Giurisprudenza Penale

La Cassazione penale sul mutamento giurisprudenziale in malam partem in materia penale: l’esigenza di garantire la prevedibilità delle decisioni giudiziarie e la calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta osta alla retroattività del mutamento innovativo sfavorevole.
Di Davide Cerrato
Nota a sentenza Cass. Pen., Sez. VI, 16 luglio 2024, n. 28594
La Cassazione penale sul mutamento giurisprudenziale in malam partem in materia penale: l’esigenza di garantire la prevedibilità delle decisioni giudiziarie e la calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta osta alla retroattività del mutamento innovativo sfavorevole.
Di Davide Cerrato
Abstract
Il contributo opera una disamina di una recente pronuncia della Cassazione penale nella quale i giudici di legittimità colgono l’occasione per precisare il distinguo tra mutamento giurisprudenziale evolutivo ed innovativo, sostenendo che soltanto quello evolutivo si sostanzi in un revirement prevedibile. Essendo il tema inscindibilmente connesso a quello della rimproverabilità del soggetto agente almeno a titolo di colpa, la Cassazione ha richiamato le considerazioni operate dalla Consulta nella storica sentenza n. 364/1988, precisando nuovamente che ogni consociato deve essere posto nelle condizioni di poter calcolare le conseguenze giuridico-penali della propria condotta, dovendosi sempre garantire la prevedibilità delle decisioni giudiziarie in un’ottica di stabilità del sistema e di tutela della libertà di autodeterminazione del singolo. Questa è la ragione per la quale non è possibile sottoporre ad incriminazione un soggetto in ragione di un’interpretazione della norma penale incriminatrice che preveda effetti in malam partem: l’imprevedibilità di un revirement giurisprudenziale osta alla retroattività dell’aggravamento del trattamento sanzionatorio.
The contribution carries out an examination of a recent ruling of the criminal Court of Cassation in which the judges of legitimacy take the opportunity to clarify the distinction between evolutionary and innovative jurisprudential change, maintaining that only the evolutionary one could be considered as a foreseeable revirement. Since the topic is inseparably connected to that of the reprimandability of the agent at least for guilt, the Court of Cassation recalled the considerations made by the Constitutional Court in the historic sentence no. 364/1988, specifying again that each person must be able to calculate the legal-criminal consequences of his conduct, always having to guarantee the predictability of judicial decisions with a view to stability of the system and protection of the freedom of self-determination of the single.
This is the reason why it is not possible to indict a person due to an interpretation of the incriminating criminal law that provides for in malam partem effects: the unpredictability of a jurisprudential revirement precludes the retroactivity of the aggravation of the sanctioning treatment.
Art. 314 c.p. – art. 615-ter c.p. – art. 5 c.p. – mutamento giurisprudenziale – effetti in malam partem – mutamento evolutivo – mutamento innovativo – conoscibilità – colpevolezza
Massima[1]
Il mutamento giurisprudenziale di tipo evolutivo – che si realizza allorquando l’interpretazione estensiva, di adattamento o di specificazione rispettosa del principio di ragionevolezza e conforme al precedente costituisce evoluzione fisiologica del dato normativo – differisce da quello innovativo, dettato dall’esigenza dell’interprete di sopperire ad una inerzia del legislatore o di apportare modifiche o correzioni o di distanziarsi da una precedente interpretazione che sia successivamente ritenuta “insoddisfacente, non più condivisibile o, addirittura, errata”. Il primo è l’unico a connotarsi per effettiva prevedibilità, ostando invece il secondo alla calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali della condotta da parte del consociato. Per quanto il diritto vivente sia cosa assolutamente diversa dalla legge, l’interpretazione del precetto penale interferisce inevitabilmente con la prevedibilità delle future statuizioni. Ciò rende necessaria la verifica relativa al se il cittadino sia posto, al momento della commissione del fatto, nelle condizioni di prevedere l’estensione interpretativa in ragione delle indicazioni giurisprudenziali.
L’organo giudicante deve sempre tener conto del “diritto individuale dell’imputato alla prevedibilità della decisione”: l’assenza di segnali che muovano nel senso della prevedibilità di una revisione in peius di un precedente orientamento è dato che rileva in senso ostativo rispetto alla formulazione di un giudizio di rimproverabilità soggettiva. La stretta connessione sussistente tra colpevolezza e conoscibilità del precetto penale ha quale necessaria conseguenza il fatto che la colpevolezza medesima, tenendo conto delle capacità conoscitive del singolo, finisca col salvaguardare il cittadino da ogni difetto di produzione legislativa e giurisprudenziale.
Il Fatto
In primo grado il signor B.D., sovrintendente della Polizia di Stato, veniva condannato per peculato (art. 314 c.p.) e accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.), venendogli anzitutto contestata l’appropriazione di una somma di denaro indeterminata nel corso di un controllo di polizia giudiziaria nei confronti di B.S., il quale avrebbe nascosto la somma medesima in un’intercapedine, e poi anche l’abusiva interrogazione alla banca dati SDI con riferimento a R.A. La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la sentenza di condanna di primo grado, cosicché il signor B.D. ha proposto ricorso per Cassazione articolato in due motivi.
Col primo motivo di ricorso l’imputato ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione relativamente al giudizio di responsabilità in materia di peculato, sostenendo che i giudici d’appello non avrebbero tenuto conto della possibile mancanza di consapevolezza, da parte dello stesso ricorrente, dell’appartenenza della somma di denaro a B.S. Essi avrebbero fatto ricorso a intercettazioni ritenute inutilizzabili, con travisamento delle parole del signor B.D. e senza attribuire rilevanza a quanto riferito da B.S., ossia al fatto che egli stesso avrebbe nascosto fra due muri - senza essere visto - un mazzetto di banconote dal valore di 200-300 euro. A detta dell’imputato la somma di denaro costituisce res derelicta, divenuta res nullius e acquisita mediante occupazione. Essa avrebbe dovuto essere portata presso gli Uffici del Comune, ma l’omissione di questo tipo di azione non determinerebbe integrazione dell’art. 314 c.p., dovendosi avere coscienza dell’altruità della res oggetto di appropriazione.
Col secondo motivo è stata invece dedotta violazione di legge e vizio di motivazione rispetto al giudizio di responsabilità concernente l’accesso abusivo a sistema informativo. I giudici d’appello in questo caso avrebbero meramente recepito le valutazioni del Tribunale di primo grado senza considerare che l’accesso a sistema informatico è giustificato, per prassi consolidata nelle linee guida del Ministero dell’Interno, nelle ipotesi in cui il sistema medesimo venga interrogato a seguito della presentazione di una denuncia da parte di un cittadino, cosa accaduta nel caso di specie in quanto la denuncia era stata effettuata proprio da R.A. L’imputato ha inoltre sottolineato che il fatto è stato commesso il 15 novembre 2016, ovverosia in un momento assolutamente anteriore rispetto alla pronuncia delle Sezioni Unite “Savarese” del maggio 2017. Rispetto al fatto storico ritenuto dai giudici di primo grado e d’appello idoneo all’integrazione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 615-ter c.p., non sono state emanate dai vertici delle Forze dell’Ordine circolari o direttive che andassero nel senso della non scusabilità di un abuso al sistema informatico in mancanza di preventiva motivazione. Non sarebbe poi comunque stato perseguito uno sviamento di potere nel caso di specie, dovendosi ritenere non sussistente l’intento doloso.
La Decisione
Gli Ermellini hanno ritenuto fondato il secondo motivo e inammissibile il primo.
Il primo motivo di ricorso, concernente l’imputazione mossa per peculato, non è stato considerato ammissibile in ragione del fatto che i giudici d’appello avrebbero operato una logica e coerente ricostruzione dei fatti.
L’imputato B.D., effettuando un controllo di polizia giudiziaria nei confronti di B.S., si era appropriato di banconote da 50 euro che lo stesso B.S. aveva precedentemente nascosto in un’intercapedine per timore che gli venissero sottratte.
B.S. si sarebbe poi recato in Commissariato, accusando gli agenti di appropriazione delle banconote, mentre l’imputato si sarebbe disfatto del denaro e avrebbe contattato il collega P. affermando di aver fatto “una stupidaggine”. Il collega, infine, avrebbe rassicurato il signor B.D. dicendogli di aver restituito il denaro a B.S.
Nel caso di specie le somme di denaro non costituirebbero né res derelicta né res nullius. Richiamando precedenti orientamenti (Cass. Pen., Sez. IV, 17 dicembre 2020, n. 3910; Cass. Pen., Sez. V, 26 febbraio 2015, n. 11107) sulla base dei quali “affinché una cosa possa considerarsi abbandonata dal proprietario è necessario che, per le condizioni o per il luogo in cui essa si trovi, risulti chiaramente la volontà dell'avente diritto di disfarsene definitivamente”, i giudici di legittimità hanno sostenuto che non sarebbe affatto ravvisabile la volontà del titolare di liberarsi definitivamente del denaro e di non esercitare più sulla res mobile un potere di controllo.
L’imputato avrebbe inoltre avuto coscienza dell’altruità della res, e dunque della titolarità esercitata sulla stessa da B.S., essendo stato il denaro raccolto nei pressi di un muretto da un poliziotto che si sarebbe accorto del gesto del giovane sottoposto a controllo ed avendo lo stesso imputato ammesso, nella conversazione avuta con P., di aver commesso un’azione sciocca.
Il secondo motivo di ricorso, concernente invece l’imputazione per accesso abusivo a sistema informatico, è stato ritenuto fondato.
Nel tempus commissi delicti costituiva ius receptum il fatto che la fattispecie di cui all’art. 615-ter c.p. potesse dirsi integrata soltanto laddove il soggetto, pur abilitato all’accesso, avesse violato condizioni e limiti rinvenibili nelle prescrizioni impartite dal titolare del sistema a fini limitativi dell’accesso medesimo, senza che potessero considerarsi rilevanti i fini soggettivi alla base dell’ingresso nel sistema informatico o telematico protetto (Cass. Pen. SS. UU., 27 ottobre 2011, n. 4694). Nel 2011 le Sezioni Unite “Casani” avevano opportunamente evidenziato che rilevasse soltanto il profilo oggettivo dell’accesso e del trattenimento nel sistema ad opera di un soggetto non autorizzato o che non avesse rispettato condizioni e limiti imposti dal titolare del sistema medesimo, con integrazione della fattispecie incriminatrice anche nell’ipotesi in cui il soggetto attivo avesse compiuto operazioni differenti da quelle per le quali fosse autorizzato all’accesso. I fatti successivi sarebbero risultati, a detta degli Ermellini, privi di significatività.
Il delitto non si sarebbe invece configurato nell’ipotesi in cui l’agente, “a prescindere dallo scopo eventualmente perseguito”, avesse effettuato un’operazione consentita dall’autorizzazione operando nei limiti della medesima. Qualora invece l’attività oggetto di autorizzazione avesse anche comportato l’acquisizione di dati informatici e fosse stata eseguita nel rispetto delle condizioni e dei limiti imposti dal titolare, il delitto non avrebbe potuto essere individuato “anche se degli stessi dati [il soggetto agente] si fosse servito per finalità illecite”.
A detta dei giudici di legittimità nel caso concreto la responsabilità penale era stata attribuita all’imputato sulla base delle sole finalità illecite orientanti l’accesso, ma nel tempus commissi delicti
i fatti non erano né vietati né penalmente rilevanti stando alla statuizione delle Sezioni Unite del 2011.
Nel 2017 le Sezioni Unite “Savarese” hanno rivisto il principio di diritto enunciato sei anni prima, sostenendo che la fattispecie di cui all’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, c.p. possa essere integrata dalla condotta posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio che, “pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l'accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita” (Cass Pen., SS.UU., 18 maggio 2017, n. 41210). In sostanza, nel 2017 le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno sopito un contrasto manifestatosi in seno alla Quinta Sezione tra due orientamenti della giurisprudenza di legittimità penale, i quali pur aderendo alla premessa del decisum delle Sezioni Unite “Casani” del 2011 hanno fornito risposte antitetiche. Nel 2013 infatti la Cassazione penale ha sostenuto che si rivela necessario l’utilizzo del sistema informatico nel rispetto dei principi di cui all’art. 1 della legge n. 241/1990 allorquando il soggetto agente sia un pubblico dipendente pena il carattere abusivo dell’operato (Cass. Pen., Sez. V, 24 aprile 2013, n. 22024), mentre nel 2014 gli Ermellini hanno ritenuto di non poter desumere l’abusività dell’accesso al sistema dalla violazione dei principi di trasparenza e imparzialità che reggono l’attività amministrativa (Cass. Pen., Sez. V, 20 giugno 2014, n. 44390). Le contrastanti pronunce sono comunque derivate, a detta dei giudici di legittimità, da un’esigenza di specificazione e precisazione dell’orientamento delle Sezioni Unite del 2011, anche se per la verità la statuizione del 2013 ha indotto le Sezioni semplici a rimettere nuovamente la questione alle Sezioni Unite, pronunciatesi nel 2017 in senso ampliativo dell’ambito applicativo dell’art. 615-ter c.p. (e dunque in senso sfavorevole all’imputato). I giudici di legittimità hanno infatti affermato che la norma penale incriminatrice troverebbe applicazione anche alle ipotesi in cui, pur avendo l’agente effettuato l’accesso mediante l’utilizzo di credenziali proprie e in assenza di divieti espressi relativamente alla consultazione dei dati, lo stesso abbia abusato delle proprie funzioni utilizzando il proprio potere “in violazione dei doveri di fedeltà che ne devono indirizzare l’azione nell’assolvimento degli specifici compiti di natura pubblicistica a lui demandati” (cd. sviamento di potere). Gli Ermellini hanno dato atto nella recentissima statuizione all’esame (sentenza n. 28594/2024) del fatto che nel tempus commissi delicti (15 novembre 2016) il soggetto agente avesse posto in essere una condotta non vietata e divenuta poi penalmente rilevante solo a seguito della statuizione delle Sezioni Unite “Savarese”. Non vi era però nel 2016 alcun contrasto giurisprudenziale sincronico[2] o diacronico[3], e neppure era “nell’aria” un mutamento giurisprudenziale del calibro di quello del 2017, il quale è indubbiamente produttivo di un “effetto in malam partem rispetto alle letture precedenti della norma incriminatrice”. La pronuncia del 2024 ha così rappresentato occasione proficua per precisare il distinguo sussistente tra mutamento giurisprudenziale evolutivo e innovativo.
Il mutamento di tipo evolutivo si realizza allorquando l’interpretazione estensiva, di adattamento o di specificazione rispettosa del principio di ragionevolezza e conforme al precedente costituisce evoluzione fisiologica del dato normativo. Trattasi di un “cambiamento di rotta” caratterizzato da prevedibilità e che, come specificato dalla dottrina, consente alla disposizione di adattarsi, pure in assenza di precedenti, al nuovo contesto storico-normativo in virtù del suo carattere arricchente e di specificazione del significato anteriormente attribuito all’enunciato legislativo. Il mutamento di tipo innovativo è invece dettato dall’esigenza dell’interprete di sopperire ad una inerzia del legislatore o di apportare modifiche o correzioni o di distanziarsi da una precedente interpretazione che sia successivamente ritenuta “insoddisfacente, non più condivisibile o, addirittura, errata”. Trattasi di mutamento che si connota per imprevedibilità, realizzandosi proprio per “porre rimedio – nell’immutato contesto di riferimento – a quello che viene di fatto ritenuto dall’interprete come un vuoto di tutela derivante da una precedente interpretazione” non più condivisibile.
In questo tipo di contesto è indubbia la criticità posta dal mutamento giurisprudenziale sfavorevole (quello delle Sezioni Unite “Savarese” del 2017), che rischia di operare in malam partem anche rispetto a soggetti che abbiano posto in essere il fatto nella vigenza di un orientamento favorevole, “generatore di affidamento” (quello delle Sezioni Unite “Casani” del 2011).
Del resto, il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, come ricordato dagli Ermellini stessi in ragione di quanto precisato anche dalla giurisprudenza costituzionale, ha di norma valenza persuasiva e funge inoltre, dall’entrata in vigore della legge n. 103/2017 (cd. riforma Orlando), da precedente relativamente vincolante[4]. Con l’inserimento del comma 1-bis all’interno dell’art. 618 c.p.p. è stato previsto che laddove la Sezione semplice non condivida il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite debba rimettere a queste ultime la decisione del ricorso. Ciò determina indubbiamente nel nostro ordinamento giuridico la significatività del mutamento interpretativo. “Più un sistema tende ad assicurare maggiore uniformità alla giurisprudenza, più il mutamento giurisprudenziale finisce per "avvicinarsi" ad una modifica legislativa, senza tuttavia avere gli effetti di questa”[5]. Il precedente, a detta dei giudici di legittimità, garantisce la prevedibilità delle decisioni giudiziarie e conseguentemente il pieno esercizio della libertà di autodeterminazione da parte dei consociati, i quali devono potersi riferire ad un assetto normativo certo.
Per quanto il diritto vivente sia cosa assolutamente diversa dalla legge e per quanto fondamentale resti il principio di separazione dei poteri, l’interpretazione del precetto penale interferisce inevitabilmente con la prevedibilità delle future statuizioni. Gli Ermellini affermano allora che laddove si riconosca al mutamento giurisprudenziale imprevedibile il valore di norma penale sfavorevole sopravvenuta debba operare il divieto di retroattività sfavorevole ex art. 2 c.p., e che laddove non si intenda effettuare questo tipo di equiparazione venga invece in rilievo il tema della colpevolezza e della calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta. Per quanto rispetto alla corretta portata e operatività del principio di prevedibilità in materia penale vi siano ancora incertezze, è opportuno verificare se al momento della commissione del fatto il cittadino sia posto nelle condizioni di prevedere l’estensione interpretativa in ragione delle indicazioni giurisprudenziali. Siccome questo tema è inscindibilmente legato a quello della rimproverabilità del soggetto agente almeno a titolo di colpa, gli Ermellini recuperano le argomentazioni sviluppate dalla Consulta nella storica sentenza n. 364/1988, la quale ha riscritto l’art. 5 c.p. nel senso dell’attribuzione di rilevanza all’ignoranza inevitabile quale ipotesi eccezionale rispetto alla regola generale sancita dalla disposizione (“ignorantia legis non excusat”).
Il principio di colpevolezza, stando a quanto sostenuto dai giudici costituzionali, è posto a garanzia della libera autodeterminazione: il consociato deve ritrovarsi a rispondere in sede penale soltanto per comportamenti “controllabili” e non di certo per “comportamenti realizzati nella <<non colpevole>> e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto”.
La rimproverabilità della condotta del soggetto agente, giustificativa dell’esigenza rieducativa ex art. 27, terzo comma, Cost., presuppone la conoscibilità della norma penale incriminatrice.
Questa la ragione per la quale l’art. 5 c.p. non può che attribuire significatività, in senso scusante, all’ignoranza inevitabile, non potendo la sfera giuridica del cittadino essere compressa da precetti penali oscuri e da interventi sanzionatori che si connotino per assoluta imprevedibilità. Laddove ciò non accadesse, si paleserebbe una forte incostituzionalità del sistema ordinario in materia di colpevolezza, venendo sottratto a quest’ultima il rapporto tra soggetto e consapevolezza del carattere illecito del fatto. La Corte costituzionale ha infatti statuito che “sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza all'ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati”[6].
Nel caso di specie il soggetto agente ha riposto il suo affidamento nella validità dell’interpretazione più favorevole dell’art. 615-ter c.p. (Sezioni Unite “Casani” del 2011), erroneamente disattesa dall’organo giudicante che dovrebbe invece sempre tener conto del “diritto individuale dell’imputato alla prevedibilità della decisione”[7]. Non vi era infatti alcun segnale che inducesse a pensare che le stesse Sezioni Unite nel 2017 potessero rivedere in peius quanto statuito sei anni prima, e questo dato rileverebbe in senso ostativo rispetto alla formulazione di un giudizio di rimproverabilità soggettiva.
Se è vero che vi è una stretta connessione tra colpevolezza e conoscibilità della norma penale incriminatrice, rappresenta allora necessaria conseguenza il fatto che la colpevolezza stessa finisca con l’assolvere il compito di salvaguardare il consociato da ogni difetto di produzione legislativa e giurisprudenziale, tenendo conto delle capacità conoscitive del singolo individuo.
Gli Ermellini hanno così annullato senza rinvio la sentenza oggetto di ricorso per Cassazione limitatamente all’art. 615-ter c.p. perché il fatto non costituisce reato, eliminando la pena di venti giorni di reclusione irrogata per la commissione del fatto e dichiarando l’inammissibilità del ricorso nel resto.
Brevi considerazioni conclusive: la sentenza n. 28594/2024 quale pronuncia ricostruttiva dell’ordinamento giuridico penale. Legalità sub specie di conoscibilità e prevedibilità.
La recente statuizione all’esame fornisce delle importanti indicazioni in tema di tenuta dell’ordinamento giuridico penale complessivamente considerato: il caso di specie coinvolge infatti colpevolezza, prevedibilità ed irretroattività, e dunque la più gran parte dell’armamentario dei principi che regolano l’apparato sanzionatorio penalistico.
Prevedibilità significa anzitutto possibilità, fornita ai consociati in sede di libera autodeterminazione, di operare previsioni rispetto alle pronunce emanate dagli organi giudicanti nell’ipotesi di commissione di un fatto penalmente rilevante.
Trattasi di un corollario del principio di legalità ex art. 25, secondo comma, Cost., ben descritto nella sua portata dalla Corte di Strasburgo nei casi Del Rio Prada del 2013 e Contrada del 2015[8].
La Corte EDU è solita riferire la prevedibilità sia al momento formativo della fattispecie (produzione legislativa del precetto penale) sia a quello ermeneutico (momento interpretativo), in quanto la legalità di matrice internazionale contempla, diversamente da quanto accade nell’ordinamento giuridico italiano, anche la fonte giurisprudenziale quale formante del diritto penale. Trattasi infatti di una legalità flessibile e sostanziale perché più che guardare al piano generale ed astratto della legittimità della fonte produttiva di norme penali guarda al piano particolare e concreto, e dunque a tutti quei casi nei quali una norma interna determini la violazione di uno dei diritti fondamentali della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)[9].
Riferire la legalità anche al momento ermeneutico comporta la doverosa applicazione del principio di irretroattività sfavorevole – quale corollario del “nulla poena sine lege” ex art. 7 CEDU (principio di legalità) – ogniqualvolta si sia in presenza di un overruling produttivo di effetti in malam partem che si connoti per imprevedibilità, in quanto emanato in assenza di segnali che consentissero in precedenza ai consociati di prevederlo in maniera ragionevole.
Le norme convenzionali, come è ormai noto, costituiscono “norme interposte”[10] tra Costituzione e norme di legge ordinaria, che trovano applicazione in ragione del rispetto dei “vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali” ex art. 117, primo comma, Cost. Evidente è anche il fatto che l’applicazione che dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU debba farsi non possa assolutamente prescindere dall’interpretazione che degli stessi fornisca la Corte di Strasburgo: ciò determina il necessario rispetto dei principi di diritto che la stessa Corte ha fornito nel 2013 e nel 2015. L’overruling non ragionevolmente prevedibile e sfavorevole per il reo, se tenuto in considerazione anche rispetto a fatti commessi prima del suo intervento, rischia di ledere il principio di legalità sub specie della prevedibilità delle decisioni giudiziarie, con conseguente vulnus alla libertà di autodeterminazione rispetto alle condotte da porre in essere e alla calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali dei propri comportamenti.
La sanzione penale è certamente quella più afflittiva – per quanto non sia affatto escludibile anche l’esistenza di sanzioni amministrative sostanzialmente penali – in quanto capace di incidere fortemente sulla libertà personale che, ex art. 13, primo comma, Cost., ha il carattere dell’inviolabilità. È proprio dall’art. 13 Cost. che si ricava il principio di extrema ratio non soltanto dello strumento penalistico di tipo sanzionatorio, ma pure della custodia cautelare in carcere sul versante processuale. Trattasi di indicatori di non poco momento, soprattutto per il giudice che si ritrovi, in una delle fasi del procedimento, ad applicare misure cautelari o per il giudice che all’esito della fase dibattimentale debba irrogare la pena[11]. I consociati devono, in ragione di quanto appena detto, poter riporre il loro affidamento nella non illiceità di determinate condotte, così da potersi liberamente orientare nella scelta delle stesse. E se in un’ottica di massimizzazione della tutele ex art. 53 CEDU – disposizione convenzionale che vieta un’interpretazione delle norme CEDU limitativa o pregiudizievole nei confronti dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dagli ordinamenti nazionali – è da salutare con estremo favore la compenetrazione tra legalità internazionale e interna, è allora fondamentale che lo stesso cittadino possa veder tutelato l’affidamento riposto in un certo tipo di opzione ermeneutica concernente un precetto penale. La tutela si sostanzia chiaramente nel divieto di retroattività sfavorevole sancito nell’ordinamento giuridico italiano proprio dall’art. 25, secondo comma Cost. nonché dall’art. 2, primo comma, c.p. La non ragionevole prevedibilità di un “cambiamento di rotta” da parte della giurisprudenza rispetto ad una norma penale incriminatrice non può assolutamente determinare contrasti con il principio del favor rei, il quale risiede tutto nella legalità sub specie della prevedibilità. La sentenza n. 28594/2024 della Suprema Corte di Cassazione all’esame funge da statuizione ricostruttiva del sistema penalistico se si considera che in essa sono pure recuperate le argomentazioni fornite dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 364/1988: nei confronti del soggetto agente deve potersi formulare un giudizio di rimproverabilità almeno a titolo di colpa (“nulla poena sine culpa”), dovendosi scusare l’ignoranza della legge penale (normalmente non scusabile ex art. 5 c.p.) nelle ipotesi di inevitabilità della stessa.
Laddove il precetto penale sia assolutamente oscuro o laddove sia intervenuta una pronuncia che abbia fornito un’interpretazione ampliativa dell’ambito applicativo della fattispecie in assenza di segnali che ne rendessero evidente l’emanazione, il consociato deve veder tutelata la non possibile conoscibilità della norma violata.
La colpevolezza è strettamente connessa alla conoscibilità dei precetti penali e calibra quest’ultima sulle capacità di intelligibilità del singolo individuo, non soltanto dando in questo modo concreta attuazione al principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27, primo comma, Cost., ma pure alla finalità rieducativa della pena ex art. 27, terzo comma, Cost.
Laddove il singolo non sia infatti in grado di percepire con certezza il disvalore penale di un fatto, la sanzione penale non potrà mai tendere alla sua rieducazione, presupponendo la finalità rieducativa la comprensione dell’illiceità penale del fatto commesso e la volontà della risocializzazione.
La libertà di scelta lecitamente esercitata non può condurre alla significativa compressione della libertà personale, ciò che impedisce ai correttivi apportati ai difetti giurisprudenziali o di produzione legislativa di spiegare un’efficacia retroattiva sfavorevole nei confronti del soggetto posto nell’incapacità di autodeterminarsi pienamente e correttamente.
La sanzione penale “scatta” e va irrogata soltanto nelle ipotesi in cui il singolo consociato abbia potuto rapportarsi ad un assetto ordinamentale certo e determinato, o comunque anche caratterizzato da dati normativi necessitanti di una fisiologica evoluzione (ciò che potrebbe dar adito ad interventi giurisprudenziali di tipo ampliativo-evolutivo assolutamente prevedibili e conformi a ragionevolezza).
Il ragionamento recentemente operato dagli Ermellini in sede penale merita di essere valorizzato in quanto attuativo dei principi costituenti “stella polare” della materia penalistica e dai quali né il legislatore né l’organo giudicante possono prescindere in sede di predisposizione o di interpretazione ed applicazione delle norme penali incriminatrici.
BIBLIOGRAFIA
Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364;
Cass. Pen. SS. UU., 27 ottobre 2011, n. 4694;
Cass. Pen., Sez. V, 24 aprile 2013, n. 22024;
Cass. Pen., Sez. V, 20 giugno 2014, n. 44390;
Cass. Pen., Sez. V, 26 febbraio 2015, n. 11107;
Cass Pen., SS.UU., 18 maggio 2017, n. 41210;
Cass. Pen., Sez. IV, 17 dicembre 2020, n. 3910;
Cass. Civ., Sez. VI, 16 luglio 2024, n. 28594, consultabile al link chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20240716/snpen@s60@a2024@n28594@tS.clean.pdf
FRATINI M., “Manuale sistematico di diritto penale”, II Edizione, NelDiritto Editore, Molfetta, 2024.
[1] La massima è il frutto della personale rielaborazione dell’autore.
[2] Che, stando a quanto precisato dagli Ermellini nella statuizione del 2024 all’esame, si verifica quando coesistono “due o più interpretazioni difformi della medesima norma […] nel medesimo intervallo temporale”. Trattasi di contrasto che incide sul principio di determinatezza e di prevedibilità delle decisioni giudiziarie, non consentendo al cittadino la calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali del proprio agere (Cass. Civ., Sez. VI, 16 luglio 2024, n. 28594).
[3] Che invece è, sempre stando a quanto indicato nella statuizione dei giudici di legittimità all’esame, quel contrasto determinato dall’esistenza di una linea interpretativa “affermata” in un certo arco temporale, la quale viene poi smentita da una successiva statuizione sfavorevole per l’imputato. Si è in presenza in tal caso di un contrasto giurisprudenziale incisivo nei confronti del principio di prevedibilità e che può essere foriero di fenomeni di “retroattività occulta” in assenza di meccanismi di “neutralizzazione” (ancora Cass. Civ., Sez. VI, 16 luglio 2024, n. 28594).
[4] Relativamente vincolante in quanto, come ribadito dagli Ermellini nella statuizione all’esame, “limitato all’interno della sola Corte di Cassazione e non operante nei confronti dei giudici di merito” (Cass. Civ., Sez. VI, 16 luglio 2024, n. 28594).
[5] Cit. testualmente da Cass. Civ., Sez. VI, 16 luglio 2024, n. 28594.
[6] Cit. testualmente da Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364.
[7] Cit. testualmente da Cass. Civ., Sez. VI, 16 luglio 2024, n. 28594.
[8] Le pronunce in questione sono menzionate in FRATINI M., “Manuale sistematico di diritto penale”, II Edizione, NelDiritto Editore, Molfetta, 2024, pagg. 95 e ss., da cui si argomenta.
[9] Per un approfondimento sul distinguo tra legalità interna e legalità internazionale, costituenti due tipologie di legalità non escludentisi ma integrantisi in un’ottica di massimizzazione della tutele ex art. 53 CEDU, si consenta di rinviare ancora una volta a FRATINI M., “Manuale sistematico di diritto penale”, cit., pagg. 12 e ss.
[10] Trattasi della qualificazione che delle norme CEDU ha fornito la Corte costituzionale nelle storiche sentenze gemelle nn. 348 e 349/2007.
[11] Per la verità trattasi di significativi indicatori per il legislatore prima ancora che per l’organo giudicante: nelle aule parlamentari l’extrema ratio dello strumento penalistico deve sempre avere una certa autorità al fine di evitare che possano essere qualificati come penalmente rilevanti dei fatti comunque connotati da illiceità ma che potrebbero essere diversamente sanzionati. In ogni caso qui il tema che viene in rilievo è quello dell’incidenza dei mutamenti giurisprudenziali sulla libertà di autodeterminazione del consociato, ciò che consente di tener conto principalmente di uno dei plurimi aspetti della legalità, ovverosia quello della prevedibilità delle decisioni giudiziarie.