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Anno XVI - n. 05 - Maggio 2024

  Giurisprudenza Amministrativa



Abuso edilizio commesso dal comproprietario del bene: preavviso di diniego e onere istruttorio per la sanatoria.

Di Alessandro Sorpresa
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NOTA A CONS. STATO, SEZ. II, 21 LUGLIO 2023, N. 7158 - PRES. SABBATO, EST. MANZIONE

 

Abuso edilizio commesso dal comproprietario del bene: preavviso di diniego e onere istruttorio per la sanatoria

 

Di Alessandro Sorpresa

 

Abstract:

Il preavviso di diniego costituisce un importante momento di interlocuzione tra la Pubblica Amministrazione ed il cittadino, comportante un ampliamento della portata della motivazione del provvedimento finale rispetto alle osservazioni presentate dal privato, che però non si spinge fino all’imposta necessità di controdedurre analiticamente su ogni singola argomentazione, purché l’impostazione del provvedimento argomenti chiaramente in senso reiettivo delle osservazioni del privato e non si limiti a mere formule di stile nel senso dell’avvenuta analisi delle stesse. Questo a maggior ragione nel caso in cui tali osservazioni non introducano davvero alcun elemento di novità, concretizzandosi piuttosto nella mera ripetizione delle ragioni poste a base della domanda, in contrapposizione al non condiviso prospettato esito negativo.

Il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo è colui che ha la totale disponibilità del bene, non essendo sufficiente la proprietà di una sola sua parte o quota. Il comproprietario, quindi, non risulterebbe essere legittimato, dal momento che, diversamente opinando, il suo contegno autonomo finirebbe per pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivide la posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento. Resta salvo il caso in cui la situazione di fatto esistente sul bene consenta di supporre l’esistenza di una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari.

 

The notice of refusal constitutes an important moment of interlocution between the Public Administration and the citizen, entailing an extension of the scope of the motivation of the final measure with respect to the observations submitted by the private party, which, however, does not go so far as to impose the need to analytically counter-argue on every single argument, provided that the measure's approach clearly argues in a rejectionist sense of the private party's observations and is not limited to mere formulas of style in the sense of their analysis. This is all the more so in the event that such observations do not really introduce any new element, but rather take the form of a mere repetition of the reasons underlying the application, as opposed to the unsupported prospective negative outcome.

The person entitled to apply for the permit is the one who has the total availability of the property, the ownership of a single part or share of it not being sufficient. The co-owner, therefore, would not be legitimated, since, otherwise, his autonomous conduct would end up prejudicing the rights and qualified interests of the subjects with whom he shares the legal position on the property subject to the measure. This is without prejudice to the case where the factual situation existing on the property allows one to suppose the existence of a sort of so-called pactum fiduciae between the various co-owners.

 

 

  1. La fattispecie concreta

La controversia risolta dai Giudici di Palazzo Spada lo scorso luglio aveva ad oggetto un’ingiunzione a demolire con annesso sgombero di immobile abusivo ai fini del ripristino dello stato dei luoghi.

In particolare, il caso coinvolgeva due comproprietari di un fabbricato, uno dei quali aveva realizzato dei lavori di modifica di destinazione d’uso di parte dello stesso, da deposito a civile abitazione. Il secondo comproprietario, unitamente alla moglie, essendo stato il bene da questi conferito in un fondo patrimoniale amministrato anche da quest’ultima, denunciata la carenza di titolo, ottenevano un’ordinanza di demolizione, consolidatasi per mancata impugnazione.

A questo punto, il soggetto interessato presentava alla Pubblica Amministrazione due istanze di sanatoria, entrambe respinte. La Pubblica Amministrazione diffidava dunque i soggetti coinvolti a comunicarle la data in cui l’immobile sarebbe stato disponibile per l’esecuzione dei lavori di ripristino dello stato dei luoghi, ma, pochi mesi dopo, l’autore delle precedenti istanze impugnava il secondo dei due dinieghi chiedendone l’annullamento. Tale richiesta non veniva, però, accolta dal Tribunale Amministrativo Regionale, facendo leva su due distinte motivazioni: il mancato rispetto degli indici di fabbricabilità per eccedenza di volumetria richiesta rispetto a quella residua ed il mancato assenso del proprietario, dal momento che il ricorrente non sarebbe riuscito, neppure in giudizio, ad addurre alcuna adeguata circostanza, anche sopravvenuta, atta a dimostrare la propria disponibilità esclusiva del fondo oggetto dell’istanza di permesso in sanatoria. 

L’appellante impugnava la sentenza di primo grado con ricorso dinanzi al Consiglio di Stato, lamentando in primo luogo la mancata valutazione delle osservazioni presentate all’esito dell’inoltro del preavviso di diniego ex art. 10-bis della L. n. 241/1990.

 

  1. L’istituto del preavviso di diniego

I Giudici di Appello, in questa recente pronuncia, in parte ribadendo alcuni precedenti orientamenti, hanno avuto modo di delineare un quadro normativo e giurisprudenziale dell’istituto del preavviso di diniego capace di considerarne lo sviluppo spazio-temporale in un’ottica sistematica e razionale.

Nella sentenza oggetto di esame in questa sede, veniva anzitutto evidenziato come il preavviso di diniego costituisca un importante momento di interlocuzione tra la Pubblica Amministrazione ed il cittadino, ulteriore e successivo a quello della fase istruttoria vera e propria, connotata dalle forme tipiche della partecipazione. “Una sorta di seconda chance” accordata al privato e funzionale ad ottenere l’accoglimento della propria istanza, mediante un momento di confronto più pregnante e potenzialmente più utile, collocandosi in uno stadio avanzato del processo di costruzione della decisione amministrativa, e cioè nel momento in cui la determinazione è orientata negativamente e l’interazione si rende necessaria non ai soli fini della raccolta del materiale ancora carente, ma rispetto al contenuto dispositivo dell’atto da adottare.

È stato messo in luce come si tratterebbe di un istituto implicante un’utilità reciproca per le parti in causa. Il privato, infatti, può in tal modo saggiare in sede procedimentale un ultimo tentativo per convincere l’Amministrazione all’accoglimento della propria istanza ovvero, in senso opposto, comprenderne ed assimilarne le ragioni, rimodulando le proprie richieste e comunque desistendo da reazioni impugnatorie, con effetto deflattivo del contenzioso. Dall’altro lato, la Pubblica Amministrazione, così facendo, ha l’opportunità di svolgere al meglio il proprio compito di addivenire a decisioni quanto più ponderate e meditate possibili, anche sul piano della condivisione con il destinatario.

 

  1. La novella del 2020 e successive modificazioni

Il summenzionato istituto veniva rafforzato dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, cd. Decreto Semplificazioni, convertito con modificazioni dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, art. 12.

A questo riguardo, si ricorda l’ampliamento della portata della motivazione del provvedimento finale rispetto alle osservazioni presentate dal privato, cui fa da contraltare la sancita inapplicabilità della sanatoria processuale ex art. 21-octies della L. n. 241/1990.

La disposizione normativa riformata dispone che, in presenza di osservazioni presentate dal privato ai sensi dell’art. 10-bis, il responsabile del procedimento o l’autorità competente “sono tenuti a darne ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego”. Una statuizione che, come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, ribadisce e rafforza la doverosità della valutazione da parte della Pubblica Amministrazione dell’apporto dei privati e del riscontro nella motivazione del provvedimento, con l’avvertenza, aggiunta dalla riforma, che in sede motivazionale l’autorità può intervenire “indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni”.

Ne consegue dunque che l’Amministrazione, da un lato, debba prendere puntuale posizione rispetto alle osservazioni avanzate dai privati e, dall’altro, non possa discostarsi dai motivi ostativi esternati con la comunicazione ex art. 10-bis, aggiungendone di nuovi solo a valere come risposta alle osservazioni del privato.

Nella sentenza in commento, i Giudici d’Appello rilevavano come queste modifiche introdotte dalla novella inducessero ad una riflessione sull’orientamento giurisprudenziale che aveva sempre inteso legittimare la Pubblica Amministrazione a svolgere, in sede di adozione del provvedimento e del suo compendio motivazionale, una valutazione complessiva delle osservazioni del privato ed a precisare ulteriormente le proprie posizioni giuridiche, con il limite della riconducibilità di queste ulteriori argomentazioni nello “schema” delineato dalla comunicazione ex art. 10-bis.

Il Collegio riteneva che, pur accedendo ad una lettura più rigorosa dell’istituto, essa non si spingerebbe fino all’imposta necessità di controdedurre analiticamente su ogni singola argomentazione, purché l’impostazione del provvedimento argomenti chiaramente in senso reiettivo delle osservazioni del privato e non si limiti a mere formule di stile nel senso dell’avvenuta analisi delle stesse. Questo a maggior ragione nel caso in cui tali osservazioni non introducano davvero alcun elemento di novità, concretizzandosi piuttosto nella mera ripetizione delle ragioni poste a base della domanda, in contrapposizione al non condiviso prospettato esito negativo.

In tale ipotesi, pertanto, il richiamo alla mancanza di novità nel contenuto delle osservazioni, già intrinsecamente confutate dal percorso motivazionale seguito, riassumerebbe correttamente in sé la loro avvenuta disamina e potrebbe essere smentito solo dall’evidenza di elementi, anche singoli, che seppure messi in luce dal privato, venivano del tutto pretermessi dall’Amministrazione. 

Nel caso in esame, era documentato per tabulas che il Comune avesse tenuto in massimo conto le deduzioni ed integrazioni della parte, giusta l’avvenuta eliminazione delle motivazioni del provvedimento finale di tute le carenze, anche documentali, di cui era stata in precedenza contestata la sussistenza.

Inoltre, il provvedimento era chiaro nel senso di non accedere alla prospettazione di parte, sulla base di un assunto ricostruttivo dichiaratamente e motivatamente opposto rispetto alle premesse esposte dal privato in sede procedimentale.

 

  1. Legittimazione a richiedere la sanatoria

Nucleo centrale della controversia sottoposta all’esame del Consiglio di Stato concerneva la corretta lettura da dare al combinato disposto tra l’art. 11, recante le caratteristiche del permesso di costruire, e l’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, laddove individua i soggetti legittimati a richiedere la cd. sanatoria ordinaria o accertamento di conformità.

Il citato articolo 11, al primo comma, statuisce che “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”. L’art. 36, invece, individua “chi abbia titolo” nella figura del responsabile dell’abuso, oltre che nell’attuale proprietario dell’immobile, con ciò abbracciando sia la posizione dell’autore dell’illecito non proprietario, sia quella del subentrante nella titolarità dell’immobile, per tale ragione presumibilmente incolpevole, ma interessato a difendere il valore del proprio bene anche in forza della sua regolarizzazione.

Sul punto, a livello giurisprudenziale, l’orientamento maggioritario, in un’ottica di ricercata conformità degli interventi edilizi alla disciplina urbanistica, nell’esclusivo interesse pubblico ad una programmata e disciplinata trasformazione del territorio, sostiene che l’impulso ad effettuare tale trasformazione debba provenire da un soggetto che si trovi in posizione di detenzione qualificata del bene, anche nell’ambito di un rapporto di locazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 316).

La relativamente maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto a quanto dettato per il preventivo permesso di costruire, trova d’altra parte giustificazione nella possibilità da accordare al predetto responsabile, coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive, di fruizione di uno strumento giudiziario utile ad evitare le conseguenze penali dell’illecito commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 8 settembre 2015, n. 4176).

A livello più generale, l’intero procedimento sanzionatorio in materia edilizia sconta la necessità di coinvolgere tanto il proprietario quanto l’autore dell’abuso, che l’art. 31 del TUE appaia quali soggetti destinatari dell’ingiunzione a demolire, salvo precisare, al terzo comma, che la titolarità dell’obbligo demolitorio e di ripristino grava esclusivamente in capo al primo.

La ricostruzione non è aliena da conseguenze, specie considerando che laddove venga per errore omessa la notifica dell’ingiunzione a demolire al proprietario del bene, l’atto resta pur sempre efficace, salvo per quanto attiene alla decorrenza nei suoi confronti del termine previsto dalla legge per l’ottemperanza volontaria, finalizzata a scongiurare l’acquisizione al patrimonio del Comune (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 20 gennaio 2023, n. 714).

Simili considerazioni trovano applicazione anche nel caso in cui l’autore dell’abuso non sia proprietario esclusivo del bene, vuoi perché l’intervento ha ad oggetto parti comuni di un condominio, vuoi perché, come nella fattispecie concreta, si tratta di un fabbricato indiviso.

In linea di massima, da tempo la giurisprudenza, adottando i principi poc’anzi esposti alle situazioni lato sensu di contitolarità, ha affermato che il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo debba essere colui che ha la totale disponibilità del bene, non essendo sufficiente la proprietà di una sola sua parte o quota. Il comproprietario, quindi, non risulterebbe essere legittimato, dal momento che, diversamente opinando, il suo contegno autonomo finirebbe per pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivide la posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento.

Di conseguenza, in caso di pluralità di proprietari del medesimo immobile, la domanda di rilascio di titolo edilizio, sia esso o meno titolo in sanatoria di interventi già realizzati, dovrebbe provenire congiuntamente da tutti i soggetti vantanti un diritto di proprietà sull’immobile, potendosi ritenere, d’altra parte, legittimato alla presentazione della domanda il singolo comproprietario solo ed esclusivamente nel caso in cui la situazione di fatto esistente sul bene consentisse di supporre l’esistenza di una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7 settembre 2016, n. 3823).

Eccezione a tale regola sarebbe, invece, rappresentata dal regime di comunione legale dei beni tra coniugi, con riferimento al quale, la giurisprudenza ha ritenuto non trovasse applicazione il principio del cd. consenso necessitato, anche allo scopo di salvaguardare il coniuge ignaro dell’abuso dalle conseguenze penali dello stesso.

 

  1. Analisi di alcuni arresti della giurisprudenza amministrativa

Nella risoluzione della controversia, il Consiglio di Stato non ha trascurato di considerare le diverse conclusioni cui arresti giurisprudenziali amministrativi recenti sembrerebbero essere giunti. La Giustizia amministrativa, infatti, in talune occasioni ha sostenuto che l’Amministrazione “[…] è tenuta a rilasciare il titolo abilitativo edilizio avendo esclusivo riguardo alla compatibilità urbanistica dell’opera richiesta - il che non implica affatto che essa non sia lesiva di diritti soggettivi altrui - lasciando ogni questione afferente a diritti soggettivi alla sua unica sede competente, che è il giudizio civile”. Ciò in quanto non le competerebbe di valutare, neanche incidentalmente, “se l’opera integri un’alterazione della destinazione della cosa comune (di cui un singolo comunista voglia servirsi in modo esclusivo); né se tale utilizzo sia compatibile con l’uso paritario altrui; né, infine, se l’opera sia o meno lesiva del decoro architettonico dell’edificio (ciò potendo evidentemente spettare, ma solo nei congrui casi, all’Amministrazione dei beni culturali […]” (C.G.A.R.S., 5 giugno 2023, n. 392).

Ciò detto, risultano, però, necessarie alcune precisazioni.

A livello generale, pochi dubbi sussistono in merito all’assunto per cui l’abusività di un’opera non possa essere in alcun modo ricondotta all’assenso o dissenso degli altri comproprietari, dovendo dipendere esclusivamente dal rispetto delle regole sulla edificabilità dei suoli e di buon governo del territorio. I diritti dei comproprietari, infatti, ivi compresi quelli riconnessi all’eventuale travalicamento dei limiti imposti a ogni comunista dall’art. 1102 c.c., non sono pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio. Al che consegue quale immediato corollario che i diritti dei terzi sono tutelabili mediante azioni civili innanzi al Giudice ordinario.

Tuttavia, rilevano i Giudici di Palazzo Spada, ciò varrebbe a dire che la legittimità dell’intervento edilizio che ciascun partecipante alla comunione chieda alla Pubblica Amministrazione di essere autorizzato ad eseguire in forza della norma che gli consente di servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, debba essere valutata dall’Amministrazione competente ad autorizzarlo solo per i profili amministrativi senza riguardo ai profili civilistici ed ai connessi limiti posti dalla norma, in quanto entrambi azionabili dai titolari della specifica facultas agendi soltanto davanti al Giudice civile, le cui decisioni, però, operano e si eseguono su piani diversi (si pensi a quello che facoltizza, ma non obbliga, all’esercizio dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare) e per nulla interferenti con le valutazioni amministrative di competenza comunale. Pertanto, sarebbe ex se viziato l’esercizio del potere amministrativo come mero “braccio esecutivo” delle sentenze del Giudice civile.

Si tratterebbe di un’affermazione da conciliare con l’esatta accezione da attribuire alla previsione della clausola di salvaguardia dei diritti dei terzi. In altri termini, i Giudici di appello, nella risoluzione del caso di specie, rilevano come essa, se per regola esime l’Amministrazione procedente da qualsivoglia approfondimento circa l’effettiva titolarità della pienezza del proprio diritto proprietario, sicché l’emergenza di future problematiche in tal senso non inciderebbe sulla legittimità dell’atto adottato, al contempo non consentirebbe, però, di prescinderne laddove la carenza di legittimazione piena emergesse per tabulas e non richiedesse né indagini suppletive né prese di posizione a favore dell’una o dell’altra tesi di parte.

Il comproprietario, infatti, diviene “terzo” solo nel momento in cui se ne è ignorata la presenza, laddove configura una sorta di litisconsorte necessario in caso di oggettiva conoscenza della contitolarità di un bene e del contrasto tra aventi diritto, a maggior ragione ove espresso, come accaduto nella fattispecie concreta in esame, sotto forma di denuncia dell’abuso dell’uno a carico dell’altro”. In tali ipotesi, cioè, si ritiene che l’Ente abbia il dovere di compiere quel minimo di indagini necessarie per verificare se le contestazioni siano fondate sul piano quantomeno della legittimità formale e denegare il rilascio del titolo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi seri a fondamento dell’esclusività, in fatto o in diritto, della sua posizione (Cons. Stato, Sez. IV, 23 dicembre 2019, n. 6394).

Il Collegio, nella sentenza in commento, riteneva che specularmente con la maggior ampiezza della possibilità di richiesta, quanto esposto dovesse valere a maggior ragione nel caso essa si riferisse ad un titolo di legittimazione postumo. Il contraltare della più ampia possibilità di accedere ad una potenziale causa estintiva del reato non potrebbe infatti che essere la valorizzazione del potere di sbarramento da parte del comproprietario, diversamente costretto a subire non solo un cambiamento dello stato dei luoghi realizzato (illegittimamente) a sua insaputa, ma pure il suo consolidarsi, a tutela anche dell’incensuratezza di controparte. Non a caso, la prevista notifica dell’ingiunzione a demolire anche al proprietario ne salvaguarda la scelta di adesione volontaria al precetto, anche in disaccordo con la diversa opzione del responsabile dell’abuso e (com)proprietario.

Per contro, l’impossibilità di interferire nel rapporto che quest’ultimo instaura autonomamente con la Pubblica Amministrazione finirebbe per lederne gravemente le garanzie partecipative ad un procedimento di cui è parte necessaria, vanificando tutte le indicazioni a tutela che il Legislatore ha viceversa inteso fornire, allo scopo di preservarlo dalla sanzione più grave della perdita del bene.

 

  1. Rilievi conclusivi

Il Consiglio di Stato, respingendo l’appello proposto, ha dunque ulteriormente chiarito e confermato l’indirizzo attualmente dominante in materia, pur restando forse aperto uno spiraglio, quantomeno in termini dubitativi, sulla possibilità, avuto riguardo al profilo della legittimazione attiva, in relazione ai tratti tipizzanti di altra e specifica fattispecie concreta, di volta in volta al vaglio dei Giudici amministrativi, di giungere ad una applicazione, almeno in parte, differente dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e maggiormente vicina al disposto letterale della norma, che sembra collocare su un piano di alternatività la situazione di titolarità sul bene e la figura del responsabile del commesso abuso.

Resta in ogni caso ferma l’importanza di fare riferimento alle risposte concrete fornite nel tempo dagli Organi giudicanti, al fine di fornire una visione ordinata e di sistema ad un dettato normativo dal contenuto  spesso vago e dai confini non sempre agevolmente delineabili, con conseguenti ricadute in termini di certezza e prevedibilità per gli operatori professionali coinvolti nelle singole vicende controverse.