Studi
I debiti fuori bilancio degli enti locali nella prospettiva civilistica.
Di Lorenzo Delli Priscoli
I debiti fuori bilancio degli enti locali nella prospettiva civilistica
Di LORENZO DELLI PRISCOLI
Consigliere della Corte di Cassazione
Sommario: 1. La disciplina dei debiti fuori bilancio nel testo unico degli enti locali. - 2. Le categorie dei debiti fuori bilancio. – 2.1. Le ipotesi di riconoscimento “obbligato” dei debiti fuori bilancio. - 2.2. I debiti fuori bilancio per lavori pubblici di somma urgenza. - 2.3. I debiti fuori bilancio non tipizzati. - 2.4. I debiti assunti mediante contratti privi della forma scritta. - 2.5. L’iniziativa autonoma del terzo in assenza di un rapporto con l’ente locale o con un suo dipendente. - 3. L’arricchimento senza causa dell’ente locale. - 4. Il riconoscimento del debito da parte dell’ente locale. – 5. Criteri prudenziali di bilancio e imprevedibilità delle spese.
- La disciplina dei debiti fuori bilancio nel testo unico degli enti locali
I debiti fuori bilancio costituiscono debiti assunti da un ente locale nonostante non fossero previsti dal bilancio e rappresentano una “fisiologica patologia” degli enti locali, in quanto per un verso sono una abitudine assai diffusa e frequente e rispondono ad esigenze concrete dell’ente ma per un altro verso si pongono in contrasto con le norme di ordine contabile e/o privatistico e possono essere “sanati” solo attraverso un particolare meccanismo disciplinato dal d.lgs. n. 267 del 2000 (testo unico degli enti locali, c.d. TUEL)[1].
In effetti, in una condizione fisiologica e conforme alla legge, gli enti locali devono rispettare il pareggio finanziario per salvaguardare gli equilibri di bilancio ai fini di una copertura delle spese, comprese quelle per i finanziamenti degli investimenti che siano stati decisi. Tale necessità è particolarmente avvertita negli ultimi anni a seguito di importanti innovazioni normative: l’obiettivo del pareggio del bilancio è previsto innanzitutto, dalla nuova formulazione dell’art. 97, comma 1, Cost., secondo cui «le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»[2], dall’art. 126 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE, cd. Trattato di Roma del 25 marzo 1957)[3] nonché dall’art. 193, comma 1, del Testo unico degli enti locali (art. 193 del d.lgs. n. 267 del 2000, secondo cui «gli enti locali rispettano durante la gestione e nelle variazioni di bilancio il pareggio finanziario e tutti gli equilibri stabiliti in bilancio per la copertura delle spese correnti e per il finanziamento degli investimenti».
In caso di una spesa imprevista (ossia non prevista dal bilancio) il Consiglio dell’ente locale deve cercare di adottare le misure necessarie a ripristinare la situazione di equilibrio ma, qualora non trovi una copertura finanziaria legittima (ossia non derivante da prestiti o da entrate la cui destinazione è già indicata dalla legge), ben può dirsi che i debiti fuori bilancio costituiscano indubbiamente una patologia dell’ente locale[4]. La legge infatti stabilisce che al finanziamento dei debiti fuori bilancio il Consiglio dell’ente locale possa provvedere usando tutte le entrate, tranne quelle che provengono dalla assunzione di prestiti[5] e di quelle che hanno specifica destinazione per legge[6].
Proprio perché i debiti fuori bilancio comportano una situazione di criticità, l’art. 188, comma 1 quater, del T.U.E.L. prevede che per gli enti che presentino nell’ultimo rendiconto deliberato un debito fuori bilancio, sebbene ancora da riconoscere, è vietato assumere ulteriori impegni per servizi non espressamente previsti per legge, salvo per le spese da sostenere a fronte di impegni precedentemente assunti[7].
Pur essendo l’ente locale giuridicamente obbligato ad onorare il debito fuori bilancio, non esistono strumenti coercitivi effettivi per costringerlo a riconoscerlo: tuttavia l’ente locale - o per evidenti ragioni di correttezza, oppure perché l’ente locale ha effettivamente necessità del bene o del servizio in ragione del quale è nato il debito oppure ancora per impedire che coloro che forniscono beni o servizi all’ente perdano la fiducia circa l’affidabilità dell’ente stesso in futuri eventuali rapporti – può riconoscere tale debito fuori bilancio, ossia farlo proprio e impegnarsi a pagarlo e l’art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 riserva al Consiglio dell’ente locale tale competenza[8], che, nel caso di cui all’art. 194, lett. e), è tipicamente discrezionale: trattandosi di una competenza attribuita ad un organo eminentemente politico quale è il Consiglio è evidente che la decisione si colora, accanto ad una discrezionalità tecnica, anche di una discrezionalità più prettamente amministrativa[9].
- Le categorie dei debiti fuori bilancio
Premesso che l’assunzione di un debito da parte di un ente locale può risultare viziata o per difetto della forma scritta (e in più in generale per un vizio civilistico del contratto) o per un difetto da un punto di vista contabile o per entrambi i motivi, oppure ancora in virtù non di un contratto ma di una iniziativa autonoma di un terzo che abbia determinato un arricchimento senza causa dell’ente locale, nell’ambito dei debiti fuori bilancio può addivenirsi alla seguente classificazione di massima:
- ipotesi tipizzate di debiti fuori bilancio previste dall’art. 194, lettere da a) a d), del d.lgs. n. 267 del 2000 (es. debiti derivanti da sentenze passate in giudicato di condanna dell’ente locale al pagamento di una somma);
- debiti fuori bilancio previsti dall’art. 191, comma 3, del d.lgs. n. 267 del 2000, ossia debiti sopravvenuti a seguito di lavori pubblici di somma urgenza;
- debiti fuori bilancio previsti dalla lettera e) dell’art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, nati a seguito di un contratto scritto e ad un rapporto obbligatorio formatosi non con l’ente pubblico - in virtù dell’assenza dell’impegno di spesa e della copertura finanziaria – ma tra un terzo con un dipendente dell’ente pubblico: quest’ultimo, per farlo proprio, dovrà riconoscere l’utilità dell’opera e il conseguente arricchimento;
- debiti contratti in presenza di un contratto formatosi in assenza della forma scritta, che vincola solo il soggetto dipendente della pubblica amministrazione che lo ha concluso;
- debiti che sorgono per iniziativa autonoma del terzo, ossia a seguito di una attività del terzo in assenza di un suo rapporto con chicchessia, e quindi né con un dipendente dell’ente locale né con l’ente locale, e che determinano un arricchimento senza causa di quest’ultimo.
2.1. Le ipotesi di riconoscimento “obbligato” dei debiti fuori bilancio
L’articolo 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, come suggerisce la rubrica “riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio”, afferma che gli enti locali, tramite delibera consiliare, riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da: a) sentenze esecutive; b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l’obbligo di pareggio del bilancio ed il disavanzo derivi da fatti di gestione; c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali; d) procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di pubblica utilità.
In ragione del testo della norma («gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da…») ove si afferma, mediante l’uso dell’indicativo, che gli enti locali riconoscono (e non già “possono riconoscere”) i debiti fuori bilancio, si deve ritenere che i debiti ex art. 194 siano un elenco tassativo, nel senso che si tratterebbe di tutti e solo quei casi in cui il riconoscimento del debito da parte dell’ente debba considerarsi obbligato[10]. Si potrebbe allora affermare che per questa tipologia di debiti il riconoscimento da parte della P.A. sia un mero atto formale avente funzione dichiarativa in quanto trattasi di debiti di per sé “certi” e dunque la delibera del Consiglio non debba realmente assumere alcuna decisione discrezionale, ma solo confermare quanto già doveroso per legge, trattandosi di debiti pacificamente attribuibili all’ente locale, il quale dovrà necessariamente riconoscerli e adempiervi in quanto così prevede la legge. Tuttavia ben può ipotizzarsi che il Consiglio dell’ente locale, per qualsiasi ragione (ad esempio per assoluta mancanza di fondi, ma anche semplicemente per una volontà politica di non adempiere), decida di non voler pagare il debito e quindi di non riconoscerlo: quid iuris in questi casi? Poiché, come si vedrà, il mancato riconoscimento di un debito da parte dell’ente locale è questione sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo, va escluso il ricorso ad istituti quali l’ottemperanza che sono esperibili solo in caso di mancata esecuzione di un giudicato amministrativo, evidentemente assente in questi casi[11].
Spetta infatti alla giurisdizione del giudice ordinario, venendo in considerazione in tale ipotesi
dei diritti soggettivi, la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell'affidamento del privato nell'emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell'affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell'azione amministrativa è configurabile non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia vanamente riposto il proprio affidamento in un comportamento legittimo dell'amministrazione[12].
Il procedimento amministrativo costituisce un'interlocuzione fra l'Amministrazione ed il privato retta da norme per l'esercizio della funzione amministrativa. Rispetto a tale procedimento che si dispiega mediante atti formali e si colloca sul piano del diritto pubblico, deve essere individuato quale sia lo spazio del comportamento in violazione dei canoni di correttezza e buona fede perchè lesivo dell'affidamento riposto nell'adozione di un provvedimento amministrativo. La buona fede che qui rileva non è quella che l'art. 1 della legge sul procedimento amministrativo menziona, quale forma del rapporto fra cittadino e pubblica amministrazione unitamente alla collaborazione, e che corrisponde non alla regola di diritto civile, ma a un principio generale dell'ordinamento che ha la funzione, al pari della collaborazione, di modellare l'esercizio del potere fronteggiato dall'interesse legittimo (e di cui è espressione la previsione del "termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi" nell'art. 21 nonies per l'annullamento d'ufficio del provvedimento amministrativo illegittimo), c.d. affidamento legittimo. La correttezza che emerge con la lesione dell'affidamento è invece quella cui si correla una posizione di diritto soggettivo.
Ciò non esclude che nella stessa disciplina del procedimento amministrativo s'incunea il diritto comune, ove si consideri la quanto disposto dall’art. 2 bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990, secondo cui la pubblica amministrazione è tenuta "al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento". Come chiarito dal Consiglio di Stato[13], la norma individua un diritto soggettivo perché la violazione del termine di conclusione del procedimento non determina l'invalidità del provvedimento adottato in ritardo, ma rappresenta un comportamento scorretto dell'Amministrazione. Più precisamente, l'Adunanza plenaria chiarisce che il tempo del procedimento non rientra nella sfera del potere dell'Amministrazione, la quale rispetto al tempo è gravata da un obbligo. In definitiva, per riprendere una classica distinzione dottrinale, la norma sul tempo del procedimento è una norma non di azione, nella quale l'Amministrazione rilevi come autorità, ma è una norma di relazione, ricondotta dal Consiglio di Stato[14] nell'ambito della responsabilità aquiliana.
Il campo del comportamento, soggetto alla normativa civilistica di correttezza, corrisponde dunque a quell'area in cui l'Amministrazione dismette i panni dell'autorità, o perché manchi una norma attributiva del potere, come nel caso del tempo del procedimento, o perché la stessa Amministrazione assuma una condotta che acquista rilevanza al di là del regime degli atti formali del procedimento amministrativo, entrando in un'area disciplinata dal diritto comune. Rispetto alla mera inerzia dell'Amministrazione, suscettibile di essere compulsata con l'istanza del privato ed il successivo ricorso avverso il silenzio, o alle condotte procedimentali quali l'obbligo di valutare le memorie scritte ed i documenti presentati dai partecipanti al procedimento (art. 10) o la tempestiva comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza (art. 10 bis), il comportamento dell'Amministrazione rilevante ai fini dell'affidamento del privato "si pone - e va valutato su un piano diverso rispetto a quello della scansione degli atti procedimentali che conducono al provvedimento con cui viene esercitato il potere amministrativo"[15].
Deve trattarsi di un comportamento che, pur dispiegandosi anche mediante atti formali, sul piano del significato fuoriesca rispetto alla fisiologia del procedimento e che pertanto si differenzi rispetto a quest'ultimo, perché la responsabilità non è da procedimento, che resta regola dell'azione di un'autorità che esercita un potere, ma da comportamento. La questione della correttezza del comportamento è dunque indipendente da quella della legittimità del procedimento, il quale potrebbe anche non essere attinto da violazioni sul piano formale. La fattispecie di comportamento lesivo dell'affidamento va così tenuta distinta da quella di violazione della norma del procedimento (le cui conseguenze, sul piano del provvedimento, sono regolate dalla legge n. 241, art. 21 octies, comma 2, per cui potrebbe aversi un comportamento in violazione della regola di responsabilità civile nonostante la validità dell'atto sul piano del diritto pubblico. La lesione dell'affidamento[16] quale danno evento, eventualmente in unione con contegni non formali dell'Amministrazione, introduce una distinzione già sul piano del fatto, ancor prima dell'effetto giuridico, rispetto alla fattispecie di violazione procedimentale.
Venendo alla problematica dell'affidamento, come affermato dalla giurisprudenza amministrativa "per aversi un affidamento giuridicamente tutelabile in capo al privato, occorre, da un lato, una condotta della pubblica amministrazione connotata da mala fede o da colpa in grado di far sorgere nell'interessato, versante in una condizione di totale buona fede, un'aspettativa al conseguimento di un bene della vita e, dall'altro, che la fiducia riposta da quest'ultimo in un esito del procedimento amministrativo a lui favorevole sia ragionevole e non colposamente assunta come fondata"[17]. L'affidamento incolpevole di natura civilistica si sostanzia così "nella fiducia, nella delusione della fiducia e nel danno subito a causa della condotta dettata dalla fiducia mal riposta; si tratta, in sostanza, di un'aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell'amministrazione fondata sulla buone fede"[18].
Trattandosi della lesione dell'affidamento di natura civilistica, differenziata ed indipendente, come si è detto, dalla violazione procedimentale, deve intervenire un quid pluris rispetto alla mera inerzia o alla mera sequenza di atti formali di cui si compone il procedimento amministrativo. Quel quid pluris deve integrare una fattispecie di diritto comune nella quale possa valutarsi, dal punto di vista della qualificazione giuridica, che l'Amministrazione abbia dismesso i panni dell'autorità che agisce sulla base di norme di azione per avere assunto dei comportamenti, formali ed informali, eccedenti il significato dell'esercizio fisiologico della funzione amministrativa, entrando così in una sfera suscettibile di essere apprezzata, alla luce della normativa di correttezza, alla stregua di un comune rapporto paritario.
Elemento costitutivo del diritto soggettivo dedotto in giudizio è così l'affidamento colpevolmente indotto dall'Amministrazione con il proprio comportamento circa l'emanazione del provvedimento tale da determinare, in assenza di una questione di legittimità di diritto pubblico, l'irrilevanza degli strumenti di controllo dell'azione amministrativa ai fini della preservazione della sfera patrimoniale del privato, la quale può così essere riparata solo con il rimedio risarcitorio. Il privato che agisce per i danni avrà naturalmente l'onere di allegare e provare lo specifico comportamento lesivo dell'affidamento[19].
2.2. I debiti fuori bilancio per lavori pubblici di somma urgenza
Discorso simile a quello di cui al paragrafo 2.1. si può svolgere per i debiti ex art. 191, comma 3, del d.lgs. n. 267 del 2000. Questi debiti sono quelli sorti a seguito di lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile. Per questi debiti il legislatore ha previsto che il Consiglio comunale debba provvedere al riconoscimento della spesa, prevedendo la relativa copertura finanziaria, entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell’anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. Come è immediatamente evidente, anche in questo caso non sorgono particolari problematiche teoriche circa la doverosità da parte dell’ente locale del riconoscimento del debito, mentre per quanto riguarda l’ipotesi, che possiamo definire patologica, in cui l’ente locale decida di non riconoscere il debito, possiamo rinviare a quanto detto nel paragrafo precedente quanto ai rimedi esperibili dal privato.
Semmai un motivo di dubbio è su cosa debba intendersi per evento eccezionale o imprevedibile, concetti che possono ricavarsi dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale afferma che affinché un evento possa assumere rilievo causale esclusivo, e dunque rilevare come caso fortuito, occorre che si possa riconoscere a tale evento le caratteristiche della eccezionalità e della imprevedibilità. La Corte prosegue dichiarando che per eccezionalità si intende una «sensibile deviazione dalla frequenza statistica accettata come “normale”»; invece l’imprevedibilità, «alla stregua di un’indagine ex ante e di stampo oggettivo in base al principio di regolarità causale, va intesa come obiettiva inverosimiglianza dell’evento (l’evento si mostra come altamente improbabile)[20]. In realtà, come si vedrà nel paragrafo 5, la questione della imprevedibilità coinvolge l’intera problematica dei debiti fuori bilancio, che sono debiti assunti dall’ente locale ma dallo stesso non previsti. Può in effetti muoversi un rimprovero all’ente locale qualora fosse dimostrato che in realtà l’evento fosse prevedibile. Ed è proprio in questa prospettiva che potrebbe ritagliarsi un profilo di responsabilità dell’ente locale nei confronti del terzo danneggiato dalla mancata previsione del debito e del conseguente successivo mancato riconoscimento.
Pongono questioni ancora più complesse quelle relative ai debiti derivanti da un rapporto contrattuale tra ente locale e terzo diversi da quelli previsti nell’elenco ex art. 194, lettere dalla a) alla d) e art. 191, comma 3 ed i debiti nei confronti del terzo che sorgono in capo al dipendente dell’ente locale.
2.3. I debiti fuori bilancio non tipizzati
La lett. e) dell’art. 194 del TUEL disciplina l’acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
Il riconoscimento del debito ex art. 1988 cod. civ. può trovare applicazione nei confronti di una pubblica amministrazione solo se sono osservati i requisiti formali e procedimentali, tra i quali, sembrerebbe, la forma scritta ad substantiam del rapporto obbligatorio nascente tra le parti. Si è scritto sembrerebbe, perché, dal momento che l’art. 1988 cod. civ. stabilisce che l’esistenza del rapporto fondamentale si presume fino a prova contraria, ben potrebbe ritenersi che, in assenza di contestazioni da parte dell’ente pubblico, una volta proceduto al riconoscimento del debito tale riconoscimento costituisca un valido impegno nei confronti del terzo e del resto potrebbe ritenersi che sia sufficiente che la forma scritta sia fatta propria dal riconoscimento di debito[21].
Il riconoscimento permette all’ente locale di far salvi nel proprio interesse gli impegni di spesa precedentemente assunti tramite obbligazione quando però la pubblica amministrazione era sprovvista di copertura contabile[22]. Infatti il contratto stipulato tra l’ente locale ed un soggetto ad esso estraneo è nullo qualora la delibera di conferimento dell’incarico non sia accompagnata dall’attestazione della necessaria copertura finanziaria o quando sia priva della forma scritta ad substantiam. Di tali due ipotesi di nullità, secondo la Cassazione solo la prima è sanabile attraverso la ricognizione postuma del debito da parte dell’ente[23]. Affinché l’ente locale possa riconoscere un debito fuori bilancio, attraverso la delibera consiliare, è infatti necessario che tra l’ente locale ed un soggetto ad esso estraneo sia stato stipulato un valido contratto.
Pertanto, se sussiste un rapporto contrattuale tra l’ente locale ed un soggetto ad esso estraneo, rapporto che rispetti tutti i requisiti formali ai fini della validità (primo fra tutti la forma scritta ad substantiam), ma non ci sia il corrispondente impegno di spesa e la corrispondente copertura finanziaria, il terzo che ha adempiuto alla sua prestazione diventa creditore del dipendente della pubblica amministrazione, in virtù di quanto stabilito dall’art. 191, comma 4, secondo cui nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1 (secondo cui gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente programma del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria), 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. In capo al dipendente sorgerà dunque un debito nei confronti del terzo: perché l’ente locale possa pagare il debito in sostituzione del dipendente sarà necessario che questo venga riconosciuto attraverso una delibera del Consiglio dell’ente locale, se riterrà che ricorrano i requisiti per il riconoscimento indicati della lett. e) dell’art. 194 cit.
Quindi l’ente pubblico non sarà obbligato a riconoscere il debito stesso, cosicché il terzo, nell’ipotesi in cui per qualsiasi motivo l’ente locale dovesse decidere di non riconoscere il debito, non potrà citare in giudizio l’ente locale e quindi l’ente locale non potrà subire una condanna statuita da una sentenza esecutiva, in virtù della quale il terzo/creditore avrebbe potuto procedere in via esecutiva, sentenza che sarebbe rientrata nell’ipotesi di cui sub 1), lett. a).
Una ipotesi quindi non assimilabile a quella appena descritta è quella di un illecito extracontrattuale commesso dall’ente locale a danni di terzo, laddove sia pacifico che ricorrano tutti gli elementi costitutivi dell’illecito (ossia la condotta colposa o dolosa dell’ente locale che cagioni un danno ingiusto ad un terzo). In questo caso, pur non essendovi tra i due soggetti un rapporto contrattuale, vi è però un rapporto obbligatorio che si è creato a seguito dell’illecito fra ente locale e terzo.
Questa ipotesi sub 3) che stiamo trattando sembra distinguersi dalle precedenti sub 1) e sub 2) per la circostanza che mentre le ipotesi da ultimo citate sono tipizzate dalla legge e relativamente alle quali è come se la legge stessa avesse già effettuato un giudizio di meritevolezza, quelle sub 3) sono invece atipiche e si possono riferire a qualsiasi tipo di debito, anche ad esempio per l’acquisto di un qualcosa di smaccatamente inutile per l’ente locale (ad esempio un macchinario per spalare la neve in un Comune siciliano lungo la costa, ove non abbia mai nevicato nella storia). L’eventuale danno erariale[24] nel caso di riconoscimento di un debito “inutile” o “poco utile”, ferma la discrezionalità dell’amministrazione, andrà ragionevolmente valutato anche tenendo conto dell’urgenza di quell’acquisto o di quel lavoro e della disponibilità economica dell’ente in relazione ad altri lavori da svolgere[25].
2.4. I debiti assunti mediante contratti privi della forma scritta
Se il rapporto tra l’ente locale e il terzo sussiste ma non ha tutte le caratteristiche formali richieste ai fini della sua validità, il debito che sorge non può essere riferito all’ente locale ma intercorre tra il creditore/terzo e il dipendente dell’ente che ha materialmente preso accordi con il terzo o ha commesso un illecito extracontrattuale a danno del terzo[26] senza che la sua opera possa essere riferita all’ente locale di cui è dipendente, ad esempio perché con la sua condotta dolosa ha interrotto il rapporto di immedesimazione organica che lo lega all’ente locale[27]. Il riconoscimento del debito non potrà dunque tendenzialmente avere luogo, in quanto (come si è detto) il riconoscimento ex art. 1988 cod. civ. è possibile solo nel caso in cui sia valido il rapporto fondamentale. La ricognizione di debito, infatti, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto l’effetto confermativo di un preesistente rapporto obbligatorio[28]. In assenza di un valido contratto concluso dalla pubblica amministrazione, sarà dunque il dipendente di quest’ultima che dovrà adempiere alla sua obbligazione e ne risponderà con il suo patrimonio in quanto la rottura del rapporto di immedesimazione organica[29] determina che vi non sia più la solidarietà patrimoniale ex art. 28 Cost.[30] dell’ente locale[31].
In riferimento a quest’ultimo caso però, e come nell’ipotesi sub 3, è possibile che l’ente locale, sebbene non abbia concluso alcun contratto con il terzo o non abbia commesso alcun illecito nei suoi confronti, possa avere un interesse a far suo tale rapporto per trarne un qualche vantaggio. L’ente pubblico, che era dunque estraneo al rapporto intercorrente tra dipendente e professionista, per poter assumere in capo a sé il debito deve creare un vincolo giuridico con il professionista.
Mentre però nell’ipotesi sub 3 è sufficiente un riconoscimento di debito, che potrebbe anche essere implicito e quindi non concluso per iscritto ma per facta concludentia ossia attraverso il riconoscimento di fatto dell’utilità dell’opera svolta dal terzo, in questa ipotesi (ossia quella sub 4), è necessario qualcosa di più di un mero riconoscimento di debito, occorrendo un atto scritto dell’ente pubblico che riconosca l’esistenza del debito e, mediante l’atto scritto, costituisca ex novo il rapporto, con l’ulteriore conseguenza che tale atto andrà trasmesso alla Corte dei conti e dovrà contenere l’impegno di spesa e la disponibilità di bilancio.
L’ente potrà dunque modificare la titolarità soggettiva del rapporto quanto al lato passivo della obbligazione e sostituirsi così al suo dipendente[32].
Si tratta di un assetto positivo coerente con le regole di contabilità relative alla gestione delle risorse finanziarie pubbliche, considerando che l'impegno contabile comporta il vincolo di destinazione della somma in bilancio, mentre la copertura finanziaria non solo richiede l'esistenza di adeguata capienza nel capitolo di bilancio, ma incide anche sull'equilibrio finanziario generale.
Già con la sentenza n. 446 del 1995 la Corte costituzionale aveva escluso l'incostituzionalità della disposizione in esame, allora denunciata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sotto il duplice profilo del difetto di ragionevolezza e della disparità di trattamento rispetto alle ipotesi in cui il soggetto può agire in via diretta nei confronti della pubblica amministrazione, anche ai sensi dell'art. 2041 del codice civile, nonché sotto l'ulteriore profilo del diniego di tutela giurisdizionale. In tale occasione la Corte costituzionale ha rilevato che il tratto caratterizzante della disposizione stessa sta nel prevedere un rapporto contrattuale che sussiste esclusivamente tra il terzo contraente e il funzionario (o l'amministratore) che ha autorizzato l'effettuazione dei lavori. In sostanza gli atti di acquisizione di beni e servizi in esame solo apparentemente sono riconducibili all'ente locale, mentre, in effetti, si verifica una vera e propria scissione del rapporto di immedesimazione organica tra agente e pubblica amministrazione. Ma proprio tale frattura del nesso organico con l'apparato pubblico, rendendo estraneo l'ente locale agli impegni di spesa irregolarmente assunti, impedisce di ricondurre il caso in esame agli schemi della responsabilità dell'amministrazione, non consentendo di invocare a sostegno della questione il parametro dell'art. 28 della Costituzione, che, nel contemplare la responsabilità dell'amministrazione accanto a quella degli agenti pubblici, presuppone, in via di principio, che si tratti di attività riferibile all'ente stesso. D'altro canto, come già rilevato nella menzionata sentenza n. 446 del 1995, il terzo contraente, nell'accettare di eseguire lavori di somma urgenza, non può ignorare che, ove successivamente non intervenga l'autorizzazione da parte dell'ente, il rapporto contrattuale deve intendersi intercorso direttamente con il funzionario (o l'amministratore) ed assume, quindi, volontariamente il rischio conseguente alla definitiva individuazione della parte contraente (e patrimonialmente responsabile).
Ovviamente, affinché ciò sia possibile e sia valido, sarà necessaria, oltre all’accordo con il dipendente, l’accettazione del creditore/professionista. In questo modo, è come se l’ente locale mettesse in atto un accollo (ai sensi dell’art. 1273 cod. civ.) di un debito gravante sul terzo, ossia sul suo dipendente. Per fare ciò però è necessario che sia sottoscritto un apposito contratto redatto in forma scritta ad substantiam ex art. 1350 cod. civ. e art. 16 del R.D. n. 2440 del 1923[33].
Si tratta quindi di una novazione dal lato soggettivo dell’obbligazione: secondo l’art. 1235 cod. civ. quando un nuovo debitore è sostituito a quello originario che viene liberato, si osservano gli artt. 1268 ss. cod. civ. (ossia le norme in tema di delegazione, espromissione e accollo), ossia vi è un mutamento del rapporto obbligatorio dal punto di vista soggettivo, cambiando la persona del debitore, non più il dipendente dell’ente locale ma l’ente locale stesso.
Poniamo poi il caso in cui il dipendente venga sollevato dal debito grazie all’intervento dell’ente locale che si sia accollato il relativo onere per aiutare il dipendente che altrimenti non avrebbe avuto la possibilità di onorare il debito. Nel caso in cui la conclusione del contratto da parte del dipendente pubblico sia stata avventata, l’ente locale potrà agire contro il suo dipendente per il risarcimento del danno erariale[34].
Ad esempio, Tizio (dipendente dell’ente locale) chiama informalmente, per ipotesi mediante una semplice telefonata, in nome dell’ente locale ma senza averne i relativi poteri rappresentativi e all’insaputa di quest’ultimo, un informatico per sostituire dei computer rotti e dunque obbliga solo sé stesso nei confronti del tecnico. L’ente locale decide di accollarsi il debito di Tizio perché quell’acquisto lo avrebbe dovuto fare in futuro e quindi gli è in un certo senso utile. Succede però che l’acquisto di Tizio si rivela comunque incauto e frettoloso poiché l’ente locale avrebbe potuto spendere meno attraverso una regolare gara. Ancora, la P.A. (nonostante si sia accollata il debito) potrebbe lamentare il fatto che quell’acquisto non fosse urgente perché i computer rotti erano soltanto due su dieci e i lavoratori erano cinque e dunque non c’era fretta di aggiustare i due rotti, che comunque non saranno utilizzati. Dunque ci si può legittimamente chiedere se la P.A. possa agire in giudizio contro il dipendente per risarcimento del danno erariale. Si può ipotizzare che tale possibilità sia concessa all’ente locale, ma la somma che il dipendente dovrà risarcirgli dovrebbe essere soltanto quella corrispondente alla differenza tra il prezzo effettivamente pagato e quello che si sarebbe pagato all’esito di una regolare gara, sul modello del danno da condotta anticoncorrenziale risarcito ex d.lgs. n. 3 del 2017.
2.5. L’iniziativa autonoma del terzo in assenza di un rapporto con l’ente locale o con un suo dipendente
Può infine accadere che un terzo si attivi autonomamente per eseguire dei lavori a favore dell’ente locale senza aver ricevuto alcun incarico, neppure informale, ad esempio in virtù di una prassi, più o meno consolidata, in relazione alla quale era abituato a ricevere una telefonata oppure a concludere un vero e proprio contratto con l’ente locale ogni qualvolta si guastasse un lampione del Comune[35].
In tal caso il debito fuori bilancio può sorgere o in virtù di un riconoscimento del debito effettuato per iscritto e che abbia tutti i crismi di validità da un punto di vista contabile nel caso in cui da questi lavori effettuati dal terzo scaturisca un ingiustificato arricchimento dell’ente locale.
Il problema non è soltanto stabilire se la prestazione posta in essere dal creditore sia utile alla P.A, ma è necessario comprendere se e in quale misura si possa indennizzare il professionista.
Ad esempio, poniamo il fatto che la via Cristoforo Colombo (strada a scorrimento veloce di Roma che collega il centro della città ad Ostia, di fondamentale importanza per lo smaltimento del traffico a Roma Sud) non sia illuminata per un guasto elettrico. Questa circostanza porta con sé grossi disagi per i cittadini e dunque deve essere compito di Roma Capitale riparare il guasto. Supponiamo però che il Comune non si adoperi in alcun modo e che un elettricista, senza alcun contratto che lo leghi all’ente locale o ad un dipendente di quest’ultimo, ripari il guasto di sua spontanea volontà. Come si può qualificare l’intervento dell’elettricista? Può egli avanzare delle legittime pretese verso l’ente locale?
Nell’esempio sopra riportato non c’è alcun dubbio nel qualificare l’opera prestata dall’elettricista come utile per l’ente locale, che avrebbe già dovuto provvedere di sua iniziativa alla riparazione. Infatti, la mancanza di illuminazione, in una strada molto trafficata e che rappresenta uno snodo fondamentale per la zona sud della città, può portare ad incidenti stradali, danni a cose e persone e così via.
Accertata l’utilità della prestazione eseguita dall’elettricista, quest’ultimo può essere in qualche modo pagato per il lavoro svolto? Si può escludere sicuramente il pagamento del prezzo della prestazione in quanto non c’è un rapporto contrattuale alla base tra elettricista ed ente locale o elettricista e dipendente pubblico che possa giustificare tale controprestazione da parte della pubblica amministrazione o del dipendente. Quest’ultimo in particolare non entra in gioco perché l’elettricista di sua iniziativa, senza essere sollecitato dal dipendente, ha riparato il guasto. L’elettricista però ha sicuramente impiegato energie e denaro proprio per risanare il problema elettrico, e allora avrà diritto a venire indennizzato di queste spese ex art. 2041 cod. civ.?
La Corte di Cassazione[36] ha stabilito, con una pronuncia del 2019, che se la P.A. si sia indebitamente arricchita in seguito ad una prestazione resa da un professionista in assenza di un contratto valido, è prevista, secondo le regole generali in tema di arricchimento senza causa, l’indennità ai sensi dell’art. 2041 cc, la quale dovrà essere liquidata nei limiti della minor somma tra la diminuzione patrimoniale (“detrimentum”) subita dall’elettricista e l’arricchimento ottenuto dal Comune. In particolare, secondo la Cassazione, per diminuzione patrimoniale di colui che ha svolto dei lavori in favore della P.A (nel caso del nostro esempio l’elettricista) non va considerato quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di profitto (lucro cessante) se il rapporto fosse stato valido ed efficace. Quindi, sempre per rimanere all’esempio dell’elettricista, se secondo i prezzi di mercato la prestazione dell’elettricista sarebbe stata pagata in un contratto 5000 euro ma il danno emergente subito dall’elettricista sia stato di 2.500 euro e l’arricchimento del Comune sia stato di 2000 euro, il comune dovrà pagare appunto 2000 euro. Se invece però il Comune si sia arricchito di 2000 euro, ma la prestazione secondo i prezzi di mercato sarebbe stata pagata dal Comune 1500 euro, il Comune non dovrà pagare 1500 euro, ma ancora di meno, ossia la somma corrispondente al danno emergente subita dall’elettricista consistente nel tempo perso e nei materiali utilizzati per l’intervento (per ipotesi 750 euro) e non il suddetto lucro cessante (1500 euro).
Da questa pronuncia si può allora dedurre che il professionista che abbia eseguito una prestazione in favore dell’ente locale abbia il diritto al riconoscimento dell’indennizzo tipico dell’istituto dell’arricchimento senza causa, dovendosi però considerare che la diminuzione patrimoniale di colui che ha compiuto il lavoro viene valutata guardando esclusivamente alle spese sostenute e non anche all’ipotetico guadagno a cui avrebbe avuto diritto secondo i prezzi di mercato concludendo un valido contratto. Non vi è, dunque, un legame tra prestazioni (la prestazione indennitaria dell’arricchito e la prestazione resa dall’impoverito) che scaturisce dal sinallagma contrattuale, dal momento che la prestazione indennitaria incombente sull’arricchito sorge in assenza di un rapporto contrattuale[37] e le disposizioni sull’ingiustificato arricchimento hanno una funzione sostanzialmente recuperatoria e trovano il proprio fondamento nell’esigenza di evitare l’arricchimento a danno di altri[38].
Alla luce di ciò e seguendo il dettame offerto dalle pronunce della Suprema Corte, nell’esempio sopra riportato l’elettricista avrà diritto ad un indennizzo per il lavoro svolto pur non intercorrendo tra le parti alcun rapporto contrattuale.
L’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento, dunque, non costituisce l’equivalente di un riconoscimento di un debito fuori bilancio, ipotesi nella quale invece il terzo che abbia compiuto dei lavori in favore dell’ente locale avrà diritto al suo compenso nella sua interezza, comprensivo quindi del profitto derivante dal lavoro compiuto.
- L’arricchimento senza causa dell’ente locale
Si è visto che può accadere che l’ente locale non riconosca il debito fuori bilancio anche se concluso in forma scritta. Non è infatti sempre detto che l’ente locale riconosca il debito o che se lo accolli quando tale contratto non sia concluso per iscritto o non sia riferibile all’ente locale. In tal caso il terzo potrà ugualmente agire giudizialmente contro l’ente locale chiedendo il pagamento del proprio credito se la prestazione offerta dal creditore abbia arricchito ingiustamente la P.A.
- a) il primo caso che si analizza è l’ipotesi in cui il dipendente pubblico attivi un impegno di spesa per l’ente locale senza l’osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dell’ente[39]. Come si è detto, quando il dipendente dell’ente locale assume impegni in violazione dell’obbligo sancito dall’art. 191 del d.lgs. 267 del 2000 (contratto valido tra P.A. e professionista avente forma scritta ad substantiam, impegno contabile registrato in programma e copertura finanziaria), il rapporto obbligatorio nascente non si perfezionerà in capo alla P.A., ma si verrà a costituire un rapporto tra il dipendente e il soggetto terzo professionista; si determina dunque una frattura “ope legis” del rapporto di immedesimazione organica tra il dipendente e l’ente pubblico, che preclude il perfezionamento del rapporto obbligatorio nei confronti di quest’ultimo[40].
In tale situazione ci si può chiedere quali siano gli strumenti di difesa del creditore/professionista dell’ente locale e, qualora sussistano, quali siano gli eventuali mezzi di tutela del dipendente della P.A.
Certamente al creditore è preclusa l’azione contrattuale verso l’ente locale, proprio perché non sussiste alcun rapporto giuridicamente vincolante tra le parti. Deve anche escludersi l’azione diretta di ingiustificato arricchimento verso l’ente locale per carenza del requisito della sussidiarietà ex art. 2042 c.c.: infatti il creditore può proporre in via principale l’azione contrattuale nei confronti del dipendente dell’ente pubblico, in ragione della costituzione ope legis del rapporto obbligatorio tra il professionista e il dipendente[41]: a breve si vedrà però che il terzo creditore potrà ugualmente agire nei confronti dell’ente pubblico surrogandosi al dipendente pubblico nei diritti nei confronti di quest’ultimo.
La proposizione della domanda da parte del creditore verso il dipendente espone però quest’ultimo ad un depauperamento patrimoniale che corrisponde ad un arricchimento ingiustificato della P.A. per aver quest’ultima comunque beneficiato di una prestazione patrimoniale senza corrispettivo[42].
Tuttavia il dipendente pubblico potrà tutelarsi nei confronti dell’ente locale attraverso l’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 cod. civ. Fino ad una importantissima pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni unite n. 10798 del 2015 si riteneva che l’arricchimento si configurasse solo nella misura in cui l’ente locale riconoscesse l’utilità della prestazione fornita dal creditore professionista. Qualora la P.A. non avesse riconosciuto una oggettiva utilità, il dipendente non avrebbe potuto agire nei confronti della P.A. con l’azione di ingiustificato arricchimento perché l’ente, non riconoscendo l’utilità che potesse trarne dalla prestazione, conseguentemente negava ogni arricchimento. Dopo le sezioni unite del 2015[43] avviene un cambio di rotta; infatti il riconoscimento dell’utilitas da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il soggetto che ha subito il depauperamento che agisca ex art. 2041 cc, ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso[44]. La Cassazione fa tuttavia comunque salva l’ipotesi in cui l’ente locale riesca a dimostrare che l’arricchimento sia stato non voluto, non consapevole o imposto[45], che per certi versi potrebbe consentire all’ente locale di vincere la causa per arricchimento senza causa più facilmente che rispetto a prima delle sezioni unite del 2015, quando poteva opporre l’assenza di utilità, in quanto allora l’ostacolo per il privato posto dall’assenza di utilità cadeva comunque in presenza di un implicito riconoscimento di tale utilità in virtù dell’utilizzo di fatto del bene, mentre ora, dopo la pronuncia del 2015, l’ente locale può opporre, pur in presenza di un’opera smaccatamente utile, la circostanza che la stessa sia stata realizzata a sua insaputa, il che può accadere più spesso di quanto si creda in virtù della non sempre agevole individuazione del soggetto che abbia la rappresentanza dell’ente e della difficoltà di comunicargli l’esecuzione dell’opera.
Si è inoltre detto che il professionista creditore non potrebbe teoricamente agire direttamente nei confronti dell’ente ai sensi dell’art. 2041 cod. civ. Il creditore, però, nella eventualità che il patrimonio del dipendente dell’ente pubblico sia insufficiente per il soddisfacimento del suo credito, può agire verso l’ente pubblico ex art. 2041 cod. civ. surrogandosi al dipendente dell’ente locale nell’azione verso l’ente locale stesso. Il creditore, in questo modo, si sostituisce al proprio debitore (il dipendente pubblico) nell’esercizio dell’azione di indebito arricchimento verso l’ente pubblico, su di lui ricadendo l’onere di dimostrare i presupposti costitutivi dell’ingiustificato arricchimento dell’amministrazione in correlazione al depauperamento del dipendente dell’ente[46]. Dunque il creditore è legittimato, sostituendosi nel diritto del dipendente pubblico suo debitore, ad agire contro la P.A. in via surrogatoria ex art. 2900 cod. civ., “per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni” quando il patrimonio del dipendente pubblico non offra adeguata garanzia[47].
Fin qui si sono prese in esame le azioni possibili in capo a creditore e dipendente quando tra questi intercorra un contratto o per lo meno vi sia stato un contatto fra dipendente e terzo che abbia preceduto l’intervento di quest’ultimo (ad esempio una telefonata del dipendente dell’ente locale all’elettricista, telefonata con la quale gli abbia chiesto di intervenire). Un secondo caso, che non trova soluzione chiara in giurisprudenza, è il caso in cui non sussista alcun contratto tra nessuna parte, ma il professionista abbia posto in essere una prestazione che ha portato una certa utilità alla P.A. Il privato ha dunque agito di sua iniziativa e non sussiste alcun valido contratto che lo obbliga nei confronti del dipendente pubblico né tanto meno nei confronti della P.A.
Si è analizzata l’ipotesi di indennizzo nel caso in cui ci sia un contratto tra dipendente pubblico e professionista e si è visto nel paragrafo 2.5. cosa succede se questo contratto non sussiste. Occorre però interrogarsi come ci si debba regolare quando intercorre un rapporto contrattuale valido tra professionista ed ente locale ma quest’ultimo non proceda al riconoscimento del debito fuori bilancio.
Si è detto come, se tale contratto sia accompagnato da impegno contabile e copertura finanziaria, il vincolo tra P.A. e terzo sia assolutamente valido; si è visto poi il caso in cui il contratto tra le parti sia valido, ma manca la copertura finanziaria e si è detto che qualora ci sia il riconoscimento da parte della P.A. del suo debito, questo sarà pagato al terzo creditore. Cosa succede però se, a fronte di un contratto valido tra le parti e una mancata copertura finanziaria, l’ente locale non riconosca il suo debito?
Poniamo l’esempio di un professore di musica che stipula un contratto con una scuola locale per insegnare nell’anno corrente. Il privato ha firmato un valido contratto con l’ente locale sul quale ha prestato incolpevole affidamento. Come può il contraente privato venire a conoscenza del fatto che non c’è un impegno di spesa che sostenga quel contratto validamente concluso?
Ancora, può succedere che la copertura finanziaria ci sia, ma il terzo abbia concluso il contratto con un soggetto non competente: come può sapere il professore di musica che quel contratto, concluso con un dipendente pubblico che non ha potere di stipulare quel tipo di contratto, non obbligherà l’ente pubblico, bensì solo il suo funzionario?
Nel caso in cui il contratto valido intercorra tra ente locale e terzo ma sia carente la copertura finanziaria (di cui il terzo non era a conoscenza), il terzo creditore che abbia svolto la sua prestazione non può agire contrattualmente nei confronti dell’ente locale. Il professionista ha quindi inconsapevolmente concluso un contratto con il dipendente della P.A. e dunque potrà agire contro tale soggetto con conseguente esclusione di una responsabilità in capo all’ente pubblico.
Più in generale, si può affermare che il terzo creditore potrà agire in giudizio contro la P.A. per inadempimento della controprestazione (ossia del pagamento del lavoro eseguito dal professionista) solo qualora tra le parti esista un contratto validamente concluso e rispettoso delle regole contabili. Se il creditore conclude, più o meno consapevolmente, un contratto con il dipendente pubblico, in caso di inadempimento della controprestazione potrà agire per responsabilità contrattuale solo nei confronti del dipendente, non contro l’ente pubblico.
- Il riconoscimento del debito da parte dell’ente locale
La ricognizione di debito, di cui all'art. 1988 cod. civ., ha natura di atto unilaterale recettizio che può essere effettuato solo da chi abbia la disponibilità del negozio giuridico o dell'atto cui si riferisce il riconoscimento. Inoltre, al pari della promessa di pagamento, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell'art. 1988 c.c., un'astrazione meramente processuale della causa debendi, comportante una semplice relevatio ab onere probandi, ossia il destinatario della ricognizione è dispensato dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria e che, oltre ad essere preesistente, può anche nascere contemporaneamente alla dichiarazione (o trovarsi in itinere al momento di questa), ma della cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, con il conseguente venir meno di ogni effetto vincolante della ricognizione stessa ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto fondamentale non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione ovvero un altro elemento attinente al rapporto fondamentale che possa comunque incidere sull'obbligazione derivante dal riconoscimento[48].
E’ pacifico, secondo la Cassazione, che il riconoscimento dei debiti da parte dell’ente locale sia assimilabile alla ricognizione di debito disciplinato dall’art. 1988 cod. civ., secondo cui la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale e l’esistenza di questo si presume fino a prova contraria[49]. Affinché tuttavia la disciplina di cui all’art. 1988 cod. civ. possa pienamente applicarsi ai debiti della pubblica amministrazione è però necessario – secondo una non del tutto univoca formula della Cassazione[50] - che questi debiti siano dotati dei requisiti formali e procedimentali che ne condizionino la validità e l’efficacia[51]. Quindi l’ente potrà riconoscere validamente solo quei debiti che sorgono sulla base di un valido rapporto obbligatorio, come avviene in tutte le ipotesi elencate dall’art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000. Per questa ragione si può ritenere che questi debiti non creino problemi quanto alla loro riconoscibilità, nel senso che sono debiti pacificamente riferibili all’ente, il quale quindi tendenzialmente li riconoscerà e ai quali adempierà.
Sembrerebbe che in caso di ricognizione di debito da parte di un ente locale sia sufficiente, ai fini della validità del riconoscimento, che quest’ultimo abbia la forma scritta ad substantiam, non anche il contratto riconosciuto concluso con il terzo: in questo senso si è pronunciata la Cassazione nel 2022 n. 2091 e si era parimenti pronunciata nel 2003 (Cass. n. 8643) e nel 1982 (Cass. n. 1188, con riferimento ai lavori svolti da un ingegnere in occasione del sisma in Irpinia); mentre nel 2007 (Cass. n. 25345) è stato affermato lo stesso principio astratto di diritto, piuttosto equivoco come detto in precedenza, dandosi però torto al privato, perché non era stato concluso per iscritto né il contratto a valle né il riconoscimento del debito a monte (trattavasi di un’autorizzazione ad aprire una porcilaia vicino ad un centro abitato, seguita dall’obbligo di seguire certe direttive per impedirne i miasmi, seguita ancora dall’ordine della chiusura a causa dell’insufficienza dei rimedi adottati: qui però sembrerebbe che non vi sia stato un riconoscimento di debito ma semmai una responsabilità dell’ente locale ex 2043 cod. civ. per il legittimo affidamento riposto dal privato nella legittimità dell’azione della pubblica amministrazione: infatti, pur se successivamente l’ente locale si è adeguato alla legge impedendo la continuazione dell’attività, la condotta illegittima sta a monte nell’aver fatto aprire la porcilaia vicino al centro abitato con troppa superficialità).
- Criteri prudenziali di bilancio e imprevedibilità delle spese
In una prospettiva macroeconomica e prendendo in considerazione un arco di tempo adeguatamente lungo è statisticamente inevitabile e assolutamente fisiologico che un ente locale vada incontro a delle spese non previste. Pertanto sarebbe auspicabile che l’ente locale accantonasse ogni anno una somma adeguata per fare fronte alle spese impreviste che daranno poi vita ai debiti fuori bilancio. Si potrebbe dunque ipotizzare, ad inizio anno, quando si stila il programma del bilancio, di riservare una somma di denaro per tutte quelle spese impreviste che possono sorgere nel corso dell’anno. Tale previsione può essere fatta in base alle spese extra programma che sono sorte negli anni precedenti e/o in base ai debiti fuori bilancio realizzati dagli enti locali limitrofi e di dimensioni assimilabili. In tal modo si potrebbe ipotizzare una previsione delle spese su base statistica e conseguentemente l’imprevedibile diverrebbe statisticamente prevedibile. Si può allora immaginare una responsabilità dell’ente locale per non aver previsto un debito fuori bilancio in realtà (ampiamente) prevedibile, del resto in conformità al criterio della prudenza nella redazione dei bilanci, espressamente previsto dall’art. 162 del T.U.E.L. che nell’indicare i criteri che devono ispirare la redazione dei bilanci degli enti locali, richiama il d.lgs. n. 118 del 2011 che a sua volta richiama i principi contabili del codice civile. In ogni caso la Cassazione ha espresso un principio che, in quanto rispondente a criteri di ragionevolezza alla tutela degli interessi dei terzi, si ritiene applicabile anche agli enti locali, secondo cui in tema di iscrizione in bilancio dei crediti delle società, ai sensi dell'art. 2425, n. 6, cod. civ., il criterio legale del "valore presumibile di realizzazione" deve essere esercitato dagli amministratori alla stregua del canone generale della ragionevolezza della valutazione (o svalutazione) operata, con prudente apprezzamento della situazione patrimoniale ed economica del debitore e della sua solvibilità, sicché essi sono tenuti a formulare una prognosi ex ante circa il grado di probabilità del futuro adempimento, pieno e tempestivo, del debitore, di modo che il valore nominale dei crediti costituisce soltanto un parametro, da correggere prudenzialmente tenendo conto di tutti i suoi caratteri ex latere debitoris, senza che assuma rilievo quanto attiene alla sfera giuridica del creditore[52]. Analogamente, la Cassazione ha altresì affermato, in tema di imposte sui redditi, che l'art. 23, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 1995, nel disporre che le società di assicurazione costituiscano alla fine di ogni esercizio la "riserva sinistri" iscrivendo nel bilancio le somme necessarie per far fronte al pagamento dei sinistri avvenuti in quell'esercizio o negli esercizi precedenti, atteso il suo tenore letterale, si limita a prevedere che l'ammontare di essa sia determinato sulla base di una valutazione fondata su elementi obiettivi e guidata dal criterio di prudenza, senza imporre alcun metodo specifico, purché quello impiegato sia tecnicamente idoneo a perseguire le finalità della riserva di accantonare le somme necessarie per far fronte al pagamento dei sinistri avvenuti, e non anche esuberante rispetto a tali finalità[53]. Pertanto l’ente locale ben potrà apprezzare e stimare i debiti fuori bilancio ex ante mediante una valutazione probabilistica, attraverso un giudizio di prevedibilità, tanto più attendibile quanto più lo stesso sia fondato prendendo in considerazione le spese di un arco temporale sufficientemente ampio.
Questa impostazione nella maggior parte dei casi probabilmente rischia di rimanere un’utopia poiché gli enti locali hanno spesso le casse vuote e quindi diventa impossibile anticipare delle somme per accantonarle per una ipotesi, per quanto altamente probabile, di debito fuori bilancio.
Ad ogni modo il concetto di eccezionalità è presente anche nel secondo comma dell’art. 81 della Costituzione, secondo cui il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.
Quest’ultima norma dà anche il senso complessivo dei debiti fuori bilancio: questi devono essere, nel disegno complessivo del Legislatore (costituzionale e ordinario) un quid che allo stesso tempo è fisiologico ed eccezionale: è fisiologico perché è praticamente impensabile l’impresa di riuscire a prevedere ex ante tutte le spese che dovrà sostenere un ente locale, ma allo stesso tempo questa fisiologicità deve essere contenuta nei limiti più stretti possibili e deve mantenersi come un qualcosa di eccezionale ed imprevedibile, insuscettibile di applicazione in via analogica quanto alla estensibilità dei casi nei quali l’ente locale può riconoscere il debito fuori bilancio, come del resto riconosciuto dalla Corte costituzionale n. 446 del 1995 che ha qualificato tale disciplina eccezionale in quanto derogatoria al principio di immedesimazione organica del dipendente con l’ente locale per il quale lavora e di solidarietà tra il dipendente e l’ente locale previsto dall’art. 28 Cost.
La Cassazione ha più volte avuto a che fare, in diversi campi, con il concetto di imprevedibilità, spesso definendola con formule inevitabilmente generiche o individuando tale circostanza in ipotesi che non aiutano più di tanto a sciogliere i dubbi per altre ipotesi: ad esempio in un caso[54] ha definito il terremoto come un evento eccezionale ed imprevedibile[55]; in un altro caso ha subordinato l’imprevedibilità e l'inevitabilità della perdita all'uso della diligenza del buon padre di famiglia. In una diversa fattispecie[56] in tema di responsabilità ex art. 2051 cod. civ. e di precipitazioni atmosferiche, ha affermato che l'imprevedibilità, alla stregua di un'indagine ex ante e di stampo oggettivo in base al principio di regolarità causale, va intesa come obiettiva inverosimiglianza dell'evento e in una sensibile deviazione dalla frequenza statistica accettata come “normale”.
[1] L’ente può far fronte ai debiti fuori bilancio attingendo al cosiddetto avanzo “libero” (una sorta di utile di esercizio) e per il pagamento l’ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione. In effetti, secondo l’art. 187, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000, la quota libera dell'avanzo di amministrazione dell'esercizio precedente, accertato ai sensi dell'art. 186 e quantificato ai sensi del comma 1, deve essere utilizzato con provvedimento di variazione di bilancio per la copertura dei debiti fuori bilancio con precedenza assoluta rispetto ad altre finalità verso le quali il suddetto avanzo potrebbe essere destinato. Sul punto si è pronunciata Corte cost. n. 167 del 2021, la quale ha evidenziato che l’avanzo “libero” «non può essere inteso come una sorta di utile di esercizio, il cui impiego sarebbe nell’assoluta discrezionalità dell’amministrazione, dovendo comunque prioritariamente essere utilizzato nella copertura dei debiti fuori bilancio. Secondo la Consulta, infatti, l’avanzo di amministrazione “libero” delle autonomie territoriali è soggetto a un impiego tipizzato» (sentenza n. 138 del 2019). In effetti, l’art. 42, comma 6, del d. lgs. 23 giugno 2011, n. 118, per le Regioni, e l’art. 187, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, per gli enti locali, stabiliscono, in maniera sostanzialmente coincidente, i possibili impieghi della quota libera dell’avanzo di amministrazione e il relativo ordine di priorità. In particolare, specificamente per gli enti locali, essi consistono: 1) nella copertura dei debiti fuori bilancio; 2) nella salvaguardia degli equilibri di bilancio di cui all’art. 193 del d.lgs. n. 267 del 2000, ove non possa provvedersi con mezzi ordinari; 3) nel finanziamento delle spese di investimento; 4) nel finanziamento delle spese correnti a carattere non permanente; 5) nell’estinzione anticipata dei prestiti. Tale ordine viene temporaneamente derogato dall’art. 109, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020 che, mantenendo solo le priorità relative alla copertura dei debiti fuori bilancio e alla salvaguardia degli equilibri di bilancio, consente agli enti locali l’impiego della quota libera dell’avanzo di amministrazione per finanziare le spese correnti connesse all’emergenza sanitaria con precedenza rispetto al finanziamento di quelle di investimento. Mediante questa ricostruzione la Corte costituzionale evidenzia che la soluzione del Legislatore costituisce un valido bilanciamento tra le esigenze economiche contingenti dettate dall’emergenza sanitaria e quelle di tendere al pareggio del bilancio, permettendo di ridurre la pressione fiscale attraverso l’impiego dell’avanzo disponibile, così optando per una soluzione alternativa all’erogazione diretta di contributi a fondo perduto senza frustrare le esigenze a cui la disciplina di armonizzazione dei bilanci pubblici è funzionale, tra cui si annovera quella di preservare gli equilibri di bilancio (sentenze n. 80 del 2017 e n. 184 del 2016), che nella specie sono salvaguardati attingendo anche alla quota libera dell’avanzo di amministrazione.
[2] Tale norma è stata introdotta con legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, entrata in vigore l’8 maggio 2012, ed è stata inserita unitamente a delle significative integrazioni dell’art. 81 Cost., secondo cui «lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo»: in corsivo sono indicati i due commi inseriti nel 2012.
[3] Secondo l’art. 126 del TFUE: «1. Gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi.
- La Commissione sorveglia l'evoluzione della situazione di bilancio e dell'entità del debito pubblico negli Stati membri, al fine di individuare errori rilevanti. [Omissis]
- La Commissione, se ritiene che in uno Stato membro esista o possa determinarsi in futuro un disavanzo eccessivo, trasmette un parere allo Stato membro interessato e ne informa il Consiglio.
- Il Consiglio, su proposta della Commissione e considerate le osservazioni che lo Stato membro interessato ritenga di formulare, decide, dopo una valutazione globale, se esiste un disavanzo eccessivo.
- Se, ai sensi del paragrafo 6, decide che esiste un disavanzo eccessivo, il Consiglio adotta senza indebito ritardo, su raccomandazione della Commissione, le raccomandazioni allo Stato membro in questione al fine di far cessare tale situazione entro un determinato periodo».
[4] Cfr. I. Roberti, Il contenimento della spesa pubblica come presupposto delle più recenti revisioni costituzionali, in Riv. Associazione Italiana Costituzionalisti, 2021, n. 4, la quale riconduce all’obiettivo della riduzione della spesa pubblica anche la riforma che ha ridotto il numero dei parlamentari. In questo senso cfr. C. Colletta, Debiti fuori bilancio ed equilibrio finanziario degli enti locali: l’art. 191 del TUEL, in Diritto.it., 14 gennaio 221, https://www.diritto.it/debiti-fuori-bilancio-ed-equilibrio-finanziario-degli-enti-locali-lart-191-del-tuel/, la quale evidenzia altresì che i debiti fuori bilancio costituiscono un pericoloso fenomeno di ‘indebitamento sommerso’, poiché ogni obbligazione pecuniaria è valida giuridicamente ma non regolarizzata in contabilità e solo il riconoscimento della sua legittimità da parte del Consiglio fa coincidere i due aspetti giuridico e contabile in capo al soggetto che l’ha riconosciuta.
[5] Cass., S.U., 12 maggio 2020, n. 8770, in Resp. civ. prev., 2020, 1516, con nota adesiva di D. Bonaccorsi di Patti, La legittimzione a stipulare un contratto di swap e le regole di finanza locale: un'occasione (o un pretesto) per un'indagine nel mondo dei contratti derivati, sentenza secondo cui l’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei Comuni italiani in tutti quei casi nei quali la negoziazione si traduce comunque nell'estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti ovvero nel loro mantenimento in vita, ma con rilevanti modificazioni, deve essere data, a pena di nullità, dal Consiglio comunale, ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett. i), TUEL di cui al d.lgs. n. 267 del 2000, non potendosi assimilare ad un semplice atto di gestione dell'indebitamento dell'ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, di competenza della giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria ex art. 48, comma 2, dello stesso testo unico; in particolare, tale autorizzazione compete al Consiglio comunale ove il tasso di interesse negoziato dal Comune incida sull'entità globale dell'indebitamento dell'ente, tenendo presente che la ristrutturazione del debito va accertata considerando l'operazione nel suo complesso, con la ricomprensione dei costi occulti che gravano sul rapporto.
[6] In effetti, con una certa periodicità, il Consiglio dell’ente locale, attraverso una deliberazione, provvede a informare del permanere o meno degli equilibri generali di bilancio: in questo senso si esprime l’art. 193, comma 2, del d.lgs. n 267 del 2000. Ai fini del predetto comma 2 il successivo comma 3 stabilisce che possono essere utilizzate le possibili economie di spesa e tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle con specifico vincolo di destinazione, nonché i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento a squilibri di parte capitale. Sempre in questa prospettiva è stata istituita la Commissione per la finanza e gli organici degli enti locali (già denominata Commissione di ricerca per la finanza locale) che si occupa, tra gli altri compiti, di proporre al Ministro dell’interno di adottare tutte quelle misure necessarie per risanare i debiti fuori bilancio non ripianabili con i normali mezzi (art. 155, comma 1, lett. f, d.lgs. n. 267 del 2000): in tal modo è evidente che la crisi finanziaria dell’ente locale assume una rilevanza che non è solo “locale” ma diventa anche di pertinenza statale.
[7] Secondo l’art. 119 della Costituzione «i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio». Osserva a tale proposito un Autore (M. Aulenta, Gettito e gittata dei tributi. La contribuzione alla spesa pubblica mediante il pubblico bilancio, in Riv. dir. finanziario, 2021, 46) che con l'equiparazione tra Regioni, Province e Comuni di cui all'art. 119 Cost., quoad effectum, si può giungere alla conclusione per cui vi sia grandissima somiglianza tra leggi regionali e regolamenti degli enti locali, ormai sfumata fino all'indistinguibilità, tanto che l'avvenuto svilimento del rango regionale, anche in materia giuscontabile, con le Regioni costrette financo ad emanare leggi-provvedimento per l'approvazione dei singoli debiti fuori bilancio (identicamente, al pari delle delibere consiliari degli enti locali), rende ormai un ricordo sbiadito il dibattito sulle potestà legislative regionali tributarie.
[8] G. Della Cananea, La legittimazione contrattuale degli enti locali, Dir. amministrativo, 2021, 533, secondo cui per porre rimedio ai debiti fuori bilancio l’ordinamento richiede che i debiti contratti siano riconosciuti e che a farlo sia il consiglio comunale o provinciale, ossia l'ente cui spetta esprimere l'indirizzo politico — amministrativo, in particolare per quanto concerne le finanze locali. La circostanza che della decisione sia investito l’organo politico dell’ente locale (il che peraltro non significa che non possano essere ugualmente coinvolti anche organi tecnici del Comune, sia da un punto di vista ingegneristico/architettonico/urbanistico, sia da un punto di vista contabile/ragionieristico/legale) significa che la decisione da prendere da parte dell’ente locale assume una valenza non solo di discrezionalità tecnica ma anche amministrativa.
[9] Cfr. C. Colletta, Debiti fuori bilancio ed equilibrio finanziario degli enti locali: l’art. 191 del TUEL, in Diritto.it., 14 gennaio 2021, https://www.diritto.it/debiti-fuori-bilancio-ed-equilibrio-finanziario-degli-enti-locali-lart-191-del-tuel/, secondo cui il riconoscimento del debito fuori bilancio può mancare per via di dissidi interni al Consiglio dell’ente locale, soprattutto dove non si ravvisi l’utilità per l’ente e dove sia evidente la responsabilità del singolo funzionario.
[10] Cfr. tuttavia Cass. 31 maggio 2005, n. 11597, secondo cui in tema di assunzione di impegni e di svolgimento di spese da parte degli enti locali, a norma dell'art. 23 D.L. n. 66 del 1989 (conv. in legge n. 144 del 1989, riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35 del d.lgs. n. 77 del 1995 e ora rifluito nell'art. 19 del d.lgs. n. 267 del 2000), qualora la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da amministratore o funzionario dell'ente locale non rientri nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal terzo comma della norma, non sorgono obbligazioni a carico dell'ente bensì dell'amministratore o del funzionario, i quali rispondono con il proprio patrimonio, senza che sia esperibile azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente. Tuttavia, l'ente territoriale può riconoscere "a posteriori" i debiti fuori bilancio, con apposita deliberazione consiliare di riconoscimento del debito nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, fermo restando che, in caso di mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o l'amministratore che ha autorizzato la prestazione e che costoro restano comunque soggetti all'azione diretta e rispondono delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla contabilizzazione dei debiti fuori bilancio. Ogni valutazione circa l'opportunità di attivare il procedimento di riconoscimento dei debiti fuori bilancio e la ricorrenza dei presupposti di legge spetta all'amministrazione, senza alcuna possibilità di sostituzione da parte del giudice. Analogamente si era pronunciata Cass. del 2002, secondo cui in tema di assunzione di impegni e di effettuazione di spese da parte degli enti locali, l'art. 5, del d.lgs. n. 342 del 1997, che ha sostituito la lett. e) del comma 1 dell'art. 37 del d.lgs. n. 77 del 1995 - disposizione poi trasfusa nell'art. 194, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 267 del 2000 -, ammette la possibilità di un riconoscimento a posteriori della legittimità dei debiti fuori bilancio, subordinandolo ad una formale deliberazione di riconoscimento del debito da parte dell'ente nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, fermo restando che (a norma degli artt. 35 d.lgs. n. 77 del 1995 e 191 d.lgs. n. 267 del 2000), in caso di mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o l'amministratore che ha autorizzato la prestazione. Avuto riguardo al tenore letterale e alla ratio delle norme indicate, la relativa valutazione spetta all'amministrazione e il giudice non può ad essa sostituirsi affermando l'esistenza di un diritto al riconoscimento del debito assunto fuori bilancio, nella ricorrenza delle condizioni indicate dal legislatore, perché l'ente possa procedere al riconoscimento (nel caso di specie la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di ingiustificato arricchimento nei confronti di un comune, fondata anche sulla base dello "ius superveniens" sopra richiamato).
[11] Cfr. Cass S.U. n. 28573 del 2018, secondo cui la domanda avente ad oggetto la determinazione dell'indennità ex art. 42 bis del d.lgs. n. 327 del 2001 è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario anche qualora detta indennità sia stata determinata, in sede di giudizio di ottemperanza ad una sentenza del giudice amministrativo, mediante provvedimento del commissario ad acta, atteso che nel giudizio di ottemperanza il giudice è chiamato non solo a enucleare e precisare il contenuto degli obblighi nascenti dalla sentenza passata in giudicato, ma anche - quando sorgano problemi interpretativi la cui soluzione costituisca l'indispensabile presupposto della verifica dell'esattezza dell'esecuzione - ad adottare una statuizione analoga a quella che potrebbe emettere in un nuovo giudizio di cognizione, restando tuttavia fermo il limite esterno della giurisdizione propria del giudice amministrativo, con la conseguenza che, quando la cognizione della questione controversa, la cui soluzione sia necessaria ai fini della verifica dell'esatto adempimento dell'amministrazione obbligata, risulti devoluta ad altro giudice, soltanto questi può provvedere al riguardo.
[12] Cass., S.U. n. 8236 del 2020; conforme Cass., S.U., n. 615 del 2021.
[13] Cfr. Cons. Stato, ad. plen., n. 5 del 2018 (in materia di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrativa in procedura di evidenza pubblica, nel cui solco si colloca Cons. Stato, sez. II, n. 7237 del 2020).
[14] Cfr. Cons. Stato, ad. Plen., n. 7 del 2021.
[15] Cfr. Cass. S.U. n. 8236 del 2020.
[16] Ovvero della libertà di autodeterminazione negoziale, secondo Cons. Stato, ad. plen., n. 5 del 2018.
[17] Cons. Stato, sez. II, n. 2013 del 2021, che ha deferito all'Adunanza plenaria la questione, fra l'altro, delle condizioni in presenza delle quali sia configurabile un diritto al risarcimento per lesione dell'affidamento incolpevole.
[18] Cass. S.U. n. 8236 del 2020, cit.
[19] Cfr. in questo senso Cass. S.U. n. 12428 del 2021.
[20] Cfr. Cass. n. 30521 del 2019.
[21] Cfr. A. Brancasi, La Corte costituzionale interviene sulla armonizzazione dei bilanci pubblici, in Giur. cost., 2017, 795, secondo cui le ipotesi di riconoscimento di debiti fuori bilancio rientrano nella materia di competenza esclusiva statale “ordinamento civile” di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost.
[22] Cfr. Cass. n. 25373 del 2013.
[23] Cfr. Cass. n. 510 del 2021.
[24] Cass. S.U. n. 15570 del 2021, secondo cui appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia volta a far valere la responsabilità contrattuale degli amministratori e dei revisori di un consorzio di sviluppo industriale, avente natura di ente pubblico economico, per inadempimento agli obblighi di natura contabile e gestionale derivanti dagli artt. 2608, 1710 e 1176 c.c., atteso che, nel caso in cui oltre al danno civilistico sia prospettabile anche un danno erariale, deve comunque ritenersi ammissibile la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio e l'eventuale interferenza tra i due giudizi può porre solo una questione di proponibilità dell'azione da far valere davanti al giudice successivamente adito.
[25] Cfr. Cass., S.U., n. 8534 del 2020, secondo cui l’azione di responsabilità civile promossa dalle pubbliche amministrazioni per il ristoro dei danni cagionati dall'illecito commesso dai propri dipendenti può essere esercitata in maniera indipendente dall'azione di responsabilità per danno erariale, anche qualora il fatto materiale, costituente reato, sia stato accertato in un giudizio penale nel quale la P.A. danneggiata non si sia costituita parte civile.
La sentenza n. 473 del 2015 della Cassazione a sezioni unite, in particolare, ha posto in luce che l'estensione della responsabilità erariale a soggetti non ricompresi nell'apparato amministrativo è avvenuta attraverso l'elaborazione "di una nozione di rapporto di servizio in senso ampio, quale rapporto configurabile tutte le volte in cui il soggetto, persona fisica o giuridica, benché estraneo all'ente, si trovi investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività a favore dello stesso". Con la conseguenza per cui "il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è ormai spostato dalla qualità del soggetto, che può ben essere un privato o un ente pubblico non economico, alla natura del danno e degli scopi perseguiti, cosicché ove il privato, cui siano erogati fondi pubblici, determini, con la sua condotta, un significativo sviamento dell'ente dalle finalità perseguite, lo stesso realizza un danno per l'ente pubblico, del quale deve rispondere davanti al giudice contabile" (così ancora la sentenza n. 473 cit.).
[26] Cfr. Cass. n. 2340 del 2022, secondo cui la responsabilità extracontrattuale della P.A., ai sensi dell'art. 2043 c.c., presuppone che il giudice accerti, in concreto e in ordine successivo: a) la presenza di un evento dannoso; b) l'ingiustizia dello stesso; c) la riconducibilità eziologica dell'evento dannoso ad una condotta (positiva od omissiva) della p.a.; d) l'imputabilità dello stesso al dolo o alla colpa dell'amministrazione, senza che sia configurabile una colpa in re ipsa, connessa al mero dato obiettivo dell'esecuzione volontaria di un provvedimento illegittimo (nella specie la Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ravvisato la colpa dell'Inail nella mera adozione di una erronea certificazione dei benefici contributivi da esposizione ad amianto, senza procedere ad ulteriori accertamenti).
[27] Cfr. Cass. S.U. n. 13246 del 2019, con nota adesiva di G. Tursi, La responsabilità civile dello Stato per i danni cagionati dalla condotta del dipendente, in Danno resp., 2019, 493, sentenza secondo cui lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del suo dipendente anche quando questi abbia approfittato delle proprie attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle della amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stato possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviati o abusivi od illeciti, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo.
L’utilizzabilità del criterio di imputazione fondato sul principio di preposizione e sul nesso di occasionalità necessaria è stata infine ribadita in una recentissima pronuncia con cui è stata affermata la responsabilità del Comune per il danno arrecato dal responsabile del servizio cultura dell’ente, nonché addetto alla gestione della biblioteca comunale, ad una dipendente della medesima biblioteca, mediante la commissione del reato di atti persecutori (c.d. stalking), realizzato attraverso ripetute violenze morali ed atteggiamenti oppressivi a sfondo sessuale. La responsabilità del Comune, chiamato in giudizio come responsabile civile, affermata dal giudice di primo grado e negata dal giudice di appello, è stata ritenuta dalla Suprema Corte (che ha dunque annullato la sentenza di secondo grado nella parte in cui l’aveva esclusa), sul rilievo che, sebbene parte delle condotte erano state poste in essere dall’imputato durante la pausa pranzo o fuori dall’orario di lavoro, l’esercizio delle funzioni pubbliche aveva comunque agevolato la produzione del danno nei confronti della persona offesa e tale circostanza, a prescindere dalla finalità del tutto egoistica perseguita dal pubblico dipendente, doveva reputarsi sufficiente per ritenere integrato il requisito dell’occasionalità necessaria e la consequenziale responsabilità della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 2049 c.c. (cfr. Cass. pen. Sez. 5, 3 aprile - 19 luglio 2017, n. 35588 secondo cui è configurabile la responsabilità civile della pubblica amministrazione anche per le condotte delittuose dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali, purché l’adempimento delle funzioni pubbliche costituisca un’occasione necessaria che l’autore del reato sfrutta per il compimento degli atti penalmente illeciti. (Fattispecie in cui la Corte ha evidenziato che l’esercizio delle funzioni pubbliche da parte dell’imputato aveva agevolato la produzione del danno nei confronti della persona offesa, anche se le condotte erano state poste in essere fuori dall’orario di lavoro).
[28] Cfr. Cass. n. 11021 del 2005.
[29] Cass. n. 15415 del 2018, secondo cui in tema di spese comunali fuori bilancio, qualora il funzionario pubblico attivi un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dell'ente, si determina una frattura "ope legis" del rapporto di immedesimazione organica, sicché il rapporto obbligatorio, non perfezionatosi nei confronti della P.A., si costituisce tra il privato e l'amministratore. Quest'ultimo peraltro può agire nei confronti della P.A. ai sensi dell'art. 2041 c.c., avendo solo l'onere di provare il fatto oggettivo dell'arricchimento senza che sia necessario alcun riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte dell'ente e salva la possibilità, per quest'ultimo, di dimostrare che l'arricchimento sia stato non voluto, non consapevole ovvero imposto.
[30] Secondo l’art. 28 Cost. «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Secondo Cass., S.U., 9 marzo 2020, n. 6690, in tema di responsabilità civile dei funzionari e dei dipendenti della P.A., l'espressione "atti compiuti in violazione dei diritti" contenuta nell'art. 28 Cost. (nonché l'analoga espressione "violazione dei diritti dei terzi" adoperata dall'art. 23 del d.P.R. n. 3 del 1957 per definire la nozione di "danno ingiusto" richiamata nell'art. 22 del medesimo d.P.R.) è da intendersi - alla luce della successiva evoluzione normativa e giurisprudenziale (a partire, in particolare, dal d.lgs. n. 80 del 1998 e dalla sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite civili) - come violazione di ogni interesse rilevante per l'ordinamento giuridico e meritevole di tutela, tale, dunque, da fondare la responsabilità diretta del pubblico dipendente anche con riferimento alla lesione di una posizione di interesse legittimo del terzo danneggiato.
[31] Cass. n. 5130 del 2020 ove si consideri che l'imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell'amministratore o del funzionario degli effetti dell'attività condotta in violazione delle regole contabili relative alla gestione degli enti locali opera, in via eccezionale, uno iato nel rapporto di immedesimazione organica, impedendo di configurare una corresponsabilità dell'amministrazione accanto a quella dei funzionari secondo lo schema delineato dall'art. 28 Cost. (Corte Cost., n. 26 del 2001; Cass., S.U., n. 26657 del 2014), appare evidente come la disposizione ora contenuta nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191 non sia applicabile in via analogica nell'ipotesi di acquisizione di beni o di servizi nell'interesse di enti pubblici diversi, come nella specie il Politecnico Ospedaliero di Bari, da quelli sopra menzionati.
[32] Cfr. Cass. n. 510 del 2021, secondo cui la delibera comunale con la quale, in sede di riconoscimento di debito fuori bilancio, il Comune destina una somma al pagamento del corrispettivo dell'opera eseguita, in assenza di un valido contratto a monte fonte di obbligazione, non può configurarsi come ricognizione postuma di debito, non innovando, pertanto, il detto riconoscimento la disciplina che regolamenta la conclusione di contratti da parte della p.a., né introducendo una sanatoria per i contratti eventualmente nulli o comunque invalidi, come quelli conclusi senza la forma scritta richiesta ad substantiam (in applicazione dell'enunciato principio, la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto che una missiva inviata da un dirigente del Comune, all'uopo incaricato con una delibera della Giunta Comunale, contenente una proposta transattiva, integrasse un accordo con valenza di riconoscimento di debito fuori bilancio a carico dell'ente pubblico). Inoltre, secondo Corte cost. n. 295 del 1997, non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23 del D.L. n. 66 del 1989, che prevede, al comma 3, che, per province, comuni e comunità montane, "qualsiasi spesa è consentita esclusivamente se sussistono la deliberazione autorizzativa nelle forme previste dalla legge e dichiarata o divenuta esecutiva, nonché l'impegno contabile registrato dal ragioniere o dal segretario, ove non esista il ragioniere, sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati", precisando, altresì, che "per i lavori di somma urgenza l'ordinazione fatta a terzi deve essere regolarizzata entro trenta giorni e comunque entro la fine dell'esercizio, a pena di decadenza". A sua volta, il comma 4 dispone che, in caso "di violazione dell'obbligo indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge, tra il fornitore e l'amministratore o il funzionario che abbiano consentito la fornitura".
Le menzionate disposizioni danno luogo ad una disciplina, successivamente riconfermata senza modifiche di fondo dall'art. 35 del d.lgs. n. 77 del 1995, che comporta l'imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell'amministratore (o funzionario) degli effetti dell'attività di spesa che non si svolga nell'osservanza dei criteri contabili relativi alla gestione degli enti locali. E ciò con lo scopo non irragionevole di sollecitare, da un canto, un più rigoroso rispetto dei principi di legalità e correttezza da parte di coloro che operano nelle gestioni locali e di far sì, dall'altro, che la competenza ad esprimere la volontà degli enti locali resti effettivamente riservata, nel rispetto delle procedure prescritte, agli organi a ciò deputati, e cioè agli organi cui spetta di programmare la gestione finanziaria e di inquadrare le varie scelte amministrative nella prospettiva del piano di spesa contenuto nel bilancio di previsione, e non oltre i limiti da esso fissati.
All'evidente fine di assicurare un sufficiente grado di organicità alla modifica normativa introdotta, il legislatore nella disposizione menzionata individua, da una parte, gli elementi costitutivi necessari per la imputabilità della spesa all'amministrazione locale, e cioè la delibera autorizzativa e relativa copertura finanziaria quale presupposto ineliminabile della spesa, e, dall'altra, le conseguenze tipiche delle attività poste in essere senza l'osservanza delle prescritte procedure.
[33] Cfr. Cass. n. 510 del 14 gennaio 2021, cit.
[34] Ferma restando l'insindacabilità giurisdizionale delle scelte discrezionali, rientra invece nella giurisdizione contabile, in quanto attinente al vaglio dei parametri di legittimità e non di mera opportunità o convenienza dell'agire amministrativo, l'azione di responsabilità per danno erariale con la quale si faccia valere, quale petitum sostanziale, la mala gestio alla quale i dipendenti dell’ente locale avrebbero dato corso, in concreto (Cass. SU, n. 2157 del 2021). Deve altresì evidenziarsi che i parametri adottati per valutare la mala gestio degli amministratori pubblici e privati sono in teoria sostanzialmente diversi: per gli amministratori “privati” il parametro fondamentale di valutazione è quello della diligenza professionale mentre per quelli pubblici l’efficienza, efficacia e economicità. Ebbene, senza dover tralasciare questi parametri, non si vede perché il parametro fondamentale della diligenza professionale, della perizia, delle conoscenze tecniche della propria attività, non debba essere adottato anche per valutare l’azione dell’amministratore pubblico. La responsabilità del dipendente pubblico dell’ente locale va anche valutata all’esito di un giudizio di manifesta mancanza di inerenza delle spese rispetto alle finalità che l’ente locale è tenuto a perseguire. Rimangono comunque delle perplessità: e se fossero stati minuziosamente e specificamente descritti pranzi luculliani molto costosi per persone esattamente determinate? E se fosse stato fatto un costoso omaggio ad un personaggio istituzionalmente rilevante? E perché mai un necrologio non dovrebbe essere attinente alle finalità del gruppo consiliare quando parimenti si tratti di figura istituzionalmente rilevante? E’ evidente che il confine tra spese inerenti e non inerenti è molto labile, esattamente come quello tra uso e abuso del potere discrezionale amministrativo, che da sempre ha reso pieno di difficoltà l’individuazione del vizio di eccesso di potere amministrativo.
[35] Cfr. Corte cost. n. 446 del 1995, cit., secondo cui il terzo contraente, nell'accettare di eseguire lavori di "somma urgenza", disposti secondo la procedura di cui all'art. 70 cit., non può ignorare che, ove successivamente non intervenga l'autorizzazione da parte dell'ente, il rapporto contrattuale deve intendersi intercorso direttamente con il funzionario (o l'amministratore) ed assume quindi volontariamente il rischio conseguente alla definitiva individuazione della parte contraente (e patrimonialmente responsabile).
E poiché, in definitiva, l'ente, nei limiti del suo arricchimento, è tenuto all'indennizzo, ed il contraente privato ha titolo per conseguire, entro gli stessi limiti, il ristoro della diminuzione patrimoniale subita, ne segue che si appalesa infondata, nei termini in cui è stata proposta, la censura di irragionevolezza della disposizione denunciata, la quale - nel contesto di una più complessa disciplina diretta a risanare le finanze degli enti locali in dissesto - risulta finalizzata ad assicurare una rigorosa applicazione della normativa contabile e quindi un rigido controllo delle spese.
[36] Cfr. Cass. n. 12702 del 2019.
[37] Cfr. Cass. n. 2040 del 2022.
[38] Cfr. Cass. n. 23385 del 2008.
[39] Cfr. Cass. n. 15415 del 2018.
[40] Cfr. Cass. n. 5665 del 2021.
[41] Cfr. Cass. S.U. n. 29178 del 2020; nn. 11036 e 30109 del 2018; n. 80 del 2017; n. 18567 e 25860 del 2015.
[42] Cfr. Cass n. 5665 del 2021
[43] Cass. S.U. n. 10798 del 2015: il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il soggetto che agisce ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto”.
[44] Cfr. Cass. n. 5665 del 2021.
[45] Cfr. Cass. n. 15415 del 2018 Questa ipotesi in realtà sarà molto frequente, perché tutte le volte in cui il terzo abbia agito di sua iniziativa oppure sia stato contattato informalmente da un dipendente dell’ente il quale non abbia poi informato i vertici dell’ente stesso, ben potrà dirsi che l’arricchimento non sia voluto, non sia consapevole e sia imposto.
[46] Cfr. Cass. n. 5665 del 2021.
[47]Corte Cost. Sent. 18-24 ottobre 1995, n. 446
[48] Cfr. Cass. n. 2091 del 2022; Cass. n. 15575 del 2000. E’ stato affermato, quanto agli effetti della c.d. ricognizione di debito titolata, che la ricognizione esonera dall'onere di provare il rapporto fondamentale soltanto il soggetto al quale è stata indirizzata, a meno che non contenga l'indicazione della causa debendi, perché, in tal caso, anche il cessionario del credito, quale successore a titolo particolare nel rapporto obbligatorio oggetto della scrittura ricognitiva, può avvalersi della presunzione correlata alla sottoscrizione della stessa (Cass. n. 26334 del 2016). E' evidente, però, che nel caso in cui la ricognizione di debito si inserisca in una complessa operazione di cessione del credito - come avvenuto nella fattispecie in esame - tale effetto può prodursi solo ove la ricognizione presenti tutti i requisiti formali e sostanziali di validità ed efficacia, perché, come più volte affermato, l'accettazione della cessione del credito da parte del debitore ceduto non costituisce ricognizione tacita del debito, trattandosi di una dichiarazione di scienza priva di contenuto negoziale, sicché, il ceduto non viola il principio di buona fede nei confronti del cessionario, se non contesta il credito, pur se edotto della cessione (Cass. n. 3184 del 2016), né tale valenza può desumersi dal silenzio del debitore stesso sulla natura del credito ceduto - atteso che quest'ultimo si identifica con il contratto dal quale nasce, da presumersi noto al nuovo creditore - o dalla mancata informativa al cessionario sulle ragioni della contestazione del credito, in quanto l'obbligo di diligenza di cui all'art. 1176 cod. civ., è imposto al debitore solo nell'adempimento della prestazione, mentre non può essere esteso sino ad includere l'informazione dettagliata delle ragioni del rifiuto di adempiere (Cass. n. 26664 del 2007). Ove l'atto ricognitivo del debito provenga da una pubblica amministrazione lo stesso richiede la forma scritta ad substantiam e la prova della sua esistenza e del suo contenuto non può essere fornita né attraverso la confessione, né mediante la testimonianza (Cass. n. 25435 del 2007). Vi e', inoltre, necessità di un'idonea manifestazione di volontà ricognitiva del debito adottata nelle forme di legge, potendo l'amministrazione obbligarsi solo nelle forme consentite e con assoggettamento dell'atto al riscontro di legittimità della Corte dei conti (Cass. n. 1834 del 1974), ciò perché la disciplina civilistica dettata dall'art. 1988 c.c. è applicabile agli atti della P.A. nel concorso dei requisiti formali e procedimentali che ne condizionano la validità e l'efficacia (Cass. n. 8643 del 2003; Cass. n. 25435 del 2007).
[49] Cass. SU n. 6459 del 2020; Cass. n. 29688 del 2020 sentenza le quali sottolineano che colui che procede al riconoscimento del debito ha l'onere della prova del rapporto fondamentale, che però si presume fino a prova contraria. Peraltro è riservata al giudice del merito e sottratta al sindacato di legittimità l'indagine sul contenuto e sul significato delle dichiarazioni della parte, al fine di stabilire se esse importino una ricognizione di debito ai sensi dell'art 1988 c.c. (in questo senso Cass. n. 20422 del 2019). In questo senso ci si potrebbe chiedere se l’uso di fatto di quanto fornito possa costituire un meno un implicito riconoscimento del debito: cfr. Cass. n. 14473 del 2019 secondo cui la rinuncia al vantaggio della dispensa dell'onere della prova del rapporto fondamentale, derivante dall'effetto di astrazione processuale prodotto dalla promessa di pagamento ai sensi dell'art. 1988 c.c., può essere anche implicita, ma richiede una inequivoca manifestazione della volontà abdicativa, la quale è configurabile quando il beneficiario, nell'azionare il credito, deduca, oltre alla promessa di pagamento, il rapporto ad essa sottostante chiedendo "sua sponte" di provarlo, e non anche quando lo stesso promissario formuli tale richiesta istruttoria per reagire alle eccezioni del promittente. Qualora poi il terzo ceda ad un altro soggetto il suo credito nei confronti dell’ente locale, vale il principio secondo cui La ricognizione del debito, prevista dall’art. 1988 c.c., costituisce una dichiarazione unilaterale recettizia che, in virtù di astrazione meramente processuale, esonera dall’onere di provare il rapporto fondamentale soltanto il soggetto al quale è stata indirizzata, a meno che non contenga l’indicazione della causa debendi: in tal caso, anche il cessionario del credito, quale successore a titolo particolare nel rapporto obbligatorio oggetto della scrittura ricognitiva, può avvalersi della presunzione correlata alla sua sottoscrizione (Cass. n. 26334 del 2016); analogamente si è espressa Cass. n. 20689 del 2016, secondo cui La ricognizione di debito può offrire elementi di prova anche nei confronti di un soggetto diverso da quello dal quale proviene ove contenga un espresso riferimento al rapporto fondamentale, del quale il primo sia parte, nonché la menzione di fatti da cui possa evincersi, in concorso con altri elementi istruttori, la dimostrazione della pretesa azionata.
[50] Cfr. Cass. n. 25345 del 2007, secondo cui in tema di ricognizione di debito, la disciplina dettata dall'art. 1988 cod. civ. è applicabile anche agli atti della P.A., nel concorso dei requisiti formali e procedimentali che ne condizionano la validità e l'efficacia, a cominciare dal requisito della forma scritta ad substantiam che, a norma degli artt. 1350 e 2725 cod. civ. (secondo cui quando, secondo la legge o la volontà delle parti, un contratto deve essere provato per iscritto, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso indicato dal n. 3 dell'articolo precedente, ossia quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova. La stessa regola si applica nei casi in cui la forma scritta è richiesta sotto pena di nullità), costituisce un elemento essenziale della ricognizione stessa avendo natura costitutiva e non dichiarativa, cosicché la prova dell'esistenza e del contenuto di tale negozio, segnatamente per quanto attiene alle obbligazioni a carico della medesima amministrazione, non può essere fornita né attraverso la confessione (non importa se, ove resa in giudizio ex art. 2733 cod. civ., spontanea o provocata mediante interrogatorio formale, ai sensi dell'art. 228 cod. proc. civ.) né attraverso la testimonianza: afferma in particolare suddetta sentenza che la mancata ammissione delle prove rivolte a dimostrare che "l'Amministrazione aveva ripetutamente garantito al privato che sarebbe stato ampiamente ristorato per i gravi danni subiti a seguito della forzata chiusura", assumendo la rilevanza di simili circostanze vuoi "sotto il profilo dell'esplicito riconoscimento, da parte del Comune stesso, dell'anormalità dei propri comportamenti, (vuoi) sotto il profilo dell'esistenza effettiva di mancati guadagni per il privato nonché del vero e proprio riconoscimento di debito", laddove, invece, dette circostanze si palesano ininfluenti, sia nel senso, come già rilevato dalla Corte territoriale, che "la legittimità dell'azione amministrativa, rendendo superflua l'indagine sulla dedotta colpa del Comune, che costituisce ulteriore condizione per configurare una sua responsabilità ex art. 2043 cod. civ., determina l'irrilevanza della prova per interrogatorio e per testi dedotta dal privato per dimostrare detta colpa", sia nel senso che la disciplina dettata dall'art. 1988 cod. civ., (secondo cui la promessa di pagamento o la ricognizione di debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale, la quale si presume fino a prova contraria) è applicabile anche agli atti della Pubblica Amministrazione, nel concorso dei requisiti formali e procedimentali che ne condizionano la validità e l'efficacia, onde un valido ed efficace riconoscimento di debito può provenire dalla Pubblica Amministrazione ove vengano rispettate le forme prescritte per la relativa manifestazione di volontà (Cass. n. 263 del 1981; Cass. n. 1188 del 1982; Cass. n. 8643 del 2003), la quale si deve ritenere soggetta all'osservanza di tutti gli adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica per l'Amministrazione stessa ed, in primo luogo, al requisito della forma scritta ad substantiam, che, a norma degli artt. 1350 e 2725 cod. civ., ne costituisce un elemento essenziale avendo natura costitutiva e non dichiarativa, cosicché la prova dell'esistenza e del contenuto di tale negozio, segnatamente per quanto attiene alle obbligazioni a carico della medesima Amministrazione, non può essere fornita né attraverso la confessione (non importa se, ove resa in giudizio ex art. 2733 cod. civ., spontanea o provocata mediante interrogatorio formale, ai sensi dell'art. 228 cod. proc. civ.), ne', peggio, attraverso la testimonianza.
[51] Cfr. Cass. n. 20689 del 2016, secondo cui la ricognizione di debito non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, determinando, ex art. 1988 c.c., un'astrazione meramente processuale della causa debendi, da cui deriva una semplice "relevatio ab onere probandi" che dispensa il destinatario della dichiarazione dall'onere di provare quel rapporto, che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, venendo, così, meno ogni effetto vincolante della ricognizione stessa ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto suddetto non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull'obbligazione derivante dal riconoscimento; analogamente Cass., n. 8643 del 2003 e Cass. n. 1188 del 1982, sentenze secondo cui la disciplina dettata dall'art. 1988 cod. civ. (secondo cui la promessa di pagamento o la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale, la quale si presume fino a prova contraria) è applicabile anche agli atti della pubblica amministrazione, nel concorso dei requisiti formali e procedimentali che ne condizionano la validità e l'efficacia (in entrambi i casi si trattava di una deliberazione della giunta comunale che riconosceva un compenso ad un ingegnere, che aveva eseguito un progetto di costruzione, per l'opera svolta, senza che fosse stato concluso un contratto per iscritto).
[52] Cass. n. 5450 del 2015, in Società, 2015, 1088, con nota adesiva di F. Bava e M. Gromis di Trana, La Cassazione chiarisce i criteri della valutazione dei crediti al "presunto valore di realizzo.
[53] Cass. n. 16332 del 2012.
[54] Cass. n. 37778 del 2021.
[55] Cass. n. 9895 del 2021.
[56] Cass. n. 30521 del 2019.