risoluzione della antinomie di natura intercostituzionale[64]. Ne deriverebbe, cioè, che quando vi è un contrasto tra il diritto alla salute e un diritto di pari rango costituzionale e tale conflitto non può essere risolto attraverso il criterio di specialità per mancanza di un’esplicita previsione in tal senso, l’aggettivo fondamentale è in grado di far prevalere il diritto alla salute[65]. In tali ipotesi, la prescrizione della fondamentalità servirebbe a superare il contrasto tra due  regole o due principi “in favore di quello o di quella che risulti testualmente chiamata fondamentale rispetto all’altro od all’altra, che, privi di una tale qualificazione, sono evidentemente nei loro confronti da considerarsi secondari[66]. Ciò non avverrebbe in automatico, perché comunque la situazione sarebbe sindacabile in concreto, ma darebbe un ulteriore strumento nelle mani dell’interprete per risolvere i contrasti. Ovviamente questo meccanismo non è applicabile per risolvere i contrasti tra il diritto individuale alla salute e quello collettivo. In questo caso entrambi condividono la qualifica di diritto fondamentale ed è la stessa Costituzione a prevedere la possibilità per il diritto individuale alla salute di essere limitato in favore di quello collettivo nel caso dell’imposizione dei trattamenti sanitari obbligatori. Proprio con la disciplina dei T.S.O. si nota, però, che l’interesse individuale costituisce la regola, mentre quello collettivo l’eccezione[67], in quanto l’art. 32 Cost. prevede per la limitazione dell’interesse individuale la riserva di legge relativa e la garanzia del rispetto della persona umana. Inoltre, anche l’ordine sistematico con cui sono collocati gli interessi dimostrerebbe questa gerarchia interna, essendo collocato nel testo dell’articolo costituzionale anteriormente il diritto individuale e successivamente quello collettivo.

Altra parte della dottrina nega, invece, la rilevanza dell’aggettivo “fondamentale” richiamando i perentori passaggi della già citata sentenza 85/2013 della Corte costituzionale al punto 9 delle considerazioni in diritto. In questo passaggio la Corte espressamente dichiarava di non condividere l’opinione del rimettente giudice delle indagini preliminari, secondo cui “l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona.” E chiariva che la definizione data dalla stessa Corte con la sentenza 365 del 1993, citata dal rimettente, dell’ambiente e della salute come “valori primari” non “implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.

Va detto che la questione non si pone in realtà per tutti i diritti costituzionali, perché in alcuni casi è la stessa Costituzione a individuare i motivi di sanità o di incolumità pubblica come possibili limiti al godimento del diritto. Ciò accade sicuramente per la libertà domiciliare, per quella di circolazione e per quella di riunione dato che in questi casi la stessa Costituzione prevede espressamente che tali diritti possano essere limitati per motivi di sanità. Secondo attenta dottrina si potrebbero aggiungere all’elenco quei diritti che per il loro godimento prevedono in certi casi una riunione, come per esempio la libertà di esercizio dei culti religiosi, il diritto all’istruzione o il diritto al lavoro[68].

Da quest’ultima considerazione deriva il fatto che in tutte le suddette situazioni il godimento dei diritti può sicuramente subire delle limitazioni sulla base del diritto alla salute, ovviamente sindacabili dalla giurisprudenza.

La domanda rimane, invece, aperta in tutti quei casi in cui il diritto alla salute va a confliggere con diritti costituzionalmente protetti diversi da quelli sopra richiamati.

Sebbene, la dottrina non sia unanime sulla questione, si deve sottolineare che una risposta sembra esser stata data dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia la quale, presentando in qualità di presidente la relazione annuale sull’attività della Corte Costituzionale dell’anno 2019, richiamava i criteri di «necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità», mediante i quali «in ogni tempo deve attuarsi la tutela “sistemica e non frazionata” dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, ponderando la tutela di ciascuno di essi con i relativi limiti». Queste dichiarazioni sono un palese richiamo alle decisioni sul caso ILVA e ribadiscono l’importanza del bilanciamento dei diritti per risolvere i contrasti tra il diritto alla salute e altri diritti costituzionalmente protetti.

Per quanto riguarda, invece, i rapporti tra diritto individuale alla salute e interesse collettivo alla salute vi è uniformità di visioni in dottrina e in giurisprudenza nel dare prevalenza all’interesse individuale su quello collettivo.

La tesi è fondata su una lettura della disposizione costituzionale incentrata sul dato testuale e nello specifico sulla collocazione delle parole. Infatti, il diritto individuale precede nel testo l’interesse della collettività e da ciò si desume che il primo è da intendersi come la “regola” mentre il secondo come “eccezione” e, dunque, se il primo è destinato a prevalere in circostanze ordinarie, il secondo prevarrà in casi eccezionali[69].

Sicuramente l’emergenza Covid-19 si configura come una situazione eccezionale in grado di giustificare, in certi casi, il sacrificio della salute individuale in favore di quella collettiva. E ciò avviene, per esempio, con l’obbligo di quarantena indirizzato a quanti siano risultati positivi al Covid-19, il quale è in grado di incidere sulla libertà del paziente in ordine alle cure, oppure con la sospensione dei servizi ambulatoriali, disposta soprattutto durante la prima ondata, o, ancora, con l’imposizione della vaccinazione obbligatoria per alcune categorie di lavoratori.

Si può a tale riguardo condividere la giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale secondo la quale la prevalenza della dimensione collettiva della tutela della salute su quella individuale è strettamente collegata al principio solidaristico[70]. Intendendo il principio solidaristico nella sua dimensione orizzontale o fraterna[71] si possono giustificare le misure che impongono limiti al diritto alla salute individuale con un’unica restrizione: le misure sanitarie eventualmente imposte nell’interesse della collettività non possono risultare lesive della salute individuale. In caso contrario, infatti, si violerebbe il principio liberale che caratterizza l’intera Costituzione poiché si funzionalizzerebbe la libertà di curarsi dei cittadini all’interesse della collettività. Per lo stesso motivo è impossibile invocare l’articolo 2 Cost. al fine di ricostruire un generale dovere di curarsi e mantenersi sani.[72] I rapporti tra diritto individuale alla salute e interesse della collettività, infatti, altro non sono che la trasposizione in ambito sanitario del principio solidarista e di quello personalista che sono entrambi previsti dall’articolo 2 della Costituzione e che derivano dal fatto che l’essere umano vive in una società e, dunque, oltre a tener conto dei propri interessi ha dei doveri nei confronti del resto dei consociati.

Secondo tale ordine di idee, quindi, la priorità dell’interesse della collettività alla salute rispetto ad altre situazioni di vantaggio sarebbe rinforzato più che dall’aggettivo “fondamentale”, presente nel testo dell’articolo 32 Cost., proprio dal fatto che il diritto alla salute è strettamente legato al principio solidarista che giustificherebbe le compressioni temporanee di altri diritti.

Per quanto riguarda, invece, il riparto di competenze legislative va detto che la “tutela della salute” rientra nell’ambito delle materie oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni, ai sensi della lett. m) dell’art. 117, comma 2, della Cost., a differenza dell’assetto precedente in cui la meno ampia materia dell’”assistenza ospedaliera” era attribuita alla competenza esclusiva dello Stato. Ne deriva che in materia di “tutela della salute” è attribuita allo Stato la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale. Questa materia non ha dei confini del tutto definiti e, dunque, ha provocato spesso contrasti che ha dovuto risolvere la Corte costituzionale.

La salvaguardia del diritto alla salute viene in rilievo anche nell’ambito di due altri titoli di competenza legislativa: la “profilassi internazionale” che l’articolo 117 lett. q riserva alla competenza esclusiva statale e la “protezione civile” che è, invece, materia di legislazione concorrente[73]. Inoltre, attiene alla salute e, soprattutto, all’organizzazione del SSN la competenza esclusiva data allo Stato nel dover garantire “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, c. 2, lett. m), Cost.) in base alla quale lo Stato può quindi intervenire in materia sanitaria, al fine di garantire adeguati livelli di assistenza sanitaria e di superare i divari tra le Regioni.

Infine, fondamentale in tema di emergenze è la competenza esclusiva attribuita allo Stato in materia di “ordine pubblico e sicurezza” (art 117, c.2, lett h).

3.3 La legislazione ordinaria

Nella legislazione ordinaria una disciplina dello stato d’emergenza è presente nel Codice di protezione civile come da ultimo modificato dal d.lgs. 1/2018.

Il Codice, all’art. 7, distingue gli eventi emergenziali in tre categorie, a seconda della loro intensità: a) emergenze connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell'uomo che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili, dai singoli enti e amministrazioni competenti in via ordinaria;

  1. b) emergenze connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell'uomo che per loro natura o estensione comportano l'intervento coordinato di più enti o amministrazioni e debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo, disciplinati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano nell'esercizio della rispettiva potestà legislativa;
  2. c) emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell'uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell'articolo 24.

Le emergenze di cui alla lettera “c” devono essere precedute dalla dichiarazione dello stato d’emergenza regolato dall’articolo 24 del Codice. Tale potere è espressione della competenza concorrente attribuita dall’articolo 117 della Costituzione alla materia “protezione civile”. Infatti, la catalogazione delle emergenze è evidentemente espressione di un principio fondamentale in materia di protezione civile e, dunque, al ricorrere delle condizioni formali e sostanziali poste dall’articolo 7 lett. c del Codice, la normativa statale può attrarre le competenze regionali attraverso un meccanismo che illustre dottrina ha definito “avocazione di poteri d’emergenza[74]. Lo stato di emergenza, secondo il comma 3 dell’articolo 24 del codice, ha una durata che “non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi”.  A seguito della dichiarazione dello stato d’emergenza il Governo, per il tramite del Capo del Dipartimento di Protezione civile, opera ai sensi dell’articolo 25 del Codice “mediante ordinanze di protezione civile, da adottarsi in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico e delle norme dell'Unione europea. Le ordinanze sono emanate acquisita l'intesa delle Regioni e Province autonome territorialmente interessate e, ove rechino deroghe alle leggi vigenti, devono contenere l'indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere specificamente motivate”.

Questo sistema non è privo di criticità. Innanzitutto, recentemente per gestire la quarta ondata di Covid-19 il Governo Draghi, con il decreto-legge 24 dicembre 2021 , n. 221, ha prorogato lo stato di emergenza oltre i 24 mesi fissati dal codice e questo ha suscitato alcune perplessità in dottrina, soprattutto perché la modifica di una legge ordinaria importante come il Codice di procedura civile è avvenuta tramite decreto-legge. Si deve, comunque, sottolineare che essendo stati rispettati i presupposti (tutela della salute pubblica, temporaneità, proporzionalità, motivazione) l’estensione dello stato d’emergenza non è sicuramente incostituzionale[75] e la questione è più di carattere politologico e di tecnica legislativa.

Inoltre, la dichiarazione dello stato di emergenza prevede un coinvolgimento delle Regioni abbastanza debole, stante in un generico “raccordo”, forse non del tutto adeguato ad un sistema che favorisce la differenziazione e le autonomie come il nostro. Ancora, l’articolo 7 non individua in modo specifico i poteri d’emergenza riconosciuti allo Stato e il rischio è quello che in nome dell’emergenza sanitaria si decostituzionalizzi l’intero riparto di competenze con un meccanismo simile alla clausola di necessità tedesca[76], ma senza un’indicazione specifica dei presupposti e delle modalità d’esercizio della clausola di supremazia. Tale indeterminatezza viene, quantomeno in parte, ridotta dall’art. 1, comma 2, lett. a) della legge delega n. 30 del 2017, secondo il quale “non rientrano nell’azione di protezione civile gli interventi per eventi programmati o programmabili in tempo utile che possano determinare criticità organizzative”. Ne deriva che lo Stato non può intervenire quando le Regioni siano in grado di programmare l’intervento, ma può avocare soltanto quando è necessario provvedere immediatamente. Inoltre, l’urgenza dell’intervento è chiaramente sindacabile secondo i principi di proporzionalità e ragionevolezza. In questo senso, similmente a quanto accade con la chiamata in sussidiarietà, risulta necessaria l’intesa tra lo Stato e le Regioni quale parametro per pesare la proporzionalità e ragionevolezza dell’intervento, nonché quale strumento per rispettare il principio di leale collaborazione.

Quando, invece, la situazione emergenziale consente un’efficace risposta decentrata, allora, le misure unitarie a livello statale non risultano più necessarie o adeguate e conseguentemente va favorita una riespansione delle competenze locali. Quest’ottica di bilanciamento è stata abbastanza efficacemente trovata con il sistema dell’Italia a colori che, differenziando il territorio nazionale sulla base dei contagi, dei morti e del tasso di occupazione delle terapie intensive, permette di distinguere il territorio nazionale e le misure da adottare nelle singole regioni e comuni a seconda dello specifico grado di emergenza, pur garantendo comunque una certa unitarietà necessaria nell’attuale periodo emergenziale.

Infatti, finora si è affrontata la questione da un punto di vista costituzionale, accennando le due filiere di intervento statale (la prima attraverso il meccanismo decreto-legge/DPCM e la seconda attraverso lo stato di emergenza e i poteri derivanti in capo allo Stato), ma non va dimenticato che un’altra fetta importante di provvedimenti emessi durante il periodo emergenziale è composto dagli interventi locali, sia regionali che comunali.

Nei prossimi paragrafi si affronterà proprio il rapporto tra le competenze decentrate e quelle statali, focalizzando l’attenzione sul potere di ordinanza, al fine di analizzare le tensioni che si sono venute a creare e come sono state risolte dalla giurisprudenza.

  1. Il potere di ordinanza

4.1 Breve ricostruzione del potere di ordinanza

Definire l’evoluzione storica del potere d’ordinanza, soprattutto se si parla di ordinanze d’urgenza, non è un’operazione molto semplice in quanto si tratta di un provvedimento risalente nel tempo che è stato oggetto di valutazioni diverse a seconda del momento storico considerato.

Prima delle Costituzioni liberali del 1800 non esisteva sostanzialmente una divisione di poteri tra il Parlamento e il Governo. Il Governo, fondamentalmente, disponeva su ogni questione e poco importava la forma in cui ciò avveniva: poteva essere indipendentemente una legge, un’ordinanza o un decreto.

In questo periodo, da un altro lato, l’urgenza era considerata quale fonte del diritto.

Al tempo dello Statuto Albertino la prassi consentiva al Re di emanare delle ordinanze nei casi d’urgenza anche in deroga alle disposizioni vigenti. Questo fu un potere molto usato nel periodo fascista.

Dopo il 1948, con la previsione della Costituzione, però, la disciplina è cambiata e in gran parte le situazioni di urgenza sono state attratte nel potere attribuito al Governo, in casi di necessità e urgenza, di emanare dei decreti-legge che, ex art 77 della Costituzione, hanno valore di fonte primaria dell’ordinamento.

In questo rinnovato assetto, però, sono sopravvissuti alcuni poteri ibridi o atipici che vanno indagati sotto la lente del giurista e nello specifico, soprattutto, gli ordini e le ordinanze.

Gli ordini sono passati da un’epoca in cui erano molto frequenti e caratterizzati da elementi di specialità, ad oggi in cui rientrano nello spazio tipico del provvedimento amministrativo e da questo non si distinguono più in un’autonoma categoria[77].

Le ordinanze regolamentari, pure, rientrano nel normale provvedimento amministrativo in quanto definite dalla legge nella loro forma e contenuto per soddisfare una determinata materia corrispondente ad una specifica competenza attribuita ad un determinato organo e, per questo, non comportano alcun problema di compatibilità costituzionale.

Le ordinanze contingibili e urgenti (o di necessità), invece, pongono non pochi problemi.

Il nostro ordinamento prevede vari casi in cui è possibile emanare ordinanze contingibili e urgenti di cui è controversa la natura amministrativa o normativa.[78]

Il problema della natura giuridica delle ordinanze contingibili e urgenti è una questione di diritto costituzionale più che di diritto amministrativo, basti ora dire che, ai sensi della sentenza 8 del 1956 della Corte costituzionale, sono stati posti dei criteri che devono essere rispettati affinché le ordinanze si possano considerare legittime e sono: l’efficacia limitata nel tempo in relazione alle esigenze di necessità e urgenza, adeguata motivazione, efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale e conformità del provvedimento stesso ai principi dell’ordinamento giuridico.

Queste tutele sono previste perché le ordinanze contingibili e urgenti sono degli atti particolarissimi: sono atipici e capaci di derogare le norme dell’ordinamento. Atipici nel senso che, intervenendo in casi imprevedibili, non sono predeterminati e predeterminabili nel loro contenuto. Per questo motivo possono essere previsti solo per periodi di tempo definiti. Inoltre, la Corte costituzionale ha più volte chiarito che essi debbano essere adottati come extrema ratio nel caso in cui tutti gli altri strumenti che l’ordinamento garantisce non possano essere efficaci in base alla situazione di fatto esistente nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza.

Tra i vari tipi di ordinanze contingibili e urgenti possiamo citare: il potere del prefetto previsto dall’articolo 2 del TULPS “di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica” nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ovvero i poteri attribuiti alla protezione civile per “evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone o cose” con possibilità di derogare la normativa vigente, soprattutto urbanistica o del codice degli appalti, previsti dalla legge di istituzione del Servizio nazionale di protezione civile[79] inizialmente solo per fronteggiare le emergenze naturali e, nel 2001 non senza dubbi in quanto si tratta di situazioni prevedibili, esteso all’organizzazione di grandi eventi.

Anche le regioni e i comuni sono dotati di poteri di ordinanza contingibili e urgenti.

In particolare, il sindaco dispone di alcuni poteri emergenziali che hanno avuto una vita abbastanza travagliata in quanto sono stati oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale (la n. 115 del 2011) e oggi sono compendiati negli artt. 50 e 54 del TUEL.

4.2. Ordinanze in materia sanitaria

I poteri di ordinanza in materia sanitaria sono vari e a volte tra di loro sovrapponibili. Tale superfetazione di previsioni deriva dal fatto che varie disposizioni sono state previste nel corso degli anni per disciplinare la stessa materia senza, però, espressamente abrogare le disposizioni precedenti.

Iniziamo l’analisi dalla fonte normativa più risalente: il Testo unico delle leggi sanitarie (R.D. 27 luglio 1934, n. 1265).

Il Testo Unico stabilisce una serie di poteri di ordinanza ma oggetto della trattazione saranno solo i mezzi extra ordinem.

Il primo è attribuito dall’articolo 129 al Prefetto, il quale “in caso di sospensione o interruzione di un servizio farmaceutico, dipendenti da qualsiasi causa, e dalle quali sia derivato o possa derivare nocumento all’assistenza farmaceutica locale […] adotta i provvedimenti di urgenza per assicurare tale assistenza”. È un atto straordinario, ma dal contenuto vincolato in quanto le misure adottate possono essere solo quelle idonee a ripristinare il servizio.

Il TULS, ancora, attribuisce al sindaco una serie di poteri di ordinanza. All’articolo 217 prevede che il sindaco possa emettere delle ordinanze straordinarie nel caso di “pericolo o danno per la salute pubblica” causato da “vapori gas o altre esalazioni, scoli di acque, rifiuti solidi o liquidi” con cui disporre le “norme da applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo”. All’articolo 258 prevede che il sindaco possa ordinare a “qualsiasi cittadino, dimorante in un comune in cui si sia manifestata una malattia infettiva di carattere epidemico” di effettuare “prestazioni conformi alla sua condizione, arte o professione” tutto ciò “nell'interesse dei servizi di difesa contro la malattia stessa”.

Questi poteri sono oggi racchiusi nell’articolo 50 comma 5 del TUEL che attribuisce al sindaco la competenza ad adottare delle ordinanze contingibili e urgenti quale rappresentante della comunità locale “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”. Per la sua ampia previsione l’articolo 50 comma 5 è in grado di inghiottire ogni disposizione in ambito sanitario riferita al sindaco.

Il TULS, poi, attribuisce al Ministro dell’Interno, in caso di epidemia, un potere di ordinanza straordinario ai sensi dell’articolo 261. In questi casi il Ministro poteva “emettere ordinanze speciali per la visita e la disinfezione delle case, per l’organizzazione di servizi e soccorsi medici e per le misure cautelari da adottare contro la diffusione della malattia stessa”.

Tale disposizione sembra, però, essere stata abrogata[80] dall’articolo 32 della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (n. 833 del 1978) che ha attribuito al Ministro della Salute il potere di “emettere ordinanze di carattere contingibile ed urgente, in materia di igiene e sanità pubblica o di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o parte di esso comprendente più Regioni”.

Il terzo comma dello stesso articolo si occupa delle emergenze di carattere locale stabilendo che “Nelle medesime materie sono emesse dal Presidente della giunta regionale e dal Sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale”. 

In questo caso il potere di ordinanza è condiviso tra i tre livelli di governo e il potere va esercitato in base alla dimensione dell’emergenza. Se l’emergenza ha dimensione ultraregionale sarà competenza statale, se regionale delle regioni, mentre se locale dei sindaci.

Su questa disposizione si può avere qualche dubbio sull’attuale vigenza in ambito locale in quanto si sovrappone con l’articolo 50 comma 5 del TUEL.

Qualche altra sovrapposizione si segnala per le disposizioni contenute nell’articolo 117 del D. Lgs. n. 112/1998 “In caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal Sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Negli altri casi l’adozione dei provvedimenti d’urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle Regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell’eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali”.

  1. Emergenza covid-19: rapporti tra stato ed autonomie territoriali

5.1 La normativa emergenziale per il covid-19

Quando ci si appresta ad analizzare il rapporto tra competenze statali e locali durante le emergenze sanitarie va tenuto a mente che, come visto in precedenza, sia per quanto riguarda il riparto di competenze tra Stato e Regioni, sia per quanto riguarda le competenze amministrative il quadro normativo è complesso e di non facile lettura. Per questo si deve ritenere che lo stesso non preveda una rigida separazione di poteri e competenze tra i diversi livelli di governo, ma un’integrazione dei vari poteri e delle varie competenze[81] ed è, quindi, importante che lo Stato, le Regioni e gli enti locali si pongano, anche nel caso di un’emergenza sanitaria che richiede una gestione unitaria, in un’ottica collaborativa al fine di rispettare il principio di “leale collaborazione”.  Nei prossimi paragrafi si analizzerà la casistica dei mezzi impiegati e alcune pronunce giurisprudenziali al fine di comprendere se ed in qual  modo tale collaborazione sia stata portata avanti dagli enti che compongono la Repubblica.

 

 

5.2 Le ordinanze sindacali durante l’emergenza pandemica

I sindaci non hanno smesso, anche in questo periodo di emergenza COVID-19, di esercitare i propri poteri extra ordinem, tanto che il legislatore è intervenuto, dapprima, con l’articolo 35 del D.L. n. 9 del 2 marzo del 2020 e poi con l’articolo 3 del D.L. n. 19 del 25 marzo 2020 vietando le ordinanze contingibili e urgenti dei primi cittadini che siano in contrasto con la normativa prevista dallo Stato.

L’articolo 3 del decreto del 25 marzo, a dire il vero, non proibisce del tutto l’intervento dei sindaci, infatti, prevede che: “I Sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l'emergenza   in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1”, limiti che consistono in alcuni oggetti specificamente indicati dall’articolo 1 comma 2 dello stesso decreto[82].

La breve casistica precedente a questo intervento normativo ci racconta un utilizzo da parte dei sindaci delle ordinanze contingibili e urgenti per imporre maggiori restrizioni alla popolazione. Nel fare ciò i primi cittadini hanno richiamato sia l’articolo 50 del T.U.E.L comma quinto primo periodo, che prevede la possibilità di utilizzare il mezzo dell’ordinanza per fronteggiare emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale sia, a volte, anche, l’articolo 54 comma 4 del T.U.E.L. Il richiamo a quest’ultimo articolo sembra forse rientrare nella ormai ben nota prassi per i sindaci di citare sia l’articolo 54 che l’articolo 50 del T.U.E.L. nel momento in cui emettono delle ordinanze contingibili e urgenti, abitudine sicuramente da censurare. Potrebbe, però, essere anche giustificato da un’interpretazione abbastanza estensiva della nozione di incolumità pubblica che l’articolo 54 comma 4-bis definisce come “integrità fisica della popolazione”.

Spesso viene, pure, richiamato l’articolo 32 della legge istitutiva del SSN.

Due profili sono stati rilevanti durante questa emergenza: il coordinamento tra l’attività regionale e l’attività comunale e la compatibilità delle ordinanze con la disciplina statale sull’emergenza.

Emblematiche sono a riguardo due sentenze: Tar Napoli, sez. V, n. 1153 del 2020 e Tar Bari, sez. III, 22 maggio 2020, n. 733.

Il Tar Napoli, l’8 giugno 2020, ha deciso riguardo la sospensione cautelare dell’ordinanza sindacale n. 249 adottata dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris il 4.6.2020 con cui si ampliava l’orario degli esercizi di somministrazione in senso accrescitivo rispetto alla analoga regolamentazione operata con atti regionali, in deroga anche al regolamento comunale. Il giudice amministrativo ha ritenuto che non ricorresse il presupposto dell’urgenza richiesto per l’adozione delle ordinanze contingibili e urgenti e, comunque, che l’oggetto dell’ordinanza non rientrasse correttamente né nelle competenze conferite dall’articolo 50 del T.U.E.L., né dell’articolo 54 del T.U.E.L., ma piuttosto nella potestà regolamentare del Comune. Per tutti questi motivi, accoglieva l’istanza di sospensione cautelare monocratica dell’ordinanza del Sindaco di Napoli.

La sentenza del Tar Bari, invece, interveniva sul rapporto tra le ordinanze contingibili e urgenti e la normativa statale. Nello specifico il giudice pugliese annullava tre ordinanze emesse dal sindaco di Peschici dell’8 aprile, 24 aprile e 3 maggio 2020 perché riteneva che non rispettassero i presupposti richiesti alle ordinanze contingibili e urgenti in materia di emergenza sanitaria imposti dal principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico. Il giudice, applicando l’articolo 3 del decreto legge del 25 marzo che impone ai sindaci di non contrastare con la normativa nazionale e il rispetto dell’ambito oggettivo d’intervento posto dalla norma, rileva che “il Sindaco […] non è privato del potere di ordinanza extra ordinem ma - diversamente da quanto avviene in periodi non qualificabili come emergenze nazionali, in cui l’ordinanza contingibile e urgente vale a fronteggiare un’emergenza locale e può avere finanche attitudine derogatoria dell’ordinamento giuridico - neppure può esercitare il potere di ordinanza travalicando i limiti dettati dalla normativa statale, non solo per quel che concerne i presupposti ma anche quanto all’oggetto della misura limitativa”. Ne deriva, secondo il giudice, che il sindaco può emettere ordinanze contingibili e urgenti, ma nel rispetto di alcune condizioni: agire entro i limiti previsti dal decreto, predeterminare la durata degli effetti dell’ordinanza e motivare in modo puntuale, sulla base dei dati epidemiologici del territorio in un dato momento, la presenza di un sopravvenuto aggravamento del rischio sanitario. Sembrerebbe, dunque, che il sindaco possa emettere delle misure maggiormente restrittive in presenza di tali presupposti[83].

5.3 Le ordinanze regionali nel periodo covid

Per quanto riguarda i rapporti tra lo Stato e le Regioni nell’attuale emergenza sanitaria si possono distinguere tre fasi, che hanno visto differenti modalità di intervento dei suddetti soggetti e una diversa composizione dei loro rapporti[84].

La prima fase che va dal marzo 2020 al maggio 2020 coincide praticamente con la prima ondata del virus. È una fase in cui è stato necessario un intervento immediato dello Stato per rispondere ad una malattia ignota e per questo motivo il Governo è intervenuto in modo forte e unitario attraverso il meccanismo decreto-legge/DPCM, passando dalla chiusura di singole regioni, effettuata in un primissimo momento, al lockdown generalizzato.

Il tutto ruota attorno a due decreti: il decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020 e il decreto n. 19 del 25 marzo 2020.

Il primo decreto-legge stabiliva all’articolo 1 che “allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19, nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un'area già interessata dal contagio del menzionato virus, le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica” e forniva un elenco non tassativo di misure che potevano essere prese. Mentre all’articolo 2  statuiva: “Le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell'emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all'articolo 1, comma 1”.

Non si ritornerà sulla genericità e la probabile incostituzionalità di tale decreto, ma va in questa sede trattata la disposizione secondo la quale “nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1, nei casi di estrema necessità ed urgenza le misure di cui agli articoli 1 e 2 possono essere adottate ai sensi dell'articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dell'articolo 117 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e dell'articolo 50 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo18 agosto 2000, n. 267.”.

Ne derivava un ampio potere che subito i presidenti delle Regioni e i Sindaci hanno sfruttato e, in parte, del quale hanno abusato.

Ad esempio, il Presidente della Regione Marche[85], Luca Ceriscuoli, nonostante la sua Regione non presentasse nessun contagio, riteneva le misure nazionali insufficienti e aveva deciso di limitare alcune attività, tra cui quelle scolastiche di ogni ordine e grado e per questo adottava l’ordinanza n. 1 del 25 febbraio 2020. La Presidenza del Consiglio dei ministri impugnava tale ordinanza dinnanzi al TAR Marche chiedendone l’annullamento e la sospensione in quanto adottata in assenza del presupposto legittimante di cui all’articolo 1 del decreto-legge 6/2020. Il TAR Marche confermava le tesi della Presidenza del Consiglio e accoglieva la richiesta di sospensiva con il Decreto del 27 febbraio 2020 n. 56. A questo punto, però, la Regione riproponeva sostanzialmente il contenuto dell’ordinanza sospesa in un’altra ordinanza, nuovamente senza consultare il Governo, che, tuttavia, scelse di non impugnare il nuovo atto poiché ciò che era prescritto nell’ordinanza marchigiana era nel frattempo stato esteso per l’intero territorio nazionale attraverso l’adozione del DPCM, 4 marzo 2020, con cui per la prima volta erano state disposte “Misure per il contrasto e il contenimento sull’intero territorio nazionale del diffondersi del Coronavirus”[86].

Dopo questa seguirono altre ordinanze, alcune di dubbia costituzionalità come quelle di alcune Regioni del Sud[87] che imponevano la quarantena a coloro che rientravano dalle regioni del Nord che erano palesemente in contrasto con l’articolo 120 comma 1 della Costituzione che stabilisce “il divieto per le regioni di adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni”; altre, come quelle della Regione Lazio, che prevedevano l’istituzione di singole zone rosse in alcuni luoghi dove erano presenti dei focolai. Molto attivo è stato Vincenzo De Luca, il Presidente della Regione Campania, che spesso con le sue ordinanze ha anticipato le disposizioni nazionali. Nel periodo che stiamo considerando proprio un’ordinanza della Regione Campania è stata oggetto della lente del TAR dopo essere stata impugnata da un cittadino. Tale ordinanza, 13 marzo 2020, n.15, vietava  di fare sport anche all’aperto, ed in particolare di praticare attività sportiva, ludica e ricreativa in luoghi aperti al pubblico, ponendo così dei divieti maggiormente restrittivi rispetto a quelli disposti dal DPCM del 9 marzo 2020. Il TAR Campania, sez. V, si è pronunciato con decreto 18 marzo 2020, n. 416 rigettando la richiesta di sospensiva dell’ordinanza ritenendo legittimo il provvedimento in quanto correlato a situazioni ragionevolmente localizzate.

Il secondo decreto-legge della fase 1, il n. 19 del 25 marzo 2020, cercava di intervenire non solo per evitare le possibili censure di illegittimità del precedente decreto, ma anche per cercare di mettere un freno all’attività delle Regioni e dei Comuni. Oltre a definire meglio e tassativamente i soggetti e le misure adottabili, ha previsto un procedimento per l’adozione dei DPCM che stabiliva la richiesta di un parere dei Presidenti delle Regioni interessate dal Decreto o del Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome nel caso in cui la questione in oggetto riguardi l’intero territorio nazionale. Questa intesa era però debole, poiché il parere era obbligatorio ma non vincolante.

In merito alla questione delle ordinanze, invece, l’articolo 3 restringeva di molto il potere degli Enti locali stabilendo che le Regioni, nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e con efficacia limitata fino a tale momento, potevano introdurre “misure ulteriormente restrittive solo per specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatosi nel loro territorio o in parte di esso”. Inoltre, stabiliva che le Regioni potevano esercitare la suddetta facoltà “esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza”, senza incidere ulteriormente sulle attività produttive e su quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale. Ne deriva che il decreto fornisce un ruolo centrale ai DCPM e uno sussidiario ai provvedimenti degli enti locali che possono intervenire solo nelle more dell’emanazione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri con efficacia limitata e con contenuto tipico. Coerentemente il comma 3 dell’art 3 del decreto stabilisce che gli atti dei Presidenti regionali e dei sindaci, pur se fondati su motivi sanitari, perdono d’efficacia nel momento in cui viene adottato un nuovo DPCM. Questo decreto causò qualche perplessità in primis in dottrina per il fatto che prevedeva che continuavano ad applicarsi le “misure già adottate con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri adottati in data 8 marzo 2020, 9 marzo 2020, 11 marzo 2020 e 22 marzo 2020 per come ancora vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto”. E, poi, aggiungeva che le ordinanze ancora vigenti alla data del decreto in oggetto continuavano ad applicarsi, nei limiti di ulteriori dieci giorni.

Risultava certamente, dunque, “che in questo complesso scenario il nuovo decreto-legge non si è limitato a fare salvi gli effetti delle pregresse ordinanza statali, ma ha fatto salvi anche quelli delle ordinanze regionali, pur laddove illegittime per violazione dei limiti indicati e … confermati dallo stesso Decreto-legge n.19 del 2020. Non solo: ne ha assicurato l’ultrattività per ulteriori dieci giorni[88].

Nonostante la previsione di alcuni poteri affidati agli enti territoriali, si crearono, comunque, delle tensioni tra i Presidenti Regionali e il Governo soprattutto perché il decreto prevedeva una disciplina uguale per tutto il territorio nazionale, ma nella prima ondata il Covid era principalmente localizzato al Nord Italia. Per questo non bastava quel piccolo spazio di differenziazione dato dal fatto di poter imporre misure maggiormente restrittive, in quanto alcune Regioni, confortate da dati epidemiologici rassicuranti, intendevano piuttosto prevedere delle misure maggiormente estensive.

Per esempio, un caso molto discusso fu quello generato dall’ordinanza emanata dalla Presidentessa della Regione Calabria, Iole Santelli, n. 37 del 29 aprile 2020, che al punto n. 6 disponeva, a partire dal 30 aprile, sul territorio della Regione la ripresa delle “attività di ristoranti, pizzerie e agriturismi con somministrazione esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto” con l’osservanza di misure minime “anti- contagio”. In tal modo estendeva molto le maglie imposte dai decreti statali, ponendosi in evidente conflitto con quanto imposto con la disposizione di cui all’art. 1, comma 2, lett. v) del Decreto-legge n. 19 del 2020 che espressamente limitava o sospendeva attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di prodotti del genere, compresi bar e ristoranti. Dopo una diffida avanzata da parte del Ministro per gli affari regionali nei confronti della Regione affinché prontamente ritirasse l’ordinanza in oggetto, alla quale la Calabria non dava seguito, il Governo decideva di ricorrere al TAR Calabria che con la sent.n.841 del 9 maggio 2020 accoglieva quanto indicato dallo Stato e annullava l’ordinanza del Presidente della Regione Calabria poiché in contrasto con gli artt. 2, comma 1, e 3, comma 1, del D. L. 25 marzo 2020, n. 19. I giudici calabresi sottolineavano che “spetta al Presidente del Consiglio dei ministri individuare le misure necessarie a contrastare la diffusione del virus Covid-19, mentre alle Regioni è dato di intervenire solo nei limiti delineati dall’art. 3, comma 1 d.l.n.19 del 2020” che vietava agli amministratori di emettere provvedimenti in deroga alle misure di sicurezza emanate dal Governo. Secondo il Tar, quindi, la controversia “denota un evidente difetto di coordinamento tra i due diversi livelli amministrativi, e dunque la violazione da parte delle Regioni del dovere di leale collaborazione tra i vari soggetti che compongono la Repubblica, principio fondamentale nell’assetto di competenze del Titolo V della Costituzione”. 

Finita la prima ondata di contagi e dopo il lockdown nazionale, l’esigenza era quella di riaprire gradualmente le attività chiuse per tornare ad una vita il quanto più possibile normale. Per questo la fase due, inaugurata con il DPCM 26 aprile 2020, in vigore dal 4 maggio e per le successive due settimane, aveva come obbiettivo la “riapertura” e il “rilancio” del Paese. Il processo normativo si completava con l’emanazione del Decreto-legge 16 maggio 2020 n. 74, convertito con modificazioni, nella legge ordinaria 14 luglio 2020, n.74, che recava “Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19” e stabiliva fino al 31 luglio 2020, le misure relative agli spostamenti e quelle finalizzate a consentire la ripresa delle attività nei diversi settori. Nello specifico venivano interrotti i divieti di spostamento tra regioni dal 3 giugno 2020, ma il decreto stabiliva che gli stessi potevano essere ripristinati, ai sensi dell’art. 1 comma 3 del decreto, solo  con  “provvedimenti  adottati  ai  sensi dell'articolo 2 del decreto-legge n. 19  del  2020,  in  relazione  a specifiche  aree  del  territorio  nazionale,  secondo  principi   di adeguatezza   e   proporzionalità    al    rischio    epidemiologico effettivamente presente in dette aree”; quindi l’eventuale ripristino avveniva con DPCM sentiti i presidenti delle regioni interessate, nel caso in cui riguardassero esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardassero l'intero territorio nazionale oppure su proposta di questi soggetti.

Inoltre, il decreto valorizzava il ruolo delle Regioni nelle riaperture stabilendo che: “Le attivita' economiche, produttive e sociali devono  svolgersi nel rispetto dei contenuti di  protocolli  o  linee  guida  idonei  a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali. In  assenza  di  quelli regionali trovano applicazione i protocolli o le linee guida adottati a livello nazionale”.

Ma la disposizione più importante era quella posta dal comma 16 dell’articolo 1 che prevedeva, innanzitutto, che le Regioni dovessero monitorare “con cadenza giornaliera l'andamento della situazione  epidemiologica  nei propri territori e, in relazione a tale andamento, le  condizioni  di adeguatezza del sistema sanitario regionale” e comunicare il monitoraggio al Ministero della Salute, all'Istituto Superiore di Sanità e al  Comitato  Tecnico-scientifico. Inoltre, sulla base dell’andamento dei contagi sul territorio, secondo i criteri stabiliti dal Ministro della Salute del 30 aprile 2020 e sue modificazioni, le Regioni potevano introdurre misure derogatorie sia in senso ampliativo che restrittivo, informando contestualmente il Ministro della Salute.

Per questo motivo, specialmente con la riapertura degli spostamenti tra Regioni, le stesse hanno emanato un numero molto ampio di provvedimenti e si è realizzata in ambito locale una verticalizzazione del potere “analoga a quella che si rileva nell’organizzazione centrale, con un accentramento dei poteri decisionali nell’organo monocratico di vertice dell’esecutivo, il presidente della Giunta regionale – alias il “governatore”…e il sindaco”[89] che hanno preso centralità non solo per le decisioni assunte, ma anche per il modo in cui le hanno adottate. Un ambito in cui le Regioni sono state molto attive è stato quello dei dispositivi di protezione personale dove si è vista, finalmente, un’ampia differenziazione delle scelte regionali. Così, per esempio la Toscana (ord. 17 maggio 2020, n.57) e il Veneto (ord. 13 giugno 2020, n.59)  hanno imposto l’uso della mascherina solo in luoghi chiusi, mentre altre regioni come la Lombardia (ord. 12 giugno 2020, n.566) hanno stabilito che fosse obbligatorio portare la protezione facciale anche all’aperto. 

Nonostante gli ampi poteri attribuiti alle Regioni, non sono mancati dei contrasti con lo Stato causati dalla poca chiarezza dei DPCM attuativi del decreto del maggio 2020. In particolare, la maggior parte delle discussioni sono state causate dall’apertura delle sale da ballo e discoteche che i DPCM dell’11 giugno e del 7 agosto 2020 vietavano, ma contestualmente permettevano alle Regioni di agire in deroga alla chiusura governativa. Per questo motivo molte Regioni, come per esempio le Marche (DPGR  13 agosto 2020, n. 232 ) o la Sardegna (ordinanza dell’11 agosto 2020, n. 38), disponevano la riapertura di tali esercizi o di locali assimilabili. Davanti ad una nuova impennata di contagi il Ministro della Salute, però, con Ordinanza del 16 agosto interveniva a dirimere ogni dubbio disponendo la sospensione “all’aperto o al chiuso, (del)le attività del ballo che abbiano luogo in discoteche, sale da ballo e locali assimilabili destinati all’intrattenimento o che si svolgono in lidi, stabilimenti balneari, spiagge attrezzate, spiagge libere, spiagge comuni delle strutture ricettive o in altri luoghi aperti al pubblico”.

La fase tre della gestione epidemica si è aperta a novembre con il riacuirsi dei contagi causati dalla riapertura delle scuole e la ripresa delle attività lavorative che hanno provocato una serie di focolai che ben presto sono sfuggiti alle maglie del tracciamento e hanno determinato l’inizio della seconda ondata epidemica. Il Governo, su parere del Comitato tecnico scientifico, per questo motivo ha deciso di deliberare la proroga dello stato di emergenza al 31 gennaio 2021 e di adottare un nuovo decreto-legge per cercare di contenere la pandemia: il decreto-legge 7 ottobre 2020, n.125, poi convertito con modificazioni in legge 27 novembre 2020, n. 159 intitolata “Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonché per l’attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020”.

Questo decreto prevedeva, per quanto riguarda le Regioni, una nuova restrizione al loro potere di emanare provvedimenti riguardanti l’emergenza sanitaria. Infatti, veniva modificato il comma 16 dell’articolo 1 del precedente decreto-legge, stabilendo che la Regione poteva introdurre misure derogatorie rispetto a quelle nazionali solo in senso restrittivo, e non anche ampliativo come era prescritto in precedenza. Era previsto solo un caso nel quale la Regione poteva stabilire delle disposizioni di minore rigore: “nei casi e nel rispetto dei criteri previsti dai citati decreti e d’intesa con il Ministro della Salute”, cioè quando un DPCM consentiva l’adozione di misure ampliative da parte delle Regioni e solo a seguito di un’intesa con il Ministro della Salute.

Dopo questo decreto-legge seguirono alcuni DPCM che andavano a prevedere delle misure sempre più restrittive: dal più autonomista Decreto del Presidente del Consiglio del 18.10.2020 che attribuiva ai sindaci il compito di disporre i c.d. “coprifuoco locali” fino ad arrivare all’importante DPCM 3 novembre 2020. Tale decreto ha portato ad un cambiamento definitivo nella gestione della pandemia perché ha deciso di disporre delle regole unitarie che però avessero in sé degli elementi di differenziazione. Infatti, invece di prevedere un  lockdown nazionale, il Governo stabiliva regimi differenti a seconda delle specifiche situazioni locali, con la suddivisione delle Regioni in diverse fasce di rischio: rossa (la più grave), arancione (pericolo medio) e gialla (pericolo minore). Le regioni a maggior rischio avevano una disciplina maggiormente restrittiva, mentre quelle con meno rischio una più permissiva. Tale suddivisione era basata su ventuno parametri indicati nel documento scientifico condiviso con la Conferenza delle Regioni e con il titolo “Prevenzione e risposta Covid-19, evoluzione della strategia per il periodo autunno-inverno”. Era il Ministro della Salute con ordinanza a classificare nelle varie fasce le Regioni, sentiti i Presidenti delle Regioni interessate, sulla base del Documento di “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” e dei dati elaborati dalla Cabina di regia, nonché di quelli comunicati dalle Regioni. Diversamente le ordinanze del Ministro della salute che esentavano alcune parti del territorio regionale dal rispetto di determinate misure statali, a seguito di una diminuzione del rischio epidemiologico, avvenivano tramite un’intesa con la Regione interessata. Con il DPCM del 14 gennaio 2021 è stata istituita un’altra fascia: la “zona bianca”. Queste erano aree che, avendo avuto un netto miglioramento nell’andamento dei contagi, erano sottoposte a poche misure restrittive e nelle quali quasi tutte le attività erano aperte. Successivamente, con il decreto-legge 23 febbraio 2021, n.15 tale modello di divisione per “colori” del territorio nazionale, fino ad allora disciplinato solo da DPCM, è stato confermato anche attraverso un provvedimento legislativo che divideva le Regioni, sempre a seconda della gravità della situazione locale, in zona bianca, zona gialla, zona arancione e zona rossa. Il decreto-legge del 1° aprile 2021 n. 44 (Decreto Riaperture) ha, poi, previsto che nelle aree in cui la situazione era grave, per via delle varianti o di focolai, le Regioni potessero imporre misure “stabilite per la zona rossa, nonché ulteriori, motivate, misure più restrittive tra quelle previste dall'articolo 1, comma 2, del decreto-legge n. 19 del 2020”. Tali restrizioni  non potevano, però, riguardare le scuole per le quali “è assicurato in presenza sull'intero territorio nazionale lo svolgimento dei servizi educativi per l'infanzia di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 65, dell'attività scolastica e didattica della scuola dell'infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado, nonché, almeno per il 50 per cento della popolazione studentesca, delle attività scolastiche e didattiche della scuola secondaria di secondo grado”. La deroga era consentita “solo in casi di eccezionale e straordinaria necessità dovuta alla presenza di focolai o al rischio estremamente elevato di diffusione del virus SARS-CoV-2 o di sue varianti nella popolazione scolastica. I provvedimenti di deroga sono motivatamente adottati sentite le competenti autorità sanitarie e nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, anche con riferimento alla possibilità di limitarne l'applicazione a specifiche aree del territorio”.

Anche durante la seconda ondata si sono registrati alcuni contrasti tra le Regioni e lo Stato. In un primo momento, data l’impennata che stavano avendo i contagi, tali conflitti furono causati dalla volontà delle Regioni di stabilire delle misure maggiormente restrittive.

Così è stato per l’ordinanza della Regione Puglia del  27 ottobre 2020 n. 407, intitolata “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, attraverso la quale il Presidente della Regione, Michele Emiliano, aveva disposto, con decorrenza dal 30 ottobre fino al 24 novembre, la sospensione delle attività didattiche in presenza di tutte le istituzioni scolastiche dei cicli primario e secondario e il ripristino della didattica a distanza, fatta eccezione per le istituzioni educative per l’infanzia. Tale provvedimento si poneva in contrasto con il DPCM, 24 ottobre, che all’art.1, comma 9 lett. s),  disponeva il ritorno alla didattica in presenza per le scuole dell’infanzia e per il ciclo dell’istruzione di primo grado, elementari e medie, mentre per le scuole secondarie di secondo grado la possibilità di disporre forme flessibili. L’ordinanza era stata impugnata dal Codacons Lecce innanzi al TAR Bari che sottolineava l’evidente contrasto del provvedimento con il DPCM sopravvenuto del 3 novembre 2020, stante nel fatto che la Puglia era in zona arancione per la quale era prescritta la didattica in presenza delle scuole elementari anche nelle aree ad alta criticità locali (zone rosse locali).

Nello stesso momento in cui veniva presentato ricorso al TAR Bari, pure sedici genitori presentavano ricorso sulla stessa questione al TAR Lecce che decideva diversamente sottolineando che si dovesse tener conto del “necessario contemperamento del diritto alla salute con il diritto allo studio” e dare senza dubbio prevalenza al primo sul secondo che sarebbe risultato comunque, seppur parzialmente, soddisfatto con la didattica a distanza. Alla fine, lo stesso Presidente della Regione dava ragione al TAR  ed emanava l’ordinanza 6 novembre 2020, n. 413, che cercando di realizzare un compromesso, riapriva le scuole inferiori, ma rimetteva ai genitori e tutori degli studenti la scelta se proseguire con la didattica in presenza o se scegliere quella a distanza.

Altri contrasti derivarono dall’applicazione del nuovo modello e dai parametri utilizzati. Oltre a generiche critiche, avanzate soprattutto da Regioni con Presidenti di una fazione politica diversa rispetto a quella del Governo, ne derivarono vere e proprie controversie.

Ad esempio, è da segnalare il contrasto del gennaio 2021 intercorso tra il Governo e la Lombardia causato dal fatto che quest’ultima per alcuni giorni era stata inserita in zona rossa, ma riteneva di aver fornito al Governo dei dati da zona arancione. La Regione Lombardia ha quindi presentato ricorso al giudice amministrativo, contro la decisione dello Stato, chiedendo la sospensiva del provvedimento statale. La questione è stata superata in via stragiudiziale con l’aggiornamento dei dati che ha portato la Lombardia in zona arancione. Un altro esempio è quello della Sardegna che, a metà gennaio 2021, ha presentato ricorso al giudice amministrativo contro il provvedimento che la includeva in zona arancione; il collegio, tuttavia, ha dato ragione allo Stato, confermando la validità dell’ordinanza del Ministro della salute.

Nella prima parte dell’anno altre critiche sono state avanzate sulla gestione del piano vaccinale, ma in questo caso più dallo Stato verso alcune Regioni che in un primo momento non hanno seguito le linee guida statali per la somministrazione.

In seguito, il Decreto riaperture è stato criticato per aver tenuto il coprifuoco alle 22.00 fino al 21 giugno e per la disciplina sulla scuola sopra accennata.

Successivamente alla campagna vaccinale le chiusure delle Regioni non sono state, almeno finora, più necessarie grazie al crollo dei ricoveri, ma, proprio per incentivare la vaccinazione, è stato introdotto un importante strumento: il Green pass. Il Green pass è un certificato che accerta che un determinato soggetto ha completato il ciclo vaccinale, oppure è guarito dal Covid negli ultimi sei mesi o che è negativo a un tampone antigenico rapido nelle ultime 48 ore o ad un molecolare nelle ultime 72.  L’utilizzo di questo strumento, introdotto dal d.l. 22 aprile 2021, n. 52, è stato progressivamente esteso, andando poi a distinguere tra Green pass (quello di cui si è parlato finora), Super Green pass (che si ottiene o con un ciclo di vaccinazione completa o essendo guariti dal Covid negli ultimi sei mesi) e Mega Green Pass (per chi ha effettuato la dose booster del vaccino). Il fatto di essere in possesso di questi documenti permette, in modo differenziato a seconda del tipo di Green pass, di svolgere svariate attività da quelle ludiche e ristorative, nonché di lavorare.

Data l’importanza dello strumento il Governo in sede di conversione del d.l. n. 105/2021 ha precisato all’articolo 3 comma 2, ultimo periodo, che “ogni diverso o nuovo utilizzo delle certificazioni verdi COVID-19 è disposto esclusivamente con legge dello Stato”. Questa puntualizzazione non è stata casuale, bensì è derivata da talune affermazioni fatte in televisione da alcuni Presidenti di Regione che preannunciavano delle modifiche regionali al green pass[90].

Infine, recentemente le Regioni hanno svolto un ruolo decisivo nella cabina di regia Covid (attraverso il referente della Conferenza Stato-Regioni) nel richiedere una modifica delle regole sulla quarantena a seguito della quarta ondata. Infatti, con l’aumento del numero dei soggetti contagiati vi era il rischio di bloccare il Paese e le Regioni hanno proposto di diminuire o azzerare la quarantena per i vaccinati, nonché alcuni hanno richiesto il lockdown per i non vaccinati e l’obbligo vaccinale. Il Governo ha deciso nella riunione del C.d.M. del 30/12/21 di ascoltare le regioni estendendo il Super Green Pass a quasi tutte le attività, tranne quella lavorativa, e azzerando la quarantena per coloro che hanno ricevuto la dose di vaccino booster o hanno ricevuto la quarta dose nei 4 mesi precedenti, nonché riducendola da 7 a 5 giorni per coloro che hanno ricevuto la seconda dose in un periodo maggiore ai quattro mesi precedenti. Inoltre, è stato previsto l’obbligo vaccinale per tutti gli over 50.

5.4 L’intervento della Corte costituzionale

Si è visto come i rapporti tra lo Stato e le Regioni nella gestione dell’emergenza non siano sempre stati idilliaci e per questo la Corte costituzionale, con la sentenza n. 37 del 2021, è intervenuta per fare chiarezza censurando la legge regionale n. 11 del 2020 della Valle d’Aosta. La normativa valdostana si componeva di sette articoli in cui, oltre ad occuparsi di alcune disposizioni procedimentali interne alla Regione, si elencavano alcune attività “sempre consentite”, altre “consentite ma sospendibili” con ordinanza del Presidente della Giunta regionale in caso di necessità ed altre “vietate, ma autorizzabili”, di volta in volta con ordinanza del Presidente della Giunta Regionale anche in deroga alle disposizioni emergenziali statali[91]. In tal modo la legge valdostana creava una disciplina di contrasto alla pandemia autonoma e differenziata rispetto a quella statale.

Tali disposizioni introducevano, dunque, una normazione calibrata sul territorio regionale riguardante “le attività produttive, industriali e commerciali, professionali, di servizi alla persona, sociali, culturali, ricreative e sportive” (art. 1, comma 3), con l’intento di “contemperare la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali delle persone con la necessità di contrastare e contenere il diffondersi del virus SARS-COV-2 sul territorio della Regione autonoma Valle d’Aosta” (art. 2, comma 1)[92].

Il Governo decise di impugnare l’intera legge dinnanzi alla Corte costituzionale sia per motivi procedurali che sostanziali. Da un punto di vista sostanziale lamentava la violazione dei seguenti articoli della Costituzione: l’art. 117 comma 2, lettere q) e m) (potestà esclusiva statale in materia di “profilassi internazionale” e di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”); l’art. 117 comma 3, con riferimento ai principi fondamentali in materia di tutela della salute; l’art. 118 comma 1, con riguardo ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza; infine (ma non ultimi), gli artt. 117, 118 e 120 nel loro insieme, in relazione al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni che essi sottendono, quale definito dalla consolidata giurisprudenza costituzionale. Per quanto riguarda la leale collaborazione lamentava il fatto che la Regione Val D’Aosta aveva legiferato senza prima comunicarlo allo Stato.

Nel ricorso il Governo chiedeva anche la sospensione cautelare della legge regionale in attesa della decisione definitiva della Corte.

Con ordinanza 4/2021 è stata effettivamente sospesa la legge regionale della Val D’Aosta. Questa ordinanza è un provvedimento storico in quanto la Corte non aveva mai esercitato il potere di sospensione. Infatti, era già capitato che fosse richiesto (soprattutto dalle Regioni nei confronti di leggi statali) il suo intervento interinale, ma non l’aveva mai esercitato. La Corte nell’ordinanza con una succinta motivazione specifica che il fumus boni iuris starebbe nella violazione da parte della legge valdostana dell’articolo 117 comma 2, lettera q) (potestà esclusiva statale in materia di “profilassi internazionale”), preannunciando di fatto l’esito della successiva sentenza.

La sentenza, a differenza dell’ordinanza, accoglie le questioni relative solo ad alcune delle norme impugnate dal Governo e, cioè, gli artt. 1, 2 e 4 commi da 1 a 3, che erano gli articoli più importanti in quanto riguardavano la finalità generale della legge regionale, le misure da applicare alle diverse attività e i poteri ordinatori del Presidente della Giunta di sospensione o di regolazione delle attività, anche in deroga alle disposizioni nazionali.

Curiosa è, però, la motivazione con cui la Corte ha accolto il ricorso.

La Corte ha, infatti, sottolineato come l’intera cesura rientri nella violazione della materia di competenza esclusiva statale “profilassi internazionale”, di cui all’art. 117 comma 2, lettera q), Cost. Secondo la Consulta tale materia “è comprensiva di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla”.

In questo modo la Corte ha ampliato di molto il raggio d’azione della profilassi internazionale visto che la stessa in passato si riferiva solo alle misure di prevenzione e contrasto di un’epidemia a livello internazionale e, dunque, nei rapporti con altri Stati. Erano delle misure concernenti principalmente i trasporti di persone e di cose in alcuni luoghi di transito internazionale come porti, aeroporti o frontiere[93]. Estendendolo, invece, ad “ogni misura” atta a contrastare la pandemia la materia “profilassi internazionale” riguarda ora anche le misure di profilassi rivolte ai cittadini italiani.

La Corte giustifica tale estensione poiché la malattia da COVID-19 è un fenomeno di portata “mondiale” e per questo l’O.M.S. già dal 30 gennaio 2020 “ha dichiarato l’emergenza di sanità pubblica di rilievo internazionale, profondendo in seguito raccomandazioni dirette alle autorità politiche e sanitarie degli Stati”. Secondo la Corte davanti ad un fenomeno di portata globale entra in causa la potestà legislativa dello Stato in materia di “profilassi internazionale” in quanto, richiamando la sentenza della stessa Corte n. 5/2018, sottolinea che la profilassi internazionale comprende le norme che garantiscono “uniformità anche nell’attuazione, in ambito nazionale, di programmi elaborati in sede internazionale e sovranazionale”. Infatti, la Consulta sottolinea come “ogni decisione di aggravamento o allentamento delle misure di restrizione” sia in grado di influire “sulla capacità di trasmissione della malattia oltre le frontiere nazionali, coinvolgendo così profili di collaborazione e confronto tra Stati, confinanti o meno”.

La Corte ricorda che prima della riforma del titolo V le materie profilassi internazionale e profilassi nazionale erano strettamente intrecciate e che con gli artt. 6 e 7 della legge n. 833 del 1978 lo Stato aveva semplicemente delegato la competenza per la profilassi nazionale alle Regioni. La Corte sottolinea, però, il fatto che, benché la riforma del Titolo V attribuisca alla competenza dello Stato solo la profilassi internazionale, ciò non escluda la possibilità per lo stesso di riaccentrare la competenza in materia di profilassi nazionale “ove la pandemia imponga politiche sanitarie comuni”.

La Corte sostiene la sua teoria anche con delle motivazioni fondate su “ragioni logiche, prima che giuridiche” stabilendo che di fronte a “malattie altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale” vi è a livello costituzionale “l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività”, questo a maggior ragione in quanto in caso di una pandemia come quella che stiamo fronteggiando “ogni decisione in tale materia, per quanto di efficacia circoscritta all’ambito di competenza locale, [ha] un effetto a cascata […] sulla trasmissibilità internazionale della malattia, e comunque sulla capacità di contenerla”.

È, dunque, compito dello Stato, anche come “livello di governo adeguato ai sensi dell’art. 118 Cost.”, fissare “le misure di quarantena e le ulteriori restrizioni imposte alle attività quotidiane, […] ma anche l’approccio terapeutico; i criteri e le modalità di rilevamento del contagio tra la popolazione; le modalità di raccolta e di elaborazione dei dati; l’approvvigionamento di farmaci e vaccini, nonché i piani per la somministrazione di questi ultimi, e così via”. La Corte non nega che le strutture sanitarie regionali siano concretamente incaricate di svolgere tali attività e di attuare la profilassi sul territorio (per esempio per la somministrazione dei vaccini), ma “resta fermo che, innanzi a malattie contagiose di livello pandemico, ben può il legislatore statale imporre loro criteri vincolanti di azione, e modalità di conseguimento di obiettivi che la medesima legge statale, e gli atti adottati sulla base di essa, fissano”.

Infine, la sentenza di cui trattasi ha negato che il termine “profilassi internazionale”, seppure interpretato in modo “onnicomprensivo” come si è visto sopra, abbia natura “trasversale” (come eccepito dalla difesa della Regione Valle d’Aosta). Secondo la Corte tale materia ha un suo “oggetto ben distinto, che include la prevenzione o il contrasto delle malattie pandemiche, tale da assorbire ogni profilo della disciplina”.

  1. Conclusioni: è davvero una competenza oggettiva? Riflessioni su una possibile via alternativa

Considerare la competenza in materia di profilassi internazionale, nell’ampia interpretazione data dalla Consulta, come finalistica o come oggettiva comporta delle differenti conseguenze, che risultano molto rilevanti in concreto.

Infatti, nel caso in cui fosse interpretata come una materia trasversale (o finalistica) da un lato lo Stato nell’esercitare la competenza “profilassi internazionale” dovrebbe confrontarsi con le Regioni nel rispetto del principio di leale collaborazione (chiedendo quantomeno un parere[94]) e dall’altra sarebbe possibile per gli enti territoriali prevedere delle discipline maggiormente restrittive rispetto a quelle statali.

Se si interpreta, invece, la “profilassi internazionale” quale competenza oggettiva è lo Stato a decidere con legge se concedere o meno agli enti territoriali le suddette facoltà.

Considerato che, fino alla sentenza 37 del 2021, lo Stato aveva sempre chiesto il parere della Conferenza dei Presidenti di Giunta regionale prima di emettere i decreti-legge e i DPCM riguardanti la pandemia, si può affermare tranquillamente che la sentenza 37 propone un modello di gestione alternativo a quello collaborativo fin qui molto faticosamente sperimentato nel dialogo fra Governo e Conferenza dei presidenti[95].

Qualche dubbio lascia l’interpretazione della Consulta in quanto non si comprende come la profilassi internazionale possa essere considerata quale competenza oggettiva quando è la medesima Corte a contraddirsi dandone una definizione finalistica allorquando afferma che tale materia è “comprensiva di ogni misura vota a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla”. Da tale definizione ne deriva che non è una materia-oggetto, ma una materia trasversale che proprio all’emergere della pandemia consentirebbe allo Stato di ritagliare ambiti normalmente attribuiti alla competenza regionale e attrarli a sé al fine di contrastare l’emergenza in corso. D’altronde, questa diversa interpretazione è confermata anche dalla ammissione della stessa Corte, la quale afferma che lo Stato “è tenuto a valersi dell’organizzazione sanitaria regionale”.

Ricostruendo, invece, la materia come trasversale si potrebbe percorrere una via più efficace, perché innanzitutto, si favorirebbe il dialogo nel rispetto del principio di leale collaborazione così coinvolgendo quantomeno le Regioni come si faceva nel modello precedente. A parere dello scrivente in materia di leale collaborazione, in realtà, si potrebbe fare più di quanto già attuato finora. Infatti, lo Stato, nel richiedere un parere, potrebbe coinvolgere oltre alle Regioni, anche gli enti locali, convocando la Conferenza Unificata in luogo della Conferenza dei presidenti regionali. Questo ampliamento di soggetti coinvolti nella collaborazione permetterebbe allo Stato di prendere delle decisioni maggiormente condivise e condivisibili.

In secondo luogo, intrepretando la materia come trasversale si darebbe la possibilità agli enti territoriali di intervenire con una disciplina maggiormente restrittiva nel caso in cui la situazione di fatto lo rendesse necessario, come già era stato stabilito in passato.

In tal modo si risponderebbe anche al richiamo portato avanti nel 2019 dalla Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, “alla leale collaborazione tra Stato e Regioni, nelle materie di interesse comune o in ambiti posti al crocevia tra una pluralità di competenze, talune di pertinenza statale e altre spettanti alle regioni[96].

Concludendo, basterebbe considerare la materia “profilassi internazionale” quale trasversale per poter delineare un sistema più collaborativo ed efficiente permettendo una differenziazione nell’unità di cui il Paese potrebbe soltanto giovare, soprattutto nel caso in cui si dovesse aprire una fase di endemizzazione del virus.

 

 

[1] Oms Europa, in 2022 si auspica fine emergenza ma non abbassare la guardia. Kluge, scontato l'emergere di nuove varianti ma nessun lockdown, Sanità 24, Il Sole 24 ore, 24.01.22

[2] Salute : Le pandemie saranno sempre più frequenti (ci dobbiamo preparare), Focus, agosto 2021

[3] W. BURKERT, La creazione del sacro, Adelphi, Milano, 2003

[4] F. D’AGOSTINO, I sumeri, Hoepli editore, Milano 2020

[5] M. WAINWRIGHT, Moulds in ancient and more recent medicine, in Mycologist, Elsevier, 1989

[6] M. WAINWRIGHT, Moulds in Folk Medicine, in Folklore, 1989, Vol. 100, No. 2 (1989), p. 162, Taylor & Francis, Ltd.

[7] D. LIPPI, M. BALDINI, La medicina: gli uomini e le teorie, Bologna, CLUEB, 2000.

[8] G.F. GENSINI, M.H. YACOUB, A.A. CONTI, The concept of quarantine in history: from plague to SARS, J Infect, 2004 Nov

, p. 258

[9] V. DI COSTANZO, Il concetto di quarantena tra storia, ordinamenti, critiche e futuro, Salvis juribus, 2020

[10] P.S. SEHDEV, The origin of quarantine. Clin Infect Dis 2002; 35: 1071—2

[11] Levitico, 13

[12] E. CAIAZZO, La peste di Giustiniano: vescovi, tasse e altri rimedi, in Oltre la pandemia Società, salute, economia e regole nell'era post Covid-19, a cura di Gianmaria Palmieri, Editoriale Scientifica, 2020

[13] Nella lettera appare il nome Gallus peccator, ma gli studiosi ritengano fosse Gallo II, per esempio in tal senso L.I. CONRAD, The Plague in the Early Medieval Near East, Princeton University, 1981

[14] EPISTOLA XX, GALLI AD DESIDERIUM.

[15] M. McCORMICK, Toward a Molecular History of the Justinianic Pandemicn Plague and the End of Antiquity: The Pandemic of 541–750, p. 311, Cambridge, 2007

[16] Come quelle raccontate nella metà del 1300 da Boccaccio

[17] P. FRATI, Quarantine, trade and health policies in Ragusa-Dubrovnik until the age of George Armmenius-Baglivi, Med Secoli, 2000, pubmed.gov

[18] G.F. GENSINI, M.H. YACOUB, A.A. CONTI, The concept of quarantine in history: from plague to SARS, J Infect, 2004 Nov

[19] Per esempio, a Ragusa stessa quasi subito per i viaggiatori di terra

[20] S.M. STUARD, A State of Deference Ragusa / Dubrovnik in the Medieval Centuries, University of Pennsylvania Press, 1992

[21] AA. CONTI, Historical and methodological highlights of quarantine measures: from ancient plague epidemics to current coronavirus disease (COVID-19) pandemic, Acta Biomed, 2020

[22] P.S. SEHDEV, The origin of quarantine. Clin Infect Dis, 2002 Nov 1

[23] M.P. ZANOBONI, La vita al tempo della peste., Milano, Jouvence (Mimesis Edizioni), 2020, pp.52-57.

[24]C.M.CIPOLLA, , Origine e sviluppo degli Uffici di sanità in Italia. In: Annales cisalpines d’histoire

sociale, 1973.

[25] Un esempio è l’ordinanza di GIOVAN FILIPPO INGRASSIA a Palermo riportata dallo stesso medico nel suo scritto “Informatione del pestifero et contagioso morbo

[26] D. LIPPI, M. BALDINI, La medicina e le teorie, Bologna, CLUEB, 2000

[27] J. MATOVINOVIC, A short story of quarantine (Victor C. Vaughan), Univ Mich Med Cent J, 1969, pubmed.gov

[28] Di solito un periodo di tempo pari a 30 o 40 giorni

[29] I. NASO, Pandemie tra passato e presente. Assonanze o anticipazioni?, in Nuova rivista di storia della medicina anno II (LI) - numero 2, p. 52, 7 ottobre 2021

[30] Soggetti che erano in grado di “conoscere he lezere bolatini” cit. ARCHIVIO COMUNALE DI FONTANETTO PO, Ordinati, vol.6,ff. n.n., 13 luglio 1482 e 20 giugno 1483.

[31] P.e. ARCHIVIO COMUNALE DI IVREA, Ordinati, vol. 16, 11 luglio 1438.

[32] P.e. La deliberazione del consiglio comunale di Caramagna Piemonte, registrata nel verbale della seduta del 16 aprile 1493, all’interno del vol. 4 degli Ordinati o Riformagioni conservato nel locale archivio del Comune,

[33] L. BORGHI, Umori. Il fattore umano nella storia delle discipline biomediche, Società Editrice Universo, Roma, 2012

[34] G.F. GENSINI, M.H. YACOUB, A.A. CONTI., The concept of quarantine in history: from plague to SARS, J Infect, 2004 Nov, p. 259

[35]  J. KNOWELDEN, Quarantine and isolation, 15th ed. Helen Hemingway Benton; Chicago: 1979, The new Encyclopaedia Britannica.

[36] D.P. FIDLER, International law and infectious diseases, Oxford University Press; 1999

[37] K. MAGLEN, Politics of quarantine in the 19th century, JAMA 2003

[38] B. FANTINI, La santé comme droit fondamental de la personne: la création de l’Organisation Mondiale de la Santé, Revue Medicale De La Suisse Romande, 119, pp. 961-966, 1999

[39] G.F. GENSINI, M.H. YACOUB, A.A. CONTI., The concept of quarantine in history: from plague to SARS, J Infect, 2004 Nov, p. 260

[40] A. IRIYE, Global Community: The Role of International Organizations in the Making of the Contemporary World, Berkeley, University of California Press, 2002

[41] G BERLINGUER: Corsi, ricorsi e prospettive della sanità pubblica, Politiche sanitarie, 9, 4, 2008

[42] Nonché gli aberranti progetti eugenetici nazisti

[43] B. FANTINI, La santé comme droit fondamental de la personne: la création de l’Organisation Mondiale de la Santé, Revue Medicale De La Suisse Romande, 119, pp. 961-966, 1999

 

[44] T.M. BROWN, M. CUETO, E. FEE, A transição de saúde pública ‘internacional’ para ‘global’ e a Organização Mundial da Saúde, História, Ciências, Saúde-Manguinhos, 2006

[45] Il diritto di eccezione: una prospettiva di diritto comparato. Italia Stato di emergenza, EPRS | Servizio Ricerca del Parlamento europeo Unità Biblioteca di diritto comparato PE 651.983 – giugno 2020

[46] S. ROMANO, “Sui decreti-legge e lo stato di assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio-Calabria”. Rivista di diritto costituzionale e amministrativo. Vol. 1, 1909, pp. 251-271 (p. 257). 

[47] G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, Milano 2003, 46 ss

[48]I. A. NICOTRA, “Stato di necessità e diritti fondamentali. Emergenza e potere legislativo”, Rivista AIC 1/2021

[49] Il Proclama di Moncalieri, in Studipiemontesi.it

[50] S. TRAVERSA, “Orientamenti dottrinali e precedenti parlamentari in tema di regimi di emergenza”, Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari. Vol. 2, 1981, p. 137 

[51] S. TRAVERSA, “Orientamenti dottrinali e precedenti parlamentari in tema di regimi di emergenza”, Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari. Vol. 2, 1981, pp. 138-139

[52] “[…] il silenzio non distrugge la pratica di questo potere di eccezionale gravità, che arriva a mettere in giuoco tutti i diritti e le libertà dei cittadini, e dal momento che non può essere eliminato, poiché da tutti i pubblicisti e trattatisti è riconosciuto un diritto di necessità, ritiene che sia opportuno regolarlo nella Costituzione, ponendo dei limiti e delle cautele alla sua attuazione”, relazione dell’On. La Rocca Vincenzo dell’11 gennaio 1947 presso la prima Sezione della seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione 

[53] “[…] in caso di urgente necessità si possa procedere nei riguardi dello stato d’assedio con la stessa logica con la quale si deve procedere in merito ai decreti di urgenza: il Governo che vi ricorre avrà contro di sé la legge e si assumerà tutte le responsabilità con le relative conseguenze”, relazione dell’On. Tosato Egidio dell’11 gennaio 1947 presso la prima Sezione della seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione 

[54] dopo le relazioni dell’On. La Rocca e Tosato, la prima Sezione della seconda Sottocommissione approvò provvisoriamente, senza mai però inserirlo nel testo costituzionale, la seguente proposta di articolo: “È vietata la dichiarazione dello stato d’assedio ed è altresì vietata ogni altra misura di sospensione totale o parziale delle garanzie regolate dalla presente Costituzione” 

[55] In Germania l’art 38 della Costituzione di Weimar che dava la possibilità di dichiarare lo stato di emergenza per ripristinare l’ordine e la sicurezza pubblica permise ad Hitler di instaurare la dittatura.

[56] R. ROMBOLI, La incidenza della pandemia da Coronavirus nel sistema costituzionale italiano, in Revista Brasileira de Estudos Políticos, Belo Horizonte, n. 122, p. 520, 2021

[57] G. SILVESTRI, Covid-19 e Costituzione, in Unicost. 16 giugno 2020

[58] sent. 26/1961 Corte costituzionale

[59] M. LUCIANI, Avvisi ai naviganti nel Mar pandemico, in Questione Giustizia.it

[60] F. GRANDI, L’art. 32 nella pandemia: sbilanciamento di un diritto o “recrudescenza” di un dovere?, in Costituzionalismo.it, Fasc. 1/2021

[61] P. RIDOLA, Intervento, 9 maggio 2020, p. 3, sito ufficiale dell’associazione italiadecide

[62] D. MORANA, Sulla fondamentalità perduta (e forse ritrovata) del diritto e dell’interesse della collettività alla salute: metamorfosi di una garanzia costituzionale, dal caso Ilva ai tempi della pandemia. CONSULTA ONLINE, 1-10, 2020

[63] Per esempio il decreto presidenziale della III sezione del Consiglio di Stato del 30 marzo 2020 (n. 02825/2020 reg. ric.), con cui si afferma: «[…] In tale quadro, per la prima volta dal dopoguerra, si sono definite ed applicate disposizioni fortemente compressive di diritti anche fondamentali della persona - dal libero movimento, al lavoro, alla privacy - in nome di un valore di ancor più primario e generale rango costituzionale, la salute pubblica, e cioè la salute della generalità dei cittadini, messa in pericolo dalla permanenza di comportamenti individuali (pur pienamente riconosciuti in via ordinaria dall’Ordinamento, ma) potenzialmente tali da diffondere il contagio, secondo le evidenze scientifiche e le tragiche statistiche del periodo; […] Per queste ragioni, la gravità del danno individuale può condurre a derogare, limitare, comprimere la primaria esigenza di cautela avanzata nell’interesse della collettività, corrispondente ad un interesse nazionale dell’Italia oggi non superabile in alcun modo» 

[64] D. MORANA, Sulla fondamentalità perduta (e forse ritrovata) del diritto e dell’interesse della collettività alla salute: metamorfosi di una garanzia costituzionale, dal caso Ilva ai tempi della pandemia. CONSULTA ONLINE, 1-10, 2020

[65] P. GROSSI, Diritti fondamentali e diritti inviolabili nella Costituzione italiana, in ID., Il diritto costituzionale tra principi di libertà e istituzioni, II ed., Padova, 2008 

[66] P. GROSSI, Diritti fondamentali e diritti inviolabili nella Costituzione italiana, in ID., Il diritto costituzionale tra principi di libertà e istituzioni, II ed., Padova, 2008 

[67] L. CARLASSARE, L’art. 32 della Costituzione e il suo significato, in R. ALESSI (a cura di), L’amministrazione sanitaria, Vicenza, 1967, 110 s.,

  1. VINCENZI AMATO, Art. 32, 2° comma, in M. SCIALOJA - G. BRANCA G. (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1976, 174 s.

[68] V. TAMBURRINI, La limitazione dei diritti costituzionali in tempo di pandemia: alcune osservazioni sul carattere fondamentale dell’interesse della collettività alla salute, in F.S. MARINI, G. SCACCIA (a cura di), Emergenza Covid-19 e ordinamento costituzionale, Torino, 2020, p. 34

[69] S. PANUNZIO, Trattamenti sanitari obbligatori e Costituzione, in Dir. e Soc., 4, 1979, 904; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, Torino, 3ª ed., 2018 , p. 67 

[70] Tale affermazione è stata effettuata in relazione alle vaccinazioni obbligatorie, p.e. Corte costituzionale nn. 307/1990, 258/1994, 118/1996

[71] G. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano 1967, 50;

  1. GALEOTTI, Il valore della solidarietà, in Dir. Soc. 1996, 10 ss.

[72] A. ALGOSTINO, I possibili confini del dovere alla salute, in Giur. cost., 5, 1996, 3216; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, Torino, 3ª ed., 2018, 39 s. 

[73] G. SCACCIA, C. D’ORAZI, La concorrenza fra Stato e autonomie territoriali nella gestione della crisi sanitaria fra unitarietà e differenziazione, in Forum di Quaderni Costituzionali, 3, 2020.

[74] G. SCACCIA, C. D’ORAZI, La concorrenza fra Stato e autonomie territoriali nella gestione della crisi sanitaria fra unitarietà e differenziazione, in Forum di Quaderni Costituzionali, 3, 2020.

[75] Per un maggior approfondimento F. CERQUOZZI, La “proroga” dello Stato d’emergenza oltre il limite temporale previsto dalla legge. Esiste un vulnus di tutela dell’ordinamento democratico?, Iusinitinere, 2021

[76]La Erforderlichkeitsklausel che, nell’ordinamento tedesco all’articolo 72 del Grundgesetz, consente alla Federazione (Bund) di dettare la propria disciplina anche negli ambiti di legislazione concorrente degli stati federati (Länder).

[77] NAPOLITANO G. – I regolamenti e le ordinanze del Comune, Santarcangelo di Romagna (RN), Maggioli Editore, 2017, p. 146

[78] M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo quarta edizione, Il Mulino 2015, pag. 79

[79] Legge n. 225/1992

[80] G. MARRAZITA, “Il conflitto tra autorità e regole: il caso del potere di ordinanza”, in Forum Quaderni costituzionali, Rivista AIC, 4/2010

[81] L. DELL’ATTI, G. NAGLIERI, Le fonti della crisi. Fra esigenze unitarie e garanzie costituzionali nel governo dell’emergenza da Covid-19, in Biolaw Journal - Rivista di Biodiritto, n. 2/2020, 135 ss. 

[82] Un lunghissimo elenco, si rimanda alla lettura dell’articolo.

[83] A causare altri dubbi in tal senso anche il DPCM che stabiliva che: "Delle strade o piazze nei centri urbani, dove si possono creare situazioni di assembramento, può essere disposta la chiusura al pubblico, dopo le ore 21, fatta salva la possibilità di accesso, e deflusso, agli esercizi commerciali legittimamente aperti e alle abitazioni private", istituendo il cosiddetto “coprifuoco locali”. Per un maggior approfondimento M. GALLIANI, “I poteri sindacali durante l’emergenza Covid-19”, Il diritto amministrativo, 2021

[84] G. MARCHETTI, Le conflittualità tra Governo e Regioni nella gestione dell’emergenza Covid-19, i limiti del regionalismo italiano e le prospettive di riforma, centro studi sul federalismo, 2021

[85] G. DI COSIMO, G. MENEGUS, La gestione dell’emergenza Coronavirus tra Stato e Regioni: il Caso Marche, in Biodiritto.org, 16 marzo 2020 

[86] G. LAVAGNA,  Il Covid-19 e le Regioni. Uso e «abuso» delle ordinanze extra ordinem dei Presidenti regionali, Federalismi, 14 luglio 2021

[87] Per esempio la Campania

[88] M. LUCIANI, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, Rivista AIC, 2020. 

[89] A. ALGOSTINO, Costituzionalismo e distopia nella pandemia di Covid-19 tra fonti dell’emergenza e (s)bilanciamento dei diritti, Editoriale dei diritti, fascicolo 1/2021, pag. 27. 

[90] C. LAZZARI, Obbligo vaccinale, Green pass e rapporto di lavoro, in Diritto della Sicurezza del Lavoro n. 2/2021

[91] A. POGGI e G. SOBRINO, La Corte, di fronte all’emergenza Covid, espande la profilassi internazionale e restringe la leale collaborazione (ma con quali possibili effetti?) nota a Corte Cost., sentenza n. 37/2021, Osservatorio Costituzionale AIC, 4/2021

[92] D. MORANA, “Ma è davvero tutta profilassi internazionale? Brevi note sul contrasto all’emergenza pandemica tra Stato e regioni, a margine della sent. n. 37/2021”, Forum di quaderni costituzionali, 2021

[93] Un esempio è l’ordinanza 30 gennaio 2020 con cui il Ministro della Salute, Roberto Speranza, vietava i voti da e per la Cina.

 

[94] Attraverso una leale collaborazione in forma debole.

[95] G. DI COSIMO, La pandemia è dello Stato, lacostituzione.info, 2021

[96] M. CARTABIA, Relazione Corte costituzionale 2019