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Anno XVII - n. 06 - Giugno 2025

  Temi e Dibattiti



Gli effetti del giudicato costituzionale sul provvedimento amministrativo.

Di Luca Passarini
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Gli effetti del giudicato costituzionale sul provvedimento amministrativo

 

Di LUCA PASSARINI

 

Sommario: 1. Cenni introduttivi. – 2. L’efficacia del giudicato costituzionale sul provvedimento amministrativo. – 2.1. Il conflitto di attribuzione su atti amministrativi. –2.2. L’atto amministrativo adottato sulla base di una legge dichiarata successivamente incostituzionale. - 3. L’autotutela amministrativa obbligatoria quale ipotesi fisiologica di esecuzione delle sentenze costituzionali. – 4. Deduzione delle parti e rilevabilità d’ufficio del giudice amministrativo della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale.

 

Abstract

Per quanto concerne gli effetti che il giudicato costituzionale produce sul provvedimento amministrativo, in un’ottica di rapporto tra Corti, la presente ricerca focalizza l’attenzione sull’annosa questione dell’esecuzione del seguito amministrativo di una sentenza di illegittimità costituzionale, sull’eventuale modulazione degli effetti temporali e sui possibili casi di intervento in autotutela della Pubblica amministrazione che rappresentano l’ipotesi fisiologica di esecuzione di secondo livello di una pronuncia di incostituzionalità, in contrapposizione alle ipotesi definite patologiche che si hanno qualora la Pubblica amministrazione resti inerte di fronte all’affermarsi del giudicato costituzionale.

 

Abstract

As regards the effects that the constitutional judgment produces on the administrative provision, from a perspective of the relationship between Courts, this research focuses attention on the age-old question of the execution of the administrative follow-up of a sentence of constitutional illegitimacy, on the possible modulation of the temporal effects and on the possible cases of intervention in self-protection by the Public Administration which represent the physiological hypothesis of second level execution of a ruling of unconstitutionality, as opposed to the pathological hypotheses that occur if the Public Administration remains inert in the face of 'affirmation of the constitutional judgment.

 

 

 

  1. Cenni introduttivi

Il tema della giustizia costituzionale “si presenta in tutti quegli ordinamenti che, mentre escludono che gli atti e i comportamenti degli organi supremi dello Stato siano sottratti all’impero del diritto, avvertono tuttavia l’esigenza di predisporre trattamenti e procedure speciali, allo scopo in primo luogo di una migliore tutela delle situazioni giuridiche di cui siano titolari soggetti investiti di funzioni sovrane, allorché si renda necessario l’accertamento della regolarità degli atti e delle attività da loro provenienti o che si riferiscono ad essi”[1]. Con queste parole uno dei principali maestri del diritto pubblico italiano, incominciava a delineare la trattazione della giustizia costituzionale, un tema che si è sviluppato attraverso precise vicende storiche, che è “il frutto di una medesima cultura costituzionale e cioè della Costituzione democratica che è caratteristica del Novecento”[2]. A protezione del testo costituzionale, è stato approntato un sistema di tutele e di garanzie che influenza – come si cercherà di dimostrare nella presente trattazione – anche i provvedimenti amministrativi ed il diritto amministrativo in genere, se è vero che “il problema della giustizia e della legalità dell’amministrazione è il maggiore che si incontra nella vita dei governi parlamentari”[3].

Prima di soffermarci sul tema principale dell’analisi e cioè sugli effetti che le pronunce della Corte costituzionale provocano sui provvedimenti amministrativi, è opportuno considerare il passaggio dallo Stato di diritto, caratterizzato dal principio di legalità (quale conformità degli atti amministrativi alla legge), allo Stato costituzionale, contrassegnato dal principio di legalità costituzionale che implica invece la conformità della legge alla costituzione, cioè a una legge sovraordinata.  È questo il principio di legittimità costituzionale o principio di sopralegalità che realizza un “modello di democrazia protetta”[4]. Oggetto di tale protezione sono i principi, i valori, i diritti fondamentali che sono stati enucleati nel testo costituzionale. Un caso di commistione tra i principi di legalità e di legalità costituzionale è possibile rinvenirlo proprio nel caso italiano dove il giudice amministrativo può annullare l’atto amministrativo, il giudice ordinario può procedere solo alla sua disapplicazione, la Corte costituzionale può annullarlo ove sia divenuto oggetto del proprio sindacato in sede di risoluzione dei conflitti di attribuzione interorganici o intersoggettivi[5], venendo definito dall’Autore come controllo di legittimità-legalità (mentre in altri ordinamenti che non conoscono la giustizia amministrativa gli atti contrari alla legge o alla costituzione sono oggetto di mera disapplicazione). 

 

 

 

  1. L’efficacia del giudicato costituzionale sul provvedimento amministrativo

All’interno della disciplina sulle sopravvenienze normative una posizione di certo interesse dottrinale è data dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge, sulla cui base sono stati adottati uno o più atti amministrativi. L’elemento sopravvenuto è in questo specifico caso dato dalla pronuncia di una sentenza di illegittimità costituzionale. Tradizionalmente la dottrina distingue tra norme costituzionali che rilevano come disciplina formale (e che ineriscono al sistema delle fonti), la cui violazione determina i cosiddetti vizi formali delle leggi, e norme costituzionali di disciplina del rapporto amministrativo, la cui violazione determina invece i cosiddetti vizi sostanziali delle leggi (LOPILATO). Quanto ai primi vizi ciò che rileva sono le norme che portano all’adozione degli atti legislativi e dunque in primo luogo gli articoli da 70 a 77 e 117 della Costituzione che qualora disattesi configurano un contrasto con il testo fondamentale. In relazione alla seconda tipologia di vizio, le principali norme che rilevano sono “quelle che impongono il rispetto dei principi generali dell’azione amministrativa”[6].

La Corte costituzionale, al pari di altri organi giurisdizionali, agisce secondo procedure di tipo giudiziario[7], adottando provvedimenti tipici, che devono sempre essere motivati, ma che in realtà sono sottratti ad ogni forma di gravame in base all’art. 137 Cost. ultimo comma per cui «contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione». Il fatto, poi, che il collegio sia composto da giudici, la necessità di atti di promovimento da parte di altri giudici nazionali ovvero di atti di impugnazione degli organi e dei poteri legittimati per l’instaurazione del giudizio costituzionale, la presenza di ricorrenti e resistenti quali parti processuali, sono tutti indici di un pieno carattere giurisdizionale che oggi è divenuto innegabile[8] e che fa sì che non possa più essere considerato un organo con mera natura politica[9]. Data la sua natura giurisdizionale, consegue il sorgere di un giudicato costituzionale, quale vincolo al rispetto delle decisioni della Corte costituzionale[10].

Come è già stato indicato in precedenza, il termine giudicato indica l’incontestabilità della pronuncia giurisdizionale[11] e mutuando una classificazione propria del diritto processuale civile, la dottrina[12] è giunta a una distinzione tra giudicato in senso formale e giudicato in senso sostanziale: il primo consiste nella inattaccabilità della sentenza, la quale non è più soggetta ai mezzi di impugnazione ordinari o per l’avvenuto esaurimento di essi o per la decorrenza dei termini di impugnazione (su questo aspetto come si è visto l’art. 137 Cost. sancisce espressamente il carattere della non impugnabilità per le sentenze della Corte costituzionale); mentre il giudicato in senso sostanziale consiste nell’incontestabilità del contenuto della sentenza cioè di quell’accertamento che «fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa» (ex art. 2909 del codice civile) e che applicandolo al caso di specie, si sostanzia nel fatto che una decisione della Corte costituzionale, qualora sia di accoglimento, incide definitivamente sul dettato normativo espellendo la norma dichiarata incostituzionale dall’ordinamento non solo per le parti del giudizio ma con un’efficacia che è erga omnes e che è stabile nel tempo.

A questo punto, come si è anticipato, è opportuno indagare i modi in cui viene portata ad esecuzione una pronuncia della Corte costituzionale nei confronti della Pubblica amministrazione e tale attività consiste nell’individuare in via pratica gli effetti e le conseguenze che la decisione del Giudice delle leggi esplica sul provvedimento amministrativo. In realtà ad oggi difetta una chiara disposizione normativa sull’esecuzione delle sentenze di accoglimento della Consulta. È per questo motivo che in passato si era radicato un orientamento in dottrina che voleva che l’esecuzione di dette “pronunce costitutive e con efficacia erga omnes[13] fosse la stessa che veniva riservata alle sentenze degli altri organi giurisdizionali. 

Preliminarmente occorre distinguere tra le due tipologie principali di giudizi attivabili di fronte alla Corte costituzionale.

 

 

 

2.1. Il conflitto di attribuzione su atti amministrativi

All’interno del giudizio sui conflitto di attribuzione occorre ricordare come il conflitto interorganico si svolge in due distinte fasi: in un primo momento la Corte costituzionale si deve pronunciare con ordinanza sull’ammissibilità del conflitto, valutando l’esistenza di una materia costituzionale controversa e la legittimazione dei soggetti processuali attivi e passivi; mentre in un secondo momento si instaura il contraddittorio vero e proprio e la sentenza che risolve il conflitto (per vindicatio potestatis o per menomazione) esplica un duplice effetto: “innanzitutto determina a quale dei poteri in conflitto spettino le attribuzioni in contestazione; in secondo luogo – per le decisioni che risolvono conflitti su atti – può determinare l’annullamento dell’atto adottato in violazione dei criteri costituzionali di riparto delle competenze ”[14].

Nel caso invece di conflitti aventi ad oggetto “comportamenti omissivi, la pronuncia della Corte costituzionale comporterà l’accertamento dell’illegittimità del comportamento contestato con la conseguenza di imporre una diversa linea di azione all’organo interessato”[15].

Nei conflitti di attribuzione intersoggettivi il giudizio è invece monofasico dal momento che la difficoltà di individuare i soggetti legittimati a sollevare conflitto di attribuzioni è risolta in radice dalla Costituzione. È d’uopo sottolineare come questa seconda tipologia di conflitti d’attribuzione riguardi solamente quelle interferenze ritenute illegittime per la presenza di atti non legislativi: cioè di atti amministrativi (anche normativi e di livello regolamentare[16]) o altri atti giurisdizionali, questo perché il cosiddetto ‘giudizio sulle leggi’ (rectius per valutare la questione di legittimità costituzionale) è già contemplato espressamente dall’art. 127 Cost. che prevede il giudizio di legittimità costituzionale in via principale (o d’azione) tanto dello Stato avverso le leggi regionali ritenute illegittime costituzionalmente, quanto delle regioni contro leggi e atti aventi forza di legge dello Stato o contro le leggi di altre regioni.  A differenza di quanto appena affermato, il conflitto di attribuzione interorganico può invece sorgere con riferimento a qualsiasi atto (quindi anche di natura legislativa) come è stato chiarito dopo un lungo percorso dalla giurisprudenza costituzionale.[17]

Tradizionalmente si ritiene che la pronuncia della Corte costituzionale che accoglie il ricorso e dichiara il conflitto di attribuzione, esplichi effetti solo inter partes, tuttavia l’eventuale atto annullato così come l’attribuzione di competenza non possono non produrre effetti erga omnes nella misura in cui vanno a definire la spettanza di una attribuzione nei confronti di tutti gli altri soggetti che erano in qualche modo in relazione all’attribuzione contestata. Ugualmente non è stato chiarito “il problema dell’eventuale reazione del potere cui è stata riconosciuta la lesione nell’ipotesi in cui si ripeta un nuovo atto lesivo dello stesso tenore: è incerto se questi possa resistervi direttamente o se invece debba ancora rivolgersi alla Corte costituzionale”[18], lasciando in questo modo ancora aperta la discussione su una possibile riedizione del potere che intacchi nuovamente le attribuzioni del soggetto già ricorrente di fronte alla Consulta e sugli eventuali effetti sull’attività provvedimentale della Pubblica amministrazione.

 

 

 

2.2. L’atto amministrativo adottato sulla base di una legge dichiarata successivamente incostituzionale

 Se per quanto concerne il giudizio sui conflitti di attribuzione non si individuano difficoltà di ordine concettuale dal momento che la Corte costituzionale, qualora accolga il ricorso, dichiara in primis a quale organo o soggetto spetta l’attribuzione contestata e contestualmente annulla l’atto che ha invaso l’altrui sfera di attribuzione[19], venendo questo espunto direttamente dall’ordinamento, maggiori difficoltà si ravvisano nel caso dei giudizi di legittimità costituzionale.

In tale giudizio la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale produce in maniera diretta degli effetti sull’atto legislativo impugnato che viene in questo modo espunto, mentre non sono immediati né diretti gli effetti che si ripercuotono su eventuali provvedimenti amministrativi adottati sulla base della disposizione legislativa dichiarata illegittima costituzionalmente. Dunque, circa il regime dell’atto amministrativo adottato sulla base della legge dichiarata incostituzionale, si è soliti parlare di ‘effetto viziante’ e non già di ‘effetto caducante’ in ragione della cosiddetta «autonomia del momento esecutivo rispetto al momento legislativo dell’operatività del meccanismo della caducazione automatica a seguito della declaratoria di incostituzionalità della legge di disciplina del rapporto»[20].

È stato infatti rilevato in dottrina come l’esecuzione delle sentenze da parte delle pubbliche amministrazioni “rappresenta comunque un’esecuzione per così dire di secondo livello, in quanto l’intermediazione è in ogni caso realizzata dalla legge, chiamata a dare seguito alle decisioni della Corte”[21]. D’altro canto, non si potrebbe considerare giusto, né rispettoso del principio di certezza giuridica, mantenere efficaci quei provvedimenti amministrativi che erano stati adottati sulla base di un atto legislativo poi caducato dalla Corte costituzionale. In questo modo si chiarisce come l’attività provvedimentale della Pubblica amministrazione subisca necessariamente degli effetti dalle pronunce del Giudice delle leggi e si dimostra troppo riduzionistico affermare che la Corte costituzionale non giudica (mai) sui provvedimenti amministrativi, perché appare ovvio che nel momento in cui adotta una determinata pronuncia, la Consulta deve comprensibilmente considerare gli effetti mediati o indiretti che si ripercuotono a cascata sugli atti amministrativi.

In secondo luogo, è stato rinvenuto di recente un ancoraggio testuale direttamente all’interno della Costituzione per giustificare il dovere della Pubblica amministrazione di rimuovere “tutti quegli atti che sono stati emanati in esecuzione o attuazione di una legge dichiarata illegittima e che non abbiano ancora esaurito i loro effetti”[22] e precisamente nell’articolo 54. Questo dovere l’Amministrazione pubblica lo adempie attraverso l’istituto dell’autotutela (decisoria), un potere di riesame della validità degli atti amministrativi, esercitato successivamente al loro perfezionamento e alla produzione degli effetti, capace di produrre unilateralmente conseguenze giuridiche[23].

Sul tema dell’autotutela obbligatoria si discuterà ampiamente in un autonomo paragrafo, quale ipotesi fisiologica di esecuzione della pronuncia della Corte costituzionale, adesso occorre considerare quella che invece si potrebbe qualificare come ipotesi patologica e che si realizza nel caso in cui l’Amministrazione decida di non intervenire in autotutela e di non annullare il provvedimento amministrativo inficiato da illegittimità derivata. Il provvedimento amministrativo potrebbe infatti essere divenuto inoppugnabile – e nella maggioranza dei casi ciò si verifica visti i naturali tempi che sono richiesti per giungere a una pronuncia del giudice delle leggi – e il soggetto inciso dal provvedimento illegittimo a sé sfavorevole non potrebbe più adire il giudice amministrativo, giacché l’azione di annullamento si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni ai sensi dell’articolo 29 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (d’ora in poi codice del processo amministrativo). È su questo tema poi che si va a instaurare la disciplina dei rapporti esauriti[24] cioè di tutti quei rapporti che hanno trovato la loro definitiva e irretrattabile conclusione prima che giunga la decisione della Corte e i cui effetti non vengono per questo intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità.  Sul tema dei rapporti esauriti bisogna infatti tenere in considerazione quanto previsto dall’art. 30 comma 3 della legge 87/1953 che afferma che: «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione». È naturale che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge impone in primis al legislatore di non adottare un successivo atto legislativo che riproduca in maniera identica il contenuto dell’atto incostituzionale, pena altrimenti la violazione del giudicato costituzionale e la conseguente reazione dell’ordinamento che legittimerebbe finanche i giudici comuni a disapplicare la legge riproduttiva[25]. Ma la norma non si rivolge solamente al legislatore. È infatti stato chiarito che questa norma si rivolge anche ai giudici dell’ordinamento, e da ultimo al potere esecutivo e quindi alla Pubblica amministrazione generalmente intesa[26], imponendo all’amministrazione in questo modo di rispettare il giudicato costituzionale, pena altrimenti il perseverare nell’illegittimità costituzionale (si pensi per esempio ai casi di provvedimenti amministrativi ad esecuzione continuata che si protrarrebbero nel tempo e che comporterebbero il perdurare dell’illegittimità).

In questo modo, però, potrebbe profilarsi una situazione paradossale: da una parte la Pubblica amministrazione potrebbe rifiutarsi di esercitare il potere di riesame e non intervenire in autotutela, dall’altra il soggetto inciso dal provvedimento amministrativo, diventato nel frattempo illegittimo, non potrebbe più adire il giudice amministrativo per chiederne l’annullamento perché il termine di decadenza è definitivamente decorso, comportando una grave situazione di incertezza e di ingiustizia.

Una possibile soluzione è stata individuata nella sporadica dottrina[27] che ha trattato il tema e che ha proposto di distinguere tra un livello sostanziale e uno processuale. Nel primo possibile approdo, in tema di rapporti esauriti, tale Autore suggerisce come “la inoppugnabilità dell’atto [amministrativo] adottato in costanza di una legge incostituzionale o il passaggio in giudicato di una sentenza prima della pronuncia della Corte costituzionale non possono essere opposti dinanzi alla inapplicabilità della legge dopo la dichiarazione di incostituzionalità” perché tale limite deriverebbe direttamente dall’art. 30 comma 3 della legge 87/1953 e dalla forza del giudicato costituzionale che è capace di imporsi e che pretende di essere osservato da tutti i soggetti prima considerati.

La seconda possibile soluzione giunge invece, sempre a detta dell’Autore, dalla disciplina processuale e dalla “natura giurisdizionale delle decisioni della Corte e quindi dalla loro possibile idoneità ad essere portate ad esecuzione qualora l’amministrazione non ottemperi al ripristino dell’ordine violato mediante la rimozione degli atti che continuano a produrre effetti giuridici nell’ordinamento nonostante la esistenza di un giudicato costituzionale”. Ed è proprio questa seconda soluzione quella più condivisa anche da altra dottrina[28] che, a distanza di pochi anni, ha riconosciuto possibile l’applicazione del giudizio di ottemperanza (ex art. 112 del codice del processo amministrativo) anche alle pronunce costituzionali di accoglimento e nello specifico alle sentenze additive (una sottotipologia delle sentenze manipolative).

È dunque da rinvenirsi direttamente nel d.lgs 104/2010 la possibile soluzione che l’ordinamento, implicitamente, appronta per risolvere quello che la dottrina chiama il “seguito amministrativo” delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, nel caso in cui l’Amministrazione pubblica rimanga inerte e non eserciti i suoi poteri di autotutela. Il possibile appiglio normativo è infatti dato dall’art. 112 comma 2 lett. d) del codice del processo amministrativo, che nell’indicare i provvedimenti che devono essere eseguiti dalla Pubblica amministrazione e dalle altre parti indica anche le «sentenze passate in giudicato e gli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della Pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione». Ed è questa certamente l’interpretazione[29] che si deve preferire per garantire la maggior certezza del diritto e la corretta applicazione delle pronunce, carattere questo che non fa altro che ribadire i principi di effettività e di legalità, propri del nostro ordinamento, e che qui vengono declinati al loro più alto livello, interessando direttamente l’esecuzione delle sentenze del giudice delle leggi.

 

 

 

  1. L’autotutela amministrativa obbligatoria quale ipotesi fisiologica di esecuzione delle sentenze costituzionali

Si è già avuto modo di evidenziare che le sentenze di accoglimento della Corte costituzionale comportano per la Pubblica amministrazione l’obbligo di annullare tutti quei provvedimenti amministrativi che sono intimamente connessi e dipendenti alla legge che viene dichiarata illegittima costituzionalmente. Tale obbligo si inserisce all’interno di quella che è stata definita esecuzione delle pronunce costituzionali o seguito amministrativo delle sentenze di accoglimento[30].

 Infatti, come è stato anticipato, non esiste un rapporto di “consequenzialità tra la legge e l’atto amministrativo”, dove la caducazione della prima (nella sentenza di accoglimento) travolga il secondo. L’atto amministrativo è manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ed ha perciò una vita ed una individuabilità sua propria”[31]. In pratica, il provvedimento amministrativo viziato per illegittimità derivata dovrà essere rimosso dall’Amministrazione pubblica. E ciò dipende dal fatto che non esiste un meccanismo automatico di caducazione diretta in base al decisum della Corte costituzionale. Quindi anche se la legge incostituzionale è stata espunta dall’ordinamento, il provvedimento amministrativo eventualmente adottato non viene immediatamente travolto e caducato, ma venuto meno il presupposto logico giuridico che stava alla base dell’adozione di tale atto, ne consegue un obbligo per l’amministrazione di conformarsi al mutato ordinamento giuridico.

Per adempiere tale obbligo, la dottrina ha riconosciuto già da tempo l’esistenza di un caso di autotutela doverosa (o cosiddetto annullamento doveroso in sede di autotutela)[32].

Prima di indagare i profili di tale intervento doveroso, è opportuno fugare eventuali dubbi circa il potere di autotutela in generale che consiste nel potere dell’amministrazione di “eliminare dal mondo giuridico un atto in modo unilaterale”[33] e per questo si parla di provvedimenti di secondo grado, dal momento che i loro effetti incidono su provvedimenti precedentemente adottati dalla Pubblica amministrazione. In questo modo, il potere di annullamento di un atto illegittimo in capo all’organo che lo abbia emanato o all’organo gerarchicamente sovraordinato è possibile ed è disciplinato dal diritto amministrativo (nello specifico il potere di annullamento d’ufficio è disciplinato dall’art. 21-nonies della legge 241/1990 oltre che in leggi specifiche e di settore), segnando una chiara differenza con il diritto civile. Eppure, mentre nei casi generali il potere di annullamento d’ufficio è un potere discrezionale e non vincolato[34], che si esercita sussistendo le ragioni di interesse pubblico e tenendo comunque conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, l’amministrazione ha il dovere di aprire il procedimento per l’annullamento d’ufficio di un atto “quando la sua illegittimità è conseguenza dell’annullamento di un altro atto che ne costituiva il presupposto o quando l’invalidità dell’atto sia stata dichiarata da un giudice in un giudizio che non si poteva concludere con l’annullamento”[35] ed è proprio quest’ultimo il caso delle sentenze di accoglimento della questione di legittimità costituzionale pronunciate dalla Corte costituzionale. Occorre chiarire subito che sovente la declaratoria di illegittimità giunge al termine di un giudizio costituzionale e di una vicenda processuale che interessa altri soggetti, ma che in virtù degli effetti erga omnes che producono le decisioni di accoglimento del Giudice delle leggi, si ripercuote su soggetti esterni al giudizio costituzionale salvo solo il caso dell’intervenuta decadenza e cioè dell’esaurimento del rapporto che impedirà la retroazione degli effetti[36]

Non è neppure scontato considerare questo un caso di autotutela doverosa, giacché soprattutto in passato, si considerava che l’amministrazione conservasse la propria naturale discrezionalità[37], eppure oggi l’approdo giurisprudenziale e dottrinale più condiviso è proprio quello che considera che l’amministrazione procedente “non sia sistematicamente libera nella decisione di esercitare tale potere a seguito di una sentenza della Corte costituzionale”[38]. E ciò per la chiara necessità di ripristinare la legalità costituzionale e non dare attuazione a norme dichiarate incostituzionali attraverso gli atti amministrativi applicativi.

Sebbene sia chiara la finalità che sorregge un tale obbligo imposto ai pubblici uffici, non si può non sottolineare la contraddizione che il suo esercizio concreto spesso comporta nella realtà: se da una parte la Pubblica amministrazione ha il dovere di annullare in via di autotutela i provvedimenti amministrativi in seguito a una sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale; dall’altra la pronuncia di incostituzionalità non riapre i termini di impugnazione che decorrono davanti al giudice amministrativo per tutti quei provvedimenti amministrativi che non sono stati impugnati tempestivamente o dei quali neanche si conosceva la illegittimità nel corso del processo. Diretta conseguenza di questa contraddizione è il fatto che parte della dottrina continua a considerare tale annullamento d’ufficio ancora discrezionale[39], ritenendo comunque necessaria la valutazione della sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione e la ponderazione dell’interesse pubblico con gli interessi privati.[40]

La tesi del carattere discrezionale dell’annullamento d’ufficio è, per la fattispecie considerata, comunque minoritaria e legata a convinzioni passate. A riprova di ciò si possono considerare ulteriori approdi dottrinale e giurisprudenziali. Tra i primi rimedi si è giunti a ritenere ammissibile l’azione avverso il rifiuto dell’amministrazione nel caso di “autotutela sugli atti connessi o collegati, potendo il giudice sindacare tale rifiuto, annullarlo e condannare a provvedere, visto che si tratterebbe comunque di atti viziati per violazione di legge (nella specie dell’art. 30 comma 3 della L. 87/1953)”[41].

Inoltre, a maggior tutela del cittadino leso nei propri diritti, nel caso di mancato esercizio dell’autotutela obbligatoria in seguito a una sentenza di illegittimità costituzionale di una norma attributiva di potere, il vizio di invalidità che colpisce il provvedimento amministrativo emanato sulla base di tale norma poi dichiarata incostituzionale sarebbe la nullità (per difetto assoluto di attribuzione ex art. 21-septies della legge 241/1990) e non la semplice annullabilità (per violazione di legge ex art. 21-octies della medesima legge). Tale indirizzo è stato seguito inizialmente dal Consiglio di Stato dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittima costituzionalmente la norma che attribuiva all’amministrazione procedente il potere acquisitivo sanante dell’illecita occupazione di un immobile, affermando che «ad essere dichiarata incostituzionale non è stata una qualunque norma al quale l'attività amministrativa avrebbe dovuto prestare ossequio, ma la stessa disposizione di legge che fonda ed attribuisce il potere. Ammessa dunque la rilevanza nel giudizio, della pronuncia di incostituzionalità, il vizio che ne scaturisce è quello previsto dall’art. 21-septies della legge 241/1990, ossia il difetto assoluto di attribuzione, come tale presidiato dalla sanzione della nullità(…)»[42]. Come è noto la nullità inficia radicalmente l'atto, e per questo, accanto ad un’azione di accertamento sottoposta a regime decadenziale dilatato (pari a centottanta giorni per il ricorrente), il codice del processo amministrativo ha previsto che la nullità dell'atto possa "sempre essere rilevata d'ufficio dal giudice".

Eppure, non si può considerare questo orientamento quello dominante, giacché sempre nello stesso anno e sempre lo stesso Consiglio di Stato, seppur in una diversa composizione, sconfessa la precedente statuizione affermando invece che: «sul piano sostanziale, l'atto amministrativo adottato sulla base di una legge dichiarata incostituzionale è annullabile. La legge in contrasto con la Costituzione è, infatti, una legge invalida ancorché efficace sino alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale che la dichiara illegittima. Tale sentenza, producendo effetti retroattivi incidenti sui rapporti pendenti, comporta che il provvedimento amministrativo viene privato, anch'esso con effetti retroattivi, della sua base legale. La conseguenza sarà sempre l'annullabilità e non la nullità dell'atto anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l'unica attributiva del potere»[43].

Nonostante i residui margini di incertezza l’orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente ritiene che l’atto amministrativo adottato sulla base di una legge incostituzionale sia annullabile e non nullo anche nell’ipotesi in cui a essere viziata sia la legge attributiva del potere. Con tale approdo si vuole evitare di ricorrere al regime più rigoroso della nullità.

La sentenza della Corte costituzionale, ponendosi quale elemento sopravvenuto, comporta l’illegittimità della disposizione legislativa e la sua inefficacia sopravvenuta, la quale a sua volta provoca l’annullabilità sopravvenuta dell’atto amministrativo adottato sulla base di tale legge; in questo modo “l’atto è legittimo al momento della sua adozione e diventa illegittimo successivamente alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale”[44].

Dunque, tentando di riportare a unità questo complesso discorso, il provvedimento amministrativo sarà annullabile e non nullo anche se la norma incostituzionale era una norma attributiva di potere. È quest’ultimo l’orientamento che ad oggi sembra essere in assoluto dominante, tuttavia l’importanza di citare il precedente approdo della giurisprudenza non deve essere considerato irrilevante né tantomeno una mera ricerca accademica, visto che recentemente la giustizia amministrativa di merito sembra, in alcuni casi, essere tornata ad affermare che “il vizio di invalidità che colpisce il provvedimento emanato in base ad una norma attributiva del potere e successivamente dichiarata incostituzionale è la nullità per difetto assoluto di attribuzione”[45]. L’orientamento dei tribunali amministrativi regionali non è però ancora stato condiviso dal Consiglio di Stato che continua ad annoverare tale caso tra quelli che comportano l’annullamento, con quanto ne consegue dal punto di vista sostanziale e soprattutto processuale. Dunque, in base a questa posizione giurisprudenziale, non sarà possibile rivolgersi al giudice amministrativo ed esperire l’azione di annullamento “dopo la sentenza di incostituzionalità della norma sulla base della quale l’atto è stato precedentemente adottato, quando l’atto sia stato già impugnato per motivi diversi e su di esso si sia formato il giudicato e quando l’atto non sia stato impugnato”[46] con quanto ne consegue in termini di certezza del diritto e di soddisfazione degli interessi del privato leso da un provvedimento dell’Amministrazione.

A questo punto, dopo aver considerato il regime dell’atto amministrativo adottato sulla base di una legge dichiarata successivamente incostituzionale, la natura dell’invalidità sopravvenuta e i principali orientamenti seguiti dal giudice amministrativo, per stretta attinenza al tema della giustizia amministrativa, occorre considerare alcuni profili processualistici e nello specifico stabilire se il giudice amministrativo possa sempre sollevare d’ufficio la questione di costituzionalità.

 

 

 

  1. Deduzione delle parti e rilevabilità d’ufficio del giudice amministrativo della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale

Come ha già da tempo osservato il Consiglio di Stato, la sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma che disciplina il potere di adozione di un atto amministrativo oggetto di ricorso giurisdizionale, determina «l’illegittimità derivata dell’atto stesso, qualora il ricorrente abbia, attraverso uno specifico motivo di ricorso, fatto venire in rilievo la norma denunciata dinanzi al Giudice delle leggi»[47]. Dunque, qualora sia stato proposto uno specifico motivo di ricorso,  riferito alla norma incostituzionale, ancorché non sia stato sollevato alcun profilo d’incostituzionalità di essa «assume rilievo il principio secondo cui il giudice deve applicare d’ufficio, nei giudizi pendenti, le pronunce di annullamento della Corte costituzionale, con conseguente possibilità di superare i limiti che derivano dalla struttura impugnatoria del processo amministrativo, e dalla correlata specificità dei  motivi»[48]

Nello stesso anno della pronuncia appena citata, il Consiglio di Stato[49] in diversa composizione è tornato sul tema della mancata proposizione di uno specifico motivo di ricorso nel quale dedurre l’incidente di costituzionalità sulla norma di legge che disciplina il potere di adozione di un atto amministrativo. In tale occasione il giudice amministrativo di appello ha censurato la pronuncia del Tribunale amministrativo regionale che avrebbe errato, finendo per applicare una norma di legge dopo l’intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, infatti «l’intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale, resa in un differente giudizio, avrebbe potuto ridondare, sulla presente controversia, indipendentemente dalla proposizione, in questa, della relativa eccezione di parte e/o dal promovimento del giudizio incidentale innanzi alla Corte costituzionale». Circa il potere di rilievo d’ufficio, la sentenza in questione stabilisce come il giudice amministrativo debba pur sempre muoversi nei limiti tracciati in ricorso dalle parti e dubitare, quindi, della legittimità delle norme applicabili nel caso concreto solo se, ed in quanto, la declaratoria di illegittimità delle norme stesse sia strumentale alla definizione delle censure in concreto mosse agli atti impugnati.

Un orientamento minoritario coevo alle pronunce qui considerate ritiene invece che il giudice amministrativo possa sempre sollevare d’ufficio la questione[50], ma oggi l’orientamento consolidato sembra essere quello che ritiene che la questione possa essere rilevata d’ufficio “purché la parte abbia introdotto nel processo, mediante la tempestiva proposizione dell’azione, i fatti principali su cui il giudice deve pronunciarsi”[51].

Maggiore libertà nel sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale è individuabile nel caso in cui il giudice amministrativo neghi la sussistenza stessa, in capo all’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato, del potere di adottarlo. Il Consiglio di Stato ritiene infatti che «il giudice adito può sollevare d’ufficio questione di legittimità costituzionale, indipendentemente dalla proposizione di appositi motivi di censura di parte, allorché dubiti dell’esistenza stessa del potere esercitato - o da esercitare – in capo all’Amministrazione; in tal caso, infatti, viene in discussione non la concreta modalità di esercizio del potere, ma la sussistenza stessa del potere in capo a chi l’ha esercitato e, quindi, del presupposto fondante della stessa azione amministrativa; con la conseguenza che la sentenza declaratoria di incostituzionalità della norma che attribuisce tale potere, resa in seno ad un determinato giudizio, può, non di meno, essere invocata in altra controversia non ancora definita anche qualora la relativa questione di legittimità costituzionale o la specifica censura di carenza assoluta di potere non sia stata in quel giudizio sollevata, dal momento che, la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma è anche in grado di comportare la nullità dell’atto adottato in sede di applicazione della norma stessa; ciò che, invece, non si verifica nell’ipotesi in cui la Corte costituzionale non contesti la sussistenza del potere in capo all’amministrazione, ma si limiti a ritenere illegittime le modalità di esercizio dello stesso come disciplinato in sede di produzione normativa»[52].

In definitiva, la questione di legittimità costituzionale sollevabile d’ufficio dal giudice amministrativo nel corso dei giudizi impugnatori è solo quella la cui fondatezza può essere considerata come «rilevante in quanto strumentale alla positiva definizione delle censure concretamente svolte in ricorso» (salvo il caso appena citato della carenza di potere), mentre non può investire aspetti ulteriori che non siano stati dedotti dalle parti. Dunque, il ricorrente sarà chiamato a impugnare il provvedimento amministrativo (anche per altri motivi) e ciò in coerenza con il principio della domanda che informa il processo amministrativo, mentre non è necessario che indichi tra i motivi specifici l’illegittimità costituzionale della norma[53], lasciando un congruo margine al giudice per decidere se sollevare d’ufficio la questione.

Tale ultimo orientamento è stato chiarito ancora più di recente dal Consiglio di Stato sottolineando come «il presupposto perché il giudice [amministrativo] possa conoscere del vizio sopravvenuto è soltanto che il ricorrente abbia fin dapprincipio svolto censure che chiamino direttamente in causa la norma de qua e non anche, che ne abbia specificamente lamentato fin dapprincipio l’illegittimità costituzionale»[54].

 Contemporaneamente, il giudice amministrativo può tenere conto delle sole pronunce di costituzionalità rese in distinti giudizi (che riguardano le stesse norme applicabili al suo caso in esame), unicamente qualora ricorrano i presupposti ora detti.

Il Consiglio di Stato[55] è tornato così sulla questione della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità giungendo a individuare il principio al quale attenersi che sarebbe il seguente: «la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi. Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato».

Con tale pronuncia il Consiglio di Stato ha chiarito come rilevi la dichiarazione di illegittimità costituzionale intervenuta in un altro giudizio anche non collegato, senza però potersi applicare a tutti quei rapporti già esauriti e per questo intangibili. Il limite che rileva è, dunque, quello dei rapporti esauriti, che non vengono in questo modo influenzati dalla decisione di illegittimità costituzionale, assicurando così il principio di certezza del diritto.

 

[1] MORTATI C., Istituzioni di diritto pubblico, vol. 2., 9. ed., Padova, Cedam, 1976, p. 1364.

[2] FIORAVANTI M., Costituzionalismo, Roma, Carrocci editore, 2018, p. 75.

[3] SPAVENTA S., La politica della Destra. Scritti e discorsi, Bari, Laterza, 1909, p. 59.

[4] DE VERGOTTINI G., Diritto costituzionale, 9. ed., Padova, Cedam, 2017, p. 137.

[5] MEZZETTI L., Teoria costituzionale, Torino, Giappichelli, 2015, p. 165-166.

[6] LOPILATO V., Manuale di diritto amministrativo, Vol. I. Parte generale, 3. ed., Torino, Giappichelli, 2021, p. 77.

[7] Sul punto: MARCENÒ V., ZAGREBELSKY G., Giustizia costituzionale, Vol. II Oggetti, procedimenti, decisioni, 2. ed., Bologna, Il Mulino, 2018, p. 12.

[8] In generale: SILVESTRI G., Del rendere giustizia costituzionale, in Questione Giustizia, 2020, fasc. 4, p. 24 e ss.

[9] ROLLA G., GROPPI T., Tra politica e giurisdizione: evoluzione e sviluppo della giustizia costituzionale in Italia, in Questiones constitucionales – revista mexicana de derecho constitucional, 2000, fasc. 2, consultabile online <www. revistas.juridicas.unam.mx>.

[10] La stessa Corte costituzionale nel riferirsi alle proprie decisioni è giunta a considerare come sorto il vincolo del giudicato costituzionale. Un esempio è rinvenibile in una prima pronuncia, v.  Corte cost. 9 marzo 1957, n. 38, Pres. De Nicola, Red. Cassandro, laddove si afferma che: «la coesistenza delle due giurisdizioni in materia di legittimità costituzionale, [quella della Corte costituzionale e dell’Alta Corte per la regione siciliana] rivelerebbero la violazione di un altro principio che è la "certezza" dei giudicati. Si dovrebbe perciò concludere che la competenza dell'Alta Corte in materia di legittimità costituzionale delle leggi regionali siciliane è caducata perché incompatibile con l'entrata in funzione della Corte costituzionale». 

[11] Sul punto si rinvia all’introduzione.

[12] MEGALI I., TASCIOTTI U., Il giudicato costituzionale, Roma, Aracne editore, 2016, p. 94 e ss.

[13] idem.

[14] CARETTI P., DE SIERVO U., op. cit., p. 463.

[15] idem.

[16]   Attraverso Corte cost. 22 luglio 1985, n. 217, Pres. Roehrssen, Red. Saja, in Giur. Cost., consultabile in giurcost.org. si è giunti a ritenere sindacabile in via astratta anche una specifica tipologia di atto che difetti di natura normativa, anzi a partire da questa giurisprudenza si è affermato chiaramente che oggetto del giudizio costituzionale possono essere anche le norme esecutive o integrative e dunque anche i provvedimenti amministrativi (come è stato anche più di recente ribadito dal Giudice delle leggi v. Corte cost. 28 gennaio 2022, n. 26, Pres. Coraggio, Red. De Pretis, in Giur. Cost., consultabile in giurcost.org.)

[17] La questione è stata chiarita dalla Corte cost. 10 maggio 1995, n. 161, Pres. Baldassarre, Red. Cheli, in Giur. Cost., consultabile in giurcost.org, dove rispetto al decreto legge il profilo della garanzia si presenta essenziale e tende a prevalere su ogni altro. Profilo che verrebbe a risultare, se non compromesso, certamente limitato ove il controllo di costituzionalità dovesse ritenersi circoscritto alla sola ipotesi del sindacato incidentale. Rischi, questi, suscettibili di assumere connotazioni ancora più gravi nelle ipotesi in cui l'impiego del decreto legge possa condurre a comprimere diritti fondamentali (e in particolare diritti politici), a incidere sulla materia costituzionale, a determinare - nei confronti dei soggetti privati - situazioni non più reversibili né sanabili anche a seguito della perdita di efficacia della norma. In tali ipotesi il ricorso allo strumento del conflitto tra i poteri dello Stato può, dunque, rappresentare la forma necessaria per apprestare una difesa in grado di unire all'immediatezza l'efficacia. Appare, pertanto, giustificato riconoscere la possibilità di utilizzare nei confronti del decreto- legge lo strumento del conflitto tra i poteri dello Stato come controllo da affiancare al sindacato incidentale. Mentre in precedenza l’orientamento era restrittivo v. Corte cost. 14 luglio 1989, n. 406, Pres. Saja, Red. Corasaniti, in Giur. Cost., consultabile in giurcost.org, dove si affermava che a tale inconveniente può porsi rimedio (non già estendendo interpretativamente l'ambito del conflitto, bensì) modificando (ovviamente in via di revisione costituzionale) il sistema con l'introduzione di nuove impugnazioni in via principale (eventualmente ad opera di dati soggetti od organi e contro leggi ed atti equiparati aventi dati oggetti e/o per dati vizi).

[18] Idem.

[19] Sul punto si rinvia al cap. I, par. 2.

[20] Consiglio di Stato, Ad. Plen., 8 aprile 1963, n. 8, Pres. C. Bozzi P., Est. Landi, in Il Foro Italiano, vol. 86, no. 7, 1963, p. 281/282-287/288. JSTOR, consultabile <www.jstor.org/stable/23152383>.

[21] STRADELLA E., Il problema dell’esecuzione delle decisioni costituzionali e il caso spagnolo, in Federalismi.it, 2018, n. 3, p. 21.

[22] NICO A. M., Sull’ottemperanza del giudicato costituzionale nei confronti della Pubblica amministrazione, in Associazione italiana dei costituzionalisti, 2014, fasc. 1, p. 5.

[23] Sul punto v. CERULLI IRELLI V., Lineamenti del diritto amministrativo, 7. ed., Torino, Giappichelli, 2021, p. 502.

[24] Sul punto v. La dichiarazione di illegittimità nella giurisprudenza costituzionale (selezione di casi rilevanti), a cura di Nevola R., Corte costituzionale, maggio 2016, p. 318, <cortecostituzionale.it>.

[25] Sul tema della violazione del giudicato e della riproduzione delle norme dichiarate illegittime dalla Corte v. RUGGERI A., SPADARO A., op. cit., p. 177-178.

[26] MALFATTI E., PANIZZA S., ROMBOLI R., Giustizia costituzionale, 6. ed., Torino, Giappichelli, 2018, p. 141.

[27] Sul punto v. NICO A. M., op. cit., p. 6.

[28] L’applicazione del giudizio di ottemperanza alle decisioni costituzionali, ed in particolare alle sentenze additive, dove non siano individuabili i soggetti destinatari della decisione stessa al di fuori dalle parti del giudizio di costituzionalità, permetterebbe al giudice amministrativo di ritagliare l’efficacia erga omnes della pronuncia intorno al caso nel quale si è sviluppato l’incidente di costituzionalità. STRADELLA E., op. cit., p. 22.

[29] Sul punto occorre rilevare come la dottrina amministrativista e la manualistica più comune tacciono. Cfr. TRAVI A., Lezioni di giustizia amministrativa, 14. ed., Torino, Giappichelli, 2021, p. 395-401; Giustizia amministrativa, a cura di Scoca F. G., 8. ed., Torino, Giappichelli, 2020, p. 641; GALLO C. E., Manuale di giustizia amministrativa, 10. ed., Torino, Giappichelli, 2020, p. 292-293; CLARICH M., Manuale di giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, 2021, p. 294-295. Mentre viene considerato che siffatta previsione sia stata inserita nel corpo della citata disposizione al fine di includere l’azionabilità del rimedio dell’ottemperanza per l’attuazione delle sentenze passate in giudicato e per quelle decisioni che, non rivestendo un carattere propriamente giurisdizionale, quali quelle rese sui ricorsi straordinari, non fossero suscettibili di essere portate ad esecuzione, così violando le disposizioni CEDU poste a garanzia della piena tutela giurisdizionale (purché parte del giudizio sia una Pubblica amministrazione o un soggetto a esso equiparato), v. GAROFOLI R, Codice amministrativo ragionato, 8. ed., Molfetta, Nel Diritto, 2021, p. 537.

[30] Per la trattazione sul punto si rinvia al cap. I, par. 3.

[31] NICO A. M., op. cit., p. 7.

[32] CASETTA E., Manuale di diritto amministrativo, 23. ed., Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2021, p. 513.

[33] SORACE D., TORRICELLI S., Diritto delle amministrazioni pubbliche, 10. ed., Bologna, Il Mulino, 2021, p. 379.

[34] PORCELLI R., Autotutela decisoria della P.A. e annullamento d’ufficio, in Il diritto amministrativo, consultabile online < www.ildirittoamministrativo.it>.

[35] SORACE D., TORRICELLI S., op. cit., p. 387.

[36] Si ricordi che le decisioni di accoglimento in forza dell’articolo 30 comma 3 della legge 87/1953 hanno efficacia erga omnes, mentre all’opposto le decisioni di rigetto, così come le interpretative di rigetto, hanno un’efficacia solo inter partes. Sul punto v. Il quadro delle tipologie decisorie nelle pronunce della Corte costituzionale, a cura di Bellocci M. e Giovannetti T., in Corte costituzionale, giugno 2010, consultabile su <cortecostituzionale.it>.

[37] Sul punto v. Consiglio di Stato, Ad. Pl., 8 aprile 1963, n. 8, in Il Foro Italiano, Vol. 86, n. 7, 1963, pp. 281/282-287/288 per cui: «Non esiste tra legge e l’atto amministrativo un rapporto di consequenzialità, quale si ravvisa ad esempio tra l’atto preparatorio e l’atto finale di un procedimento amministrativo dove la caducazione del primo travolge il secondo».

[38] PIGNATELLI N., Legalità costituzionale e autotutela amministrativa, in Il Foro italiano, 2008, V, p. 311.

[39] MEGALI I, TASCIOTTI U., op. cit., p. 362.

[40] “Il potere di annullamento configurato dall’art. 21-nonies della legge 241/1990, anche in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale della norma sulla scorta della quale il provvedimento amministrativo era stato emanato è soggetto a tutti i suoi ordinari presupposti e limiti, in particolare all’esigenza di accurata ponderazione dell’interesse sacrificato nel destinatario dell’atto favorevole anche in relazione all’affidamento suscitato” così CARINGELLA F., Corso di diritto amministrativo, profili sostanziali e processuali, vol. I, 6. ed., Milano, Giuffrè, 2011, p. 2269.

[41] PIGNATELLI N., op. cit. p. 313.

[42] Consiglio di Stato, sez. IV, 3 marzo 2014, n. 993, in Giuffrè - DeJure, Dejure.it.

[43] Consiglio di Stato, sez. VI, 11 settembre 2014, n. 4624, in Giuffrè – DeJure, DeJure.it.

[44] LOPILATO V., op. cit., p. 79.

[45] Sul punto cfr. MUSONE R., Nuove tendenze nel regime di invalidità dell’atto amministrativo incostituzionale, nota a T.A.R. Veneto, Sezione I, 22 luglio 2019, n. 890, in Filodiritto, 27 febbraio 2020, consultabile online <filodiritto.com>.

[46] PIGNATELLI N., op. cit., p. 313.

[47] Consiglio di Stato, sez. IV, 18 giugno 2009, n. 4002, Pres. Lodi, Est. Aurelli, motivazione in fatto e diritto.

[48] Idem.

[49] Consiglio di Stato, sez. VI, 25 agosto 2009, n. 5058, Pres. Barbagallo, Est. Buonvino, p. 5 della motivazione in diritto. Sul punto nota di PIGNATELLI N., Sezione VI; Decisione 25 Agosto 2009, n. 5058; Pres. Barbagallo, Est. Buonvino; Soc. Italcementi e Altra (Avv. Lucchini, Righi, Morbidelli) c. Regione Campania (Avv. Colosimo) e Altro, Conferma Tar Campania, Sez. III, 26 Marzo 2003, n. 2970, in Il Foro Italiano, vol. 133, no. 2, 2010, p. 77/78-89/90, consultabile <www.jstor.org/stable/23206333>.

[50] Consiglio di Stato, sez. IV, 30 novembre 2010, n. 8363, Pres. Trotta, Est. Poli.

[51] LOPILATO V., op. cit., p. 80.

[52] Consiglio di Stato, sez. VI, 25 agosto 2009, n. 5058.

[53] Sul punto v. Consiglio di Stato, sez. IV, 18 giugno 2009, n. 4002 già citata in precedenza.

[54] Consiglio di Stato, sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3449, Pres. Giaccardi, Est. Greco, p. 3 della motivazione in diritto dove si afferma ulteriormente che «in tema di effetti della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma attributiva di un potere alla p.a. sul provvedimento che ne costituisce esercizio, il più recente orientamento è nel senso che, pur non essendovi travolgimento automatico del provvedimento per effetto del venir meno della norma a monte (trattandosi di illegittimità derivata dell’atto applicativo e non già di sua inesistenza o nullità, come pure era stato ipotizzato), non è onere della parte ricorrente proporre motivi aggiunti per dedurre il vizio sopravvenuto quante volte la stessa nel ricorso introduttivo, attraverso uno o più motivi specifici, abbia fatto venire in rilievo la norma in questione, ancorché non sotto il profilo di una sua illegittimità costituzionale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 18 giugno 2009, nr. 4002)».

[55] Consiglio di Stato, sez. IV, 3 novembre 2015, n. 5012, Pres. Giaccardi, Est. Taormina, p. 5.3.2 della motivazione in diritto.