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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Giurisprudenza Penale



L’abuso di autorità nei reati sessuali: tra agere publicus e iure privatorum.

Di Annalisa Imparato
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NOTA A CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI,

SENTENZA 1 ottobre 2020, n. 27326.

 

L’abuso di autorita’ nei reati sessuali: tra agere publicus e iure privatorum.

Di ANNALISA IMPARATO

 

Il discrimen tra l’ipotesi delittuosa di violenza sessuale e la diversa fattispecie di atti sessuali con minori ha, da sempre, suscitato particolare attenzione nella dottrina italiana e nei giudici di prime cure. La sussunzione nell’una piuttosto che nell’altra fattispecie incriminatrice determina, non una diversa cornice edittale, ma una diversa valutazione del fatto storico.

La clausola di sussidiarietà posta dall’art. 609 quater c.p., infatti, delimita il campo di applicazione della detta norma, in perfetta aderenza con l’impostazione originale voluta dal legislatore per il quale gli atti sessuali con minore hanno un’applicazione residuale trattandosi di ipotesi delittuosa parificata solo quoad poenam.

Seppur vero che il disvalore penale del fatto emerge, preponderante, dalla cornice edittale imposta dal legislatore, è altrettanto vero che non possiamo – in quanto operatori giuridici – parificare tout court le due ipotesi delittuose, allorquando le stesse siano riferibili a soggetti minori.

Innanzitutto, è bene precisare, in via del tutto preliminare, che la sussunzione nell’ipotesi di cui all’art. 609 bis c.p. determina uno sforzo probatorio maggiore: l’assenza totale del consenso – elemento intorno al quale ruota integralmente il delitto di violenza sessuale – rappresenta un nodo, talvolta, ostico da sciogliere; mentre il vizio del consenso voluto dalla ipotesi di cui all’art. 609 quater c.p. è, talvolta, in re ipsa perché connaturato alla minore età della giovane vittima.

Ciò premesso, è fondamentale chiarire che, ancora una volta, la giurisprudenza di legittimità , per formulare un principio di diritto relativo alla configurabilità dell’abuso di autorità ex art. 609 bis c.p. nell’ambito di rapporti di natura privatistica e non formalmente pubblicistici, analizza, in linea generale, le differenze tra violenza sessuale e atti sessuali con minori, e, in particolare, la distinzione tra l’abuso di autorità di cui all’art. 609 bis c.p. e il rapporto di affidamento tra minore e autore del reato ex art. 609 quater comma I nr. 2 c.p.

La teoria, ad oggi ormai minoritaria, collocava nell’ambito dell’abuso di autorità i soli rapporti di tipo formale e pubblicistico,  ricalcando la originaria dicitura dell’art. 520 c.p. (che già contemplava per il reato di congiunzione carnale la figura soggettiva del pubblico ufficiale).

Una simile impostazione, fondata su una interpretazione tradizionale dell’impianto codicistico, ha da sempre determinato una applicazione ristretta della costrizione mediante abuso di autorità di cui all’art. 609 bis c.p., con riespansione della diversa ipotesi di atti sessuali con minori.

Ove il rapporto tra vittima e autore del reato fosse riconducibile entro schemi privatistici, dunque al di fuori delle ipotesi di qualifiche formali di diritto pubblico – pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio – e rapporti di origine  autoritativa e/o di natura gerarchica, il fatto doveva essere qualificato come atti sessuali con minorenne, riferendosi ad una delle ipotesi di affidamento tra minore e autore del reato.

Così, ad esempio, in più pronunce, il giudice di prime cure ha qualificato gli atti sessuali realizzati in danno di una minore da parte di un insegnante privato il quale aveva in affidamento la stessa per ragioni di istruzione ed educazione.

La tesi formale, sostenuta a lungo dalla Corte di Cassazione – anche Sezioni Unite nr. 13 del 31.05.2000 – si fonda essenzialmente su due argomenti. Il primo di natura sistematica e di coerenza normativa, il secondo di tipo letterale.

L’art. 609 bis c.p.  – ricalcando l’art. 520 c.p. come anticipato – si fonda sulla costrizione nascente da un esercizio distorto dei poteri alla funzione pubblicistica esercitata dall’autore del reato il quale, per attribuzione normativa o provvedimentale, gode di una posizione sovraordinata. Tale coartazione nasce, dunque, dal riconoscimento implicito o esplicito, della posizione superiore: la vittima è annientata nella capacità di autodeterminarsi rispetto all’atto sessuale perchè riconosce e subisce il ruolo del soggetto che ha di fronte, ruolo riconoscibile ex se perché di derivazione autoritativa.

Ove trattasi, dunque, di qualifica formale e pubblica opera, per una simile impostazione, l’art. 609 bis c.p.

Nel caso contrario, per ruoli che gravitano in ambiti iure privatorum – insegnante di un corso professionale; istruttore di equitazione; maestro di musica; insegnante privato etc.. – la giurisprudenza riteneva pacifico applicare l’art. 609 quater c.p. caratterizzato dall’induzione all’atto sessuale di minore di anni sedici ad opera di ascendente o di soggetto in rapporto qualificato con lo stesso.

Inoltre, è opportuno rilevare elementi di contiguità tra l’ipotesi di minore di anni sedici in rapporto qualificato con l’autore, art. 609 quater c. 1 nr. 2 c.p., e l’ipotesi di induzione all’atto sessuale di soggetto in condizione di inferiorità psichica o fisica, art. 609 bis nr. 1 c.p.: entrambe queste ipotesi, difettano del requisito della costrizione, presente invece – quale elemento qualificante – nel reato di cui all’art. 609 bis comma 1 c.p.

Tale osservazione non è fuorviante, ma, invece, vuole suscitare nel lettore una riflessione: il legislatore vuole realmente accomunare le due suddette ipotesi? Realmente il vero discrimen sussiste tra il comma 1 art. 609 c.p. e il comma 2 nr. 1 art. 609 c.p.? Oppure è necessario  cambiare la prospettiva da cui analizzare la questione giuridica?

Certo è che l’unico elemento discretivo tra le ipotesi di violenza sessuale e atti sessuali è il consenso: nel primo caso assente del tutto; nel secondo caso, presente ma viziato. E di questo, la giurisprudenza successiva al 2000 ha avuto piena contezza, riconoscendo che non già la natura pubblicistica o meno del rapporto vittima-carnefice determina la distinzione tra i due delitti, bensì la presenza o meno della volontà aderente della vittima.

Anche nell’art. 609 bis comma 2 nr. 1 c.p. – approfittamento delle condizioni di inferiorità fisica o psichica – per giurisprudenza pacifica lo status della vittima si riverbera sulle sue capacità cognitive e volitive annientandone qualsivoglia aspetto. Dunque, anche in questo caso, il consenso manca.

Partendo da simili spunti, la giurisprudenza di merito prima e di legittimità poi, ha vagliato la possibilità di ampliare le maglie dell’art. 609 bis c.p. riconoscendo, in assenza di consenso della persona offesa, il delitto di violenza sessuale con abuso di autorità anche ove trattasi di rapporto non autoritativo-pubblicistico.

La subordinazione psicologica ottenuta attraverso un strumentalizzazione del proprio potere, non deriva ex se dalla natura formale della qualifica rivestita, ma discende – senza dubbio – dall’uso distorto che di quel potere fa l’autore del reato, qualunque sia la sua collocazione dogmatica.

La pressione psichica nascente dalla strumentalizzazione di una forza superiore – sia esso potere pubblicistico sia esso qualificato sulla base di contingenze del caso concreto ma meramente privatistico – annienta la volizione della vittima in favore della prevaricazione del soggetto agente.

È questo il piano su cui deve, inevitabilmente, operare.

L’interpretazione letterale dell’art. 609 bis c.p. non impone che alla locuzione “abuso di autorità” si debba dare un’accezione esclusivamente pubblicistica. Da una lettura sistematica del codice penale, infatti, ove il legislatore avesse voluto attribuire natura formale e pubblicistica ad un rapporto, lo ha fatto espressamente.

Il diverso orientamento, oggi maggioritario e sostenuto dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite 1 Ottobre 2020, si fonda proprio sul dato letterale e sul criterio teleologico: da un lato si ritiene che nulla osti al riconoscimento, nell’alveo dell’art. 609 bis c.p., di rapporti iure privatorum; dall’altro, la ratio della norma incriminatrice è stigmatizzare ogni abuso, ogni uso distorto di qualsivoglia posizione di supremazia sia se derivante dalla legge/atto autoritativo sia se percepita come tale dalla vita per il rapporto qualificato con l’autore.

L’impostazione progressista e sostanzialista riconosce un’applicazione più ampia della norma, la cui portata, dunque, è estesa a tutte le forme di abuso di autorità purché determinanti una coartazione della volontà della persona offesa.

L’abuso, innanzitutto, presuppone la titolarità di una potestà – ad esempio genitore, tutore, datore di lavoro, insegnante, istruttore, parente o affidatario – che viene utilizzata per prevaricare la vittima e, realizzare, un fine diverso ed ultroneo rispetto a quello connaturato al potere di cui si gode.

La soggezione si desume, oltre che dalla supremazia insita in ruoli di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio, dal contesto familiare, culturale e sociale in cui vittima e carnefice si collocano. Nella valutazione globale del fatto, dunque, l’operatore del diritto non può prescindere dall’analisi delle contingenze fattuali.

Affinché il fatto sia sussumibile nell’ambito dell’art. 609 bis c.p. deve essere provato, però, l’abuso di autorità, quale elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice, che deve distinguersi dall’abuso di potere imposto dalla diversa ipotesi ex art. 609 quater c.p.

Secondo la Suprema Corte, infatti, mentre la locuzione ”Abuso di autorità” indica la strumentalizzazione della dimensione soggettiva dell’autorità – connaturata alla posizione detenuta dal soggetto agente e percepita dalla persona offesa – il diverso ”abuso di potere” considera la dimensione oggettiva, cioè la funzione del potere, la sua sostanza.

Il dato letterale non è trascurabile se compendiato dalla coerenza normativa e dalla ratio legis. La formulazione dell’art. 609 bis c.p. non lascia ampi margini di dubbio: la violenza sessuale “costrittiva” deve fondarsi o su violenza o minaccia, o su abuso di autorità.

Violenza, minaccia e abuso di autorità – totalmente parificate sul piano oggettivo del delitto – evidenziano la volontà del legislatore di dare rilevanza penale alle sole condotte coercitive, alle sole forme coattive di annientamento della volontà altrui, qualunque risvolto esse assumano.

Vis quale forza fisica; minaccia quale prospettazione di male ingiusto e futuro; abuso di autorità quale prevaricazione compensata da soggezione altrui: tutte convergono vergono la strumentalizzazione della vulnerabilità.

Vittima come mezzo per il soddisfacimento degli impulsi sessuali, questo il sunto esplicativo della Corte di Cassazione.

L’abuso di autorità, nello specifico, determina una condizione di sudditanza materiale o psicologica ma non psichica, sottolineano i Giudici della Suprema Corte: non vi è nulla di patologico nella persona offesa, altrimenti si verserebbe nella diversa ipotesi di violenza sessuale per “induzione” in soggetto in condizioni di inferiorità.

L’abuso va distinto dalla violenza che rappresenta una forza fisica che invade la sfera personale altrui e dalla minaccia che determina una intimidazione nella vittima; l’abuso “trae origine dal particolare contesto relazionale tra soggetto agente e persona offesa”.

Il ruolo autoritativo del primo imprime, nella vittima, un vincolo: non residuano in questa valide alternative di scelta rispetto al compimento o all’accettazione dell’atto sessuale che, consegue, dunque, alla strumentalizzazione di una posizione di supremazia.

È netto, dunque, il confine tra le ipotesi di violenza sessuale e atti sessuali “considerando il vizio del consenso del minore determinato dalla differente maturità sessuale dell’agente e richiamando la differenza ontologica e giuridica del rapporto intercorrente tra autore del reato e persona offesa rispetto alle due fattispecie richiamate.”.

La Corte di cassazione, invero, a sostegno della tesi progressista, incentrano la parte motiva anche su un altro argomento di natura sistematica. La collocazione topografica del reato di violenza sessuale tra i reati contro la libertà personale e la tipizzazione quale reato comune ne determinano una portata applicativa ampia, sganciata da qualifiche formali –tipizzate ove volute dal legislatore in aderenza al principio in claris non fit interpretatio .

Non vi sono, in conclusione, elementi validi ad argomentare una impostazione restrittiva: nè sul piano letterale, nè sul piano sistematico. Il parallelismo tra il previgente art. 520 c.p. e il nuovo art. 609 bis c.p. non può, ex se, supportare la tesi restrittiva: l’art. 520 c.p. tipizzava una fattispecie solo in parte sovrapponibile all’ipotesi di violenza sessuale mediante abuso di autorità. Nell’art. 520 c.p. difettava l’elemento fondamentale della “costrizione” ruotando tutto il disvalore del fatto intorno al nesso occasionale tra la posizione di pubblico ufficiale e il fatto, tanto da essere penalmente rilevante la congiunzione carnale realizzata con soggetto consenziente o indotta dal soggetto passivo.

Sul piano teleologico, inoltre, è bene precisare che mentre l’art. 609 bis c.p. tutela la libertà di autodeterminazione del minore, l’art. 609 quater c.p. protegge l’integrità fisio-psichica nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria sessualità.

Il binomio abuso di autorità- abuso di potere è correlato alla capacità di reazione della persona offesa: nel primo caso rapporti di natura pubblicistica e privatistica come lavoro dipendente, anche irregolare, supremazia riscontrabile in ambito sportivo, religioso, professionale, in gruppi di individui, associazioni, comunità, ambiti all’interno dei quali la prevaricazione annulla ogni margine di scelta nella vittima.

L’orientamento della Suprema Corte, in un’ottica   progressista, propende per la configurabilità della violenza sessuale per costrizione per abuso di autorità sia di provenienza legislativa sia di rapporti di fatto qualificati. La fonte dell’autorità non incide sul riconoscimento della stessa ex art. 609 bis c.p. e non incide negativamente sul principio di tipicità, trattandosi di ermeneusi orientata sia dalla gerarchia assiologica sia dalla coerenza normativa.

Sul piano pratico, l’operatore del diritto deve dimostrare non solo la sussistenza oggettiva del rapporto autoritario – soggezione effettiva della vittima del reato – sia le conseguenze sulla capacità di autodeterminazione della stessa vittima. Ove non si profili abuso, residuerebbe minaccia o induzione.

La tesi più ampia, dunque, ha il pregio di colmare eventuali vuoti normativi attraverso l’interpretazione teleologicamente orientata, idonea a tipizzare ogni forma di annientamento della volontà della vittima, ogni forma di invasione della sfera sessuale del soggetto passivo.