Temi e Dibattiti

Brevi note sul mercato delle concessioni autostradali: tra regolazione multilivello, finanza pubblica e concorrenza.
Di Giuseppe Maria Marsico
Brevi note sul mercato delle concessioni autostradali: tra regolazione multilivello, finanza pubblica e concorrenza.
Di Giuseppe Maria Marsico
Abstract
Con la comunicazione della Commissione n. 896 del 20 dicembre 2011 inizia un processo graduale di revisione del quadro normativo in materia di appalti pubblici, fondato su direttive del 2004, reso ancora più complesso da numerose sentenze della Corte di Giustizia europea e da frammentate modalità di recepimento a livello nazionale. Sulla base di tali indirizzi e dei lavori preliminari, è stata avviata una procedura di impact assessment sulle prime proposte della Commissione, che ha potuto giovarsi anche dell’esito della valutazione dell’impatto delle precedenti norme. L’obiettivo della disciplina multilivello, anche per quanto attiene alle concessioni autostradali, è quello di promuovere un mercato sempre più sano e competitivo, aperto a tutte le imprese europee e, gradualmente, a quelle extra europee, in cui la concorrenza e l’accessibilità possano promuovere forme di partenariato pubblico- privato, innovazione, nuove imprese, occupazione e crescita. Tale nuova visione strategica culmina nelle nuove direttive del 2014 in materia di appalti pubblici e concessioni.
With Commission communication no. 896 of 20 December 2011 begins a gradual process of reviewing the regulatory framework on public procurement, based on 2004 directives, made even more complex by numerous rulings of the European Court of Justice and fragmented implementation methods at national level. On the basis of these guidelines and preliminary work, an impact assessment procedure was launched on the Commission's first proposals, which was also able to benefit from the outcome of the impact assessment of the previous regulations. The objective of the multilevel regulation, also with regard to motorway concessions, is to promote an increasingly healthy and competitive market, open to all European companies and, gradually, to non-European ones, in which competition and accessibility can promote forms of public-private partnership, innovation, new businesses, employment and growth. This new strategic vision culminates in the new 2014 directives on public procurement and concessions.
Sommario: 1. Ricostruzione storica (cenni). – 2. Sul trasferimento del c.d. rischio “operativo” o “di gestione”: la concessione quale species del PPP. – 3. La nozione di rischio “operativo” o di gestione: problemi definitori e interpretativi. – 4. I principi euro-unitari in tema di concessioni: tra mercato unico e concorrenza (cenni). – 4.1. La problematica dell’inefficienza derivante dalla pluralità dei modelli tariffari vigenti. – 4.2. La rivisitazione delle tariffe, il principio di leale collaborazione e l’aggiornamento del PEF. – 5. L’equilibrio economico e finanziario – 5.1. La revisione dell’equilibrio contrattuale. – 6. Riflessioni conclusive alla luce nuova Legge in tema di Concorrenza: sulla tesi della proroga quale modifica del contenuto sostanziale della concessione.
- Ricostruzione storica (cenni).
In passato, si è discusso molto sulla natura giuridica della concessione, giungendo a risultati non sempre univoci, in ragione della maggiore rilevanza attribuita, di volta in volta, all’aspetto privatistico o pubblicistico dell’istituto. L’impostazione è mutata coerentemente con l’evolversi del mercato[1] e della società e dei rapporti intercorrenti tra lo Stato e i privati. Le principali teorie hanno definito la concessione in termini di contratto, provvedimento o provvedimento-contratto (tesi del tertium genus). La dottrina inquadrò inizialmente l’istituto nel contratto.
La concessione nacque, difatti, nella prassi delle Pubbliche Amministrazioni centrali e locali, come un vero e proprio negozio giuridico tra le parti (ovvero l’Amministrazione emanante l’atto amministrativo iniziale e il privato destinato ad assumere gli obblighi derivanti da quest’ultimo) in grado di prevederne e regolarne i reciproci adempimenti; la concessione era, pertanto, il contratto stesso, e solo quest’ultimo era in grado di conferire efficacia all’atto amministrativo da cui dipendeva e che lo precedeva temporalmente.
La costruzione privatistica era considerata perfettamente compatibile sia con la natura demaniale del bene oggetto di concessione, sia con la natura pubblicistica dell’attività dedotta in contratto; ciò, in quanto il nuovo Stato unitario da un lato intendeva offrire adeguata tutela agli interessi economici dei rappresentanti pubblici; d’altro lato - a mezzo della disciplina privatistica paritaria - si proponeva di garantire la necessaria certezza, stabilità ed equilibrio economico a quegli interlocutori che, tramite le concessioni, assicuravano lo svolgimento di attività indispensabili per lo sviluppo economico che i pubblici poteri erano impotenti a gestire direttamente.
Durante gli ultimi decenni dell’Ottocento, però, mutarono radicalmente le qualificazioni giuridiche dei rapporti tra le Amministrazioni[2] e i loro interlocutori. Dalla costruzione privatistica si passò a un’impostazione pubblicistica, funzionale alla creazione di un diritto amministrativo soggetto a regole diverse rispetto a quelle proprie del diritto comune.
L’abbandono, da parte della dottrina, delle vocazioni paritarie, seguito dall’idea di costruire un diritto “speciale delle amministrazioni”, che fosse imperniato sull’atto amministrativo unilaterale e imperativo, trovò il suo principale fondamento nell’ideologia del rafforzamento amministrativo dello Stato appena unificato politicamente, che si sosteneva avesse bisogno di strumenti di azione autoritativi per far valere appieno la sua sovranità. Le concessioni amministrative seguivano gli andamenti generali; l’elaborazione teorica più completa è ascrivibile ad un orientamento[3] al quale si deve il merito di aver proceduto ad una prima ricostruzione sistematica della materia. L’eterogeneità dei rapporti e delle prassi utilizzate in epoca risalente rendeva problematica una vera e propria classificazione dell’istituto. L’atto di concessione era configurato quale provvedimento amministrativo, posto in vista di interessi pubblici da un soggetto che opera come autorità. Da ciò derivavano, evidentemente, conseguenze interpretative che ribaltavano le implicazioni pratiche discese dalle pregresse tesi contrattual-privatistiche.
Mentre, infatti, queste ultime qualificavano la concessione come contratto costitutivo di diritti soggettivi pieni in capo al concessionario, devoluto alla cognizione del giudice ordinario, al contrario la tesi unilateralistica[4] era incentrata sul fatto che il provvedimento unilaterale di concessione fosse un atto eminentemente discrezionale, dal quale derivavano in capo al privato “facoltà compenetrate con l’interesse pubblico”, devoluto, quindi, alla cognizione del giudice amministrativo. Si negò, in tal modo, la possibilità di intendere le concessioni come negozi, ritenendole, al contrario, “atti amministrativi ad effetti bilaterali”, ovvero atti di imperio che trovavano la propria causa “negli scopi di interesse generale che l’ente concedente deve raggiungere.”
Gli effetti pratici delle costruzioni pubblicistiche, recepite anche dalla giurisprudenza, non erano però favorevoli agli interessi dei concessionari. Esse, peraltro, si ponevano in contrasto con la nuova realtà economica dei primi del Novecento. L’epoca giolittiana, in particolare, introdusse un regime paritario, più che di subordinazione, tra le Amministrazioni (in particolare quelle municipali) e i concessionari, dedicando a questi ultimi un’attenzione particolare.
La successiva dottrina cercò un nuovo punto di equilibrio, rinvenendo a favore del concessionario, nel rapporto instaurato con la P.A., non solo l’insorgere di interessi legittimi, ma di “diritti soggettivi di natura pubblica”.
Si richiama, al riguardo, una ricostruzione ermeneutica che utilizzò l’espressione “concessione di servizi” ed attribuendo a quest’ultima uno specifico significato nonostante l’istituto esistesse e fosse conosciuto e utilizzato già dai tempi remoti. La dottrina maggioritaria analizzò, in particolare, la concessione in funzione dell’esercizio di un pubblico servizio, determinando, in tal modo, il punto di svolta della propria ricerca. L’abbandono delle qualificazioni pubblicistiche delle concessioni amministrative, del tutto incompatibili con la nuova realtà economico-sociale, prendeva corpo anche nella giurisprudenza di legittimità.
Difatti, al chiudersi del primo decennio del Novecento, la Corte di Cassazione, stabilendo un principio generale destinato a divenire un riferimento nella successiva evoluzione giuridica dell’istituto, identificò la concessione come la contestuale presenza di: “due negozi giuridici distinti che si congiungono: il primo si attua e si realizza nell’altro, ma può anche essere accompagnato dalla stipulazione di un contratto. All’accettazione del concessionario, che rappresenta rispetto all’atto amministrativo il verificarsi della condizione per la quale esso consegue il suo effetto, si unisce il consenso delle due parti sopra un regolamento convenzionale della concessione per suo modo di attuarsi e svolgersi”. Viene confermato, pertanto (anche se la tesi proposta dalla Cassazione non ha smentito appieno le tesi pubblicistiche che continuavano a ritenere la concessione un atto di disposizione o atto “volitivo sovrano di un’autorità”) il revirement in ordine alla struttura e alla natura della concessione amministrativa, che era sì un provvedimento amministrativo, al quale - tuttavia - accedeva un contratto di diritto privato. Tale figura è stata denominata “concessione-contratto” e si è poi estesa ai beni pubblici, ai servizi e alle opere pubbliche. La costruzione giurisprudenziale sopra descritta si è poi stabilizzata nei periodi successivi fino a diventare, in tempi attuali, una figura generale, potenzialmente applicabile a tutti i rapporti concessori. Rispetto agli esordi, tuttavia, si è assistito a un mutamento sotto un duplice profilo; in primo luogo, è evidente una separazione progressiva del contratto dal provvedimento, con un graduale accrescersi del ruolo del contratto e con sempre più larga penetrazione del diritto comune nei rapporti concessori[5].
- Sul trasferimento del c.d. rischio “operativo” o “di gestione”: la concessione quale species del PPP.
Il tratto saliente del contratto di concessione, così come di ogni forma di PPP, è rappresentato dal trasferimento del c.d. rischio “operativo” o “di gestione” in capo all’operatore economico a cui è affidata la realizzazione e la gestione di un’opera o l’erogazione di un servizio.
La definizione della nozione di rischio, tuttavia, non è apparsa agevole essendo sorto sul punto un vivace dibattito interpretativo che può essere risolto alla luce della disciplina posta dal nuovo codice.
Tale disciplina consente il trasferimento di un solo rischio “moderato” essendo volta ad assicurare la conservazione dell’equilibrio economico e finanziario dell’operazione realizzata.
A fronte di eventi straordinari ed imprevedibili che alterino tale equilibrio, le parti possono ricorrere infatti al rimedio della “revisione”: si tratta di un rimedio manutentivo che diverge dai tradizionali rimedi di natura caducatoria previsti dal codice civile per far fronte a squilibri del sinallagma.
L’istituto del contratto di concessione è stato oggetto di crescente attenzione a livello interno ed europeo dovuta all’attitudine dell’istituto a soddisfare le attuali esigenze delle pubbliche amministrazioni e, dunque, all’espandersi della sua applicazione.
A fronte della necessità di adottare soluzioni efficienti ed innovative nonché della crisi finanziaria e dei vincoli di spesa previsti per le P.A., è difatti sorta la necessità di ricorrere a strumenti che consentissero alla P.A. medesima di giovarsi delle risorse tecniche, c.d. know-how, e finanziarie degli operatori privati, evitando esborsi economici. Tale esigenza è stata soddisfatta attraverso il ricorso al contratto di concessione e ad altri istituti rientranti nel più ampio genus delle forme di partenariato pubblico-pubblico privato attraverso le quali le amministrazioni hanno la possibilità di realizzare interventi pubblici con risorse finanziarie reperite in misura significativa dalla parte privata, a cui è trasferito il c.d. rischio “operativo” o di “gestione”, che viene spesso coinvolta anche nella fase di ideazione progettuale.
Da ultimo, il nuovo codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, emanato per dare attuazione agli obiettivi previsti dal PNRR, tra cui quello di riformare la disciplina dei contratti pubblici per garantire una maggiore rapidità, elasticità ed efficienza delle procedure di affidamento, ha dettato un’apposita disciplina relativa alla categoria de qua, frutto del riordino e della razionalizzazione della disciplina previgente.
Nel contesto degli obiettivi succitati, l’istituto del contratto di concessione e più in generale le operazioni di partenariato rappresentano degli strumenti strategici per promuovere l’efficienza, efficacia e l’economicità e, dunque, il buon andamento di cui all’art. 97 Cost. dell’azione delle amministrazioni che procedono all’affidamento delle commesse pubbliche[6].
Il contratto di concessione, come accennato, rappresenta una species del più ampio genus delle forme di partenariato pubblico privato (di seguito per brevità PPP).
Tale inquadramento dogmatico dell’istituto della concessione, già esistente nel nostro ordinamento, è stato frutto delle riflessioni e delle elaborazioni sviluppatesi a livello europeo ad opera delle Istituzioni dell’Unione.
L’introduzione di tale categoria risale, difatti, al Libro Verde presentato dalla Commissione UE nel 2014, coniato per descrivere operazioni già diffuse nei paesi anglosassoni. In tale documento, al fine di avviare un dibattito in materia, erano stati individuati i caratteri fondamentali di ogni operazione di partenariato quali:
- a) la collaborazione di lunga durata tra la parte pubblica e quella privata che implichi una forma di cooperazione in relazione a vari aspetti di un progetto da realizzare;
- b) la modalità di finanziamento del progetto, garantito da parte dal settore privato, talvolta tramite relazioni complesse tra diversi soggetti, anche con la partecipazione significativa di finanziamenti provenienti dalla parte pubblica;
- c) la partecipazione del privato alle varie fasi del progetto (progettazione, realizzazione, attuazione, finanziamento) e l’assegnazione al partner pubblico del compito di definire gli obiettivi da raggiungere in termini d’interesse pubblico, di qualità dei servizi offerti, di politica dei prezzi e di garantire il controllo del rispetto di tali obiettivi;
- d) la ripartizione dei rischi tra il partner pubblico ed il partner privato, sul quale sono trasferiti rischi di solito a carico del settore pubblico.
Per quanto attiene a quest’ultimo presupposto, è stato precisato che si può discorrere di PPP anche nell’ipotesi in cui il partner privato non si assuma tutti i rischi o i rischi più significativi legati all’operazione ma gli stessi siano ripartiti, caso per caso, tra la parte pubblica e quella privata in base alla capacità di ciascuna di gestirli.
I PPP rappresentano dunque un modus operandi delle amministrazioni espressione del ruolo, più in generale, assunto attualmente dal settore pubblico a livello economico: allo stesso non sono difatti più assegnati, di regola, compiti di intervento diretto ma di regolazione e vigilanza.
È stato osservato che, dal momento che con il PPP si trasferisce sul privato la gestione di progetti pubblici, l’istituto stesso costituirebbe uno strumento di attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Cost. Alcuni autori hanno evidenziato, tuttavia, come il PPP non comporti – in concreto - una completa sostituzione della parte pubblica con la parte privata poiché la prima mantiene comunque un ruolo propulsivo, direttivo e di controllo.
L’istituto del PPP costituirebbe, quindi, una sorta di tertium genus tra l’autoproduzione e la privatizzazione di un’attività.
In ogni caso, il PPP non costituisce un istituto unitario ma “un fascio di istituti giuridici caratterizzati da alcuni elementi comuni” o una sorta di “etichetta definitoria” a cui vengono ricondotti appunto diversi istituti.
Si accenna soltanto – per esigenze di sintesi - che all’interno di tale categoria si suole distinguere tra i PPP di tipo contrattuale e i PPP di tipo istituzionale: la prima categoria si riferisce all’ipotesi in cui i rapporti siano disciplinati da un contratto mentre la seconda al caso in cui la parte pubblica e quella privata costituiscano un soggetto distinto per svolgere l’attività di interesse comune (si pensi, ad esempio, ad una società mista, compartecipata dalla parte pubblica e privata). Il contratto di concessione rappresenta, pertanto, una forma di PPP contrattualizzato[7].
Dall’eterogeneità delle figure riconducibili al PPP discende la difficoltà di elaborare una definizione onnicomprensiva unitaria. Per tale ragione, nell’ambito del diritto europeo, pur costituendo la sede in cui tale categoria è sorta, è stata abbandonato il tentativo di dettare una disciplina dell’istituto che, difatti, non viene menzionato nelle direttive del 2014.
Una disciplina puntuale del PPP è invece presente nel nuovo codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. n. 36/2023 e precisamente al Libro IV intitolato “Del partenariato pubblico-privato e delle concessioni”, parte I (artt. 174 e 175) ove sono contenute delle disposizioni di carattere generale. Il codice tipizza poi alcuni tipi di PPP, tra cui la concessione, e ammette anche la possibilità di configurare delle forme di PPP atipiche10. Tale disciplina rappresenta il risultato della razionalizzazione delle previsioni poste dal previgente codice di cui al D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50.
In particolare, il comma 1 dell’art. 174 definisce il PPP come “un’operazione economica” elencandone le caratteristiche che richiamano in linea di massima quanto previsto nell’originaria definizione elaborata a livello euro unitario e contenuta nel Libro Verde. Tra le caratteristiche figurano: a) l’istaurazione di un rapporto di lunga durata; b) la copertura finanziaria reperita in misura significativa dalla parte privata; c) l’affidamento alla parte privata di realizzare e gestire un progetto mentre alla parte pubblica di definire gli obiettivi e verificarne l’attuazione; d) l’allocazione del “rischio operativo” sulla parte privata.
È proprio quest’ultimo aspetto, vale a dire il trasferimento del “rischio operativo” sul privato, a rappresentare il tratto saliente delle operazioni di partenariato in genere e dunque del contratto di concessione oggetto della presente analisi.
Come accennato, l’inquadramento del contratto di concessione di matrice europea nel genus del PPP è il risultato dell’elaborazioni sviluppatesi a livello europeo.
Invero, l’istituto della concessione è stato inteso tradizionalmente nel nostro ordinamento interno in chiave pubblicistica come provvedimento amministrativo11: si riteneva, infatti, che l’amministrazione, con tale atto, costituisse e modificasse in via unilaterale il rapporto giuridico intercorrente con il privato.
Tuttavia, dato che spesso attraverso tale strumento si instaurano rapporti di lunga durata implicanti numerosi profili di carattere patrimoniale, è sorta la necessità di disciplinare tali aspetti con un atto di natura consensuale piuttosto che autoritativa. Sul punto sono state elaborate diverse tesi, tra cui quella secondo la quale in tali casi sussisterebbe un contratto disciplinate i profili patrimoniali accessivo al provvedimento unilaterale di concessione (tale tesi è stata riferita, ad esempio, alle concessioni aventi ad oggetto l’erogazione di un servizio pubblico ovvero lo sfruttamento di un bene demaniale).
Nel corso del tempo si è assistito, pertanto, ad un processo di “depubblicizzazione” dell’istituto frutto di una rielaborazione del diritto amministrativo in chiave “meno autoritativa”.
In tale contesto, si inserisce la concessione di matrice europea, figura che diverge dal tradizionale istituto della concessione a cui si è fatto cenno, e che è ricondotta all’istituto del contratto.
L’allegato I.1 del nuovo codice definisce difatti le concessioni all’art. 2, comma 1, lett. c), come “i contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto a pena di nullità in virtù dei quali una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più enti aggiudicatori affidano l’esecuzione di lavori o la fornitura e la gestione di servizi a uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i lavori o i servizi oggetto dei contratti o in tale diritto accompagnato da un prezzo”.
Il breve excursus svolto è utile per evidenziare le differenze intercorrenti tra il tradizionale istituto del contratto di appalto ed il contratto di concessione. Da quanto esposto emerge che non sussistono differenze tra i due istituti sul piano della struttura essendo qualificabili entrambi come contratti.
La differenza risiede piuttosto nel fatto che nell’appalto l’operatore economico viene remunerato attraverso la corresponsione di un corrispettivo e il rischio di gestione dell’opera o del servizio rimane in capo alla stazione appaltante mentre nel contratto di concessione, di regola, all’impresa viene riconosciuto quale corrispettivo soltanto il diritto di gestire l’opera o il servizio con conseguente trasferimento in capo alla medesima del rischio di gestione[8].
La nozione di “rischio di gestione” non è tuttavia agevole da definire e sono stati sollevati sul punto numerosi dubbi interpretativi.
- La nozione di rischio “operativo” o di gestione: problemi definitori e interpretativi.
Un primo problema interpretativo sorto durante la vigenza del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ha riguardato la possibilità di ricondurre al contratto di concessione anche le c.d. concessioni “fredde”.
La giurisprudenza ha, difatti, ricostruito tradizionalmente il rapporto concessorio come un rapporto trilaterale coinvolgente l’ente concedente, l’operatore economico concessionario ed i terzi utenti.
Tale tipo di rapporto si instaura quando la concessione ha ad oggetto la realizzazione e gestione di opere ovvero la gestione di servizi aventi l’intrinseca capacità di generare ricavi dovendo gli utenti terzi pagare un corrispettivo per poterne usufruire.
Si suole discorrere in tali casi di c.d. concessioni “calde” a cui possono essere ricondotte, ad esempio, le concessioni relative alla costruzione e alla gestione di un’autostrada o di un parcheggio.
Sono state incluse nell’istituto oggetto di analisi anche le c.d. concessioni “tiepide” che ricorrono qualora la concessione abbia ad oggetto opere e servizi la cui gestione non sia in grado di produrre un ricavo sufficiente a remunerare l’operatore economico concessionario e che richiedono, quindi, anche una forma di contribuzione pubblica; si pensi all’ipotesi della concessione avente ad oggetto la costruzione e la gestione di un impianto sportivo o finalizzato all’erogazione di un servizio di trasporto pubblico[9].
In entrambe le forme di concessione succitate si instaura un rapporto trilaterale ed il concessionario è remunerato con il riconoscimento del diritto di gestire l’opera o il servizio e dunque attraverso i ricavi provenienti della gestione seppur, in alcuni casi, accompagnati da una forma di contribuzione pubblica.
Divergono da tale schema le c.d. concessioni “fredde” configurabili quando il concessionario esegue la prestazione di gestione dell’opera o del servizio direttamente a favore dell’amministrazione che lo remunera attraverso la corresponsione di un corrispettivo. In tali ipotesi, dunque, si instaura un rapporto di tipo bilaterale dal momento che l’operatore non si rivolge agli utenti.
Sono riconducibili alla forma descritta le concessioni aventi ad oggetto la costruzione o gestione di opere, come gli ospedali, le scuole e le carceri, che vengono utilizzate direttamente dall’amministrazione per erogare servizi pubblici o espletare le proprie attività, ovvero la gestione di servizi erogati a favore della medesima amministrazione, si pensi ai servizi di global management di edifici pubblici o di energy management.
La Dir. 2014/23/UE, finalizzata ad armonizzare la disciplina degli Stati membri in materia di concessione, definisce l’istituto suddetto ammettendo che lo stesso possa configurarsi anche nell’ipotesi del trasferimento del solo rischio dal lato dell’offerta - c.d. “di disponibilità” - vale a dire il rischio legato alla capacità dell’operatore di fornire la prestazione pattuita in termini qualitativo-quantitativi che, come si avrà modo di esporre, caratterizza le concessioni “fredde”. La stessa direttiva sembra pertanto prescindere dalla natura trilaterale del rapporto includendo nell’istituto della concessione anche le concessioni “fredde”.
Nonostante ciò, sono sorti dubbi circa la riconducibilità all’istituto della concessione anche di quest’ultimo tipo di rapporto.
È stato evidenziato, infatti, che la medesima direttiva specifica che il rischio operativo deve derivare da “fattori al di fuori del controllo delle parti” e che da ciò conseguirebbe l’esclusione dalla nozione del rischio concessorio del c.d. rischio di disponibilità che sarebbe connesso alla condotta del concessionario.
Altri dubbi sono nati, inoltre, a causa della presenza nel codice dei contratti pubblici del 2016 di norme discordanti interpretate dai diversi autori a favore della tesi dell’inclusione ovvero della tesi opposta.
Tali contrasti interpretativi sembrano aver trovato una risoluzione alla luce della disciplina dell’istituto posta dal nuovo codice del 2023 che detta disposizioni inequivocabilmente riferite anche alle concessioni fredde.
Tale assunto è confermato dalla relazione al nuovo Codice elaborata dal Consiglio di Stato ove si afferma che “lo schema di Codice, fedele alla Direttiva Europea - che prefigura la traslazione del rischio operativo anche soltanto dal lato dell’offerta, prescindendo dalla struttura ‘trilaterale’ del rapporto - estende in modo chiaro la concessione anche ai progetti nei quali l’operatore privato fornisca direttamente servizi alla pubblica amministrazione, traendo la propria remunerazione principalmente dai pagamenti della pubblica amministrazione”.
Premesso ciò, giova definire con maggior precisione la nozione di rischio “operativo” o di gestione[10].
Soccorre sul punto la disposizione del nuovo codice di cui al comma 1, dell’art. 177, rubricato “contratto di concessione e traslazione del rischio operativo”, che chiarisce che “l’aggiudicazione di una concessione comporta il trasferimento al concessionario di un rischio operativo legato alla realizzazione dei lavori o alla gestione dei servizi e comprende un rischio dal lato della domanda o dal lato dell’offerta o da entrambi.
Per quanto attiene al rischio dal lato della domanda si intende quello associato alla domanda effettiva di lavori o servizi che sono oggetto del contratto.
Per rischio dal lato dell’offerta si intende il rischio associato all’offerta dei lavori o servizi che sono oggetto del contratto, in particolare il rischio che la fornitura di servizi non corrisponda al livello qualitativo e quantitativo dedotto in contratto”.
Il comma 2 del medesimo articolo prosegue “si considera che il concessionario abbia assunto il rischio operativo quando, in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione”.
Pertanto, ai fini della configurabilità della concessione è necessario che all’operatore siano trasferiti i “rischi operativi”, ossia i rischi di natura economica o tecnica connessi all’alea della gestione, che possono riguardare il lato della domanda o dell’offerta o di entrambe. Se non avviene un trasferimento di tali rischi il rapporto è qualificabile come un appalto.
Per “rischio di domanda”, tipico delle concessioni “calde” e “tiepide” rivolte ai terzi utenti, si intende il rischio legato ai diversi volumi di domanda ovvero alla mancanza di utenza e quindi ai flussi di cassa.
Nel “rischio dal lato dell’offerta” rientra innanzitutto, con riferimento ai contratti aventi ad oggetto lavori, il c.d. “rischio di costruzione” ossia ogni rischio legato alla fase di costruzione dell’opera e quindi il rischio connesso ai ritardi nei tempi di consegna, al non rispetto degli standard di progetto, all’aumento dei costi, a inconvenienti di tipo tecnico nell’opera e al mancato completamento dell’opera.
La sussistenza di tale rischio non è tuttavia sufficiente ai fini della qualificazione del contratto come concessione dal momento che il rischio di costruzione è tipico anche dell’appalto di lavori. Affinché si configuri una concessione è necessario, dunque, che all’operatore economico siano trasferiti ulteriori rischi dal lato dell’offerta relativi anche alla fase di gestione dell’opera stessa.
Nelle concessioni “calde” e “tiepide” il rischio dal lato dell’offerta si identifica nel rischio per il concessionario di non riuscire ad offrire il servizio in qualità e quantità corrispondente alla domanda di mercato.
Pertanto, con riferimento alle concessioni aventi ad oggetto lavori, il rischio di costruzione si accompagnerà al rischio predetto (si richiama l’esempio, già citato, della concessione avente ad oggetto la costruzione e la gestione di un’autostrada).
Invece, nelle concessioni “fredde”, in cui la prestazione è erogata dal concessionario a favore della stessa amministrazione, il rischio dal lato dell’offerta è rappresentato dal c.d. “rischio di disponibilità”, vale a dire il rischio legato alla capacità di erogare le prestazioni contrattuali pattuite, sia per volume che per standard di qualità previsti (c.d. lack of perfomance).
Tale rischio si configura quando la corresponsione del corrispettivo da parte dell’amministrazione (c.d. canone di uso o disponibilità) sia subordinata all’effettiva messa a disposizione dell’opera o all’erogazione del servizio da parte dell’operatore prevedendo la riduzione o l’azzeramento del medesimo nell’ipotesi di ridotta o assente disponibilità, in applicazione del principio “take-and-pay”.
Ciò avviene nell’ipotesi in cui sia previsto contrattualmente, ad esempio, un sistema del tipo “incentives/penalties” che può declinarsi nella previsione di un sistema di penali ad applicazione automatica mentre è da escludere nell’ipotesi in cui all’operatore sia garantito un canone invariabile che prescinda dall’effettiva disponibilità dell’opera o dall’erogazione del servizio[11].
In ogni caso, costituiscono un rischio operativo rilevante ai fini della qualificazione del rapporto come concessione i soli rischi “esterni”, vale a dire, come chiarito dalla direttiva concessioni del 2014, i rischi che si pongono “al di fuori del controllo delle parti”. Per contro, non rilevano, poiché insiti in ogni contratto pubblico, i c.d. rischi “interni”, ossia i rischi legati alla malagestione dell’opera o del servizio, agli inadempimenti contrattuali del concessionario o anche al verificarsi di cause di forza maggiore.
Ai sensi dell’art. 177, comma 3, del nuovo codice, infatti, “il rischio operativo, rilevante ai fini della qualificazione dell’operazione economica come concessione, è quello che deriva da fattori eccezionali non prevedibili e non imputabili alle parti. Non rilevano rischi connessi a cattiva gestione, a inadempimenti contrattuali dell’operatore economico o a cause di forza maggiore”.
Da quanto esposto, emerge che si deve verificare, caso per caso, se il rischio sia stato effettivamente trasferito all’operatore economico mediante un attento esame del regolamento contrattuale e delle clausole previste. È, infatti, possibile che il rischio apparentemente trasferito possa essere escluso di fatto attraverso la previsione della corresponsione di indennizzi o di rimborsi dei finanziamenti o delle spese a favore dell’operatore ovvero mediante clausole che assicurino al medesimo un guadagno minimo pari o superiore agli investimenti effettuati.
La Corte di Giustizia ha chiarito che all’operatore deve essere, in particolare, trasferita la maggior parte dell’alea legata alla gestione dell’opera o del servizio o per lo meno una porzione “significativa” della stessa.
Sul punto, il nuovo codice, all’art. 177, comma 2, specifica che “la parte del rischio trasferita al concessionario deve comportare una effettiva esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile”.
Al fine di garantire l’effettivo trasferimento del rischio, è stata posta una disciplina specifica con riferimento alle concessioni “tiepide” relative, come già osservato, a opere o servizi non in grado di produrre ricavi sufficienti per remunerare l’operatore (es. servizi di trasporto pubblico) e che richiedono, pertanto, una parte di contribuzione pubblica che può assumere varie forme[12].
Con riguardo a tali tipi di concessione il previgente codice del 2016 prevedeva che la copertura parziale dell’investimento ad opera della parte pubblica non potesse superare il limite massimo del 49%.
Tale limite legale, tuttavia, non è stato riproposto nel nuovo codice che sembra introdurre sul punto una disciplina di rilevanza meramente contabile e che non incide dunque sulla qualificazione del contratto come concessione.
Tale aspetto costituisce un’importante novità che potrebbe avallare la tesi volta a “ridimensionare”, con una valenza di portata generale, la rilevanza del rischio di gestione ammettendo che sul concessionario possa essere trasferito anche un rischio ridotto.
- I principi euro-unitari in tema di concessioni: tra mercato unico e concorrenza (cenni).
La direttiva 2014/23/Ue mira a costituire un sistema delle concessioni uniforme, eliminando le differenze tra le discipline nazionali che possano produrre distorsioni nel mercato interno e promuovendo un modello omogeneo.
Pertanto, nel rinnovo delle concessioni scadute o nell’attribuzione di nuove, si devono osservare modalità che garantiscano la concorrenza mediante procedure competitive, favorendo la qualità delle prestazioni e i principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza.
I ricavi di gestione devono provenire dalla vendita dei servizi; la parte privata non può essere sollevata dalle perdite mediante la garanzia di un introito minimo pari agli investimenti e ai costi; di conseguenza, a essa è trasferito il rischio di mercato, con obbligo di internalizzare l’eventualità di non coprire gli investimenti e i costi[13].
Tale rischio non deve essere minimo, trascurabile o puramente nominale.
La durata della concessione deve essere limitata al tempo necessario per il recupero degli investimenti unitamente a un ritorno sul capitale; pertanto, le concessioni di durata lunga non appaiono coerenti con il diritto europeo quando siano preclusive all’accesso al mercato. Tali principi sono stati trasfusi nel nuovo codice dei contratti
- La problematica dell’inefficienza derivante dalla pluralità dei modelli tariffari vigenti.
Secondo l’Autorità di regolazione dei trasporti, le concessioni in essere – per la quasi totalità assentite da decenni e senza l’esperimento di procedure concorsuali – sono il risultato di scelte effettuate con un’ottica non attenta all’efficienza del settore e delle gestioni. “Ne risulta un quadro disomogeneo e non sufficientemente trasparente sotto il profilo dei criteri, dei modelli tariffari applicati e dei sistemi di ammortamento degli investimenti”; “esistono ben sei differenti regimi tariffari e, dal punto di vista dell’ampiezza delle tratte, esse variano da poche decine di chilometri, a una o più centinaia”, fino ai quasi tremila gestiti dalla principale concessionaria.
Il Ministero delle infrastrutture ha ritenuto che le concessioni siano regolate da atti redatti in base alla l. n. 296/2006; peraltro, le convenzioni originarie, secondo tale ricostruzione, deriverebbero da affidamenti diretti degli anni Settanta, quando non sussisteva l’obbligo del ricorso alle procedure di gara.
Con la l. 23 dicembre 1992, n. 498, fu disposta la revisione dei rapporti con atti novativi; pertanto, fra il 1997 e il 2000, si è proceduto in tal senso, recependo anche la direttiva n. 283/1998 concernente, tra l’altro, i criteri di risoluzione dei contenziosi mediante la rimodulazione dei termini concessori in favore delle concessionarie. Poiché i piani economico-finanziari sono soggetti a revisione quinquennale, in occasione degli aggiornamenti, sono state recepite le variazioni sulla regolazione tariffaria; ciò ha comportato una sovrapposizione di regimi. L’amministrazione si è limitata a evidenziare l’esigenza di una razionalizzazione del sistema nell’audizione del 7 settembre 2016 all’VIII Commissione della Camera dei deputati.
Anche per il Ministero dell’economia i regimi tariffari sono stati disciplinati nell’ambito delle convenzioni approvate per legge, con la conseguenza che, per poterli uniformare, sono necessari interventi normativi.
In definitiva, poiché i regimi sono previsti normativamente e disciplinati convenzionalmente, secondo la parte pubblica non si è potuta operare una modifica contrattuale; le stesse amministrazioni si sono limitate ad auspicare una disposizione che introduca elementi di semplificazione degli adeguamenti tariffari.
Peraltro, l’Autorità di regolazione dei trasporti, esprimendosi su schemi di concessione per il riaffidamento di tratte scadute, ha proposto un ulteriore schema tariffario. La previsione di una tariffa unitaria media di periodo costituita dalla somma di due componenti – la componente tariffaria di gestione, che permette il recupero dei costi operativi, comprese le manutenzioni ordinarie e i costi di capitale (ammortamento e remunerazione) concernenti gli asset di funzionamento della concessionaria, non reversibili al termine del rapporto, e la componente tariffaria di costruzione, che permette il recupero dei costi di capitale (ammortamento e remunerazione) concernenti gli asset reversibili al termine del rapporto, compresi l’onere di subentro da corrispondere all’uscente e le opere realizzate in dipendenza dei piani di investimento oggetto di concessione – consente la comparazione tra i costi delle gestioni, rendendo agevole la previsione di un meccanismo automatico di adeguamento tariffario che, oltre al recupero degli investimenti non realizzati, permette, alla scadenza, di evitare che le concessionarie in proroga, cui spetterebbe esclusivamente il ristorno dei costi di gestione, possano beneficiare di tariffe che, per effetto dei piani iniziali e degli aggiornamenti, incorporano anche quote di investimenti realizzati e ammortizzati. Il metodo può essere utilizzato per valutare la rispondenza a criteri di efficienza degli adeguamenti tariffari annuali.
Le problematiche esposte potrebbero trovare soluzione con nuovi affidamenti. In tal senso, da tempo l’Autorità garante della concorrenza e del mercato sostiene il ricorso alle gare e la fine delle proroghe; peraltro, lo stesso art. 43 della nuova direttiva sulle concessioni disciplinante i casi in cui è possibile la modifica senza una nuova procedura di aggiudicazione presuppone che, a monte, la concessione sia stata comunque affidata con gara.
Sull’estensione delle concessioni l’Autorità ha evidenziato la necessità di considerare la natura degli investimenti rispetto alla durata assegnata con la proroga, in modo che questa sia adeguata rispetto agli obiettivi; per le modifiche alle concessioni e alla compatibilità con la disciplina degli aiuti di Stato vanno valutati gli “investimenti rispetto al valore della concessione iniziale e all’eventuale modifica sostanziale del rapporto”.
- La rivisitazione delle tariffe, il principio di leale collaborazione e l’aggiornamento del PEF.
Nei settori regolati, le tariffe vengono riviste periodicamente per essere riallineate ai costi unitari del gestore; tuttavia, per le concessioni autostradali, queste sono state adeguate, in passato, privilegiando gli investimenti e l’inflazione, con minor attenzione per i costi; inoltre, la revisione del piano finanziario può essere richiesta per un nuovo piano di investimenti, ma la facoltà non è prevista per il concedente[14].
La maggior parte delle concessionarie ha richiesto il riequilibrio del piano economico-finanziario in base alla delib. Cipe n. 39/2007. All’inizio di ogni periodo regolatorio, su proposta della parte privata, è definito un piano economico-finanziario con incrementi tali da assicurare, su previsioni di costi e ricavi, una congrua remunerazione sul capitale investito; la convenzione con Autostrade per l’Italia ha previsto incrementi tariffari senza relazione con il livello di profitto.
Secondo il Ministero delle infrastrutture, i regimi tariffari prevedono anche un efficientamento dei costi operativi. Pertanto, le tariffe sono annualmente adeguate, tenendo conto di livelli di produttività predeterminati per ciascun periodo regolatorio. Per le concessionarie che operano in regime di riequilibrio ex delib. Cipe n. 39/2007, gli obiettivi di efficientamento dei costi sono predeterminati alla predisposizione dei piani finanziari; altre concessionarie recepiscono le disposizioni introdotte con il comma 5 del d.l. n. 185/2008, che prevede un sistema di tariffazione semplificato che include un coefficiente di efficientamento dei costi (parametro alfa), rientrando gli eventuali maggiori costi nella sfera di rischio, non concorrendo alla tariffa.
Secondo Aiscat, il “livello medio delle tariffe attualmente applicate sulla rete italiana risulta essere in linea, e nella maggior parte dei casi inferiore, rispetto al livello medio di quelle applicate nei principali paesi europei con rete prevalentemente a pedaggio, Spagna, Francia e Portogallo. (…) Le tariffe sono storicamente aumentate in misura leggermente superiore al tasso d’inflazione, ma in linea con le variazioni riconosciute in altri settori regolati italiani. (…) Inoltre, un confronto della redditività, al lordo delle tasse, del capitale investito delle concessionarie rispetto a un campione di società operative in settori con differente intensità di capitale mostra che i rendimenti conseguiti dalle concessionarie sono, di fatto, in linea, se non inferiori, rispetto a quelli delle altre società. (…) Margini elevati in percentuale sui ricavi si traducono in una redditività sul capitale investito di mercato, nel caso delle concessionarie autostradali e delle altre società infrastrutturali: l’elevato capitale investito genera un ammontare di ricavi i cui margini sono sufficienti unicamente a remunerare i costi, inclusivi di una redditività di mercato”.
Il nuovo sistema regolatorio dell’Autorità di regolazione dei trasporti esplicita, sulla base di calcoli econometrici, i recuperi di efficienza imposti[15].
Il principio della leale collaborazione dovrebbe essere a fondamento dei rapporti tra concedente e concessionarie, essendo la concessione volta a tutelare, anzitutto, il superiore interesse pubblico all’efficiente gestione della rete autostradale.
Al contrario, il Ministero delle infrastrutture rappresenta una rilevante litigiosità con le concessionarie, che, dal 2012, dopo il passaggio delle competenze, si è inasprita, arrivandosi a 401 contenziosi pendenti: avverso l’adeguamento delle tariffe, contro i provvedimenti di approvazione dei progetti per mancato riconoscimento di investimenti e avverso i provvedimenti sanzionatori irrogati; si aggiungono quelli in materia di espropriazioni, lavori, subconcessioni, delibere Cipe (ad oggi, denominatyo CIPESS) , affidamenti e ribassi. Ciò sottrae tempo all’attività più propria di vigilanza in capo all’Amministrazione oltre a penalizzare il regolare funzionamento delle strutture ministeriali che auspicano un’evoluzione dei rapporti improntata al principio di leale partecipazione e tutela dell’affidamento.
Sulle iniziative per limitare la litigiosità oltre la resistenza in giudizio - quali la possibile revoca delle concessioni, la mancata proroga, la definizione di clausole contrattuali più chiare - il Ministero riferisce di aver imposto, in sede di stipula degli atti aggiuntivi, la clausola con la quale le concessionarie si obbligano a rinunciare ai contenziosi all’atto della sottoscrizione. Il Cipe (attualmente, denominato CIPESS) “in occasione dei procedimenti previsti per l’aggiornamento dei piani-economico finanziari, analogamente ai pareri formulati in materia di contratti di programma relativi agli aeroporti, ha espresso il proprio avviso con delibere del 2017 (nn. 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22 e 23), raccomandando al Ministero concedente di verificare la convenienza della previsione riguardante la rinuncia al contenzioso al fine di proteggere gli interessi patrimoniali pubblici e per porre fine a contenziosi che avrebbero prolungato lo stato di incertezza e potrebbero produrre oneri per l’erario. Il CIPESS, nell’ambito delle funzioni di indirizzo, di regolazione e di tutela della finanza pubblica, ha ritenuto che mediante tala clausola la parte pubblica avrebbe beneficiato della rinuncia al contenzioso avviato dalle concessionarie per i ritardi nell’approvazione degli aggiornamenti ai piani economico-finanziari, fermo restando che, in sede di sottoscrizione dell’atto aggiuntivo alla convenzione, le parti avrebbero individuato gli specifici contenziosi oggetto di rinuncia”.
Il Ministero sottolinea la strumentalità della maggioranza dei contenziosi, frutto di un’elevata propensione al contrasto, alimentata da questioni interpretative derivanti dalla sovrapposizione normativa; l’entità dei ricorsi, sempre per il Ministero, è anche connessa all’incisività dell’attività di vigilanza e controllo espletata. Al contrario, secondo Aiscat, per le principali tematiche di contenzioso, quali la mancata definizione del piano economico-finanziario - che dovrebbe essere aggiornato ogni cinque anni e senza il quale si è nella oggettiva impossibilità di operare - e la materia tariffaria, molte pronunce giurisdizionali hanno accolto i ricorsi, ritenendo legittime, e, quindi, non strumentali, le richieste delle concessionarie. La mole della litigiosità è causata, per Aiscat, da contenziosi in cui il Ministero si fa parte attiva a seguito di richieste provenienti da terzi e dall’attività di controllo svolta che porta a interpretazioni difformi sull’applicazione di taluni aspetti convenzionali[16].
Il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica evidenzia che la normativa in materia di determinazione della tariffa “non esclude tassativamente la possibilità di considerare le spese per contenzioso tra i costi operativi riconoscibili. Pertanto, tale situazione non costituisce un deterrente, di per sé, efficace al contenimento della litigation”.
Di seguito, sono analizzate alcune tipologie ricorrenti di contenzioso.
- a) Ricorsi avverso la mancata definizione del piano economico-finanziario nei termini previsti.
Il contenzioso trae origine dall’iter per l’approvazione del piano; l’art. 43, comma 1, del d.l. 6 dicembre 2001, n. 201, prevede che “gli aggiornamenti o le revisioni delle convenzioni, laddove comportino variazioni o modificazioni al piano degli investimenti o ad aspetti di carattere regolatorio a tutela della finanza pubblica, sono sottoposti al parere del Cipe, sentito il Nars”; la revisione del piano economico-finanziario delinea uno schema di decisione che coinvolge vari soggetti, titolari di interessi pubblici differenziati, che termina con l’adozione del decreto interministeriale di approvazione. Per il Ministero, risulta impossibile perfezionare il procedimento entro i termini, per la necessità di coinvolgere più soggetti; ciò ha esposto il concedente al rischio di condanne per ottenere la declaratoria dell’obbligo di provvedere.
- b) Ricorsi in materia tariffaria.
Il Ministero ha disposto, per la maggior parte degli atti gravati, la non corresponsione dell’incremento tariffario, subordinando i recuperi all’approvazione del piano in itinere. Qualora l’amministrazione accordasse un adeguamento sulla base del piano scaduto, emergerebbe la necessità di predisporne un altro durante l’anno, all’approvazione del nuovo piano. Pertanto, i decreti di aggiornamento si sostanziano in un rinvio dell’applicazione dell’adeguamento tariffario, facendo salvo il diritto al recupero dei minori ricavi conseguiti a seguito dello slittamento temporale.
Nell’ipotesi di un riconoscimento di un incremento relativo a un piano scaduto ne potrebbe scaturire un non giustificato beneficio economico per le concessionarie a scapito dell’utenza. Sotto il profilo finanziario, i provvedimenti adottati sono neutrali, non arrecando pregiudizio alla parte privata, poiché la minor tariffa produce un credito di poste figurative recuperato negli anni seguenti, maggiorato di interessi.
- c) Ricorsi relativi all’approvazione delle varianti.
La maggior parte dei ricorsi è per il Ministero pretestuosa essendo, prevalentemente, basata sul fatto che le concessionarie non accettano i tagli dei prezzi operati e il diniego del riconoscimento a investimento dei maggiori costi, motivato dall’errata allocazione del rischio di costruzione, non in linea con quanto previsto dal punto 7.1 della delib. Cipe n. 39/2007.
- d) Ricorsi relativi ai rapporti con i subconcessionari.
Questi originano, prevalentemente, dalle comunicazioni con cui il concedente autorizza a rinegoziare le royalty con i subconcessionari delle aree di servizio, imponendo che la misura del canone subconcessorio resti invariato. In tali ipotesi, la misura da parte del Ministero è ritenuta necessaria per evitare un’impropria riduzione del canone, con profili di danno all’erario[17].
- e) Ricorsi per espropri.
Sono proposti da privati per illegittimità del procedimento posto in essere dalle concessionarie. Il Ministero solleva l’eccezione di difetto di legittimazione passiva, al fine di essere estromesso dai giudizi.
- f) Ricorsi avverso i provvedimenti sanzionatori.
Le concessionarie lamentano la violazione del principio di tipicità delle sanzioni irrogate per la genericità degli obblighi contestati e la non applicazione della l. n. 241/1990 al procedimento sanzionatorio. Sul primo aspetto, il Ministero rileva come l’obbligazione di gestione riguardi tutti gli aspetti tecnici e finanziari dell’opera. In tal senso, l’Unione europea distingue la concessione di lavori dall’appalto pubblico, identificando la prima come un “contratto che presenta le stesse caratteristiche degli appalti pubblici di lavori, a eccezione del fatto che la controprestazione consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo”; il diritto di gestione, pertanto, consente di percepire i proventi dall’utenza, ma comporta il trasferimento di un obbligo, che involge tutti gli aspetti tecnici, finanziari e di gestione, per cui ai privati spetta effettuare gli investimenti necessari affinché la strada sia in buone condizioni, assicurando un servizio di qualità almeno costante e tendenzialmente in miglioramento. Di conseguenza, le convenzioni non possono dettagliare tale obbligo, poiché la dimensione economica, la durata del rapporto, le sopravvenienze normative e gli innumerevoli accadimenti che possono verificarsi nel corso dell’esecuzione del contratto rendono impossibile disciplinare contrattualmente, a priori, gli adempimenti per la regolare fruizione del servizio. Sulla mancanza dell’applicazione della l. n. 241/1990, il Ministero rileva che, ai sensi dell’allegato N alla convenzione unica, i procedimenti sanzionatori sono disciplinati dalla l. n. 689/1981; pertanto, la l. n. 241/1990 non è applicabile al procedimento di irrogazione di sanzioni amministrative182.
- g) Ricorsi contro gli affidamenti.
Le concessionarie censurano l’assenza, all’interno della convenzione unica, di una disciplina specifica delle modalità di determinazione del ribasso in relazione agli affidamenti infragruppo, nonché le modalità di calcolo del ribasso. Il Ministero rileva che tali ricorsi si sono conclusi con un’alta percentuale di decisioni a sé favorevoli, con il riconoscimento dell’obbligo di applicazione dei principi di correttezza previsti dall’art. 1175 del codice civile. Peraltro, il Ministero lamenta che le continue modifiche normative sulle percentuali di affidamenti infragruppo non hanno agevolato l’attività di vigilanza.
- L’equilibrio economico e finanziario.
Il legislatore nazionale ha posto una disciplina specifica volta ad assicurare, per ragioni di interesse generale, la conservazione dell’equilibrio economico e finanziario dell’operazione realizzata attraverso lo strumento concessorio. Con la concessione si instaura, infatti, un rapporto di lunga durata tra la parte pubblica e la parte privata che potrebbe essere interessato da eventi che potrebbero alterare l’equilibrio contrattuale originario.
Una disciplina di tal tipo non è invece rinvenibile a livello europeo dal momento che il rischio dell’alterazione dell’equilibrio contrattuale è concepito come insito nel rischio concessorio stesso.
Per tale ragione alcuni autori hanno affermato che il rischio configurato dal diritto eurounitario potrebbe essere definito come “estremo” a fronte del rischio “moderato” delineato dal legislatore interno. In altri termini, la disciplina interna è volta ad evitare che il rischio concessorio sia spinto fino all’azzardo, incentrandosi sulla finalità di assicurare la “serietà economica” dell’operazione e di garantire la realizzazione dell’opera e/o l’erogazione del servizio.
In particolare, ai sensi dell’art. 177, comma 5, del nuovo codice “l’assetto di interessi dedotto nel contratto di concessione deve garantire la conservazione dell’equilibrio economico-finanziario, intendendosi per tale la contemporanea presenza delle condizioni di convenienza economica e sostenibilità finanziaria. L’equilibrio economico-finanziario sussiste quando i ricavi attesi del progetto sono in grado di coprire i costi operativi e i costi di investimento, di remunerare e rimborsare il capitale di debito e di remunerare il capitale di rischio”. Per “convenienza economica” si intende la capacità del progetto di generare un reddito che remuneri in maniera adeguata l’investimento effettuato e per “sostenibilità finanziaria” la capacità del progetto medesimo di generare flussi di cassa sufficienti a garantire il rimborso del finanziamento[18].
La disciplina normativa prevede la predisposizione di un “piano economico-finanziario” e contiene diverse previsioni puntuali volte ad assicurare la serietà economica dell’operazione. Assai significativa appare, ad esempio, la previsione di cui all’art. 182, comma 5, del codice in forza della quale “i bandi e i relativi allegati, ivi compresi, a seconda dei casi, lo schema di contratto e il piano economico-finanziario, sono definiti in modo da assicurare adeguati livelli di bancabilità, intendendosi per tali la reperibilità sul mercato finanziario di risorse proporzionate ai fabbisogni, la sostenibilità di tali fonti e la congrua redditività del capitale investito. I bandi possono anche richiedere che le offerte siano corredate da manifestazioni di interesse dell’istituto finanziatore”.
- La revisione dell’equilibrio contrattuale.
Il nuovo codice dei contratti pubblici, al fine di assicurare la conservazione dell’equilibrio contrattuale, prevede, inoltre, un rimedio estraneo alla disciplina posta a livello europeo, vale a dire l’istituto della “revisione”, espressione del più generale principio fissato all’art. 9 di “conservazione dell’equilibrio contrattuale”. All’art. 192 del codice è, infatti, contemplata la possibilità per il concessionario di richiedere la revisione del contratto qualora si verifichino “eventi straordinari sopravvenuti e imprevedibili” e “non imputabili al concessionario” medesimo che incidano in modo significativo sull’equilibrio economico finanziario dell’operazione, nella misura strettamente necessaria a ricondurlo ai livelli di equilibrio e di traslazione del rischio pattuiti al momento della conclusione del contratto. Per espressa previsione legislativa, la richiesta di revisione può essere giustificata, ad esempio, da un mutamento della normativa o della regolazione di riferimento (c.d. rischio regolatorio).
Pertanto, a fronte del diritto di chiedere la revisione del contratto riconosciuto al concessionario, è configurabile in capo all’amministrazione concedente un obbligo legale di rinegoziazione.
Tale diritto del concessionario, tuttavia, non è pienamente protetto dal momento che nell’ipotesi in cui con la rinegoziazione non sia raggiunto un accordo, alle parti è riconosciuto soltanto il diritto di recedere dal contratto in base a quanto previsto dal comma 4 dell’art. 192 del codice. Una tutela più intensa e piena è invece riconosciuta dal codice per la medesima circostanza con riferimento ai contratti di appalto: l’art. 120, comma 8, del codice stabilisce difatti che “nel caso in cui non si pervenga al nuovo accordo entro un termine ragionevole, la parte svantaggiata può agire in giudizio per ottenere l’adeguamento del contratto all’equilibrio originario”. In tale caso, quindi, più che un obbligo di rinegoziazione si configura in capo alla stazione appaltante un vero e proprio obbligo di contrarre.
Il rimedio della revisione previsto dal nuovo codice dei contratti pubblici è di tipo “manutentivo” e, seppur non offra alla parte concessionaria una tutela piena, si rivela particolarmente utile nel contesto di operazioni di lunga durata e con investimenti non immediatamente reversibili in cui la parte medesima potrebbe non avere interesse alla risoluzione del rapporto.
L’interesse del concessionario non sarebbe soddisfatto attraverso il ricorso ai rimedi ordinari approntanti dal codice civile per far fronte a vizi del sinallagma sopravvenuti, posto che tali rimedi offrono una tutela prettamente caducatoria (si pensi alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta di cui all’art. 1467 c.c. o per impossibilità sopravvenuta della prestazione di cui agli art. 1467 ss. c.c.).
La questione appare di notevole interesse anche sul piano sistematico.
Tradizionalmente ci si interroga sulla possibilità di individuare, in assenza di puntuali previsioni legislative o contrattuali, un diritto di chiedere, anziché la risoluzione, la rinegoziazione dell’accordo a fronte di una sopravvenienza che ne alteri l’equilibrio.
Alcuni autori hanno ammesso tale possibilità sostenendo che l’obbligo di rinegoziazione discenderebbe dal dovere di buona fede oggettiva o correttezza di cui all’art. 1375 c.c.
. Tale obbligo imporrebbe alle parti di avviare e condurre in buona fede le trattative che potrebbero tuttavia non raggiungere alcun esito.
Parte della dottrina e della giurisprudenza ha affermato che nell’ipotesi di violazione dell’obbligo di rinegoziazione, come nel caso in cui la parte avvantaggiata si rifiuti di rinegoziare o non si conformi al canone di correttezza nelle trattative, sarebbe persino ammissibile un intervento del giudice volto ad adeguare il contratto all’equilibrio originario. In particolare, viene riconosciuta la possibilità per il giudice di “eterointegrare” il regolamento contrattuale seguendo il canone della buonafede e, dunque, prevedendo una composizione degli interessi che le parti stesse avrebbero adottato se avessero trattato secondo correttezza. Viene prospettato, pertanto, un rimedio non dissimile nella sostanza da quello previsto dall’art. 120 del nuovo codice dei contratti pubblici con riferimento agli appalti.
La tesi suesposta è stata tuttavia confutata da altra parte della dottrina che ha evidenziato che il canone della buonafede o correttezza svolge di regola una mera funzione “supplettiva” rispetto a lacune del regolamento contrattuale e non interviene in funzione “correttiva” imponendosi e sostituendosi ad un eventuale regolamento difforme frutto della volontà delle parti. Un intervento del giudice caratterizzato da tale eccezionale invasività non potrebbe dunque prescindere da una previsione puntuale, legislativa o contrattuale.
- Riflessioni conclusive alla luce nuova Legge in tema di Concorrenza: sulla tesi della proroga quale modifica del contenuto sostanziale della concessione.
Giova rilevare, a titolo di completezza, che sulla scorta della nuova legge annuale in tema di concorrenza, la durata delle concessioni affidate sarà determinata dall'ente concedente in funzione dei servizi e dei lavori richiesti al concessionario; si precisa che, ad esclusione delle concessioni in itinere, essa non può superare quindici anni. Il termine di cui al primo periodo può essere derogato solo nel caso in cui il programma dei lavori da affidare in concessione non consenta il recupero degli investimenti effettuati e il ritorno del capitale investito nel termine di quindici anni, tenuto altresì conto del tempo necessario ad ammortizzare le eventuali somme corrisposte a titolo di valore di subentro, determinato secondo i parametri stabiliti dall'ART. Al termine della concessione, l'ente concedente procede a un nuovo affidamento ai sensi dell'articolo 3. Resta fermo quanto previsto dall'articolo 178, comma 5, del codice dei contratti pubblici.
Tale disposizione deve essere interpretata, tuttavia, in combinato disposto con l’art. 189 del nuovo codice appalti in tema di “Modifica di contratti durante il periodo di efficacia”.
Le concessioni possono essere modificate senza una nuova procedura di aggiudicazione della concessione nei casi seguenti:
- se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi purché riferite agli indici sintetici di cui all’articolo 60, comma 3; tali clausole fissano la portata e la natura di eventuali modifiche, nonché le condizioni alle quali possono essere impiegate; esse non apportano modifiche che altererebbero la natura generale della concessione;
- per lavori o servizi supplementari da parte del concessionario originario che si sono resi necessari e non erano inclusi nella concessione iniziale, quando un cambiamento di concessionario:
1) risulti impraticabile per motivi economici o tecnici, quali il rispetto dei requisiti di intercambiabilità o interoperatività tra apparecchiature, servizi o impianti esistenti forniti nell’ambito della concessione iniziale;
2) comporti per l’ente concedente notevoli inconvenienti o una sostanziale duplicazione dei costi;
- negli ulteriori casi in cui siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
1) la necessità di modifica è determinata da circostanze che un ente concedente diligente non ha potuto prevedere;
2) la modifica non altera la natura generale della concessione;
3) nel caso di concessioni aggiudicate dall’ente concedente allo scopo di svolgere un’attività diversa da quelle di cui all’allegato II alla direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, l’eventuale aumento di valore non deve eccedere il 50 per cento del valore della concessione iniziale. In caso di più modifiche successive, tale limitazione si applica al valore di ciascuna modifica. Tali modifiche successive non sono intese ad aggirare le disposizioni della presente Parte;
- se un nuovo concessionario sostituisce quello a cui l’ente concedente aveva inizialmente aggiudicato la concessione a causa di una delle seguenti circostanze:
1) la presenza di una clausola di revisione inequivocabile in conformità della lettera a);
2) al concessionario iniziale succeda, in via universale o parziale, a seguito di ristrutturazioni societarie, comprese rilevazioni, fusioni, acquisizione o insolvenza, un altro operatore economico che soddisfi i criteri di selezione qualitativa stabiliti inizialmente, purché ciò non implichi altre modifiche sostanziali al contratto e non sia finalizzato ad eludere l’applicazione della direttiva 2014/23/UE;
3) nel caso in cui l’ente concedente si assuma gli obblighi del concessionario principale nei confronti dei suoi subappaltatori, ove tale possibilità sia prevista dalla legislazione nazionale[19];
4) se le modifiche, a prescindere dal loro valore, non sono sostanziali.
Le concessioni possono parimenti essere modificate senza necessità di una nuova procedura di aggiudicazione se il valore della modifica è inferiore a entrambi i valori seguenti:
-la soglia di cui all’articolo 8 della direttiva 2014/23/UE;
- il 10 per cento del valore della concessione iniziale.
Le modifiche di cui al comma 2 non possono alterare la natura generale della concessione.
In caso di più modifiche successive, il valore è accertato sulla base del valore complessivo netto delle successive modifiche.
La modifica (o la proroga) di una concessione durante il periodo della sua validità è considerata sostanziale se la natura della concessione muta nella sua essenza rispetto a quella inizialmente conclusa. In ogni caso, una modifica è considerata sostanziale se una o più delle seguenti condizioni sono soddisfatte:
- la modifica introduce condizioni che, se fossero state contenute nella procedura iniziale di aggiudicazione della concessione, avrebbero consentito l’ammissione di candidati diversi da quelli inizialmente selezionati o l’accettazione di un’offerta diversa da quella inizialmente accettata, oppure avrebbero attirato ulteriori partecipanti alla procedura di aggiudicazione della concessione;
- la modifica cambia l’equilibrio economico della concessione a favore del concessionario in modo non previsto dalla concessione iniziale;
- la modifica estende notevolmente l’ambito di applicazione della concessione;
- se un nuovo concessionario sostituisce quello cui l’ente concedente aveva inizialmente aggiudicato la concessione in casi diversi da quelli previsti dal comma 1, lettera d).
In sostanza, per verificare la legittimità del regime di proroga, occorrerà vagliare il caso concreto.
Dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea risulta parimenti che «l’ente aggiudicatore non può, in linea di principio, modificare, nel corso della procedura di aggiudicazione, la portata delle condizioni essenziali del contratto, tra le quali figurano le specifiche tecniche e i criteri di aggiudicazione, e sulle quali gli operatori economici interessati si sono legittimamente basati per prendere la decisione di preparare la presentazione di un’offerta o, al contrario, di rinunciare a partecipare alla procedura di aggiudicazione dell’appalto considerato» (cfr. Corte Giust., sent. 5-04-2017, C-298/15, Borta, punto 70).
Dunque, secondo i precedenti della CGUE le modifiche sostanziali a un contratto pubblico, intese come quelle modifiche che determinano caratteristiche sostanzialmente diverse al contratto iniziale, non possono essere apportate senza l’indizione di una nuova procedura di evidenza pubblica. In tal senso, a rendere ancor più chiaro il concetto, contribuisce un altro pronunciamento della CGUE nel quale si afferma come «[a]l fine di assicurare la trasparenza delle procedure e la parità di trattamento degli offerenti, le modifiche sostanziali apportate alle disposizioni essenziali di un contratto di concessione di servizi costituiscono una nuova aggiudicazione di appalto, quando presentino caratteristiche sostanzialmente diverse rispetto a quelle del contratto di concessione iniziale e siano, di conseguenza, atte a dimostrare la volontà delle parti di rinegoziare i termini essenziali di tale appalto» (cfr. Corte Giust., sent. 13-10-2010, C91/08, Wall, punto 37). E non vi è dubbio che tra gli elementi la cui modifica è suscettibile di essere definita come sostanziale vi rientri anche la durata contrattuale: un’estensione del rapporto contrattuale determina infatti effetti anche in ordine all’importo del contratto (nei contratti di durata) e dunque alla remunerazione dell’operatore economico. Ed altresì non può sottacersi come la durata del contratto costituisca innegabilmente una condizione essenziale sulla quale l’operatore economico fonda le proprie determinazioni in vista della presentazione dell’offerta in sede di gara. Del resto anche la stessa direttiva 2004/18/UE limitava i casi di aggiudicazione di un contratto, senza previa espletazione di una procedura di gara, alle sole ipotesi disciplinate dall’art. 31 (c.d. procedura negoziata senza pubblicazione di un bando di gara), ovvero, per gli appalti pubblici di lavori, forniture e di servizi nelle seguenti fattispecie: «a) qualora non sia stata presentata alcuna offerta o alcuna offerta appropriata o non sia stata depositata alcuna candidatura in esito all’esperimento di una procedura aperta o ristretta, purché le condizioni iniziali dell'appalto non siano sostanzialmente modificate e purché una relazione sia trasmessa alla Commissione a richiesta di quest’ultima; b) qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica ovvero attinenti alla tutela di diritti esclusivi, l’appalto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato; c) nella misura strettamente necessaria, quando l’estrema urgenza, risultante da eventi imprevedibili per le amministrazioni aggiudicatrici in questione, non è compatibile con i termini imposti dalle procedure aperte, ristrette o negoziate con pubblicazione di un bando di gara.
Le circostanze invocate per giustificare l’estrema urgenza non devono essere in alcun caso imputabili alle amministrazioni aggiudicatrici».
I presupposti e le condizioni di base che determinano l’equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione, da richiamare nelle premesse del contratto, ne costituiscono parte integrante.
Le variazioni apportate dalla stazione appaltante a detti presupposti o condizioni di base, nonché le norme legislative e regolamentari che stabiliscano nuovi meccanismi tariffari o che comunque incidono sull’equilibrio del piano economico finanziario, previa verifica del CIPESS sentito il Nucleo di consulenza per l’attuazione delle linee guida per la regolazione dei servizi di pubblica utilità (NARS), comportano la sua necessaria revisione, da attuare mediante rideterminazione delle nuove condizioni di equilibrio, anche tramite la proroga del termine di scadenza delle concessioni.
In mancanza della predetta revisione il concessionario può recedere dal contratto.
Nel caso in cui le variazioni apportate o le nuove condizioni introdotte risultino più favorevoli delle precedenti per il concessionario, la revisione del piano dovrà essere effettuata a favore del concedente».
Anche nella disciplina normativa nazionale, dunque, l’ipotesi di proroga della durata contrattuale era limitata ad una casistica assai circoscritta e connessa esclusivamente ad ipotesi di revisione della concessione per cause legate alle modifiche, da parte della stazione appaltante, dei presupposti o delle condizioni di base dell’equilibrio economico finanziario del rapporto contrattuale[20].
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[1] M. D’ALBERTI, Autorità indipendenti, in Enciclopedia giuridica, IV, Roma, Treccani, 1995; F. MERUSI, Democrazia e Autorità indipendenti, Il Mulino, Bologna, 2000; M. CLARICH, Autorità indipendenti Bilancio e prospettive di un modello, Il Mulino, Bologna, 2005; E. BRUTI LIBERATI, La regolazione indipendente dei mercati. Tecnica, politica e democrazia, Giappichelli, Torino, 2019.
[2] L. SALTARI e A. TONETTI, Origini e trasformazioni della disciplina delle autostrade in Italia, in L. Saltari e A. Tonetti (a cura di), Il regime giuridico delle autostrade. In Italia, in Europa e nelle principali esperienze straniere, Giuffrè, Milano, 2017, p. 14. Per l’influenza del diritto dell’UE sull’intervento nazionale in materia di infrastrutture, S. SCREPANTI, L’intervento pubblico per il sostegno, la promozione e il rilancio degli investimenti in infrastrutture e opere pubbliche, in F. Bassanini, G. Napolitano, e L. Torchia (a cura di), Lo Stato promotore: come cambia l’intervento pubblico nell’economia, Il Mulino, Bologna, 2021, pp. 63 ss.
[3] M. S. GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1977.
[4]M. MIRABELLA, A. ALTIERI, P. M. ZERMAN, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2012; Cfr. O. RANELLETTI, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni amministrative, pt. I, Concetto e natura delle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Giur. it., XLVI, 1984, IV; Id., Capacità e volontà nelle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Riv. it. sc. giur., XVII, 1984, 3; Id., Facoltà create dalle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Riv. it. sc. giur., XIX, 1985. L’Autore riteneva che ogni concessione “che porti con sé degli obblighi pel concessionario” presentasse al contempo due atti amministrativi. La concessione amministrativa, invero, costituendo strumento di rilievo per la gestione della res publica, non rimase indifferente neanche all’evoluzione normativa (che passò, come detto, dalla previsione di strumenti privatistici alla creazione di figure pubblicistiche), poiché influenzata, da un lato, dalle esigenze di autorità, dall’altro, dalla necessità di costruire un ordinamento giuridico indipendente e permanente, nonché in grado di soddisfare appieno le esigenze della collettività. Pur tuttavia, nonostante numerose fossero le teorie che in passato si sono succeduto, le distinzioni tra loro non furono mai realmente nette.
[5] In Italia, la prima definizione legislativa di concessione risale alla l. 11 febbraio 1994, n. 109, in recepimento di quella della direttiva 89/440/CEE; oggi la nozione è definita dall’art. 2, comma 1, lett. c) dell’allegato I.1. del codice dei contratti, d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36. Sull’istituto, tra gli altri: M. D’ALBERTI, Le concessioni amministrative. Aspetti della contrattualità delle pubbliche amministrazioni, Jovene, Napoli, 1981 e B. TONOLETTI, Beni pubblici e concessioni, Cedam, Padova, 2008. 4 .
Così delineata, la concessione autostradale risulta un ibrido tra quella di lavori e quella di servizi: il suo oggetto non collima pienamente né con l’una né con l’altra, consistendo tanto nell’affidamento di lavori per la costruzione di opere quanto nella successiva gestione del servizio di trasporto. Tra gli altri, L. SALTARI, Le concessioni autostradali: un paradigma autonomo?, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2020, 4, pp. 1127-1149, p. 1129.
[6] Il finanziamento tramite pedaggio non ha solo il merito di far pagare il servizio direttamente a chi lo utilizza. Garantisce anche che l'utente riceva un beneficio dall'uso dell'infrastruttura superiore al prezzo, visto che altrimenti sceglierebbe di non avvalersene (G.M. GROS-PIETRO, Autostrade: meglio pubbliche o private?, in L’industria, 2006, p. 3). Un ulteriore vantaggio del pedaggio, rispetto a un incremento dell’imposta sui carburanti, è che «il provento dei pedaggi può essere legato al finanziamento delle autostrade grazie al vincolo contrattuale della concessione. Il pedaggio può quindi essere visto come un’imposta di scopo che pone il gettito al riparto da pressioni politiche per destinarlo ad altri scopi» (G. RAGAZZI, I signori delle Autostrade, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 17).
[7] La situazione di monopolio è di ordine naturale, data cioè dalle caratteristiche oggettive dell'attività, che ne rendono conveniente lo svolgimento da parte di un singolo soggetto in quanto presuppongo la disponibilità di infrastrutture che sarebbe estremamente oneroso duplicare. Questa circostanza dipende sia da ragioni fisiche e ambientali, come le difficoltà del territorio a sopportare nuovi consumi di spazio e risorse, che da ragioni economiche; difatti, l'esistenza di elevati costi fissi e di rendimenti di scala crescenti nell'attività di costruzione e gestione delle reti comporta che i costi complessivi per l’industria sono minimizzati quando l’attività è integrata in un’unica impresa. Il monopolio è inoltre di ordine legale, ovvero dato dal fatto che lo Stato riserva ad un unico operatore il diritto-dovere di realizzare e gestire una parte della rete, escludendo dall’attività gli altri soggetti in potenza interessati.
[8] Per un approfondimento sulla regolazione del settore, G. COCO e M. PONTI, Riflessioni per una riforma della regolazione nel settore autostradale, in C. De Vincenti e A. Vigneri (a cura di) Le virtù della concorrenza. Regolazione e mercato nei servizi di pubblica utilità, Il Mulino, Bologna, 2006 e P. V. RAMETTA, Le reti autostradali a pedaggio intrappolate tra fallimenti del mercato, politica economica e regolazione, in A. Biancardi (a cura di), L’eccezione e la regola: tariffe, contratti e infrastrutture, Il Mulino, Bologna, 2010.
[9] L. SALTARI, Un quadro di insieme e spunti per il rilancio del settore in Italia, in L. Saltari e A. Tonetti (a cura di), Il regime giuridico delle autostrade, p. 301. Per i modelli di gestione e finanziamento concretamente adottati nei diversi paesi, cfr. le tavole n. 1 e n. 2 riportate in F. TUCCI, La gestione delle autostrade: un confronto europeo, in Osservatorio sui conti pubblici italiani, 2020, pp. 4 e 5. 13. Società per azioni il cui capitale è stato detenuto dal Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) fino al 2018, anno in cui è passata sotto il controllo del gruppo ferrovie dello Stato, conservando però sotto diversi aspetti natura pubblicistica. Per la storia dell’ANAS e un suo inquadramento giuridico, A. SALVATO, L’Anas tra privatizzazione sostanziale e gestione pubblica delle autostrade, in Munus, 2019, 1, pp. 111 ss
[10] A riguardo non vi è però unanimità: secondo diverse fonti il primato spetterebbe alla Avus, autostrada realizzata a Berlino nel 1921. Sull’autostrada come bene: M. RAGOZZINO, Strade ed autostrade, in Enciclopedia Giuridica, Treccani, Roma, 1993; L. ORUSA, Strade e autostrade, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Utet, Torino 1999; S. AMOROSINO, I beni autostradali, in AA.VV. Titolarità pubblica e regolazione dei beni – Annuario 2003 dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo, Giuffrè, Milano, 2004.
[11] L’evoluzione del traffico sulle prime autostrade è inferiore alle aspettative sia in ragione dei progressivi miglioramenti apportati alla viabilità ordinaria che degli effetti della grande crisi. Il quadro già precario del traffico autostradale si aggrava nel 1935, quanto è limitato il commercio della benzina in ragione delle sanzioni che sopraggiungo a seguito all’aggressione dell’Etiopia. Tra gli altri, G. LIVINI (a cura di) 1924- 1935: Le autostrade della prima generazione, Autostrade Serravalle-Milano-Ponte Chiasso, Milano, 1984.
[12] M. LUPI, Il sistema autostradale in concessione e regolamentazione del sistema tariffario, Audizione del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti alla Camera dei deputati del 22 gennaio 2014, p. 4.
[13] Elemento fondamentale è il meccanismo di remunerazione dell’investimento e l’assunzione del rischio di gestione economica. Questo è dato dall’esposizione dell’operatore all’area del mercato e può tradursi nel rischio di concorrenza da parte di altri operatori, nell’eventualità di uno squilibrio tra domanda e offerta di servizi, nel rischio di insolvenza dei soggetti che devono pagare i prezzi dei servizi forniti, nella possibilità di non conseguire la copertura integrale delle spese di gestione mediante le entrate, e, infine, nel rischio di responsabilità per eventuali danni legati a una carenza del servizio. Per il principio di proporzionalità, la concorrenza deve essere conciliata con l’equilibrio economico: pertanto, la durata non deve restringere la libera concorrenza più del necessario per ammortizzare gli investimenti e remunerare i capitali investiti; la durata deve essere connessa al valore della concessione e all’equilibrio del piano economico-finanziario. Nell’ottica di apertura al mercato, sono vietate proroghe e rinnovi contrattuali in assenza di procedure a evidenza pubblica, in coerenza con la non modificabilità unilaterale dei contratti in essere; ciò, infatti, comporterebbe il rischio di limitare la contendibilità dei servizi e di non far raggiungere la massima convenienza per la parte pubblica e gli utenti.
[14] Tra i tanti, C. ACOCELLA, Ancora sulla tensione tra pubblico e privato, p. 14. Per un approfondimento sulla privatizzazione di Autostrade e sui relativi problemi, M. MUCCHETTI, L’ultimo decennio, revisione di una liquidazione sommaria, in F. Amatori (a cura di), Storia dell’Iri. Crisi e privatizzazione 1990-2002, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 591 ss.; L. SALTARI e A. TONETTI, Origini e trasformazioni, p. 50 ss. Più in generale, sulla privatizzazione delle autostrade in Europa, D. ALBALATE, The privatisation and Nationalisation of European Roads. Success and failure in PublicPrivate partnership, Edward Elgar, Cheltenham, 2014.
[15] Come notato da S. CASSESE, La trasformazione dei servizi pubblici in Italia, in Economia pubblica, 1996, n. 5, pp. 5-14, («Le privatizzazioni sono formalmente legate alla istituzione di autorità di settore, perché non si vuole che i monopoli pubblici divengano monopoli privati, con conseguenti danni per i consumatori», p. 11). Per un quadro di insieme sulle autorità amministrative indipendenti, tra i molti: M. D’ALBERTI, Autorità indipendenti, in Enciclopedia giuridica, IV, Roma, Treccani, 1995; F. MERUSI, Democrazia e Autorità indipendenti, Il Mulino, Bologna, 2000; M. CLARICH, Autorità indipendenti Bilancio e prospettive di un modello, Il Mulino, Bologna, 2005; E. BRUTI LIBERATI, La regolazione indipendente dei mercati. Tecnica, politica e democrazia, Giappichelli, Torino, 2019.
[16] Vedasi ancora M. D’ALBERTI, Autorità indipendenti, in Enciclopedia giuridica, IV, Roma, Treccani, 1995; F. MERUSI, Democrazia e Autorità indipendenti, Il Mulino, Bologna, 2000; M. CLARICH, Autorità indipendenti Bilancio e prospettive di un modello, Il Mulino, Bologna, 2005; E. BRUTI LIBERATI, La regolazione indipendente dei mercati. Tecnica, politica e democrazia, Giappichelli, Torino, 2019.
[17] Ai sensi del meccanismo di adeguamento tariffario introdotto dalla delibera CIPE n. 319/1996, il concessionario si fa in sostanza carico dei rischi, inclusi quelli legati al materializzarsi di un volume di traffico diverso dal previsto, e fruisce degli eventuali benefici connessi alla sua performance gestionale. Il CIPE adotta infatti un sistema ispirato alla c.d. regolazione incentivante, ideata per evitare le distorsioni della modalità tradizionale di regolazione di monopolisti privati, la c.d. regolazione da rendimento. La regolazione da rendimento fissa le tariffe per garantire in ogni periodo la copertura dei costi più un’adeguata remunerazione del capitale sulla base di un tasso di rendimento prefissato, e consente di chiedere revisioni ogni volta che ci siano scostamenti tra costi e ricavi. In questo modo, l’impresa non è incentivata a ridurre le proprie spese, il cui aumento si traduce sistematicamente in un aumento dei prezzi praticati. Nella regolamentazione incentivante (anche detta “price cap”), nel corso del periodo regolatorio le tariffe evolvono invece sulla base di formule meccaniche, che tengono conto anche del grado di produttività attesa dell’impresa, la quale beneficia di eventuali incrementi della propria efficienza. Per un approfondimento, tra gli altri: M. D'ANTONI, Privatizzazione e monopolio, M. CARASSITI e D. LANZI, Regolamentazione “price cap” e problemi di efficienza, in L’industria, 2000, pp. 289-326.
[18] A. TONETTI, L’autorità di regolazione dei trasporti, in Giornale di diritto amministrativo, 2012, 6, pp. 589- 604. Evidenzia come l’ART nasce in un contesto di forti resistenze: quelle della politica che non vuole rinunciare a importanti prerogative in ambiti connessi alla politica economica, industriale e sociale; quelle della burocrazia ministeriale che non intende perdere la propria influenza sull’elaborazione e sull’applicazione delle decisioni; quelle degli operatori, che da una politica accondiscendente e un’amministrazione debole sanno di poter trarre maggiori benefici; quelle, infine, di una parte della accademia, contraria a un’ulteriore proliferazione di autorità indipendenti. 55 Tra i tanti, M. Sebastiani, che evidenzia come si sia trattato di un obiettivo «sacrosanto ma “sbilenco” allorché le operazioni hanno avuto per oggetto settori “strategici” per il paese» (M. SEBASTIANI, Le concessioni autostradali, in Società italiana di politica dei trasporti, Le concessioni di infrastrutture nel settore dei trasporti. Fra fallimenti dello Stato e fallimenti del mercato, Rapporto 2019, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2020, p. 48)
[19] Nel caso di Autostrade, la proroga è disposta dalla convenzione del 1997 adottata tra ANAS e la Società, all’epoca ancora di proprietà dell’IRI, per una durata di venti anni (dal 2018 al 2038). Le altre concessioni sono estese in media di un periodo di 17,5 anni (V. VECCHI, A regulatory disaster or a lack of skills?, in Public Management Review, 2020, pp. 1147-1170, p. 1150). Questa scelta è giustificata dall’esigenza di permettere ai concessionari di finanziare nuovi investimenti e di risolvere il contenzioso pregresso con l’ANAS, relativo alle richieste di indennizzo per i mancati introiti dovuti al blocco delle tariffe disposto per contenere l’inflazione. Difatti, per superare i rilievi sulle proroghe avanzati dalla Corte dei conti, dall’AGCM e dalla Commissione Europea, viene adottato il d.m. lavori pubblici del 20 ottobre 1998 (c.d. direttiva Costa Ciampi), ai sensi del quale è possibile prorogare le concessioni, la cui scadenza non dovrebbe essere modificata, per risolvere contenziosi pregressi. Per i rilievi avverso le proroghe dei diversi organi di controllo, cfr. CORTE DEI CONTI, deliberazione 18 dicembre 2019, n. 18/2019/G. 58 In particolare, in aderenza alla delibera CIPE del 1996, la convenzione stipulata nel 1997 tra ANAS e Autostrade predispone un assetto particolarmente favorevole per il concessionario, non imponendogli riduzioni dei pedaggi a fronte di aumenti del traffico e prevedendo sviluppi di traffico modesti. Difatti, nel periodo 1997-1999 il traffico sulla rete gestita da Autostrade cresce del 7,5% anziché del 3,5% previsto, mentre tra il 1997 e il 2005 si registra una crescita del 24,6% invece che del 12,6%. Anche per le convenzioni delle altre concessionarie «le stime di traffico dei piani economico-finanziari risultarono caratterizzate da previsioni di crescita modesta o nulla, e, quindi, sempre inferiori al traffico» (CORTE DEI CONTI, deliberazione 18 dicembre 2019, p. 70).
[20] A. MARI, La trasformazione societaria di Autostrade S.p.A., in Giornale di Diritto Amministrativo, 2007, 1, p. 77 ss.,