Giurisprudenza Amministrativa

Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, Sent. n. 97/2024, in tema di danno erariale da indebita percezione di trattamento economico
Di Giuseppe Lonero
Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, Sent. n. 97/2024, in tema di danno erariale da indebita percezione di trattamento economico
Di Giuseppe Lonero
Con la sentenza in esame, la Corte dei conti tratta il tema del danno erariale da indebita percezione di trattamento economico connesso allo svolgimento di prestazioni professionali con una qualifica ottenuta sulla base di false dichiarazioni sul titolo di studio necessario.
La Procura regionale, in particolare, ha citato in giudizio un collaboratore scolastico, che aveva ottenuto mediante false dichiarazioni sia incarichi di supplenza presso diversi Istituti Scolastici, sia l’immissione nei ruoli del personale scolastico, percependo conseguentemente un indebito trattamento economico connesso allo svolgimento delle prestazioni del profilo professionale di collaboratore scolastico.
Sulla questione, il Collegio, innanzi tutto, rileva che la costante e consolidata giurisprudenza della Corte è univoca nel ribadire che, nell’ipotesi di accesso a posti di impiego pubblico conseguito mediante la falsa attestazione del possesso del titolo di studio richiesto, si versa in una fattispecie di illiceità della causa che, ai sensi dell’art. 2126, primo comma, cod. civ., priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto di lavoro, stante il contrasto con norme fondamentali e generali e con i basilari principi pubblicistici dell’ordinamento (cfr. Corte Cost. n. 296/1990). Pertanto, secondo tale indirizzo giuscontabile, la prestazione lavorativa resa in assenza del titolo prescritto e dichiarato, essendo non espressiva della capacità derivante dalla preparazione professionale conseguita con regolare percorso di studi, non arreca all’ente pubblico alcuna utilità ex art.1, co. l-bis, n.20/1994 e determina il venir meno del rapporto sinallagmatico tra prestazione e retribuzione, a nulla rilevando la circostanza che agli emolumenti percepiti abbiano corrisposto prestazioni effettivamente svolte (cfr., ex pluribus, C. conti, sez. Lombardia 7.5.2024 n.76; id. n. 263/2022 e n. 138/2023, nonché id., sez. App. Sicilia, n. 243/2012 e n. 469/2014; sez. I App. n. 527/2017; Sez. II App. n. 568/2018; Sez. Toscana n. 463/2021; Sez. Molise, n. 2 e n. 13/2023; Sez. Emilia-Romagna n. 199/2022 e n. 19/2023). Ad avviso del Collegio, tale approdo giuscontabile andrebbe in via generale rimeditato in talune ipotesi alla luce: a) dell’ampia formulazione dell’art.1, co. l-bis, n.20/1994 che, quale norma speciale e come tale prevalente rispetto all’art.2126 c.c., con dizione chiara, ampia e soprattutto onnicomprensiva (senza eccezione alcuna), fa riferimento allo scomputo quantificatorio dei vantaggi “comunque conseguiti” dalla P.A. o dalla comunità amministrata (ancor più evidenti e percepibili se si tratti di attività semplici e non altamente specialistiche come nella specie; da valutare invece in concreto, ed anche parzialmente, in altre più opinabili ipotesi connotate da titoli e requisiti di elevata complessità); né parte attrice, né la PA datrice di lavoro hanno inoltre dato prova, come loro onere, del mancato o minor vantaggio derivante dalla prestazione resa dal convenuto; b) dell’art.2126 c.c. che prevede che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non preclude la produzione degli effetti (ivi compresi i riflessi retributivi) per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione “salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa”. La giurisprudenza, rileva la Corte, ritiene che tale nullità non ricorra in ogni caso di contrarietà con norme imperative di legge, ma solo nei casi in cui il contratto sia contrario ai principi generali di ordine pubblico strettamente intesi e cioè a quelli etici fondamentali dell’ordinamento giuridico (Cass., n.15880/2002; id., 2434/1981). Ma in quest’ultima evenienza, evidenzia il Collegio, ritenuta sussistente dalla Corte dei conti in caso di rapporto di lavoro fondato sulla produzione di documenti falsi, la Cassazione ha inoltre ritenuto che una illiceità della causa si configura solo quando “lo scopo perseguito dalle parti con il contratto tipico sia in contrasto con norme imperative, ordine pubblico e buon costume” (ma la PA non persegue certo tale scopo nel filone in esame): Cass., sez.un., 11.1.1973 n.68 e id., 4.6.1999 n.5561, 3 maggio 1986, n. 2991, oltre a Cass., sez.lav., 27.11.1987 n.8830, qualificano illecita la causa se la volontà “di ambo le parti” sia tesa a costituire un rapporto previdenziale vietato da norme imperative di ordine pubblico o se l'attività lavorativa risulti “intrinsecamente e oggettivamente illecita, avente perciò normalmente, per il suo contenuto, rilevanza penale”; inoltre Cass., 9.4.2018 n.8690 esclude la retribuibilità solo in caso di violazioni di “norme di legge attinenti a profili di ordine pubblico” (quali prestazioni sanitarie svolte da chi non abbia titolo) ed ha inoltre ritenuto che l’illiceità dell’oggetto sussiste “ogni qualvolta la prestazione dedotta in contratto sia illecita”; del resto, prosegue il Collegio, la stessa Corte Costituzionale 27 gennaio 2023, n. 8, nel vagliare la legittimità dell'art. 2033 c.c., rispetto alla ripetizione di pagamenti indebiti nell'ambito del pubblico impiego privatizzato, ha evidenziato come la disciplina dell'art. 2126 c.c., in ragione della protezione da assicurata alla "causa dell'attribuzione, costituita da una attività lavorativa che è stata, di fatto, concretamente prestata, pur se si dimostra giuridicamente non dovuta", giustifica "sia la pretesa a conseguire il corrispettivo sia, qualora questo sia stato già erogato, l'irripetibilità del medesimo", ponendosi, sotto quest'ultimo profilo, come uno dei parametri di equilibrio dell'ordinamento a fronte di pretese recuperatorie sproporzionate rispetto alle situazioni coinvolte, ma inevitabilmente giustificando e corroborando la centralità della norma anche ove vista sotto il profilo della prestazioni retributive che essa impone siano adempiute, pur in assenza di validità, anche solo in parte, del rapporto di lavoro e delle prestazioni rese; in estrema sintesi, afferma la Corte, la causa astratta e concreta del contratto di lavoro perfezionatosi tra la PA ed il convenuto e la sua esecuzione non è qualificabile illecita (circostanza ostativa al pagamento ex art.2126 c.c.) non essendo stato il negozio preordinato da ambo le parti a finalità vietate dall’ordinamento (si pensi al caso di un fittizio rapporto di lavoro voluto da ambo le parti per fruire di finanziamenti pubblici legati ad nuove assunzioni o per creare vantaggiose posizioni previdenziali al lavoratore simulando un rapporto subordinato, o per riciclare denaro con retribuzioni gonfiate; oppure si pensi, in altri campi, al caso del contratto di meretricio, cui le parti consensualmente addivengono, ma nullo per contrasto con l’ordine pubblico: Cass. n.4927/2022); c) degli orientamenti possibilisti della magistratura ordinaria e amministrativa sul medesimo tema (Cass., sez.lav., 31.7.2019 n.20722; id., n.6046/2018; Cons. St., sez.V, 14.10.2014 n.5117; id., sez.III, 2.5.2014 n.2285; id., sez.V, n.1374/2009).
La Corte rileva, ancora, come anche in tempi recenti, la Cassazione ha rimarcato (Cass., sez. lav., 26.6.2023 n.1863) come gli impegni di spesa possono certamente impedire di riconoscere aumenti di corrispettivo non coperti da una regolare conduzione della contrattazione o da altri presupposti necessari per il loro riconoscimento, ma non possono impedire in toto il pagamento, se la prestazione sia resa non insciente o prohibente domino o comunque in modo incoerente con la volontà del datore. Semmai, continua la Corte, il tema si sposta sul piano della responsabilità verso la Pubblica Amministrazione dei preposti che non avrebbero dovuto consentire le prestazioni, ma non può ammettersi che il sistema giuridico, contro il disposto di norme centrali di esso (art.35 e 36 cost.), sia alla fine declinato in pregiudizio del prestatore di lavoro subordinato che abbia svolto l'attività sua propria ed alla cui tutela sono di presidio i principi costituzionali. Sul punto, viene richiamato l’arresto della Suprema Corte, Cass., sez. II pen., sez. II, 25.2.2021 n. 12791, in forza del quale, quando sia commesso il reato di truffa finalizzata all'assunzione di un pubblico impiego, che si consuma nel momento della costituzione del rapporto impiegatizio, al lavoratore spetta comunque la retribuzione per l'effettivo svolgimento della prestazione lavorativa richiesta, giusta la disciplina dettata dagli artt. 2126 e 2129 c.c., salvo che ricorra un'ipotesi di contrarietà della causa del contratto a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume ex art. 1343 c.c., un utilizzo dello strumento contrattuale per frodare la legge ex art. 1344 c.c., ovvero un motivo illecito, comune alle parti o determinante, ex art. 1345 c.c. (ipotesi, queste ultime due, qui non ipotizzabili). In tal senso depone, per la Corte, anche Cass., sez. II , 03/06/2009 , n. 26270, secondo cui in tema di truffa in assunzione ad un pubblico impiego (ottenuta, nella fattispecie, mediante esibizione di falso diploma di infermiere), il requisito dell'ingiusto profitto, una volta accertata l'esplicazione della prestazione lavorativa richiesta, non può essere ravvisato nella percezione dei ratei di retribuzione, i quali sono dovuti al dipendente in forza del disposto di cui agli art. 2126 e 2129 c.c.: ne consegue, per il Collegio, che il reato, di natura istantanea, si consuma all'atto della costituzione del rapporto impiegatizio.
Sul piano sistemico, per il Collegio giova inoltre ricordare che da epoca ormai risalente, la giurisprudenza della Cassazione e la dottrina hanno abbandonato la concezione rigidamente oggettiva della causa del contratto, con l'ammissione che anche un contratto tipico - quale indubbiamente è quello di lavoro subordinato - possa avere causa illecita perché “la funzione del negozio non deve rimanere nel limbo dell'astrattezza, ma deve essere presente nel contratto tipico, il quale cioè deve avere una funzione concreta”. Ma ha distinto, “proprio in considerazione della disciplina differenziata dell'art. 2126 c.c.”, all'interno dell'ampia categoria del contratto illegale, quella del contratto illecito, essendo tale il contratto con oggetto illecito, ovvero se illecita sia (art. 1343 c.c.) o si reputi (art. 1344 c.c.) la causa ovvero il motivo determinante (art. 1345 c.c.), giungendo alla conclusione che nel lavoro prestato in violazione di norme proibitive dell'assunzione non si ha oggetto illecito (in quanto la prestazione non è intrinsecamente illecita), né illiceità della causa, mancando il contrasto “con i principi etici fondamentali dell'ordinamento”, e si versa, invece, nel campo della mera, ristretta illegalità (Cass., sez. un., 11.1.1973, n. 63; id., sez. lav., 12.11.2002 n.15880); con l'ulteriore precisazione che l'illiceità richiede il contrasto con i principi di ordine pubblico o con norme imperative che di per sé appartengono all'ordine pubblico, nella prospettiva di una lettura dell'art. 1418 c.c. che ne riferisce il primo comma alla fattispecie (autonoma) del contratto meramente illegale per generico contrasto con norme imperative, e il secondo comma al contratto propriamente illecito (Cass., sez. un., 15 8.5.1976, n. 1609).
Nei successivi sviluppi della giurisprudenza, la Corte rileva che l'orientamento si è consolidato e, soprattutto, ne è stato sottolineato il fondamento costituzionale, atteso che soltanto il concetto di illiceità della causa (o dell'oggetto) così circoscritto, consente di interpretare la norma in senso conforme ai principi di tutela del lavoro in tutte le sue forme (art. 35 Cost.) e di garanzia di una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità della prestazione (art. 36). Ed infatti, prosegue il Collegio, la Corte costituzionale ha dato autorevole avallo a tale interpretazione, osservando che l'art. 2126 c.c. impedisce la tutela del lavoro soltanto in caso di illiceità “in senso forte”, cioè per contrasto con norme generali e fondamentali e con principi basilari dell'ordinamento (cfr. C. cost. 19.6.1990, n. 296; 27.5.1992, n. 236; ord. 100-2002).
In conclusione, ritiene il Collegio che sia l’ampia dizione dell’art.1, co. l-bis, n.20/1994, lex specialis rispetto all’art.2126 c.c., sia la applicabilità di questa stessa norma che impone il pagamento delle prestazioni di fatto salvo che le parti, congiuntamente e pariteticamente, si siano codeterminate ad un contratto causalmente illecito “in senso forte”, cioè in contrasto con norme generali e fondamentali e con principi basilari dell'ordinamento, portano, sulla scorta della miglior giurisprudenza civile, ad un superamento del tralaticio indirizzo giuscontabile ostativo in materia, quanto meno a fronte di prestazione routinarie che non richiedono titoli di elevata specializzazione; tuttavia, a prescindere da un auspicabile futuro coraggioso ripensamento dell’indirizzo prevalente di questa Corte dei conti in materia sulla scorta dei suprariferiti argomenti sistemici e giurisprudenziali, in ogni caso, nella specifica fattispecie in esame, anche a voler ritenere operante sul piano generale il più rigoroso orientamento giuscontabile ostativo alla valutazione economica delle prestazioni di fatto, lo stesso non appare in concreto applicabile. La Corte, infatti, ricorda che l’indirizzo ostativo al riconoscimento dei vantaggi resi a seguito di una prestazione lavorativa “di fatto” a favore della PA da parte di un soggetto privo del prescritto titolo di studio argomenta sulla assenza del titolo prescritto, espressiva della incapacità all’espletamento “utile” della prestazione professionale da svolgere, capacità conseguibile solo e soltanto con regolare percorso di studi che portino al titolo abilitante alle mansioni da svolgere.
La Corte, in sostanza, afferma che, ferma restando la valenza penale, disciplinare e civile (per evidenti danni arrecati ai soggetti scavalcati e pretermessi dalle supplenze e dagli incarichi sulla base di titolo falso del convenuto) della condotta mendace del convenuto, sotto il diverso profilo amministrativo-contabile, l’aver conseguito un titolo idoneo comunque alle mansioni minimali proficuamente svolte presso il Ministero dell’Istruzione e del Merito, rendono ben considerabili come “vantaggio” reso alla PA ed alla comunità amministrata ex art.1, co. lbis, n.20/1994 le mansioni svolte dal convenuto e rendono quindi leciti ex art.2126 c.c. e non forieri di danno erariale gli esborsi stipendiali a favore dello stesso. Del resto, ricorda il Collegio, anche in qualche risalente precedente della stessa Corte (C. conti, sez. giur. Basilicata, 2.2.2005 n.14) si è correttamente affermato che va ravvisato danno ingiusto risarcibile a titolo di dolo nel comportamento del dipendente di una Asl che abbia conseguito l'impiego producendo falsi documenti, commisurato sia agli stipendi non dovuti che ai compensi per incarichi e missioni, potendosi invocare la compensatio lucri cum damno nei soli limiti delle retribuzioni riferibili allo svolgimento di mansioni lavorative generiche e suscettibili di essere svolte a prescindere dal possesso del titolo di studio falsamente presentato.
La Corte precisa che, in altre evenienze connotate da assoluta mancanza del titolo o dal possesso di altro titolo “reale” diverso da quello “falso” prodotto per ottenere un pubblico impiego, dovrà comunque valutarsi: a) la piena fungibilità dei titoli in relazione alla tipologia di incarico svolto (tale fungibilità è difatti di più difficile ipotizzabilità a fronte di prestazioni altamente specialistiche: es. sanitarie o tecniche); b) se la totale assenza o la minor qualità (es. nel voto di laurea o nel curriculum) del titolo realmente conseguito rispetto a quello falso dichiarato porti ad un vantaggio o ad un vantaggio “minore” a favore della PA o della comunità amministrata rispetto alla erogazione stipendiale riconosciuta per quella qualifica, con conseguente scomputo della differenza da qualificare come danno erariale.
Tali conclusioni,, precisa il Collegio, ricevono un avallo argomentativo dal già ricordato indirizzo del giudice di legittimità (Cass., sez. lav., 9.4.2018 n. 8690) secondo cui, in tema di impiego pubblico contrattualizzato concernente prestazioni altamente specialistiche, lo svolgimento di fatto di mansioni superiori nell'ambito di professioni sanitarie, in carenza del titolo abilitativo specifico e della relativa iscrizione all'albo, non fa sorgere il diritto alla corrispondente maggiore retribuzione ai sensi dell' art. 2126 c.c., poiché l'assenza di titolo non integra - a differenza che per altre professioni a rilevanza pubblicistica - una forma di illegalità derivante dalla carenza di un requisito estrinseco, ma produce la totale illiceità dell'oggetto e della causa dell'obbligazione, risultando l'attività del personale infermieristico regolata da specifiche norme di legge attinenti a profili di ordine pubblico, attesa l'incidenza dell'attività sanitaria sulla salute e sicurezza pubblica, nonché sulla tutela dei diritti fondamentali della persona.