ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 07 - Luglio 2024

  Giurisprudenza Civile delle Corti Supreme
  A cura di Anna Laura Rum



Espropriazione vs usucapione: per le Sezioni Unite, il decreto di esproprio della P.A. vale a farle acquisire la proprietà piena del bene e la perdurante occupazione da parte del proprietario non configura possesso utile ai fini dell’usucapione, ma mera detenzione. Perché maturi un nuovo periodo possessorio, invocabile «ad usucapionem», occorre un atto di interversio possessionis.

Di Anna Laura Rum
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NOTA A CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI,

12 GENNAIO 2023, N. 651

 

Espropriazione vs usucapione: per le Sezioni Unite, il decreto di esproprio della P.A. vale a farle acquisire la proprietà piena del bene e la perdurante occupazione da parte del proprietario non configura possesso utile ai fini dell’usucapione, ma mera detenzione. Perché maturi un nuovo periodo possessorio, invocabile «ad usucapionem», occorre un atto di interversio possessionis.

 

Di Anna Laura Rum

 

 

Sommario: 1. I fatti di causa 2. Le argomentazioni delle Sezioni Unite 3. I principi di diritto

 

  1. I fatti di causa

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 2011, decideva sulle cause riunite promosse, rispettivamente, dal Comune di Roma e da una s.r.l. Il Comune di Roma chiedeva il rilascio di un’area di proprietà comunale detenuta senza titolo dalla società e quest’ultima chiedeva la declaratoria di usucapione ventennale in suo favore o, in subordine, di retrocessione dell’area.

Il Tribunale condannava la società al rilascio, in favore di Roma Capitale (già Comune di Roma), del terreno ed escludeva la possibilità, ai fini della usucapione, di cumulare l’eventuale possesso della società ricorrente a quello dedotto in capo alla sua dante causa, perché quest’ultima era consapevole dell’intervenuta espropriazione del fondo da parte del Comune e non aveva posto in essere atti di interversione del possesso idonei a configurare il costituto possessorio.

All’esito del giudizio di appello introdotto dalla soccombente, la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 2016, ha dichiarato ammissibile l’intervento di un’impresa che aveva dedotto di avere un interesse autonomo all’accoglimento del gravame, avendo sottoscritto nel 2002 un contratto preliminare di compravendita con la società ricorrente, in relazione alle controverse particelle, che aveva detenuto in qualità di comodataria per oltre quarant’anni, ed ha rigettato il gravame e condannato l’appellante al rimborso delle spese.

La Corte romana, premesso che la contestazione verteva su una porzione esigua di una più vasta area espropriata nel 1975 e che non vi erano elementi di prova a sostegno della totale mancata realizzazione dell’opera pubblica cui l’esproprio era finalizzato, in quanto l’area era in parte sovrapponibile ad altra area espropriata dalla Provincia sulla quale erano state realizzate una scuola, una strada e un’area verde, ha osservato che comunque la suddetta porzione era stata acquisita al patrimonio indisponibile di Roma Capitale e che, pertanto, non sussistevano le condizioni per un acquisto a titolo di usucapione da parte della società privata occupante, né per la retrocessione.

Con riguardo all’usucapione, la Corte di appello ha confermato il percorso logico-giuridico seguito dal primo giudice circa l’insussistenza dei relativi presupposti: il decreto di esproprio è atto idoneo a far acquisire all’ente pubblico la proprietà piena e il possesso, sia pure solo animo del bene e ad escludere qualsiasi situazione, di diritto e di fatto, con essi incompatibile e, permanendo il precedente proprietario o un terzo nell’occupazione del bene, il loro non è un possesso utile ad usucapionem, ma una mera detenzione, avendo la dante causa avuto conoscenza del decreto di esproprio, che comportava la perdita dell’animus possidendi, salva la non dimostrata interversione nel possesso.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto due distinti ed autonomi ricorsi la società originaria ricorrente e l’impresa intervenuta, mentre Roma Capitale e Città metropolitana di Roma Capitale hanno depositato controricorso.

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, investita della questione, con ordinanza interlocutoria n. 19758 del 2022, ha sollecitato la rimessione della causa alle Sezioni Unite, ai fini della soluzione del contrasto registrato all’interno della giurisprudenza della Corte, sulla questione riguardante gli effetti del decreto di espropriazione notificato al proprietario espropriato, il quale ne sia venuto, comunque, a conoscenza e, in particolare, ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione: “se viene a verificarsi la condizione del cd. costituto possessorio in favore dell’ente espropriante e, quindi, l’automatica perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario che continui ad occupare il bene espropriato, con conseguente interruzione del pregresso possesso (utile ad usucapionem) da quest’ultimo esercitato o se, invece, il possesso continui a permanere in capo all’occupante con la possibilità di riacquistare il diritto di proprietà sul bene – ancorché oggetto di espropriazione, ma senza che sia intervenuta l’immissione in possesso o una condotta realizzativa delle opere previste nel decreto di esproprio a titolo di usucapione al successivo maturare dei venti anni continuativi”.

 

  1. Le argomentazioni delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, preliminarmente, riportano i due orientamenti della giurisprudenza di legittimità sulla questione dell’usucapibilità di un immobile, validamente espropriato, con una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità, ove il proprietario persista nel godimento del bene per un tempo utile a usucapirlo, ai sensi dell’art. 1158 c.c.

Secondo un primo orientamento, in tema di possesso ad usucapionem, tanto il trasferimento volontario, quanto quello coattivo di un bene non integrano necessariamente, di per sé, gli estremi del constitutum possessorium, poiché, con particolare riguardo ai trasferimenti coattivi conseguenti ad espropriazione per pubblica utilità, il diritto di proprietà è trasferito contro la volontà dell’espropriato/possessore, e nessun accordo interviene fra questi e l’espropriante, né in relazione alla proprietà, né in relazione al possesso. Quindi, il provvedimento ablativo non determina, di per sé, un mutamento dell’animus rem sibi habendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell’usucapione, tutte le volte in cui alla dichiarazione di pubblica utilità, non siano seguiti né l’immissione in possesso, né l’attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell’espropriante, del tutto irrilevante risultando l’acquisita consapevolezza dell’esistenza dell’altrui diritto dominicale. In questo senso, si sono pronunciate la Sezione Prima, con sentenza n. 5293 del 2000 e la Sezione Seconda, con le sentenze nn. 5996 del 2014, n. 25594 del 2013, n. 13558 del 1999.

Secondo un altro orientamento, invece, il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di diritto o di fatto con essa incompatibile e, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso continuino ad esercitare sulla cosa un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica o conoscenza del decreto ne comporta la perdita dell’animus possidendi, conseguendone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è necessario un atto di interversio possessionis. Questo orientamento è stato fatto proprio dalla Sezione Prima della Corte di Cassazione, colle sentenze nn.  6742 del 2014, 13669 del 2007, 12023 del 2004 e dalla Sezione Seconda, con le sentenze nn. 23850 del 2018 e 6966 del 1988.

Il Collegio condivide questo secondo orientamento, sia nelle controversie soggette al regime previgente al t.u. degli espropri (d.lgs. 8 giugno 2001, n. 327) , nelle quali il decreto di esproprio (che nel caso in esame risale al 1975) sia emesso in forza di una dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza antecedente alla data del 30 giugno 2003, di entrata in vigore dello stesso testo unico (art. 57), sia, per ragioni parzialmente diverse, nelle controversie soggette alle disposizioni del medesimo testo unico.

Le Sezioni Unite, inoltre, affermano che con riferimento all’acquisizione dell’area mediante procedura ablatoria, l’ordinamento presenta istituti dalla cui applicazione è possibile rinvenire il giusto equilibrio tra l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera senza interferenze da parte dei terzi e l’interesse privato riconoscibile in aspettative qualificate con riguardo allo specifico bene, individuate dalla legge nel riconoscimento all’espropriato, a fronte della totale inerzia dell’ente espropriante protratta nel tempo, del diritto potestativo alla retrocessione che, quando e dopo che sia decaduta la dichiarazione di pubblica utilità, gli consente di riacquistare sia la proprietà sia il possesso pieno del bene tramite pronuncia costitutiva del giudice e previo pagamento del relativo prezzo, diritto da esercitare nel rispetto del termine di prescrizione.

Ancora, a sostegno del proprio convincimento, le Sezioni Unite affermano, riguardo alle azioni possessorie, che costituiscono modi di tutela del diritto di continuare a godere del bene nello stato di fatto in cui era precedentemente posseduto e sono proponibili nei confronti della Pubblica amministrazione, a meno che sul diritto non abbia inciso un provvedimento avente attitudine a sottrarre al privato la proprietà o disponibilità della cosa o a mutarne il modo di godimento: in questo caso, il Collegio ritiene che l’azione sia proponibile solo se sia ravvisabile carenza di potere amministrativo, situazione non configurabile in presenza di un provvedimento espropriativo legittimo e, per altro verso, ritiene che l’ente espropriante possa agire con i mezzi ordinari a tutela della proprietà e del possesso, ad esempio, con l’azione di rilascio, nei confronti dell’espropriato o dei terzi occupanti e, in alternativa, in via di autotutela amministrativa ex art. 823, comma 2, c.c. mediante atti non impugnabili davanti al giudice ordinario.

Si aggiunge che, qualora al decreto di esproprio non segua l’immissione in possesso, nel sistema normativo antecedente al t.u. del 2001, l’ente espropriante restava possessore solo animo, avendo la disponibilità giuridica del bene e potendo in ogni momento ripristinare il contatto materiale con esso e pretenderne il rilascio per tutta la durata di efficacia legale del titolo (decreto di esproprio) e della presupposta dichiarazione di pubblica utilità, senza possibilità per il detentore di opporvisi, salva l’azione di retrocessione.

A favore della tesi della usucapibilità del bene espropriato, il Collegio afferma, ancora, che l’efficacia traslativa del consenso abbia ad oggetto la proprietà e non il possesso, in mancanza di specifica pattuizione in senso diverso, sicché alla vendita, così come al decreto di esproprio non si accompagni anche il trasferimento del possesso che costituisce, invece, oggetto di una specifica obbligazione (ex art. 1476 c.c.) che, se non adempiuta, fa sì che l’alienante e l’espropriato rimangano nel possesso della cosa, pur avendo trasferito la proprietà.

Viene osservato, tuttavia, che l’espropriazione per pubblica utilità non è assimilabile a una vicenda negoziale, trattandosi di un atto autoritativo con cui l’amministrazione acquista la proprietà a titolo originario, alla data del decreto di esproprio, secondo la legge del 1865, art. 50, comma 1, o alle condizioni previste nel t.u. del 2001, art. 23, con effetti che comportano l’estinzione automatica di tutti i diritti gravanti sul bene espropriato, da far valere unicamente sull’indennità (pretium succedit in locum rei), e che «privano» il proprietario anche del possesso giuridico dei suoi beni (ex art. 834, comma 1, c.c.).

Si osserva, ancora, che nei trasferimenti coattivi, come l’espropriazione forzata, il provvedimento di aggiudicazione non determina automaticamente, per il solo fatto che esso venga pronunciato ed a prescindere dalla sua esecuzione, il mutamento dell’animus rem sibi habendi del proprietario espropriato, trasformandolo in animus detinendi alieno nomine, con la conseguenza che l’aggiudicazione trasferisce la proprietà e non il possesso. Il Collegio precisa che si tratta, tuttavia, di vicende coattive non comparabili tra loro: l’espropriazione per pubblica utilità dà luogo ad un acquisto a titolo originario, mentre l’espropriazione forzata dà luogo ad un acquisto a titolo derivativo, rispetto al quale l’art. 2919 c.c. fa comunque salvo solo il possesso di buona fede.

Si afferma, inoltre, che il proprietario espropriato può restare nel godimento del bene finché persiste l’assenso implicito dell’ente espropriante che in ogni momento è in condizione di ripristinare la relazione fattuale con il bene posseduto solo animo, senza vedersi opporre una inesistente pretesa di astensione da parte dell’occupante, la cui detenzione per diventare utile ai fini dell’usucapione deve trasformarsi in possesso (interversione); a tal fine, dicono le Sezioni Unite, non è sufficiente un semplice atto di volizione interna, occorrendo una manifestazione esteriore – rivolta specificamente contro il possessore (art. 1141, comma 2, c.c.), in maniera che questi possa rendersene conto – dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi, non rilevando l’inottemperanza alle eventuali pattuizioni implicite, in forza delle quali la detenzione era stata costituita, né meri atti di esercizio del possesso (quali la stipula di contratti di locazione, la percezione dei relativi canoni, lo svolgimento di opere di manutenzione e la gestione delle utenze), traducendosi gli stessi in un’ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene, né rilevando l’impugnazione del decreto di esproprio in sede giurisdizionale, cui va attribuito il solo intento di disconoscere il titolo di acquisizione del diritto reale.

Si aggiunge che il contenuto dell’interversione, idonea a trasformare la detenzione in possesso, deve poter significare la negazione dell’altrui possesso e l’affermazione del proprio (negazione ed affermazione in modi e forme variabili, in rapporto con i modi e le forme variabili di comportamento del possessore), bastando all’uopo un comportamento oppositivo non soggetto a particolari formalità, secondo l’insindacabile valutazione del giudice del merito.

Quindi, il Collegio specifica che in mancanza di atti di prova di uno specifico atto di interversione nel possesso, dopo l’emissione del decreto di espropriazione per pubblica utilità, l’eventuale protrarsi del godimento del bene da parte dell’espropriato può integrare una detenzione precaria non utile ai fini dell’usucapione e che ad analoga conclusione si deve pervenire nel caso in cui il trasferimento dell’immobile avvenga mediante cessione volontaria, che è negozio di diritto pubblico, sostitutivo del decreto di esproprio, ma dotato della medesima funzione, confermata dal richiamo alle norme sulla retrocessione nel t.u. del 2001 (art. 45, comma 4), di segnare l’acquisto, a titolo originario, in favore della P.A., del bene compreso nel piano d’esecuzione dell’opera pubblica, e di produrre i medesimi effetti, con la necessità di far valere tutti i diritti relativi all’immobile, espropriato o ceduto, esclusivamente sull’indennità  e, di conseguenza, di escludere l’usucapibilità del bene.

 

  1. I principi di diritto

In definitiva, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 651 del 2023, enunciano due importanti principi di diritto.

In primo luogo, affermano che “nelle controversie soggette al regime normativo antecedente all’entrata in vigore del t.u. n. 327 del 2001, nelle quali la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta prima del 30 giugno 2003, nel caso in cui al decreto di esproprio validamente emesso (come è incontestato nella specie) ‒ che è idoneo a far acquisire al beneficiario dell’espropriazione la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di fatto e di diritto con essa incompatibile ‒ non sia seguita l’immissione in possesso, la notifica o la conoscenza effettiva del decreto comportano la perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario, il cui potere di fatto sul bene – se egli continui ad occuparlo – si configura come una mera detenzione, con la conseguenza che la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile a suo favore «ad usucapionem», necessita di un atto di interversio possessionis da esercitare in partecipata contrapposizione al nuovo proprietario, dal quale sia consentito desumere che egli abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Resta fermo il diritto dell’espropriato di chiedere la retrocessione totale o parziale del bene”.

Il Collegio ha poi enunciato un principio, solo parzialmente diverso, con riguardo alle controversie soggette al t.u. n. 327 del 2001, nelle quali il decreto di esproprio sia emesso sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità intervenuta dopo il 30 giugno 2003, alla luce degli artt. 23 e 24 del medesimo testo unico, ovvero che “nelle controversie soggette ratione temporis al t.u. n. 327 del 2001, l’esecuzione del decreto di esproprio con l’immissione in possesso del beneficiario dell’espropriazione (mediante redazione di apposito verbale) nel termine perentorio di due anni (art. 24, comma 1) costituisce condizione sospensiva di efficacia del decreto di esproprio (art. 24, comma 1, lett. f, h), con la conseguenza che il decreto di esproprio, se non è tempestivamente eseguito, diventa inefficace e la proprietà del bene si riespande immediatamente in capo al proprietario, perdendo rilevanza la questione dell’usucapione, salvo il potere dell’autorità espropriante di emanare una nuova dichiarazione di pubblica utilità entro i successivi tre anni (art. 24, comma 7), nel qual caso dovrà essere emesso un nuovo decreto di esproprio, eseguibile entro l’ulteriore termine di due anni di cui all’art. 24, comma 1; nel caso in cui il decreto di esproprio sia tempestivamente eseguito con la tempestiva redazione del verbale di immissione in possesso ma il precedente proprietario o un terzo continuino ad occupare o utilizzare il bene, si realizza una situazione di mero fatto non configurabile come possesso utile ai fini dell’usucapione”.

Le Sezioni Unite specificano poi, che analogo principio vale anche nel caso in cui il procedimento espropriativo si concluda con la cessione volontaria del bene, la quale «produce gli effetti del decreto di esproprio», ai sensi dell’art. 45, comma 3, t.u. del 2001, tra i quali vi è anche l’effetto, previsto dall’art. 23, comma 1, lett. f), del t.u., di sottoporre il passaggio del diritto di proprietà alla «condizione sospensiva» della esecuzione dell’atto di trasferimento, mediante l’immissione in possesso nel termine perentorio e con le modalità previste dall’art. 24.