Giurisprudenza Amministrativa
L'effetto conformativo del giudicato amministrativo ultradecennale e la riedizione del potere. Le forme di tutela del privato e la crisi delle cooperazione tra amministrazione e cittadino.
Di Carla Natalicchio
NOTA A CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE SESTA,
SENTENZA 11 MARZO 2020, n. 1738
Di CARLA NATALICCHIO
L'effetto conformativo del giudicato amministrativo ultradecennale e la riedizione del potere. Le forme di tutela del privato e la crisi delle cooperazione tra amministrazione e cittadino
Qualora sul procedimento di repressione di abuso edilizio si formi un giudicato che imponga all'Amministrazione, prima di disporre la demolizione, di concludere il precedente procedimento amministrativo al fine di valutare l'effettiva consistenza delle opere di urbanizzazione e di una vecchia istanza di concessione ancora pendente, il Comune, prima di procedere alla demolizione, deve dare esecuzione al predetto giudicato, anche se per effetto del decorso di un decennio il privato non possa più agire con l'actio iudicati, atteso che l'effetto conformativo che da esso discende non si estingue con la prescrizione dell'actio iudicati ed impedisce di procedere alla demolizione delle opere prima di aver esaminato le predette questioni.
Sommario - Premessa – 2. La vicenda – 3. Le considerazioni del Consiglio di Stato - 4. Riflessioni a margine della pronuncia.
Abstract:
Nel tempo attuale è concretamente tangibile l'evoluzione delle Giustizia Amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali.
Avendo riguardo alla concezione soggettiva della tutela e alla centralità processuale della situazione soggettiva rispetto all'interesse alla legittimità dell'azione amministrativa, sembra ormai potersi capovolgere definitivamente l'allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può spingere ad affermare che è l'interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, protetto, in altri termini, in sede di tutela della situazione di interesse legittimo.
All'esito dell'evoluzione giurisprudenziale e normativa culminata con il nuovo codice del processo amministrativo, il sistema delle tutele è stato segnato dagli sviluppi che si pongono tutti in direzione di una maggiore “ effettività” del sindacato del giudica amministrativo, sia nei casi in cui il provvedimento viene confermato , sia nei casi in cui l'interesse legittimo viene ritenuto leso.
L'impostazione di fondo, avallata dalla giurisprudenza dell'Adunanza Plenaria, è nel senso che l'efficacia oggettiva del giudicato amministrativo non esclude in assoluto la possibilità di riedizione sfavorevole del potere, anche in assenza di sopravvenienze.
Nel contributo viene analizzato, in particolare l'effetto conformativo delle sentenze di annullamento del G.A. strettamente correlato al potere di riedizione riconosciuto in capo all'Amministrazione.
Abstract::
In the present time, the evolution of Administrative Justice is tangibly tangible from an instrument of guarantee of the legality of administrative action to jurisdiction preordained for the protection of substantial claims. Having regard to the subjective conception of the protection and the centrality of the subjective situation with respect to the interest in the legitimacy of the administrative action, it now seems that the traditional allocation of the two subjective situations, both active, which move in the process, can be definitively reversed one can go so far as to state that it is the interest in mere legitimacy that has become an occasionally protected interest, protected, in other words, when protecting the situation of legitimate interest. At the outcome of the jurisprudential and regulatory evolution culminating in the new code of the administrative process, the protection system was marked by the developments that all point in the direction of a greater "effectiveness" of the union of the administrative judge, both in cases in which the provision is confirmed, both in cases in which the legitimate interest is deemed to be infringed. The basic approach, endorsed by the jurisprudence of the Plenary Assembly, is in the sense that the objective effectiveness of the administrative judgment does not absolutely exclude the possibility of unfavorable re-edition of power, even in the absence of contingencies.
The contribution analyzes, in particular, the conformative effect of the cancellation judgments of the G.A. closely related to the re-edition power recognized by the Administration.
Premessa
Nell'ambito del processo amministrativo la pronuncia costitutiva di annullamento ( art. 34 c.1 lett. a c.p.a.) di un provvedimento illegittimo corrisponde all'originaria funzione del processo amministrativo inteso come giudizio su atti illegittimi in quanto viziati da violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere.[1]
La sentenza che accoglie il ricorso ed annulla il provvedimento è stata considerata come espressione tipica della funzione giurisdizionale amministrativa.
Il nucleo della sentenza di annullamento è stato a lungo identificato con l'accertamento della illegittimità del provvedimento impugnato in relazione a determinati vizi enunciati in ricorso.
La sentenza di annullamento contiene, quindi, un elemento significativo di accertamento che inerisce alla sussistenza di un certo vizio di illegittimità.
Altro orientamento, pur identificando come centrale il momento dell'accertamento, pone l'accento sulla situazione giuridica tutelata nel processo: la sentenza di annullamento, infatti, accerta la lesione di un interesse legittimo. L'illegittimità del provvedimento, determinata da un vizio specifico, rappresenta un profilo dell'indagine ma l'accertamento del giudice non inerisce a fenomeni oggettivi ma alla relazione giuridica ed alla posizione soggettiva dell'interesse legittimo.
Secondo il predetto orientamento la posizione soggettiva non identifica un fattore di legittimazione ma l'oggetto principale del giudizio.
La sentenza di annullamento, nell'interpretazione giurisprudenziale che ha recepito l'elaborazione della dottrina, produce tre tipi di effetti: elinimatorio, ripristinatorio e conformativo.[2]
In virtù dell'effetto costitutivo, la sentenza di annullamento rimuove l'atto impugnato ed i suoi effetti retroattivamente. Viene ripristinata, in altri termini, la situazione preesistente all'emanazione dell'atto. Quest'ultimo è come se non fosse mai esistito.
L'effetto demolitorio non colpisce solo gli atti impugnati ma investe anche gli atti successivi che sono stati adottati sul presupposto dell'atto annullato.
Ciò dipende dal fatto che i provvedimenti e gli atti amministrativi sono spesso concatenati tra loro in modo che l'annullamento di un atto presupposto travolge gli altri conseguenziali.
La catena comincia a monte dell'atto impugnato e' annullato. In questo caso l'annullamento colpisce gli atti successivi, ma non quelli precedenti che fanno parte di uno stesso procedimento o di procedimenti connessi.
Per definire questo effetto a catena o a valanga dell'annullamento giurisdizionale dottrina e giurisprudenza impiegano il termine di effetto caducante: sono caducanti degli atti adottati sul presupposto esclusivo dell'atto annullato.[3]
All'effetto demolitorio si accompagna l'effetto ripristinatorio che sotto un certo aspetto non è un effetto diverso, ma è l'altra faccia della demolizione giuridica.
La sentenza ricostruisce la situazione giuridica come si sarebbe realizzata se l'atto non fosse mai stato posto in essere, sempre che i mutamenti della realtà di fatto lo consentano.
Nei limiti in cui vi sia spazio per l'attività di ripristinazione spettante all'amministrazione, essa è doverosa: il soggetto pubblico ha il dovere, in altri termini, di adeguare la realtà di fatto alla nuova situazione di diritto.
Se viene annullato un decreto di esproprio, l'immobile espropriato va restituito al proprietario in modo che quest'ultimo è posto nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l'espropriazione non fosse intervenuta. La restituzione è dovuta perchè è venuto meno nell'espropriante il titolo di proprietà sul bene.
Il ripristino della situazione anteriore può richiedere non soltanto atti giuridici ma anche attività materiale, come il rilascio di un immobile per essere venuto meno nell'autorità amministrativa il titolo di proprietà, con l'annullamento dell'espropriazione, o il pagamento al dipendente di spettanze arretrate.
Da ultimo le sentenze di annullamento sono caratterizzate da un ulteriore effetto c.d. conformativo.
Il testè citato effetto consiste in un condizionamento dell'attività amministrativa successiva all'annullamento dell'atto: il soggetto pubblico, in altri termini, nell'esercizio doveroso della propria funzione, dovrà rispettare i limiti nascenti dalla statuizione concreta del giudice e, cioè, la regola di diritto affermata dalla sentenza destinata a regolare o comunque a delimitare la futura attività dell'amministrazione.
Mentre l'effetto di annullamento o demolitorio colpisce l'atto impugnato a prescindere dai motivi di ricorso e dal fatto che solo alcuni di esse sono stati accolti o anche uno solo, l'effetto conformativo è strettamente correlato ai motivi di ricorso che il giudice ha ritenuto fondati.
- La vicenda
Nel contesto sopra descritto si inserisce la sentenza in commento.
La vicenda prende spunto dalla concessione con la quale il Comune laziale resistente ha autorizzato una s.r.l. a realizzare, su un fondo di sua proprietà, «un capannone industriale da adibire a laboratorio tessiture e confezioni con alloggio del custode».
La vicenda amministrativa si è articolata con i provvedimenti amministrativi e giurisdizionali qui di seguito elencati:
- con provvedimento 19 gennaio 1990, n. 798 e 6 febbraio 1990, n. 1557 il Comune ha ordinato la demolizione delle opere per avere la società modificato l’ubicazione dell’edificio nel corso della sua realizzazione;
- con provvedimento 14 gennaio 1991, n. 4 è stata autorizzata la variante ubicativa;
- con sentenza 4 gennaio 1993, n. 26 la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, riformando la sentenza di primo grado, ha accolto il ricorso di alcuni proprietari di aree vicine, rilevando che la concessione edilizia n. 47 del 1989 fosse priva dell’impegno della società a realizzare le opere di urbanizzazione primaria;
- con provvedimento 29 settembre 1993, n. 11191 il Comune ha rimosso i vizi procedurali dell’originaria concessione, prendendo atto dell’impegno della società a realizzare le suddette opere di urbanizzazione;
- con sentenza 18 ottobre 1996, n. 1255 la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, da un lato, ha ritenuto, riformando la sentenza impugnata, legittima la decisione dell’amministrazione di consentire la regolarizzazione, dall’altro lato, ha ritenuto che il provvedimento impugnato fosse privo di adeguata motivazione e istruttoria in ordine all’idoneità delle opere di urbanizzazione che il privato aveva promesso di costruire;
- con la suddetta sentenza si è aggiunto che «ciò comporterà la necessità per l’amministrazione di pronunciarsi ancora una volta sulla domanda di concessione edilizia avanzata nel 1988 (…) all’uopo fornendo specifiche indicazioni circa le caratteristiche delle opere di urbanizzazione assentibili»;
- la società, in data 31 dicembre 1994, ha proposto per «fini meramente cautelativi», istanza di condono;
- a seguito del fallimento della società il Tribunale di Cassino, con decreti del 22 maggio 2002 e 16 maggio 2003, ha trasferito la proprietà del capannone alla Banca popolare del Cassinate. Appellante nella sentenza oggi in commento;
- con provvedimento 11 gennaio 2006, n. 1 il Comune ha rilasciato il permesso di costruire in sanatoria;
- con sentenza 21 marzo 2014, n. 243 il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Latina, ha annullato tale permesso;
- il Comune, con provvedimento 19 novembre 2015, n. 11167, preso atto di tale annullamento, ha disposto la demolizione del capannone;
- lo stesso Tribunale, adito nuovamente dalla ricorrente, con sentenza 26 aprile 2019, n. 344, ha respinto il ricorso, rilevando che il capannone doveva ritenersi abusivo e che l’obbligo di riesame dell’istanza di concessione del 1988 non potrebbe assumere rilevanza in quanto il diritto all’esecuzione è prescritto per decorso dei dieci anni previsti per agire con l’azione di ottemperanza.
Avverso detta pronuncia la ricorrente in primo grado ha proposto appello, sollevando un primo motivo di censura ritenuto fondato ed assorbente rispetto alle altre doglianze.
In particolare l’appellante ha lamentato l’erroneità della suddetta sentenza nella parte in cui ha ritenuto prescritto il diritto di esecuzione, in quanto «la prescrizione dell’azione di ottemperanza non ha nulla a che vedere con la validità temporale illimitata dell’effetto conformativo della sentenza».
2- Le conclusioni del Consiglio di Stato.
Nella sentenza in commento i Giudici di Palazzo Spada, nell'accogliere il primo motivo di doglianza riportato nel paragrafo che precede, si soffermano ad esaminare l'effetto conformativo del giudicato di annullamento del G.A.
Occorre evidenziare come il vincolo che ne deriva a carico dell'amministrazione può essere pieno come quando il giudicante annulla l'atto impugnato per difetto dei presupposti normativi o soggettivi o perchè è scaduto il termine entro il quale il potere doveva essere esercitato a pena di decadenza. E' il caso della sentenza di annullamento di destituzione dall'impiego adottato e notificato dopo che è scaduto il termine per l'esercizio del poter disciplinare.
Il vincolo inerente all'effetto conformativo può essere anche semipieno come quando l'atto è annullato per eccesso di potere con sentenza che limita, ma non elimina, il potere dell'amministrazione di riadottarlo, depurato del vizio accertato dal giudice.
Il vincolo può essere, infine, secondario o strumentale quando l'annullamento è disposto per vizi formali. In questi casi l'autorità può rinnovare il procedimento purchè elimini il vizio, senza essere in alcun modo legata in ordine al contenuto del nuovo atto.
Da quanto sin qui evidenziato emerge come il vincolo conformativo assuma una valenza diversa a seconda che oggetto di sindacato sia un'attività amministrativa vincolata o discrezionale.[4]
Nel primo caso esso è pieno nel senso che viene delineata in modo completo la modalità successiva di svolgimento dell’azione amministrativa; nel secondo caso esso ha valenza meno pregnante, in quanto non può estendersi, per assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri, a valutazioni riservate alla pubblica amministrazione. Per quanto il giudizio amministrativo verta sul rapporto giuridico al fine di accertare la spettanza delle utilità finali oggetto dell’interesse legittimo, quando l’attività amministrativa è discrezionale, il vincolo giudiziale non può incidere su spazi di decisione, afferenti all’opportunità, attribuiti alla pubblica amministrazione.
Nella pronuncia in commento il Collegio ha avuto modo di chiarire la diversa valenza del vincolo in questione a seconda dell'attività amministrativa oggetto di sindacato distinguendo, nella fase successiva al giudicato, un momento relativo alla medesima vicenda amministrativa e un momento relativo ad una diversa, ancorché collegata, vicenda amministrativa.
Nel primo caso relativo alla medesima vicenda amministrativa, l’azione amministrativa successiva al giudicato, quando l’accertamento non è stato pieno in ragione dell'esistenza di poteri discrezionali, è retta da regole giudiziali e regole legali.
Ne consegue che una parte di tale azione deve rispettare i vincoli che derivano dal giudicato e, in particolare, il vincolo conformativo; un’altra parte della medesima azione, non oggetto di specifico accertamento giudiziale, deve rispettare i vincoli posti dal principio di legalità.
Se l’amministrazione viola la prima tipologia di vincoli di tipo giudiziale, non eseguendo il giudicato o ponendo in essere un’attività di violazione o elusione del giudicato stesso, la tutela si svolge sul piano dell’esecuzione ed è costituita dall’azione di ottemperanza, con la quale si può contestare l’omissione ovvero la nullità degli atti adottati (artt. 112 ss. c.p.a.).[5] Il codice del processo amministrativo ha previsto che tale azione debba essere proposta entro il termine di prescrizione di dieci anni decorrenti dal passaggio in giudicato della sentenza, in quanto ha configurato l’esistenza di un diritto soggettivo all’esecuzione sottoposto all’efficacia estintiva propria della prescrizione. Anche l’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato, che per la sua specialità, non soggiace al termine di centottanta giorni previsto per le altre cause di nullità (art. 30 c.p.a.), deve essere proposta nel rispetto del suddetto termine prescrizionale (art. 31, comma 4, c.p.a.).
Se, al contrario, l’amministrazione viola la seconda tipologia di vincoli di tipo legale, la tutela si svolge sul piano della cognizione ed è costituita, in presenza di atti amministrativi, dall’azione di annullamento (art. 29 c.p.a.), che deve essere proposta nel termine di decadenza di sessanta giorni (art. 41, comma 2, c.p.a.) ovvero dall’azione di nullità (art. 31, comma 4, c.p.a.), che deve essere proposta nel termine di centottanta giorni.
Nel secondo caso relativa alla diversa vicenda amministrativa, l’azione amministrativa è retta dalle regole legali e, dunque, deve rispettare il solo principio di legalità, in quanto si tratta di un rapporto differente da quello che è stato oggetto di accertamento giudiziale.
Deve, però, ritenersi che, in alcuni casi, quando le due vicende presentano profili di collegamento sostanziale si produce quello che può essere definito “effetto conformativo” di coerenza o razionalità della complessiva azione amministrativa discendente dal giudicato.
In particolare, tale effetto, imponendo un obbligo non sottoposto a termine, produce uno svolgimento interno delle situazioni giuridiche coinvolte di tipo preclusivo nel senso che l’amministrazione non può regolare la vicenda diversa in contrasto con il complessivo accertamento giudiziale già svolto in ossequio al suddetto canone di coerenza nell’esercizio del potere. La peculiarità della vicenda amministrativa risiede nel fatto che la forma di tutela si svolge esclusivamente sul piano della cognizione mediante la proposizione di un'azione di annullamento per violazione di legge o eccesso di potere che deve essere proposta nei riportati termini di decadenza. Ne consegue che il suddetto effetto conformativo incide, anche, nei termini indicati, sulla nuova attività amministrativa senza alcun limite temporale se non quello derivante dalla decorrenza del termine per l'impugnazione dell'atto amministrativo che con tale effetto si pone in contrasto.
In definitiva, l’effetto conformativo discendente dal giudicato impedisce l’adozione di atti amministrativi che con esso confliggono, anche indipendentemente dalla azionabilità in ottemperanza delle statuizioni della sentenza passata in cosa giudicata e della declaratoria di nullità degli atti adottati. Vengono così a scindersi l’eseguibilità del giudicato (impedita dalla prescrizione dell’actio iudicati) e la persistenza dell’effetto conformativo del medesimo, che comporta, comunque, il dovere dell’amministrazione di non adottare atti che contrastino con l’accertamento giudiziale e il conseguenziale effetto conformativo. Il diritto all’esecuzione del giudicato non è azionabile ma il dovere di tener conto del giudicato nelle ulteriori attività dell’amministrazione permane, con la conseguente possibilità di ritenere annullabile l’atto che non lo consideri.
I Giudici di Palazzo Spada ritengono che quanto esposto valga anche in presenza di attività amministrativa di repressione di abusi edilizi.
L'attività in esame è, normalmente, vincolata con la conseguenza che il giudice amministrativo accerta il rapporto con la produzione di un vincolo conformativo pieno sulla successiva attività amministrativa.
Può accadere, tuttavia, in presenza di annullamento giudiziale di titoli edilizi già rilasciati ovvero per la complessità della vicenda amministrativa, che la pubblica amministrazione sia titolare di poteri discrezionali, con le conseguenze in ordine al regime dell'attività successiva sopra riportata.
La fattispecie in esame si colloca in questo contesto.
Con la sentenza n. 1255 del 1996, passata in giudicato, il Consiglio di Stato ha ritenuto regolarizzabile l’immobile ma necessaria una valutazione sulle opere di urbanizzazione assentibili, sicché, in conseguenza di questo, l’annullamento giurisdizionale della sanatoria poi ottenuta non ha comportato affatto l’automatica demolizione del realizzato ma un dovere di ricostruzione del complesso dei procedimenti sviluppatisi nel tempo, senza che alcuni peraltro si concludessero, da cui è derivata la necessità di pronuncia espressa sulle istanze pendenti. La stessa sentenza ha previsto, infatti, che l’amministrazione comunale avrebbe dovuto «pronunciarsi ancora una volta» sulla concessione edilizia. Si tratta di una sentenza che non aveva accertato in modo definitivo il rapporto giuridico controverso ma si era limitata ad affermare l’esistenza di un difetto di istruttoria.
Dopo il suddetto giudicato si è inserita una “vicenda amministrativa diversa” ma collegata, in quanto il privato ha presentato una domanda di sanatoria, ai soli fini cautelativi, senza rinunciare agli effetti della sentenza di annullamento.
Il Comune ha rigettato tale domanda con provvedimento espresso che è stato oggetto di impugnazione, rigettata con sentenza n. 243 del 2014 del Tribunale amministrativo, passata in giudicato.
Successivamente il Comune ha adottato, d’ufficio, l’ordinanza di demolizione del capannone.
Sullo svolgimento di tale diversa azione amministrativa ha prodotto, però, effetti conformativi di tipo preclusivo il giudicato amministrativo di cui alla sopracitata sentenza del Consiglio di Stato n. 1255 del 1996 che, come sottolineato, imponeva all’amministrazione, prima di disporre la demolizione, di concludere il precedente procedimento amministrativo al fine di valutare l’effettiva consistenza delle opere di urbanizzazione.
Per tali ragioni, nella sentenza in commento, la VI Sezione del Consiglio di Stato, accogliendo l'appello, conclude testualmente che :“Il mancato rispetto di tale vincolo conformativo ha determinato la complessiva incoerenza e irrazionalità dell’azione amministrativa che risulta, pertanto, come correttamente posto in rilievo all’appellante, illegittima per eccesso di potere. In definitiva, il Comune, prima di procedere alla demolizione, avrebbe dovuto dare esecuzione alla sentenza sopra riportata. L’effetto conformativo che da essa discende “impedisce” di procedere alla demolizione delle opere prima di aver esaminato la questione degli oneri di urbanizzazione e della vecchia istanza di concessione ancora pendente.
Né varrebbe rilevare, come sostenuto dalla parte resistente e condiviso dal primo giudice, che l’azione di ottemperanza sarebbe prescritta per avvenuto decorso dei dieci anni.
In questo caso, infatti, non è stata proposta un’azione di ottemperanza ma un’azione di annullamento dell’ordine di demolizione, contrastante con tale effetto conformativo e con i predetti doveri dell’amministrazione.”( cfr.ivi)[6]
- Riflessioni a margine della pronuncia.
La pronuncia in argomento offre uno spunto di riflessione sul potere di riedizione che conserva la P.A. a seguito del giudicato amministrativo ed in particolare a seguito degli effetti conformativi prodotti dal predetto giudicato e sulla tutela giurisdizionale apprestata al privato in caso adozione di un nuovo provvedimento.
A fronte della discrezionalità piena o semipiena che residua in capo all'Amministrazione di emanare un nuovo provvedimento che tuttavia tenga conto delle prescrizioni contenute nella pronuncia del G.A. si pone il problema di scongiurare il pericolo che la crisi di cooperazione tra amministrazione e cittadini possa risolversi in una defatigante alternanza tra procedimento e processo, senza che sia possibile addivenire ad una definizione positiva del conflitto, con grave dispendio di risorse pubbliche e private.
Va premesso che, secondo un consolidato indirizzo del Consiglio di Stato a partire dalla sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013, è ben ammissibile la proposizione di un solo ricorso, in luogo dei due che in passato, per ragioni di cautela processuale, l'interessato era costretto ad esperire, avverso tutti i provvedimenti emanati dall'amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di un provvedimento davanti al giudice dell'ottemperanza.[7]
Nel caso in cui quest'ultimo ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall'amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone cosi la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso in sede di cognizione avverso il medesimo nuovo provvedimento. Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell'azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.
Ciò premesso il dibattito sulle forme di tutela azionabili nel caso in cui l'amministrazione reiteri il proprio potere adottando un provvedimento ugualmente negativo per il provato è risalente.
Secondo un impostazione teorica che ha avuto ampio seguito, il giudicato cristallizza solo un segmento del “flusso” amministrativo continuativo ed inesauribile. La validità del provvedimento impugnato non viene scrutinata dal giudice nel suo complesso – ovvero per qualsiasi ipotetico vizio, anche non apertamente sollevato nel processo – bensì solo in relazione agli specifici vizi motivi esposti nel ricorso. In ragione del carattere «ristretto» e «frammentario» della cognizione, l’azione amministrativa si riespande su tutti gli spazi non coperti dalla parentesi giurisdizionale.
Su queste basi, si fronteggiano tuttavia due letture divergenti del giudizio di ottemperanza.
L’indirizzo maggioritario assume che le regole fissate in sede di cognizione – aventi carattere «implicito», «elastico», «condizionato», e «incompleto» – possano essere integrate nel giudizio di ottemperanza, con la conseguenza che il giudicato sostanziale (ovvero la definizione dell’assetto di interessi controverso) si forma soltanto «in via progressiva». Tale impostazione, che identifica nell’ottemperanza la «chiave della giurisdizione amministrativa», non ha però mai chiarito in quali specifici termini il giudizio di ottemperanza possa completare l’accertamento giudiziale che ha avuto il suo esito nel giudizio di cognizione, manifestandosi opinioni divergenti circa natura, oggetto, poteri e vincoli di una questa peculiare «cognizione esecutiva».[8]
Un opposto orientamento ritiene invece che la sentenza amministrativa sia titolo esclusivamente per l’azione esecutiva e non per la “prosecuzione” del giudizio di cognizione, cosicché il giudizio di ottemperanza dovrebbe limitarsi a tradurre in atto le statuizioni contenute nella sentenza definitiva senza possibilità di integrarle.[9]
In tempi recenti sono state formulate – in giurisprudenza come in dottrina – svariate proposte “operative” ispirate ai principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo (i quali imporrebbero di rimeditare la tesi del giudicato a formazione progressiva). Al fine di riconoscere al giudicato amministrativo l’effetto di cristallizzare situazioni giuridiche resistenti alla riedizione del potere amministrativo:
- una tesi “radicale” suggerisce di rafforzare la capacità stabilizzante del giudicato amministrativo, ritenendo che esso copra non solo il dedotto ma anche il deducibile, con la conseguenza che, nel caso di giudicato di annullamento su vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi vizi, integra una violazione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione (secondo una variante, analogo vincolo deriverebbe, prima ancora che dal giudicato, dalla preclusione maturata nel corso del procedimento amministrativo);
- una tesi “mediana” sostiene invece che, dopo la formazione del giudicato, la pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale possa sì individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola.
Sennonché, la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013 – chiamata a giudicare proprio sulla rinnovazione di un concorso universitario in cui la medesima commissione aveva reiterato con motivazioni diverse il suo giudizio negativo già oggetto di annullamento giurisdizionale – non ha accolto le predette istanze evolutive, in quanto ritenute contrastanti con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione. La peculiarità del giudizio amministrativo – si è detto – impedisce la piena espansione del principio del dedotto e del deducibile, poiché il giudicato amministrativo non può che formarsi con esclusivo riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi dedotti nel ricorso. La sede per sindacare la legittimità dell’atto in sede di riedizione del potere amministrativo sotto profili che non abbiano formato oggetto delle statuizioni della sentenza (andando a coprire spazi lasciati vuoti dal giudicato) non può che essere il giudizio ordinario di cognizione e non il giudizio di ottemperanza.
La successiva sentenza dell’Adunanza plenaria n. 11 del 9 giugno 2016, in continuità con la citata statuizione del 2013, afferma che «[l]a dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni “integrative”, ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale» (mette conto precisare che, in tale caso, la riedizione del potere viene giustificata sulla scorta di una sopravvenienza giuridica, cui viene equiparata la sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di Giustizia, mentre la precedente sentenza dell’Adunanza plenaria del 2013 si pronunciava sulla deduzione di fatti pregressi ma non dedotti nel precedente giudizio).[10]
L’impostazione di fondo – secondo cui l’efficacia oggettiva del giudicato amministrativo non esclude in assoluto la possibilità di riedizione sfavorevole del potere, anche in assenza di sopravvenienze – è presupposta anche dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 9 febbraio 2016, relativa ad una fattispecie di inerzia dell’amministrazione, in cui viene riconosciuto il potere del commissario ad acta di emanare un provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del Testo unico sull’edilizia n. 327/2001.
La dimensione oggettiva del giudicato amministrativo è correlata all’oggetto del processo e alla struttura del giudizio. Quando è impugnato un provvedimento discrezionale, i limiti oggettivi del giudicato amministrativo sono saldamente ancorati agli specifici argomenti di fatto e di diritto che integrano la violazione accertata dal giudice. Occorre quindi isolare il «dispositivo sostanziale» della motivazione, che nel processo amministrativo oltrepassa la funzione meramente giustificativa della decisione, in quanto può conformare la successiva attività amministrativa.
Occorre a questo punto precisare le conseguenze del dispositivo di annullamento.
Occorre, in altri termini, tornare ancora una volta sulla questione se, dopo l’accertamento giurisdizionale della illegittimità di un provvedimento come ad es. di un'istanza di un privato,l’amministrazione possa negare nuovamente al ricorrente il bene della vita a cui il medesimo aspira in base ad accertamenti o valutazioni che sarebbero potuti essere già compiuti nell’originario procedimento amministrativo, ovvero se ne consegua il vincolo conformativo di accordare la richiesta del cittadino.
Quello che si tende a scongiurare è che la crisi di cooperazione tra amministrazione e cittadino possa risolversi in una defatigante alternanza tra procedimento e processo, senza che sia possibile addivenire ad una definizione positiva del conflitto, con grave dispendio di risorse pubbliche e private.
Il discorso si presenta evidentemente molto ampio, in quanto involge svariati aspetti di teoria generale: la struttura impugnatoria del processo su ricorso, il suo oggetto, i rapporti tra atto e processo, tra processo e procedimento, tra cognizione ed esecuzione, nonché la consistenza della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo – va opportunamente circoscritto.
Il giudicato amministrativo si presenta infatti in modo poliedrico, a seconda del modello di azione in contestazione (in particolare, a seconda del tipo e grado di discrezionalità amministrativa), delle situazioni giuridiche coinvolte (diritti e interessi legittimi, oppositivi e pretensivi), e della tipologia di vizio posto a fondamento della pronuncia costitutiva.
Nel sistema di tutela amministrativa ben possono darsi disposizioni protettive la cui violazione priva gli interessati non del risultato finale, bensì di una utilità intermedia, consistente nella mera possibilità di un risultato vantaggioso. In tali casi, la sentenza non si pone quale fonte diretta del «rapporto amministrativo» in sostituzione di un «atto amministrativo», semplicemente perché non può contenere l’accertamento sostanziale dei presupposti per ottenere il risultato della vita. In definitiva, quando l’eliminazione dell’atto impugnato avviene sulla base dell’accertamento di uno o più vizi che attengono a elementi discrezionali dell’esercizio del potere, la sentenza limita il potere nella sua fase di rinnovo ma senza segnarne l’esito.
Nei casi in cui l’interesse legittimo attiene ad un “bene intermedio”, l’ordinamento amministrativo, sovente, non predetermina alcuna gerarchia degli interessi in conflitto, demandando tale compito all’azione amministrativa, sia pure sottoponendola a condizioni. La protezione di questo “bene intermedio”, allora, si proietta nel procedimento decisionale attraverso congegni limitativi e conformativi del potere amministrativo. Quando tali limitazioni non ricomprendono nel loro raggio di protezione l’interesse materiale, la tutela processuale di annullamento finisce per incidere sulle manifestazioni del potere amministrativo in termini essenzialmente negativi.
Resta da capire se questa “possibilità attuativa” debba necessariamente scontare l’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatta, oppure se il sistema di giustizia amministrativa sia in grado di approntare un rimedio adeguato al bisogno di tutela, rendendo concretamente tangibile l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali. La necessità di dimostrare nei fatti tale evoluzione appare anche coerente con la recente affermazione “secondo la quale, avendo riguardo alla concezione soggettiva della tutela e alla centralità processuale della situazione soggettiva rispetto all’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, sembra ormai potersi «capovolgere definitivamente l’allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può forse spingere ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo”[11]
A tal fine, non è utilmente invocabile il principio del dedotto e del deducibile, quale espediente per ampliare i confini di estensione dell’area coperta dalla forza del giudicato amministrativo. Al di là delle svariate ricostruzioni dottrinali, l’anzidetto principio giurisprudenziale – il quale, come avverte la dottrina, non influisce in modo alcuno nel senso di restringere o ampliare i limiti oggettivi del giudicato – sta ad indicare che non è ammesso al giudice di un futuro processo di disconoscere o diminuire il bene riconosciuto nel precedente giudizio: ma tale bene è rappresentato dalla sola possibilità di vedere realizzato il risultato sperato. Per gli stessi motivi è del pari infruttuoso richiamare gli esiti del dibattito civilistico sull’oggetto del processo e del giudicato nelle impugnative c.d. negoziali, in quanto trattasi di profili che evidentemente per nulla sono in grado di proiettare verso la «spettanza» la tipologia di contenzioso in esame.
All’esito dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa culminata con il nuovo codice del processo amministrativo, il sistema delle tutele è stato segnato dai seguenti principali sviluppi, che si pongono tutti in direzione di una maggiore “effettività” del sindacato del giudice amministrativo, sia nei casi in cui il provvedimento viene confermato, sia nei casi in cui l’interesse legittimo viene ritenuto leso.
Quanto al primo di tali profili, mentre lo schema classico della giustizia amministrativa era contrassegnato dalla equivalenza di tutte le norme violate, nel contesto attuale le risultanze del processo devono essere invece commisurate alla consistenza dell’interesse materiale: ciò accade, sia nell’azione costitutiva – dove, per effetto dell’art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, la difformità dal diritto obiettivo che non abbia inciso sulla adeguata sistemazione degli interessi in gioco non può comportare l’annullamento dell’atto –, sia nell’azione di condanna, dove pure non può accordarsi protezione al portatore di rimostranze meramente “formalistiche”.[12]
Quanto al secondo di tali profili, anche (rectius, soprattutto) la protezione dell’interesse legittimo ha nel contempo guadagnato in «effettività», sotto i seguenti aspetti:
- il c.p.a. prefigura un sistema aperto di tutele e non di azioni tipiche, il quale riflette l’esigenza di una tutela conformata non alla situazioni giuridiche sostantive (secondo la tradizione romanistica) bensì al bisogno differenziato di tutela dell’interesse protetto, il cui grado e la cui intensità sono spesso definiti ex post dal giudice e non ex ante;
- per quanto permanga la centralità della struttura impugnatoria, il c.p.a. valorizza al massimo grado le potenzialità cognitive dell’azione di annullamento attraverso istituti che consentono di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita;
- è oramai acclarata la possibilità per il giudice di spingersi “oltre” la rappresentazione dei fatti forniti dal procedimento (l’art. 64 del c.p.a. contiene una traccia, sia pure incompiuta, degli oneri di contestazione, di allegazione, di prova necessari ad ordinare in forma sequenziale un giudizio esteso al rapporto), in quanto al giudice compete l’accertamento del fatto senza essere vincolato a quanto rappresentato nel provvedimento;
- al giudice della cognizione è stato attribuito il potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza, di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta (art. 34 comma 1 lettera e), consentendo di esplicitare a priori, ovvero nel dispositivo della sentenza, gli effetti conformativi e ripristinatori da cui discende la regola del rapporto, e non più a posteriori, in sede di scrutinio della condotta tenuta dall’amministrazione dopo la sentenza di annullamento;
- in definitiva, la giurisdizione è piena, nel senso che il giudice ha il potere di riformare in qualsiasi punto, in fatto come in diritto, la decisione impugnata resa dall’autorità amministrativa.
Sennonché, sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza amministrativa l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale. Ciò accade nell'ipotesi di discrezionalità tecnica:in questi casi, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione, dovendo verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto.
Per ampliare i margini di tutela, l’interessato resta libero di far valere, non solo la pretesa ad un provvedimento (specifico) satisfattivo, ma anche la pretesa (minore) ad un provvedimento legittimo. L’accoglimento dell’interesse strumentale qui non è altro che un modo di proteggere l’interesse finale, nei casi in cui (per l’atteggiarsi concreto della singola fattispecie normativa e amministrativa) non sia possibile dedurre in giudizio la titolarità di una posizione sostantiva finale, bensì soltanto il rispetto di un sistema di regole.
Lo stesso codice del processo amministrativo, pur non tratteggiando un modello compiuto, consente di delineare in via interpretativa un dispositivo di chiusura del sistema, volto a scongiurare l’indefinita parcellizzazione giudiziaria di una vicenda sostanzialmente unitaria. Tale dispositivo può essere indentificato, su più ampie basi argomentative, nella “riduzione progressiva della discrezionalità amministrativa”, in via sostanziale o processuale.
Date le premesse, il codice del processo amministrativo affida poi a due disposizioni il compito di esplicitare (per la prima volta) il punto di contemperamento tra il principio di giustiziabilità delle pretese e di effettività della tutela (24, 103 e 113 Cost., artt. 6 e 13 della Convenzione europea) ed il principio di separazione dei poteri (art. 1 e 97 Cost., con il quale tradizionalmente viene giustificata la riserva di valutazione in capo alla pubblica amministrazione).
L’art. 31, comma 3, del c.p.a. – avente applicazione generale, sia che l’amministrazione rimanga inerte sia che emani un provvedimento espresso di diniego – dispone che: «[i]l giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione». Quindi, per la definizione dell’intero rapporto sostanziale, vengono dettati i seguenti limiti: soltanto quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di discrezionalità, il giudice potrà spingersi sino alla verifica dell’esistenza in concreto dei presupposti e requisiti in presenza dei quali il ricorrente può ottenere il provvedimento richiesto.
Dall’art. 34, comma 2, del c.p.a. – alla cui stregua il giudice non può pronunciarsi che «con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati» (art. 34, comma 2) – si desume invece che non sono consentite domande di tutela preventiva dell’interesse legittimo, dirette cioè ad orientare l’azione futura dell’amministrazione, prima che questa abbia ancora provveduto.
Ebbene, la “riduzione” della discrezionalità amministrativa (anche tecnica) può essere l’effetto:
- a) sul piano “sostanziale, degli auto-vincoli discendenti dal dipanarsi dell’azione amministrativa, contrassegnata dal crescente impiego di fonti secondarie e terziarie che si pongono spesso come parametri rigidi per sindacare l’esercizio della funzione amministrativa concreta (anche se originariamente connotata in termini discrezionali);
- b) sul piano “processuale” dei meccanismi giudiziari che, sollecitando l’amministrazione resistente a compiere ogni valutazione rimanente sulla materia controversa, consentono di focalizzare l’accertamento, attraverso successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere (si pensi alla combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti avverso l’atto di riesercizio del potere, ma anche alle preclusioni istruttorie e alla regola di giudizio fondata sull’onere della prova), concentrando in un solo episodio giurisdizionale tutta quella attività di cognizione che prima doveva necessariamente essere completata in sede di ottemperanza.
La consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di poter tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati.
In alcuni casi, può accadere che la pervicacia degli organi amministrativi a reiterare le statuizioni annullate integri una elusione (palese o occulta) del giudicato: in tal caso deve ammettersi la possibilità, per il giudice dell’ottemperanza, di sindacare anche su aspetti non pregiudicati dalla sentenza.
Pur con tutte le inevitabili esigenze di assestamento, il rimedio appena tratteggiato – i cui contorni ed i cui limiti saranno precisati dalla casistica giurisprudenziale (che dovrà specificare, ad esempio, cosa accade quando vengano in rilievo decisioni pubbliche di elevata discrezionalità e valore politico) – appare in grado di contemperare la regola per cui il processo amministrativo non può attribuire un bene della vita prima di una determinazione della pubblica amministrazione, con l’esigenza di assicurare, sin dove possibile, una tutela piena anche all’interesse pretensivo[13] (per il quale la pronuncia di annullamento raramente si presenta autonomamente satisfattiva), tenuto conto delle specificità correlate al sindacato sul potere pubblico.
È compito precipuo della giustizia amministrativa approntare i mezzi che consentono di ridurre la distanza che spesso si annida tra l’efficacia delle regole e l’effettività delle tutele. La tutela piena, del resto, risponde anche ad un obiettivo di efficienza complessiva del sistema, dal momento che lo sviluppo economico e sociale del Paese passa anche attraverso una risposta rapida e “conclusiva” delle ragioni di contrasto tra le Amministrazioni ed i cittadini.
NOTE:
[1] Sul giudicato amministrativo di annullamento si veda F. Caringella, Manuale di Diritto Amministrativo, Roma, Dike, 2020; V. Lopilato Manuale di Diritto Ammnistrativo, Torino, Giappichelli, 2020; M. Clarich Manuale di Diritto Amministrativo, Bologna, Il Mulino, 2019 ; M.Corradino, Diritto Amministraivo, Bari, Cacucci, 2018 ; E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre ,2019.
[2] Sugli effetti del giudicato amministrativo di annullamento si veda G. Corso, Manuale di Diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2020; V. Lopilato Manuale di Diritto Amministrativo, Torino, Giappichelli, 2020; M. Clarich Manuale di Diritto Amministrativo, Bologna, Il Mulino, 2019; V. Cerulli Irelli, Lineamenti del Diritto Amministrativo, Torino, Giappichelli, 2019; F.G. Scoca ( a cura di ), Giustizia Amministrativa, Torino, Giappichelli, 2017
[3] Per un approfondimento sul tema degli effetti caducanti crf. Consiglio di Stato sez, V, 10 aprile 2018 n. 2168; in dottrina si veda F. Caringella, Manuale di Diritto Amministrativo, Roma, Dike, 2020; V. Lopilato Manuale di Diritto Ammnistrativo, Torino, Giappichelli, 2020; M. Clarich Manuale di Diritto Amministrativo, Bologna, Il Mulino, 2019; M.Corradino Diritto Amministraivo, .Bari, Cacucci, 2018; E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre ,2019
[4] Sulla attività amministrativa vincolata e discrezionale si veda M. Clarich Manuale di Diritto Amministrativo, Bologna,Il Mulino 2019; F.G. Scoca ( a cura di ), Diritto Ammnistrativo, Torino, Giappichelli, 2019;E.Casetta, Manuale di diritto ammnstrativo, Milano, Giuffre' Francis Lefebvre, 2019; S. Cassese ( a cura di ), Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2015
[5] Art. 112 Disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza
- I provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altre parti.
2. L'azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l'attuazione:
a) delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato;
b) delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;
c) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato;
d) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione;
e) dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato.
3. Può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell'ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione. (1)
(...) (2)
5. Il ricorso di cui al presente articolo può essere proposto anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza.
(1) Il comma che così recitava: "3. Può essere proposta anche azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonchè azione di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato." è stato sostituito dal D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195.
(2) Il comma che così recitava: "4. Nel processo di ottemperanza può essere altresì proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all'articolo 30, comma 5, nel termine ivi stabilito. In tal caso il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario." è stato soppresso dal D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195.
[6] In tal senso Cons. St, sez VI, 11 marzo 2020, n. 1738.
[7] Nella pronuncia n. 2 del 15 gennaio 2013 l'Adunanza Plenaria afferma che il giudizio di ottemperanza:"presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale)".
[8] In tal senso ex multis Consiglio di Stato 2 gennaio 2018 n. 15
[9] In tal senso ex multis Consiglio di Stato , sez. VI, 17 marzo 2016 n. 1105
[10] Adunanza Plenaria Consiglio di Stato n. 11 del 9 giugno 2016
[11] In tal senso Consiglio di Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019 n.1321
[12] Sull'art 21 L. 241/90 e sull'azione di condanna si veda r. V. Lopilato, Manuale di Diritto Ammnistrativo, Torino, Giappichelli, 2020; F.Caringella, Manuale ragionato di Diritto Amministrativo, Roma, Dike, 2019; V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2019; G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino , Giappichelli,2020
[13] Per un approfondimento sul tema dell'interesse pretensivo su veda F. Caringella, Manuale di Diritto Amministrativo, Roma, Dike, 2020; V. Lopilato Manuale di Diritto Ammnistrativo, Torino, Giappichelli; M. Clarich Manuale di Diritto Amministrativo, Bologna, Il Mulino,2019; M. Corradino, Diritto Amministrativo, Bari, Cacucci, 2018