ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVII - n. 05 - Maggio 2025

  Giurisprudenza Amministrativa delle Corti Supreme
  A cura di Anna Laura Rum



Rassegna dei più rilevanti principi di diritto sostanziale espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nell’anno 2024.

Di Anna Laura Rum
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Rassegna dei più rilevanti principi di diritto sostanziale espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nell’anno 2024.

 

Di Anna Laura Rum

 

 

Sommario: 1. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentt. nn. 1, 2, 3 del 2024, sulla fiscalizzazione dell’abuso edilizio 2. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 7 del 2024, su diverse questioni inerenti ai requisiti di ordine generale per la partecipazione alle gare 3. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 14 del 2024, sulla disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio 4. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 17 del 2024: la rimessione alla CGUE di talune questioni pregiudiziali in tema di procedura ad evidenza pubblica, inerenti alla definizione di operatore economico e alla suddivisione della gara in lotti

 

 

  1. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentt. nn. 1, 2, 3, sulla fiscalizzazione dell’abuso edilizio

 

L’Adunanza Plenaria, preliminarmente, rileva che i quesiti sottoposti alla sua attenzione dalla Sezione remittente hanno ad oggetto l’interpretazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui esso prevede – nei casi ivi previsti – l’irrogazione di “una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27 luglio 1978, n. 392, e con riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione”.

In particolare, secondo la Plenaria, occorre chiarire come vada determinato il “costo di produzione”.

La Plenaria osserva che, come ha prospettato l’ordinanza di rimessione, il sopra riportato comma 2 può essere interpretato in due modi. Premesso che la sanzione deve essere pari al doppio dell’aumento del valore dell’immobile a seguito della realizzazione delle opere abusive e che rilevano i criteri previsti dalla legge 27 luglio 1978, n. 392, l’ultimo costo di produzione:

- per una prima interpretazione, va determinato secondo quanto stabilito dal decreto ministeriale e poi il relativo importo va aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione;

- per una alternativa interpretazione, va determinato con riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, e l’importo così ottenuto va incrementato sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione.

Il Collegio osserva, quindi, che questa seconda lettura – che valorizza la virgola che segue la parola “abuso” – rileva che il termine “aggiornato” fa riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con il decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, ossia al decreto ministeriale emesso in prossimità all’esecuzione dell’abuso.

Ancora, la Plenaria rileva che la scelta tra le due interpretazioni letterali sopra illustrate lascia aperto un ulteriore interrogativo, ossia cosa si intenda per “data di esecuzione dell’abuso”.

Al riguardo, secondo il Collegio, sono possibili quattro diverse interpretazioni, di cui una sola, ed in particolare la prima, però, risulta maggiormente aderente al suo dato testuale:

  1. a) il momento in cui sono ultimati i lavori edilizi abusivi;
  2. b) il momento in cui l’abuso è accertato da parte dell’amministrazione;
  3. c) il momento in cui l’abuso è autodichiarato da parte dell’interessato;
  4. d) il momento in cui è irrogata la sanzione pecuniaria.

Il Collegio, quindi, prosegue le argomentazioni rilevando che l’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 dispone che vadano effettuate due distinte operazioni: a) individuare il costo di produzione, determinato con il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso; b) attualizzare l’importo della sanzione, individuato sulla base del costo di costruzione, applicando l'indice ISTAT.

Dunque, per la Plenaria ne consegue che va indicizzato non l’importo indicato nel decreto ministeriale, ma quello aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso. Questa soluzione, infatti, da un lato, consente di specificare quale deve essere il decreto ministeriale da utilizzare, dall’altro spiega perché nella frase vi sia una virgola dopo il termine “abuso”.

Quanto poi alla locuzione “data di esecuzione dell’abuso”, per la Plenaria rileva il suo dato testuale, posto che l’aumento di valore dell’immobile va individuato sulla base dei criteri contenuti nella legge n. 392/1978, calcolando la superficie convenzionale e considerando il costo unitario di produzione secondo il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso. La moltiplicazione tra i due termini, in particolare, indica il costo di produzione complessivo, ossia l’aestimatio, che va aggiornato (taxatio) sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione.

La Plenaria, poi, osserva che il legislatore ha ribadito che va esercitato il potere sanzionatorio anche quando vi siano obiettive difficoltà tecniche per eseguire la demolizione, derogando alla regola generale per cui gli abusi edilizi vanno materialmente rimossi: quindi, il relativo potere può essere esercitato su richiesta del responsabile dell’abuso, qualora risulti l’oggettiva impossibilità di procedere alla riduzione in pristino delle parti difformi, senza incidere sulla stabilità dell'intero edificio.

Nel contemperare gli interessi in conflitto, viene ancora osservato, il legislatore ha disposto che la sanzione pecuniaria in concreto erogata tenga conto dell’effettivo valore delle opere abusive, l’unico significativo per la definizione del caso concreto, e non di quello inferiore e risalente al passato, non più ancorato all’effettivo valore del bene.

Per la Plenaria è significativo che l’art. 33, comma 2, ricalca l’abrogato comma 2 dell’art. 9 della legge n. 47/1985, secondo il quale: “Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'Ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il sindaco irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti della legge 27 luglio 1978, n. 392”.

Viene osservato che quest’ultima diposizione non conteneva alcun meccanismo di adeguamento, ma il mero rinvio alla legge n. 392/1978, il cui art. 22, comma 1, ora abrogato nei sensi di cui all’art. 14, della legge n. 431/1998, ossia limitatamente alle locazioni abitative, stabiliva che: “Per gli immobili adibiti ad uso di abitazione che sono stati ultimati dopo il 31 dicembre 1975, il costo base di produzione a metro quadrato è fissato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dei lavori pubblici, di concerto con quello di grazia e giustizia, sentito il Consiglio dei Ministri, da emanare entro il 31 marzo di ogni anno e da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.

L’emanazione annuale dei decreti ministeriali, pertanto, già comportava un adeguamento periodico con effetti automatici per la commisurazione della sanzione.

Inoltre, la Plenaria ricorda che un meccanismo di adeguamento, analogo a quello previsto dall’art. 33, comma 2, è contenuto nell’art. 34, comma 2, secondo il quale: “Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”.

Quest’ultima disposizione, osserva la Plenaria, riguarda condotte meno gravi di quelle disciplinate dall’art. 33, comma 2, e va intesa, con riferimento ai casi in cui si tratti di immobili sia ad uso abitativo che ad uso diverso da quello abitativo, nel senso che la “fiscalizzazione” debba tenere conto del valore del bene al tempo della sua determinazione.

Secondo il Collegio, sarebbe invece irragionevole l’interpretazione dell’art. 33, comma 2, secondo la quale rileverebbe il valore del bene al momento di realizzazione delle opere.

Per l’Adunanza Plenaria, la sanzione pecuniaria costituisce, nei tassativi casi consentiti, una misura alternativa alla materiale demolizione del manufatto e deve costituire una “risposta sanzionatoria” omogenea ed effettiva, ciò che non vi sarebbe se si dovesse tenere conto del suo valore inferiore, commisurato al tempo della realizzazione dell’abuso.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in conclusione, con le sentenze nn. 1, 2 e 3 del 2024, dà risposta ai quesiti sottoposti al suo esame, affermando i seguenti principi di diritto:

“a) con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, deve intendersi il momento di realizzazione delle opere abusive;

  1. b) ai fini della determinazione della sanzione pecuniaria da determinare ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, deve procedersi alla determinazione della superficie convenzionale ai sensi dell’art. 13 della legge n. 392/1978 ed alla determinazione del costo unitario di produzione, sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla moltiplicazione della superficie convenzionale con il costo unitario di produzione, va attualizzato secondo l’indice ISTAT del costo di costruzione.”

 

  1. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 7 del 2024, su diverse questioni inerenti ai requisiti di ordine generale per la partecipazione alle gare

La Terza Sezione ha rimesso all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:

i) se, fermo restando il principio della insussistenza di un potere della stazione appaltante di sindacare le risultanze delle certificazioni dell’Agenzia delle entrate attestanti l’assenza di irregolarità fiscali a carico dei partecipanti a una gara pubblica, le quali si impongono alla stessa amministrazione, il principio della necessaria continuità del possesso in capo ai concorrenti dei requisiti di ordine generale per la partecipazione alle procedure selettive comporti sempre il dovere di ciascun concorrente di informare tempestivamente la stazione appaltante di qualsiasi irregolarità che dovesse sopravvenire in corso di gara;

  1. ii) se, correlativamente, sussista a carico della stazione appaltante, ferma restando la richiamata regola della sufficienza delle certificazioni rilasciate dalle Autorità competenti, il dovere di estendere la verifica circa l’assenza di irregolarità in capo all’aggiudicatario della procedura in relazione all’intera durata di essa, se del caso attraverso l’acquisizione di certificazioni estese all’intero periodo dalla presentazione dell’offerta fino all’aggiudicazione;

iii) se, in ogni caso e a prescindere dalla sufficienza o meno delle verifiche condotte dalla stazione appaltante, il concorrente che impugni l’aggiudicazione possa dimostrare, e con quali mezzi, che in un qualsiasi momento della procedura di gara l’aggiudicataria ha perso il requisito dell’assenza di irregolarità con il conseguente obbligo dell’amministrazione di escluderlo dalla procedura stessa”.

L’Adunanza Plenaria, preliminarmente, non ravvisa l’ipotizzato contrasto giurisprudenziale posto a fondamento del primo quesito e ribadisce l’orientamento per il quale i certificati rilasciati dalle autorità competenti, in ordine alla regolarità fiscale o contributiva del concorrente, hanno natura di dichiarazioni di scienza e si collocano fra gli atti di certificazione o di attestazione facenti prova fino a querela di falso, per cui si impongono alla stazione appaltante, esonerandola da ulteriori accertamenti: tale orientamento, ricorda la Plenaria, riguarda, unicamente, il profilo della prova circa la sussistenza del requisito e degli accertamenti richiesti al fine di verificare la veridicità delle dichiarazioni all’uopo rese dal concorrente in sede di gara, come si desume dall’art. 86, comma 2, del D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 80, applicabile alla fattispecie ratione temporis.

Con tale affermazione, la Plenaria dimostra continuità con quanto affermato dallo stesso Supremo Consesso, con le sentenze nn. 10 del 2016 e 8 del 2012, oltre che di Sezioni semplici (Cons. Stato, Sez. III, 18 dicembre 2020 n. 8148; Sez. V, 17 maggio 2013, n. 2682).

La Plenaria, in particolare, osserva che l’ulteriore orientamento, che secondo la Sezione remittente si contrapporrebbe al primo, fa, invece, riferimento al regime sostanziale dei requisiti di ammissione previsti dalla lex specialis, affermando la necessità che gli stessi siano posseduti dal concorrente a partire dal momento della presentazione dell’offerta e sino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale (ex plurimis, Cons. Stato, Ad. Plen. 20 luglio 2015, n. 8; Sez. V, 2 maggio 2022, n. 3439; 12 febbraio 2018, n. 856; Sez. IV, 1° aprile 2019, n. 2113).

La Plenaria, quindi, afferma che il concorrente che partecipa a una procedura a evidenza pubblica deve possedere, continuativamente, i necessari requisiti di ammissione e ha l’onere di dichiarare, sin dalla presentazione dell’offerta, l’eventuale carenza di uno qualunque dei requisiti e di informare, tempestivamente, la stazione appaltante di qualsivoglia sopravvenienza tale da privarlo degli stessi.

L’art. 85, comma 1, del D. Lgs. n. 50 del 2016 dispone che il concorrente, al momento della presentazione della domanda di partecipazione, autodichiari, attraverso il documento di gara unico europeo (DGUE), l’assenza di cause di esclusione di cui al precedente art. 80: pur se l’art. 85 non prevede espressamente il dovere di comunicare alla stazione appaltante le eventuali cause di esclusione dalla gara verificatesi in un momento successivo alla presentazione dell’offerta, il relativo onere dichiarativo deve ricollegarsi, alla necessità, sancita dall’art. 1, comma 2-bis, della L. 7 agosto 1990, n. 241, che: “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione (siano) improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”.

Secondo la Plenaria, tale disposizione ha posto un principio generale sull’attività amministrativa e si estende indubbiamente anche allo specifico settore dei contratti pubblici. Inoltre, poiché i requisiti di partecipazione devono sussistere per tutta la durata della gara e sino alla stipula del contratto (e poi ancora fino all’adempimento delle obbligazioni contrattuali), discende, de plano, il dovere della stazione appaltante di compiere i relativi accertamenti con riguardo all’intero periodo (Cons. Stato, Ad. Plen. 20 luglio 2015, n. 8; 25 febbraio 2014, n. 10; Sez. IV, 4 maggio 2015, n. 2231; Sez. III, 10 novembre 2021, n. 7482).

La Plenaria ricorda che la regola si desume anche dall’art. 80, comma 6, del D. Lgs. n. 50 del 2016, il quale stabilisce che: “Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1,2, 4 e 5”.

Quindi, a tal fine, secondo il Consesso, con specifico riguardo al requisito concernente l’assenza di debiti tributari, la certificazione rilasciata dall’amministrazione fiscale competente (Agenzie delle Entrate o eventualmente altra amministrazione titolare di poteri impositivi), ai sensi dell’art. 86, comma 2, lett. b), del D. Lgs. n. 50/2016, deve coprire l’intero lasso temporale rilevante, ovvero quello che va dal momento di presentazione dell’offerta, sino alla stipula del contratto.

In tal senso, è data, dunque, la risposta ai primi due quesiti posti con l’ordinanza di rimessione.

Con riferimento all’ultimo quesito, la Plenaria puntualizza che, indipendentemente dalle verifiche compiute dalla stazione appaltante, il concorrente che impugna l’aggiudicazione può sempre dimostrare, con qualunque mezzo idoneo allo scopo, sia che l’aggiudicatario fosse privo, ab origine, della regolarità fiscale, sia che egli abbia perso quest’ultima in corso di gara.

In particolare, per quanto riguarda la certificazione rilasciata dall’Agenzia delle Entrate, ovvero dagli enti previdenziali e assistenziali (DURC), per la consolidata giurisprudenza – in primis Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 10 del 2016 – compete al giudice amministrativo accertare, in via incidentale (ossia senza efficacia di giudicato nel rapporto tributario o previdenziale/assistenziale), nell’ambito del giudizio relativo all’affidamento del contratto pubblico, la idoneità e la completezza della certificazione presa in considerazione, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal concorrente (fra le altre, Sez. V, 9 febbraio 2024, n. 1339; 26 aprile 2021, n. 3366; 14 giugno 2019, n. 4023).

 

  1. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 14 del 2024, sulla disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio

 

L’Adunanza Plenaria, preliminarmente, rileva come la fattispecie in questione sia del tutto peculiare, così ripercorrendola:

- il Comune ha rilasciato il permesso di costruire per la realizzazione di una autorimessa interrata;

- i lavori hanno avuto inizio, ma sono stati poco dopo sospesi in seguito alle indagini penali seguite dalla sentenza penale ormai irrevocabile;

- con provvedimento, il Comune non ha annullato l’originario permesso di costruire, ma ne ha dichiarato la decadenza per mancata ultimazione dei lavori, rilevando inoltre come la sentenza penale abbia accertato che le opere erano state assentite in contrasto con la normativa urbanistica e quella paesaggistica;

- le parti interessate hanno presentato due diversi progetti, che sono stati seguiti da dinieghi, poiché nella zona sono ammessi solo interventi edificatori di iniziativa pubblica;

- con nuovo provvedimento, il Comune ha ordinato in base all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 “il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in via antecedente all’esecuzione delle opere parzialmente eseguite in forza del permesso di costruire illegittimo”;

- a tale atto ha fatto seguito ordinanza di acquisizione dell’intera particella al patrimonio comunale.

Il TAR ha ritenuto legittime l’ordinanza ex art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 e la successiva ordinanza di acquisizione dell’intera particella.

La Seconda Sezione, dovendo pronunciarsi su questo specifico aspetto, ha richiamato i principi desumibili dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, richiamati dalle due parti appellanti, secondo cui le opere eseguite sulla base di un efficace titolo edilizio non possono essere oggetto di ordine di demolizione ex art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, che riguarda le opere eseguite abusivamente, sicché - data la tassatività delle norme sanzionatorie - tale previsione non potrebbe essere estesa a fattispecie non espressamente contemplate.

La Plenaria, quindi, riprende le ulteriori riflessioni svolte dalla Seconda Sezione nella sentenza non definitiva, ovvero che:

- l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha previsto per gli “interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire” l’ingiunzione alla rimozione o alla demolizione; l’art. 38 dello stesso testo unico ha previsto, nel caso di “interventi eseguiti in base a permesso di costruire, poi annullato”, la possibilità che, in luogo dell’ingiunzione a demolire, possa essere applicata dall’Amministrazione una sanzione pecuniaria che quindi lasci salve le opere;

- il Consiglio di Stato (ad es. sent. n. 6753/2018 della Sez. VI) ha evidenziato che l’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, sì da ottenere la conservazione del bene (ex multis Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 2155/2018).

Ancora, la Plenaria evidenzia che la Sezione Seconda ha ritenuto che “striderebbe con i principi ritraibili dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art.31 del T.U. prima citato, in una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo (nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto”.

Inoltre, il Collegio nota che la Sezione remittente – pur rilevando come l’orientamento del TAR sia ragionevole - si è posta la questione se la disciplina vigente consenta all’Amministrazione di ordinare la demolizione delle opere parzialmente eseguite, non completate per l’assenza di un nuovo titolo (come nel caso in questione, in cui l’impresa promissaria acquirente si è vista respingere per due volte l’istanza di completamento, con atti cui ha prestato acquiescenza). La Seconda Sezione ha, infatti, rilevato che le opere parzialmente realizzate potrebbero essere qualificate come un ‘manufatto difforme’ da quanto autorizzato, e pertanto se ne potrebbe ordinare la demolizione.

Ripercorso sommariamente l’iter argomentativo della Seconda Sezione, l’Adunanza Plenaria illustra, in primo luogo, la disciplina normativa relativa alla questione.

L’art. 15 del testo unico approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che “1.    Nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori. 2.    Salvo quanto previsto dal quarto periodo, il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari. Per gli interventi realizzati in forza di un titolo abilitativo rilasciato ai sensi dell'articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, il termine per l'inizio dei lavori è fissato in tre anni dal rilascio del titolo. 3.    La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell'articolo 22. Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione”.

Quindi, la Plenaria conclude che l’art. 15 prevede l’efficacia temporale del titolo e la sua decadenza qualora le opere non siano state ultimate entro il termine ivi previsto (3 anni) e osserva che l’indicazione dei termini nel titolo abilitativo trova la sua ragione nella necessità di avere una certezza temporale riguardo le attività di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, che per propria natura è frazionata nel tempo, al fine di impedire che l’eventuale modifica delle previsioni pianificatorie possa essere condizionata senza limiti temporali da antecedenti permessi di costruire.

Il Collegio, ancora, osserva che il legislatore ha previsto la possibilità per l’interessato di richiedere e di ottenere la proroga del termine prima della scadenza del permesso di costruire, così evitando la decadenza, ed ha anche stabilito che, in caso di decadenza, l’interessato possa richiedere un nuovo permesso di costruire per il completamento delle opere, sempreché quelle mancanti non possano realizzarsi ai sensi dell’art. 22 dello stesso testo unico (in quanto soggette a s.c.i.a.).

La Plenaria osserva che, in base al principio del tempus regit actum, il nuovo permesso di costruire presuppone la compatibilità delle opere da realizzare con la disciplina urbanistica vigente al momento del suo rilascio: riprendendo il precedente della Sezione Quarta (Cons. Stato, Sez. IV, n. 3283/2017), ricorda che l’efficacia del permesso di costruire decade, infatti, con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche; nondimeno, il comma 4 dell’art. 15 ha introdotto una deroga al principio di decadenza, nel caso dei lavori assentiti dal permesso di costruire, già cominciati e completati entro il termine di tre anni dalla data del loro inizio.

La Plenaria osserva come il legislatore abbia operato un bilanciamento tra la tutela dell’affidamento del privato al completamento dell’opera in fase di realizzazione sulla base di un permesso di costruire, il principio di conservazione e quello di proporzionalità, al fine di evitare la distruzione di ricchezza conseguente all’abbandono di progetti in avanzato stato di attuazione, conservando, comunque, la vigilanza sull’attività di edificazione attraverso la previsione del limite temporale triennale, pari a quello di durata dell’efficacia del permesso di costruire.

Ai principi di conservazione e di affidamento, prosegue la Plenaria, si ispirano anche gli artt. 36 e 38 del testo unico, il primo dei quali (sull’accertamento di conformità) prevede la possibilità – nei limiti ivi contemplati – di sanare gli abusi purché “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”; il secondo invece consente, in taluni casi, la conservazione dell’immobile realizzato sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato, prevedendo in luogo della demolizione la sanzione pecuniaria.

In particolare, il regime più favorevole stabilito dal legislatore nell’art. 38 cit. (relativo all’annullamento del permesso di costruire che produce effetti ex tunc e, dunque, rende illecite le opere realizzate) rispetto alla decadenza del permesso di costruire (che ha efficacia ex nunc) ha fatto sorgere dubbi alla Sezione remittente circa l’applicabilità dell’art. 31 alle opere realizzate sulla base di un permesso di costruire dichiarato decaduto.

Quindi, la Plenaria afferma che non può essere condivisa la tesi della Sezione remittente, secondo la quale tali opere, eseguite sulla base di un titolo edificatorio legittimo, non potrebbero ritenersi abusive, e dunque non sarebbero passibili di demolizione e di restituzione in pristino. Infatti, l’art. 31 del testo unico si riferisce agli “interventi eseguiti in assenza del permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali” e, al comma 1, dispone che “Sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso”.

La Plenaria osserva che il permesso di costruire è qualificato, in base all’art. 10 del testo unico, come il provvedimento che legittima le trasformazioni urbanistiche ed edilizie ivi individuate (nuove costruzioni, ristrutturazioni urbanistiche ed edilizie nei limiti indicati nella disposizione): la sottoposizione del potere di edificazione al previo rilascio del permesso di costruire assolve alla funzione di consentire che gli interventi edilizi siano realizzati in conformità con la disciplina pianificatoria, contemperando l’interesse privato allo sfruttamento della proprietà con l’interesse pubblico alla regolare trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio e, quindi, in definitiva assolve alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio.

Il Collegio, in particolare, specifica che il permesso di costruire non abilita, infatti, il titolare a realizzare qualunque manufatto, ma gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.); qualunque realizzazione dell’edificio difforme dal progetto, anche se sia ridotta la volumetria o ne siano modificati il perimetro, le sagome e le altezze, comporta una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ che in quanto tale – affinché vi sia la ‘regolarità urbanistica’ – o deve essere previamente autorizzata dal Comune o necessita di un atto di ‘accertamento di conformità’, qualora questo sia consentito dall’ordinamento.

Secondo la Plenaria, allora, l’edificazione deve avvenire nel rigoroso rispetto del principio di conformità tra l’opera risultante dal progetto assentito con il permesso di costruire e quella concretamente realizzata: l’art. 31 del testo unico sanziona allo stesso modo le ipotesi di edificazione in assenza del permesso di costruire con le ipotesi dell’edificazione in totale difformità o con variazioni essenziali, provvedendo a disciplinare le singole fattispecie, equiparando la carenza del titolo edificatorio con la totale difformità del bene edificato con quello autorizzato.

La ‘totale difformità’ si verifica non solo in caso di ampliamento non autorizzato, ma anche nel caso di mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio.

Il permesso di costruire consente di realizzare solo l’opera descritta nel progetto e avente caratteristiche fisiche e funzionali ben determinate: l’abuso per totale difformità sussiste nel caso di realizzazione di “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche e planivolumetriche”.

Ciò è ravvisabile quando il manufatto sia stato parzialmente edificato con il cd. ‘scheletro’ e anche quando sia oggettivamente diverso rispetto a quello progettato, dovendosi un'opera qualificare abusiva per totale difformità ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non è riferibile a quella assentita.

Nei casi di ‘divergenza tra consentito e realizzato’, afferma la Plenaria, rientra il “non finito architettonico”, il quale è ravvisabile quando le opere realizzate sono incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da far individuare un manufatto diverso da quello autorizzato, oppure quando vi è stata la modifica dello stato dei luoghi con la realizzazione di un quid che neppure consenta di ravvisare un ‘volume’.

Per la Plenaria, ne consegue che, contrariamente a quanto dedotto dalle parti appellanti, sussiste il fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino - in caso di decadenza del permesso di costruire - qualora siano state eseguite solo opere parziali, non riconducibili al progetto approvato sotto il profilo strutturale e funzionale.

Il Collegio afferma con chiarezza che, se non sono completate, e neppure possono esserle, in quanto non può essere rilasciato un nuovo permesso di costruire, il mancato completamento – e cioè la c.d. opera incompiuta – comporta di per sé un degrado ambientale e paesaggistico: in altri termini, rileva un principio di simmetria, per il quale, così come l’Amministrazione non può di certo rilasciare un permesso per realizzare uno ‘scheletro’ o parte di esso (titolo che di certo non è consentito dalla legislazione vigente) o una struttura di per sé non abitabile per assenza di solai o tamponature, scale o tetto o di elementi portanti, corrispondentemente l’Amministrazione deve ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire.

Non tutto quanto è stato lecitamente realizzato può dunque essere mantenuto in loco: va rimosso quanto è stato realizzato, in difformità (anche in minus) da quanto è stato assentito.

Prima di delineare più nel dettaglio quando l’incompletezza dell’intervento edificatorio possa integrare la totale difformità ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, l’Adunanza Plenaria chiarisce cosa debba intendersi per ‘costruzione’: riprendendo la definizione data dalla giurisprudenza consolidata e ripresa recentemente dalla Sezione Sesta del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. VI, 03/04/2024, n. 3031), una ‘costruzione’ è ravvisabile ogni qualvolta “l'intervento edilizio produca un effettivo e rilevante impatto sul territorio e, dunque, in relazione alle opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi determinandone una significativa trasformazione” .

La Plenaria ricorda anche che la giurisprudenza - che si è ispirata alle argomentazioni poste a base della sentenza della stessa Adunanza Plenaria, 10 marzo 1982, n. 3 – ha chiarito che anche la realizzazione di muri di cinta o di contenimento di ragguardevoli dimensioni - così come anche l’attività di movimento di terra che modifichi la conformazione dei luoghi - è soggetta al rilascio del permesso di costruire.

Occorre il rilascio del permesso per le opere di qualsiasi genere che modifichino il suolo e lo stato dei luoghi, determinandone una significativa trasformazione (Cons. Stato, Sez. II, 29 novembre 2023, n. 10291), pur quando si tratti di movimento terra, in assenza di volumi e per realizzare una strada (Cons. Stato, Sez. II, 24 marzo 2020, n. 2050).

La Plenaria osserva, altresì, che a tali principi si ispira anche la giurisprudenza penale, per la quale si configura il reato di costruzione senza permesso di costruire in seguito a lavori di sbancamento (Cassazione penale, Sez. III, 2 dicembre 2008, n. 8064; Sez. III, 5 marzo 2008, n. 4243; Sez. III, 29 gennaio 2014, n. 19845).

Allora, conclude la Plenaria, la ‘divergenza tra consentito e realizzato’ sussiste non solo quando ‘si costruisce in più del consentito’, ma anche quando vi è il cd “incompleto architettonico”, configurabile sotto il profilo temporale qualora vi sia stata la decadenza del permesso di costruire, secondo le regole generali, e non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessato non lo richieda. Tale divergenza, in particolare, per la Plenaria, è configurabile quando vi è la realizzazione parziale di un complesso intervento edificatorio autorizzato (ad es. una sola costruzione autonoma e scindibile al posto di plurime costruzioni), quando i lavori si siano fermati prima dell’ultimazione del manufatto, durante la fase degli scavi o dopo la realizzazione anche parziale del solo “scheletro”, senza la copertura, le scale, i solai, il tetto o la tamponatura esterna.

Un caso particolare – in cui verosimilmente è consentito l’accoglimento di una istanza di accertamento di conformità, salve regole speciali – ricorda la Plenaria, si ha quando vi è l’edificazione solo parziale dell’unica costruzione autorizzata (ad es. solo il primo piano, sia pure con la predisposizione dei pilastri per realizzare il secondo piano) o quando sia stato realizzato un edificio dal perimetro più contenuto e dunque inferiore rispetto a quello assentito.

La Plenaria ricorda che, comunque, la casistica può essere molto varia e fornisce alcuni elementi interpretativi. Innanzitutto, dopo la decadenza del permesso di costruire spetta al Comune constatare che vi è stata una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ ed adottare la determinazione conseguente, che può essere – a seconda dei casi - quella della demolizione ex art. 31 cit, ovvero la sanzione prevista dall’art. 34 del testo unico. La parte interessata potrebbe anche chiedere, se ne sussistono i presupposti, l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 dello stesso testo unico.

Gli esiti, quindi, ricorda la Plenaria, possono essere vari a seconda della tipologia di incompletezza dell’opera.

Ancora, il Collegio rileva come l’art. 31 si applichi quando le opere incomplete non sono autonome, scindibili e funzionali. Quando l’opera incompleta non ha tali caratteristiche e si riduce, ad esempio, alla realizzazione dei soli pali di fondazione, allo scavo del terreno, alla costruzione di pilastri o della struttura in cemento armato senza la tamponatura (c.d. scheletro), si tratta di un’opera riconducibile alla totale difformità dal permesso di costruire, in quanto di certo non può essere rilasciato il titolo abilitativo per la realizzazione di un manufatto privo di una autonoma finalità.

Tale manufatto, per le proprie caratteristiche di grave incompletezza non superabile mediante il rilascio di un ulteriore permesso di costruire se richiesto, costituisce anche causa di degrado dell’ambiente circostante.

Sotto questo profilo, afferma la Plenaria, la riduzione in pristino dell’area deturpata dall’intervento edilizio cominciato, che non può essere terminato, è necessaria per ripristinare lo stato dei luoghi: se il proprietario decide di abbandonare i lavori, e comunque quando i lavori rimangono incompiuti, l’ordinamento non consente che vi sia il nocumento alle finalità perseguite in sede di pianificazione territoriale ed esige il rispetto della pianificazione urbanistica e, dunque, del principio per il quale le modifiche dello stato dei luoghi risultano lecite solo se vi è la coincidenza tra quanto è stato assentito e quanto è stato realizzato.

La Plenaria ricorda, ancora, che più variegate possono essere le misure adottabili dal Comune in caso di opere parziali che siano invece autonome, scindibili e funzionali. Possono valere in questi casi – in sede interpretativa da parte dell’Amministrazione comunale competente – i principi di proporzionalità e di conservazione, che in più occasioni ha utilizzato il legislatore per disciplinare situazioni similari, come ricordato in precedenza.

Deve ritenersi, ad esempio, “frazionabile” il permesso di costruire che riguardava un complesso di edifici, dei quali solo uno o solo alcuni sono stati in concreto realizzati (salve le misure da adottare, quando le opere di urbanizzazione siano state realizzate in modo diverso da quanto progettato).

Possono risultare conformi al titolo edificatorio originario i manufatti autonomi funzionalmente anche se non sono propriamente completi, qualora vi siano tutti gli elementi costitutivi ed essenziali del manufatto e manchino soltanto opere marginali che non richiedono il rilascio del permesso di costruire (art. 15, comma 3).

Nel caso di opere parzialmente edificate, autonome funzionalmente, che però presentino variazioni rispetto al titolo abilitativo, secondo la Plenaria spetta al Comune stabilire, nell’esercizio del proprio potere di gestione del territorio, se esse risultino realizzate in conformità con il permesso di costruzione, ovvero se ricadano nella fattispecie ex art. 34, ovvero se possano essere sanate in base all’art. 36.

Infine, per completezza espositiva la Plenaria sottolinea che non sono fondati i dubbi di proporzionalità evocati dalla Sezione remittente tra la disciplina recata dall’art. 38 e quella dell’art. 31 del testo unico: l’abuso, sanzionato con la demolizione, infatti, deriva dalla accertata “divergenza tra consentito e realizzato” che non sussiste nell’ipotesi dell’art. 38, in quanto, in quel caso, il legislatore ha ritenuto di disciplinare una fattispecie peculiare, caratterizzata dall’annullamento del permesso di costruire e dalla conformità delle opere al titolo ormai annullato.

L’Adunanza Plenaria, in conclusione, enuncia i seguenti principi di diritto:

“- in caso di realizzazione, prima della decadenza del permesso di costruire, di opere non completate, occorre distinguere a seconda se le opere incomplete siano autonome e funzionali oppure no;

- nel caso di costruzioni prive dei suddetti requisiti di autonomia e funzionalità, il Comune deve disporne la demolizione e la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto eseguite in totale difformità rispetto al permesso di costruire;

- qualora il permesso di costruire abbia previsto la realizzazione di una pluralità di costruzioni funzionalmente autonome (ad esempio villette) che siano rispondenti al permesso di costruire considerando il titolo edificatorio in modo frazionato, gli immobili edificati – ferma restando l’esigenza di verificare se siano state realizzate le opere di urbanizzazione e ferma restando la necessità che esse siano comunque realizzate - devono intendersi supportati da un titolo idoneo, anche se i manufatti realizzati non siano totalmente completati, ma – in quanto caratterizzati da tutti gli elementi costitutivi ed essenziali - necessitino solo di opere minori che non richiedono il rilascio di un nuovo permesso di costruire;

- qualora invece, le opere incomplete, ma funzionalmente autonome, presentino difformità non qualificabili come gravi, l’Amministrazione potrà adottare la sanzione recata dall’art. 34 del T.U.;

- è fatta salva la possibilità per la parte interessata, ove ne sussistano tutti i presupposti, di ottenere un titolo che consenta di conservare l’esistente e di chiedere l’accertamento di conformità ex art. 36 del T.U. nel caso di opere “minori” (quanto a perimetro, volumi, altezze) rispetto a quelle assentite, in modo da dotare il manufatto – di per sé funzionale e fruibile - di un titolo idoneo, quanto alla sua regolarità urbanistica”.

 

  1. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 17 del 2024: la rimessione alla CGUE di talune questioni pregiudiziali in tema di procedura ad evidenza pubblica, inerenti alla definizione di operatore economico e alla suddivisione della gara in lotti

 

Le questioni deferite all’Adunanza Plenaria concernono l’applicazione del limite (cd ‘vincolo’) di partecipazione (oltre che del ‘vincolo’ di aggiudicazione, che non è oggetto della controversia).

In particolare, si pone la questione se il limite si applichi «oltre l’operatore economico offerente, nel caso in cui la medesima legge di gara non rechi una specifica indicazione in tal senso»; in caso di risposta positiva al quesito, si chiede di chiarire quali siano i parametri «di detta espansione soggettiva» e sulla base di quali indici l’operazione interpretativa debba essere condotta ed inoltre sulla base di quali criteri debbano essere individuate «le offerte da escludere in quanto in soprannumero».

Nell’ordinanza in esame, si rileva che la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è divisa sulla possibilità di estensione soggettiva del limite di partecipazione (e di aggiudicazione), con i seguenti orientamenti:

- da un lato, quello favorevole, anche in mancanza di un’espressa indicazione sul punto nel bando di gara, basato su argomenti teleologici, riconducibili all’esigenza di dare al mercato degli appalti pubblici massima apertura alla concorrenza, rispetto alla quale sono strumentali la suddivisione della gara in lotti, dichiaratamente a favore degli operatori economici di minori dimensioni (art. 51, comma 1, dell’codice dei contratti pubblici n. 50 del 2016), e inoltre i limiti di partecipazione e aggiudicazione previsti dai commi 2 e 3 del medesimo articolo;

- dall’altro lato, quello contrario, per il quale i limiti non sono estensibili a casi non previsti dalla legge o dal bando, per l’impossibilità di introdurre a posteriori cause di esclusione, che lederebbero i principi di certezza e trasparenza;

- infine, un terzo più recente, per il quale i limiti si estendono in caso di accertato intento elusivo, equiparabile alla dichiarazione falsa o fuorviante in grado di «influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante» sulla partecipazione dell’operatore economico e l’aggiudicazione della gara, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-bis), dell’abrogato codice dei contratti pubblici.

Le ordinanze di rimessione hanno aderito alla tesi restrittiva, sulla base del carattere discrezionale del limite di partecipazione e di una ricostruzione sistematica per cui l’interesse alla massima apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza è in posizione equiordinata e non sovraordinata rispetto all’interesse alla selezione del miglior contraente privato.

L’Adunanza Plenaria, nell’iter argomentativo, rileva, preliminarmente, che, rispetto alle questioni deferite con le ordinanze di rimessione, risultano pregiudiziali alcune sull’interpretazione del diritto dell’Unione europea.

Ancora, la Plenaria rileva che l’indirizzo estensivo sui limiti di partecipazione postula un’interpretazione a sua volta estensiva del concetto di «operatore economico», enunciato dall’(allora vigente) art. 3, comma 1, lett. p), del codice di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, e dall’art. 2, par. 1, n. 10), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014. La lettera p) del comma 1 dell’art. 3 definisce l’«operatore economico» come «una persona fisica o giuridica, un ente pubblico, un raggruppamento di tali persone o enti, compresa qualsiasi associazione temporanea di imprese, un ente senza personalità giuridica, ivi compreso il gruppo europeo di interesse economico (GEIE) costituito ai sensi del decreto legislativo 23 luglio 1991, n. 240, che offre sul mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi».

Il paragrafo 1 dell’art. 2 della direttiva lo definisce «una persona fisica o giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti, compresa qualsiasi associazione temporanea di imprese, che offra sul mercato la realizzazione di lavori e/o di un’opera, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi».

Il Collegio osserva che nessuna delle due disposizioni fa riferimento ad una soggettività diversa da quella del singolo operatore, eventualmente raggruppato, che nel partecipare alla procedura ha «presentato un’offerta» e che perciò è definito «offerente» dalla normativa sovranazionale e quella interna, rispettivamente agli artt. 3, comma 1, lett. cc), del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, e 2, par. 1, n. 11), della direttiva 2014/24/UE.

Dunque, la Plenaria afferma che l’interpretazione estensiva del limite di partecipazione richiede di non dare decisivo rilievo alla ‘isolata’ soggettività dell’operatore economico che partecipa alla procedura, pur notando che il dato normativo non offre tuttavia sicuri argomenti a sostegno di questa interpretazione.

Infatti, per quanto riguarda l’art. 2, par. 1, n. 10), della direttiva 2014/24/UE, il considerando 14 afferma l’opportunità di interpretare la nozione di operatore economico «in senso ampio, in modo da comprendere qualunque persona e/o ente che offre sul mercato la realizzazione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi, a prescindere dalla forma giuridica nel quadro della quale ha scelto di operare».

La Plenaria fa notare che, in via esemplificativa, il considerando 14 si riferisce a «imprese, succursali, filiali, partenariati, società cooperative, società a responsabilità limitata, università pubbliche o private e altre forme di enti diverse dalle persone fisiche» ed enuncia l’esigenza di prescindere dalla personalità giuridica.

Ancora, il considerando 14 riguarda solo il soggetto cui è imputabile il rapporto derivante dalla partecipazione.

Dunque, osserva la Plenaria, nell’ambito della generale finalità di apertura delle procedure alla concorrenza, cui è informata la direttiva 2014/24/UE, esso auspica che la partecipazione sia consentita ad ogni operatore economico in grado di presentare un’offerta, a prescindere dalla sua forma giuridica.

Nondimeno, aggiunge il Collegio, come segnalano le ordinanze di rimessione, l’orientamento giurisprudenziale che sostiene l’interpretazione estensiva del vincolo di partecipazione enuncia l’esigenza di interpretare «in senso sostanziale e funzionale» la nozione di «offerente», per superare «il profilo formale della pluralità soggettiva» che caratterizza il gruppo societario.

Mentre, in contrario, le ordinanze rilevano che:

- le nozioni di «operatore economico» e di «offerente» avrebbero l’unica funzione di «individuare con certezza (sulla base dell’offerta) l’operatore economico che partecipa alla gara in colui che ha sottoscritto l’offerta», soggetto alle decisioni della stazione appaltante sull’ammissione alla gara e sulla selezione dell’offerta.

- sarebbero tassativamente previste dalla legge le «circostanze ulteriori caratterizzanti, anzi alteranti, il profilo soggettivo dell’offerente», come nel caso di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale, previsto dall’art. 80, comma 5, lett. m), del codice n. 50 del 2016.

Dunque, la Plenaria prosegue l’iter argomentativo evidenziando come, per la giurisprudenza della Corte di giustizia, l’accertamento di un collegamento sostanziale tra offerte vada svolto in concreto, sulla base di elementi indiziari che denotino l’influenza reciproca nella loro formazione, e che non possono essere ridotti al solo dato formale del collegamento societario (Corte di giustizia UE, sentenza 19 maggio 2009, in C-538/07).

Per la sentenza dell’8 febbraio 2018, C-144/17, è conforme al diritto europeo quello interno che consente di escludere due operatori economici membri di una più ampia entità, quando - sulla base di elementi di prova incontestabili - sia possibile affermare che le loro offerte non sono state formulate in maniera indipendente.

Per contro, l’interpretazione estensiva dei limiti di partecipazione e di aggiudicazione introdotti in una gara suddivisa in lotti dovrebbe condurre all’automatica esclusione dell’operatore economico che sul piano formale ha presentato offerte in misura inferiore ai limiti, ma che nondimeno fa parte di un gruppo societario che nel suo complesso ha concorso per un numero maggiore di lotti consentiti in base ai vincoli medesimi.

La Plenaria aggiunge che il ‘rilievo estensivo’ dei limiti di partecipazione e di aggiudicazione non si desume nemmeno dall’art. 46 della direttiva 2014/24/UE.

L’art. 46 consente alle amministrazioni aggiudicatrici di suddividere la gara in lotti (par 1), di limitare la presentazione delle offerte «per un solo lotto, per alcuni lotti o per tutti» (par. 2) e di indicare «il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente» (par. 2, comma 1), purché i limiti siano indicati nel bando di gara.

Un favor della direttiva per la suddivisione della gara in lotti è invece espresso, rileva il Collegio, nel considerando nel quale si auspica che le amministrazioni aggiudicatrici «dovrebbero (…) essere incoraggiate», per la più ampia partecipazione delle piccole e medie imprese (78).

Tuttavia, con riguardo ai limiti di partecipazione e aggiudicazione in caso di suddivisione in lotti, il considerando 79 ha rimarcato il carattere discrezionale dei due istituti, quali «facoltà» delle amministrazioni aggiudicatrici, con l’obiettivo (nel caso dei limiti di partecipazione) «di salvaguardare la concorrenza o per garantire l’affidabilità dell’approvvigionamento».

La Plenaria osserva che, per le ordinanze di rimessione, il duplice riferimento del considerando 79 riportato sarebbe sintomatico del fatto che l’obiettivo della massima apertura alla concorrenza, a base degli istituti della suddivisione della gara in lotti e dei limiti di partecipazione e aggiudicazione, non avrebbe eliso quello tipico dell’evidenza pubblica alla selezione del miglior contraente.

Il bilanciamento dei contrapposti interessi si sarebbe quindi tradotto, a dire della Plenaria, nell’affermazione della natura discrezionale delle scelte della stazione appaltante di fissare nel bando di gara i limiti di partecipazione e di aggiudicazione. In via di ulteriore conseguenza, sarebbe a fortiori discrezionale «la conformazione di detto vincolo e quindi l’estensione dello stesso oltre il singolo partecipante, al fine di comprendere una realtà imprenditoriale più vasta».

Dunque, afferma il Collegio, la conclusione che se ne trae è che, in assenza di previsioni espresse nel bando di gara, i limiti non potrebbero essere applicati a livello di gruppo societario.

L’Adunanza Plenaria osserva, quindi, che, pur basata su dati testuali tratti dalla direttiva 2014/24/UE, la ricostruzione delle ordinanze di rimessione potrebbe tuttavia risentire di una visione parziale del diritto dell’Unione europea, in cui l’apertura alla concorrenza è enunciata nel considerando 1, quale valore fondante l’armonizzazione a livello sovranazionale per gli appalti sopra la soglia di rilevanza economica ivi stabilita. Il considerando 2 enuncia l’obiettivo di «facilita(re) in particolare la partecipazione delle piccole e medie imprese (PMI)», in chiave strategica per una «crescita intelligente, sostenibile e inclusiva» (cd strategia Europa 2020).

La Plenaria, dunque, afferma che la realizzazione degli obiettivi enunciati dall’Unione europea ed ora richiamati potrebbe mancare se lasciata alla libera discrezionalità delle stazioni appaltanti nella definizione delle condizioni di partecipazione ad una gara suddivisa in lotti.

Il Collegio, poi, aggiunge che, in un sistema di tutela giurisdizionale piena ed effettiva (art. 1 del codice del processo amministrativo; art. 1, par. 3, della direttiva 89/665/CEE del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificato dalla direttiva 2007/66/CE dell’11 dicembre 2007), dovrebbe essere consentito al giudice - investito del ricorso contro l’aggiudicazione di una gara suddivisa in lotti - di sindacare le scelte dell’amministrazione nella definizione dei limiti di partecipazione ad essa.

Dunque, conclude il Collegio, l’amministrazione dovrebbe attenersi ai principi generali di massima concorrenzialità degli appalti pubblici e di apertura alla più ampia partecipazione delle piccole e medie imprese.

La Plenaria, ancora, afferma che dovrebbe pertanto essere sindacabile la scelta di non applicare il limite di partecipazione a livello di gruppo societario, quando essa conduca - come nel caso di specie - a consentire ad un solo gruppo di concorrere per 32 dei 34 lotti totali, per un valore complessivo superiore al 99% di quello complessivo della gara, e così avvalersi in massimo grado della sua posizione di forza economica per vanificare la finalità della suddivisione in lotti e del limite di partecipazione per essi previsto (pari a 13 lotti e al 40% del valore della gara, come sopra esposto).

Per il Collegio, è significativo l’art. 58, comma 4, del decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36 (entrato in vigore dopo l’emanazione degli atti impugnati), che rispetto al previgente codice ha disposto che le stazioni appaltanti:

- possono limitare «il numero massimo di lotti per i quali è consentita l’aggiudicazione al medesimo concorrente» tra l’altro «per ragioni inerenti al relativo mercato», e in questo specifico caso «anche a più concorrenti che versino in situazioni di controllo o collegamento ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile», ovvero in situazione di controllo societario;

- alle «medesime condizioni e ove necessario in ragione dell’elevato numero atteso di concorrenti», possono limitare «anche il numero di lotti per i quali è possibile partecipare».

Queste disposizioni a dire del Collegio, si possono considerare o innovative rispetto al previgente codice dei contratti pubblici oppure ricognitive nel sistema nazionale dei principi europei rilevanti per verificare se l’amministrazione ha legittimamente esercitato la discrezionalità nella definizione dei limiti di partecipazione e di aggiudicazione a gare suddivise in lotti.

Dunque, l’Adunanza Plenaria, aggiunge che la composizione del mercato di riferimento di un contratto pubblici di lavori, servizi e forniture costituisce del resto uno degli elementi che in una prospettiva di buona amministrazione e di efficienza della spesa pubblica dovrebbe sempre orientare le scelte della stazione appaltante nella definizione delle regole di gara. La partecipazione in massa di imprese facenti parte del medesimo gruppo societario potrebbe quindi vanificare, o eludere, i limiti previsti dalla stazione appaltante nel bando di gara, sulla base del formale riferimento al «concorrente» o (come previsto dalla legge) di «offerente», senza alcuna possibilità di un’estensione su base soggettiva al gruppo di cui questo fa parte.

In definitiva, pertanto, l’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, rimette alla Corte di giustizia dell’Unione europea le seguenti questioni pregiudiziali:

I) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 2, par. 1, n. 10), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014 (sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE), che definisce l’«operatore economico», in relazione ai considerando 1 e 2 della medesima direttiva, può essere interpretato in senso estensivo al gruppo societario di cui fa parte;

  1. II) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 46 della direttiva 2014/24/UE, relativa alla suddivisione della gara in lotti, che facoltizza le amministrazioni aggiudicatrici a suddividere la gara in lotti (par 1), a limitare la presentazione delle offerte «per un solo lotto, per alcuni lotti o per tutti» (par. 2), e a indicare «il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente» (par. 2, comma 1), possa essere applicato dando rilievo al gruppo societario di cui fa parte l’offerente;

III) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare i principi generali di certezza e proporzionalità, ostino ad un’esclusione dalla gara in via automatica di un offerente facente parte di un gruppo societario che in una gara suddivisa in lotti ha partecipato e presentato offerte attraverso le proprie partecipate in misura superiore ai limiti di partecipazione e di aggiudicazione previsti dal bando di gara”.